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Autore: Adeia Di Elferas    14/07/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina ascoltava senza dire nulla ciò che Scipione Riario le stava raccontando. Capiva, dall'espressione del giovane, che la sua reazione a quella storia, o, meglio, la sua mancanza di reazioni evidenti, era spiazzante.

“Strano che si sia venuto a sapere.” commentò la donna, come unica esternazione.

“Quella ragazza – spiegò Scipione, sistemandosi meglio sulla sedia e riprendendo in mano il calice di vino che la Tigre gli aveva offerto – sta facendo molto clamore. Questo è uno scandalo che potrebbe rendere molto difficile, al Valentino, continuare a fare quello che sta facendo...”

“Il figlio del papa – parafrasò la Sforza, con un sospiro pesante – ha rapito assieme a una trentina di suoi tirapiedi una ragazza, scoprendo solo dopo che si trattava di una Pasolini. La ragazza sopravvive, scappa da Cesena e arriva a Ravenna, dove le credono e la prendono sotto custodia. E davvero qualcuno pensa che questo fatto interferirà con la campagna militare dei francesi e del Borja?”

Scipione, nel sentir riassumere a quel modo la tragica storia di Bona di Severo Pasolini, fece una breve smorfia. In effetti la Leonessa aveva in buona parte ragione. Il Valentino non si era lasciato fermare da scandali peggiori... Che uomini come lui si intrattenessero usando violenza alle donne del luogo in cui sostavano era, a conti fatti, quasi una notizia banale...

“Tuttavia – volle aggiungere Caterina, notando l'espressione un po' rammaricata del Riario, e non volendo risultare sgradevole al suo ospite – quella donna ha avuto molto coraggio. Scappare da Cesena a Ravenna senza vestiti e senza armi, e riuscire a farsi riconoscere e credere una volta a destinazione... Non è una cosa da tutti.”

Scipione, che aveva atteso parecchio di poter passare un po' di tempo con quella che considerava quasi una madre adottiva, benché non l'avesse conosciuta davvero se non durante l'assedio di Forlì, annuì in silenzio e poi decise di cambiare argomento, per alleggerire un po' l'atmosfera che si era venuta a creare: “Le galline fanno le loro uova come devono?”

Quell'accenno alle due pennute che il ragazzo le aveva regalato, confuse per qualche istante la milanese, che poi, però, sorrise, sorbendo un po' di vino e ammise: “Non mangiavo uova tanto buone da mesi.”

“Avrei voluto comprarvene di più, ma non navigo nemmeno io nell'oro.” ammise il ragazzo, grattandosi la nuca con un velo di imbarazzo.

“Già questo è molto, per me.” gli assicurò lei.

“Ho visto – riprese Scipione, finendo il vino che aveva nel calice – che avete risistemato parte del tetto della stalla...”

La donna fece un cenno d'assenso, e liquidò la cosa con un semplice: “Non per scelta. È stato necessario. Colpa del temporale di domenica.”

In realtà la sistemazione del tetto diroccato era stata per lei motivo di nervosismo. Avendo esperienza in merito, si era preparata a dirigere i lavori, ed era anche stata pronta a caricarsi in spalla le assi di legno che avrebbero usato per il rattoppo, ma già al primo tentativo si era resa conto che i suoi muscoli non erano pronti come un tempo e, nel giro di poco, aveva dovuto abbandonare il lavoro attivo e lasciare che fossero Galeazzo, Bernardino e Troilo a fare il grosso della fatica, seppur sotto la sua supervisione.

Non aveva chiesto ai servi di aiutarli perché giusto quel giorno era arrivata la comunicazione, inappellabile, con cui Lorenzo si prendeva sulle spalle le spese della villa – di fatto, quasi solo la paga della servitù – e la rimproverava per le sue pretese, sottolineando come, da quel momento in poi, non si sarebbero acquistate né lenzuola, né tovaglie né tanto meno costosissime forchette.

L'unica cosa che aveva risollevato lo spirito della Tigre, quel giorno, era stata la serata in famiglia, con Bianca che cantava e un bel bicchiere di vino speziato e caldo in mano.

“Devo sottoporti una questione...” disse a un certo punto Caterina, passando sopra a una domanda fatta dal Riario per non far languire troppo il dialogo.

Ben felice che la Leonessa avesse qualcosa di cui metterlo a parte, il giovane si sistemò meglio e si mise in ascolto.

La Sforza si alzò un momento e recuperò dal cassetto della scrivania una lettera. Schiarendosi la voce, saltando volutamente alcune parti, lesse a Scipione ciò che più le interessava.

Il Riario, sentito tutto, sporse in fuori il labbro e chiese: “A scrivere è il Marchese di Mantova?”

Colpita dall'acume del ragazzo – tratto che poco si addiceva al cognome che portava – disse di sì e volle sapere: “Come hai fatto a capirlo?”

“Perché – spiegò lui, stringendo un po' gli occhi – quello che vi chiede lo aiuterebbe a prevenire un'ingerenza del Valentino nel suo Marchesato e lo avvicinerebbe al re di Francia, senza compromettersi però in modo troppo diretto. Scommetto che questa richiesta gliel'ha fatta avanzare sua moglie... Dicono che quella donna sia tremenda, quando si parla di questo genere di giochetti...”

Caterina, di nuovo ben impressionata dalla mente agile di Scipione, convenne con lui e poi, facendosi più seria, gli disse: “Probabilmente è stata sua moglie, convengo con te. È anche vero che questo Gonzaga mi ha sempre dimostrato una certa simpatia... Fortunati mi ha detto che ha anche chiesto di poter avere la mia spada, per custodirla.”

“La vostra spada?” il Riario era a metà tra il divertito e il confuso.

“Diceva che voleva avere per sé l'arma impugnata dal più valoroso e coraggioso dei comandanti d'Italia.” spiegò la donna, indicando se stessa e sollevando un sopracciglio: “Comunque, quello che mi chiede di fare non è semplice. Non si rende conto che, di fatto, sono una sorvegliata speciale?”

“Nessuno se ne rende conto, fuori da qui.” le rivelò il ragazzo: “Da fuori, sembrate più che libera e, conoscendovi anche solo di fama, in molti vi credono già intenta a tessere le vostre trame...”

La Leonessa si accigliò, abbandonandosi contro lo schienale, il calice ormai vuoto ancora in mano.

“Anche se potete fare poco, io gli lascerei intendere che farete il possibile. Che avete da perdere nell'accordare un aiuto a un Marchese?” fece il Riario.

Caterina ci pensò sopra qualche istante e poi ribatté: “Non sono nella posizione per chiedere alla Signoria di fare di Francesco Gonzaga Capitano Generale dei fiorentini...”

“A voi servono amici importanti – si limitò a dire il giovane – spiegategli che potete fare qualcosa, ma molto poco. Tutto quello che ne uscirà, andrà solo a vostro vantaggio.”

Il bel viso di Scipione venne illuminato per un istante da un'espressione sveglia e franca che lo rendeva come non mai dissimile dal padre, Girolamo Riario. Pur assomigliandogli nei tratti somatici, per la Leonessa non avrebbe potuto esistere uomo più diverso al mondo di lui dal suo primo marito.

“Ragionerò su quello che mi hai detto.” concluse lei: “Grazie.”

Senza aggiungere altro sull'argomento, Caterina e Scipione lasciarono la saletta e raggiunsero l'ingresso. Arrivati al portone, la donna aprì e chiese al giovane se avesse lasciato il cavallo nella stalla o l'avesse legato a uno dei cerchi della facciata della villa.

“No, l'ho messo al riparo...” spiegò lui, e così i due proseguirono fianco a fianco per un po', senza parlare.

Alla Tigre non dispiaceva, fare qualche passo all'aperto, anche se aveva la costante sensazione di essere tenuta d'occhio da qualcuno, e anche il Riario trovava distendente poter camminare a quel modo senza per forza dover fare dei discorsi impegnativi.

Arrivati alla stalla, il ragazzo si augurò a voce alta che il suo cavallo si fosse riposato abbastanza e soggiunse: “L'ho preso a nolo e non vorrei che mi facessero storie, se lo trovassero troppo affaticato.”

“Ti darei qualche moneta, per aiutarti a saldare...” sussurrò Caterina, pensierosa, distratta da un'immagine che non si era attesa: “Ma come sai...”

“Non c'è problema.” sorrise lui, seguendo, poi, con lo sguardo, quello della Sforza.

Comprese in fretta cosa l'avesse tanto distratta. Bianca, la sua unica figlia femmina, era poco distante dalle stalle, quasi al limitare del bosco e, con lei, c'era un uomo che non stentò a riconoscere come Troilo De Rossi. I due stavano solo parlando, mentre l'emiliano, di quando in quando, si protendeva a guardare verso la vegetazione, indicando questo o quell'albera, e la giovane annuiva o scuoteva il capo, abbandonandosi a qualche risata.

Il cielo gettava su di loro una luce stranissima. Dal temporale di quella domenica, il sole si era fatto d'un pallore particolarissimo e anche i venti, che continuavano a cambiare, contribuivano a creare un'atmosfera surreale.

“Come vi dicevo prima – fece, con lentezza, Scipione – vi servono alleati.”

Bianca, in lontananza, stava ridendo di nuovo, e, questa volta, mentre il De Rossi chinava un po' il capo, imbarazzato, mettendo ben in mostra alla luce opalescente di quel giorno i capelli biondo rossicci, la giovane arrivò a posargli una mano sul braccio. La naturalezza con cui eseguì quel gesto e con cui lui non si ritrasse, fece muovere più in fretta la mente della Leonessa.

“Hai ragione – convenne con il Riario – anche se prima di legarsi troppo a certi alleati, bisognerebbe pensarci due volte...”

“Posso tornare a trovarvi?” domandò Scipione, provando a distogliere la Tigre dai suoi pensieri.

“Certo.” fece subito lei, voltando platealmente le spalle alla figlia e a Troilo, e fissando il figlio del suo primo marito: “Ma devi chiedere a Fortunati. È da lui che passano i permessi per venire qui. È lui che media con i miei... Carcerieri.” e dicendo ciò, la donna non riuscì a evitare di lanciare uno sguardo ancora al De Rossi.

Il Riario disse che avrebbe fatto così e poi, dopo essere montato in sella e averla salutata, ci tenne a dirle: “In me avrete sempre un amico.”

“Lo so.” lo ringraziò lei e poi, dopo aver sollevato la mano in segno di arrivederci, rimase a guardarlo finché non lo vide sparire all'orizzonte.

Quando tornò a guardare verso il limitare del bosco, Bianca e Troilo non c'erano più. Con un sospiro, non riuscendo a capire se fosse lei a essere troppo prevenuta o se, in effetti, stesse accadendo qualcosa, proprio sotto al suo naso, senza che lei se ne accorgesse, la donna decise di tornare in camera sua e ragionare su quanto lei e Scipione si erano detti.

 

Bartolomeo aspettava con nervosismo di essere finalmente ricevuto dal nuovo Doge. Non gli era piaciuto il modo in cui Leonardo Loredan, da poco eletto, l'aveva subito richiamato all'ordine.

L'Alviano non era più abituato a sentirsi stringere al collo la catena di un padrone. Barbarigo, malgrado tutti i suoi difetti, aveva imparato a lasciarlo andare come un cane sciolto, limitandosi a dargli indicazioni su dove mordere, ma non mettendo più becco sul come e sul quando.

L'assedio di Terni che aveva condotto quell'estate l'aveva lasciato in parte insoddisfatto e avrebbe voluto restare con i suoi diecimila uomini al campo, invece di dover correre a Venezia, tra i canali umidi e quei saloni pieni d'oro e affreschi, che lui non capiva e non riusciva ad apprezzare.

In più, si sentiva a disagio, sporco dal viaggio, con i capelli impastati di salsedine e sudore. Lì tutti erano imbellettati e ben vestiti, profumati e dai modi affettati. Gli facevano provare, per antitesi, una profondissima nostalgia di casa, di quella che ancora considerava casa sua, a Bracciano.

Non c'era giorno e non c'era notte che non si struggesse al pensiero di quello che aveva perso. La sua Bartolomea aveva avuto ragione a volerlo vedere risposato, perché senza quel nuovo legame ai Baglioni, probabilmente nessuno l'avrebbe voluto alla guida di un esercito. Però, a parte il mestiere delle armi, che cosa gli restava?

Aveva una nuova moglie, Pantasilea, che praticamente non conosceva e con cui si era unito solo una volta e senza nemmeno essere padrone di sé. Aveva un palazzo, o meglio, aveva l'accesso a una parte di un palazzo, di cui non ricordava nemmeno la forma. Aveva un figlio, ormai adulto, ma che ragionava come un bambino e che non poteva far altro che lasciare costantemente a qualcuno che l'accudisse al suo posto.

“Messer Bartolomeo d'Alviano...” la voce melliflua e roca dell'uomo che era andato a chiamarlo lo fece quasi sussultare.

Senza dire nulla, lo seguì oltre alla porta intarsiata d'oro e si trovò in una sala che non aveva mai visitato. Il nuovo Doge, impossibile non riconoscerlo, visto il modo in cui era vestito, lo stava aspettando in piedi davanti a una delle grandi finestre.

Era alto, più alto di lui, magrissimo e dai tratti affilati. La sua faccia era solcata da profonde rughe verticali e il suo naso, grosso e un po' adunco, sembrava essersi come ritirato, rinsecchito. Le sue labbra erano tirate in quello che avrebbe dovuto essere un sorriso, ma i suoi occhi, incavati e grandi, tradivano un grande disappunto.

“Eccoci qui, dunque – gli disse, mentre la porta veniva chiusa, lasciandoli da soli in quella grande sala – voi e io.”

Bartolomeo, che faceva ancora fatica a parlare, e che, probabilmente, l'avrebbe sempre fatta, si limitò a un cenno del capo.

“Vi ho fatto richiamare, dando ordine di puntare su Rovereto. Ma voi avete opposto resistenza.” gli disse, il sorriso che svaniva del tutto, mentre le mani dalle dita lunghe e secche si stringevano l'una nell'altra: “Perché?”

“Perché per far quello che voglio a Rovereto mi servono soldi.” le parole uscirono di bocca all'Alviano smangiate e arrotolate.

Ormai solo chi lo conosceva bene riusciva a capire alla perfezione quello che diceva, anche quando parlava lentamente. Il Doge, però, parve intenderlo alla perfezione, benché fosse la prima volta che lo incontrava.

“Io non vi stipendio per fare quello che volete voi, ma quello che voglio io!” sbottò, il volto che si trasformava in un maschera di collera: “Non avete capito che il Doge sono io!”

“E io sono un uomo d'armi.” rimbeccò, a voce bassa, Bartolomeo: “E so meglio di voi gli affari di guerra.”

“E sapete anche che adesso Georges d'Amboise è a Trento, con il re di Francia, con gli imperiali, a decidere le sorti d'Italia?” lo incalzò il Doge, con fare supponente.

L'Alviano preferì non dire nulla, perché con la difficoltà che aveva nell'esprimersi fluentemente, avrebbe solo fatto fatica per un quarto d'ora, senza che il suo interlocutore capisse realmente quello che voleva dire.

Leonardo Loredan, interpretando quel silenzio come un segno di manchevolezza, riprese, più tronfio che mai: “Noi dobbiamo sfruttare il momento per mettere Venezia in bella mostra, specie ora che il figlio del papa si è messo da solo in cattiva luce.”

Bartolomeo, non capendo davvero, quella volta, a cosa si riferisse il Doge, si accigliò, pur non osando porre domande dirette.

Ben felice di poter mostrare quanto fosse informato su ogni cosa, il veneziano inclinò un po' la testa e, mettendo in mostra i piccoli denti lucidi, chiese: “Non avete sentito di quella sventurata di Cesena? Quella Bona Pasolini di cui tutti parlano?”

Siccome il condottiero scosse il capo, il Doge gli raccontò delle violenze subite dalla giovane e di come ella si fosse rimessa a Venezia, cercando ospitalità e protezione a Ravenna.

“E, ovviamente, ho accettato subito.” concluse Loredan, sfregandosi lentamente le mani l'una nell'altra: “E adesso l'abbiamo sotto la nostra protezione e potremo sfruttarla al momento buono per screditare il Duca di Valentinois.”

“Un gruppo di invasori che usa violenza a una donna del posto – soppesò, senza proprio riuscire a trattenersi, Bartolomeo – non credo sia una notizia tanto sconvolgente, ai giorni nostri...”

Benché il condottiero fosse incespicato nelle ultime parole, con la lingua che non correva alla stessa velocità del suo pensiero, il Doge comprese benissimo ciò che aveva detto.

Irritato, quasi furibondo, batté le mani secche l'una con l'altra, con fare sbrigativo ed esclamò: “Io capisco che tra me e voi non ci sia intendimento. Ditemi allora cosa volete per andare a Rovereto a tenere il fronte contro i turchi e ve lo darò!”

“Andare là anche con centomila uomini serve a poco – espose sinteticamente Bartolomeo – quindi datemi i soldi e gli uomini necessari per rafforzare il castello.”

“Alzerete le mura?” buttò lì Loredan, non vedendo che altra miglioria potesse necessitare un castello.

“Farò fare un bastione moderno: triangolare.” ribatté l'Alviano, che, in effetti, aveva già immaginato di fare una cosa simile anche altrove.

Poco convinto, il Doge strinse gli occhi, finendo, con il suo pallore, per assomigliare a un morto più di quanto non assomigliasse a un vivo, e poi concesse: “Datemi un giorno, per sottoporre la cosa ai miei contabili.”

“Siete voi, ad avere fretta.” gli ricordò Bartolomeo e, senza attendere un congedo, fece un inchino rigido e se ne andò.

 

Dopo la visita di Scipione Riario, ciò che restava di quel giovedì era passato tranquillo, e, quando ormai la sera era scesa e tutti avevano finito di cenare, Caterina chiese a Fortunati se gli andava di passare da lei, come le sere precedenti, per chiacchierare.

In quei giorni non avevano mai toccato argomenti troppo seri, ma entrambi avevano trovato piacevole la compagnia dell'altro. Avevano anche avuto modo di concordare le date della prossima visita della Tigre al figlio Giovannino e, seppur non approfondendo molto la questione, avevano anche discusso di come gestire le richieste di contatti che arrivavano sempre più spesso dalla Romagna. Anche la Sforza pareva essere diventata allergica alla politica e alla diplomazia, il piovano la stava convincendo che, seppur con cautela, fosse opportuno riallacciare qualche amicizia e, magari, crearne di nuove.

“Sì, tra poco passo in camera tua – aveva quindi detto Francesco, ma aveva anche aggiunto – ho una cosa importante di cui parlarti, ma aspettavo un momento tranquillo...”

Quell'anticipazione aveva avuto un unico effetto sulla Tigre: l'aveva messa in ansia. Aveva cominciato a pensare, e più pensava, più la sua mente le proponeva notizie catastrofiche e scenari apocalittici. Anche se non aveva visto il piovano troppo agitato, per lei quelle sole parole pesavano come un macigno.

Fu con il fiato spezzato, perciò, che gli chiese, non appena lo vide entrare in camera sua: “Che cosa è successo?” per poi aggiungere, prima che lui potesse anche solo provare a rispondere: “Per Dio, dimmelo! Ho il diritto di saperlo!”

Solo in quel momento Fortunati si rese conto di come le sue parole avessero scavato a fondo in Caterina. Si sorprendeva ogni volta, da che erano a Firenze, di come lei fosse cambiata, sotto quel punto di vista. Anni prima, non avrebbe assolutamente reagito a quel modo... Quanto era diventata fragile? O, meglio, la era sempre stata e aveva sempre saputo nascondere i suoi tormenti, oppure qualcosa in lei si era davvero rotto per sempre?

La Sforza non gli diede il tempo di darsi una risposta, chiedendogli di nuovo: “Allora? Che cosa è successo? Siamo in pericolo? Giovannino sta bene? È successo qualcosa che...”

“Calma.” la zittì lui, sollevando le mani e fissandola negli occhi: “Calma.”

“Come faccio a calmarmi, se mi tratti così?!” scattò lei, dando d'impeto un colpo al braccio alzato di Fortunati.

“Si tratta di una cosa seria, ma non grave come pensi.” continuò lui, cercando di restare impassibile.

Malgrado le sue parole, però, la sua espressione si era fatta scura. La Leonessa avrebbe voluto gridargli di parlare, invece di continuare a tergiversare, perché tanto una brutta notizia restava tale anche se anticipata da una lunga esitazione, ma di fatto riuscì solo a deglutire un paio di volte e mettersi a sedere sul letto. Le era bastato poco, per essere già stremata.

“Lorenzo – cominciò allora Fortunati, scegliendo le parole migliori – oltre alle ultime decisioni che ha preso, avrebbe... Insomma... Vi dice che... Vi chiede di rinunciare alla tutela di Giovannino, e ha minacciato, se non lo farete, di intentare un nuovo processo o addirittura di levarvelo a forza.”

“Mi pare ci abbia già provato.” fece notare la Sforza, livida.

“Dice anche che sarebbe meglio per tutti se lasciaste il prima possibile questa villa.” soggiunse il piovano, abbassando lo sguardo.

Caterina si abbandonò a uno sbuffo pieno di rabbia e poi digrignò i denti, ribattendo: “Che Lorenzo si metta in testa che io da questa villa non ne uscirò se non a pezzi!”

Il modo in cui la donna aveva parlato, a Francesco ricordò il passato, il momento in cui la milanese aveva deciso di non lasciare Ravaldino se non da morta. Quella volta non era riuscita nel suo intento...

“Voglio incontrare Lorenzo! Devo vederlo subito e devo...” aveva cominciato a dire la donna, alzandosi e stringendo le mani a pugno.

“No, Caterina...” la frenò all'istante Fortunati: “Sii ragionevole. Non è più il tempo di incrociare le spade... Qui non ci sono campi di battaglia e duelli, in vista, ma un processo, la legge, la diplomazia...”

La milanese schiuse le labbra, ma non trovò nulla con cui controbattere.

“La cosa migliore che puoi fare – consigliò a quel punto Francesco – è mostrarti docile, collaborativa. Resta ferma sul tuo punto, ma non scontrarti subito con lui.”

“Ha cercato di rapire Giovannino e ora minaccia anche di cacciarmi dalla casa che mio marito Giovanni mi ha legalmente lasciato, con l'eredità di nostro figlio.” riassunse la Tigre: “Non sono io, mi pare, quella che ha cercato lo scontro.”

“Chi credi di avere, alle spalle?” le chiese, a quel punto, il piovano: “Chi credi che appoggerà la Signoria? Lorenzo, il salvatore della patria, un Medici, uno dei fautori dell'attuale sistema, o tu, una donna, chiacchierata, sconfitta, che è stata prigioniera del papa e la schiava del Valentino?”

La Leonessa rimase immobile. Le parole che Francesco aveva sputato con tanta freddezza l'avevano ferita nel profondo. Sapeva, però, che l'uomo che le stava davanti aveva ragione.

Si mise a ragionare il più in fretta che poteva. Voleva trovare una strada che le permettesse di non rischiare troppo, ma che, allo stesso tempo, le desse la possibilità di mettere in difficoltà suo cognato. Non avrebbe cercato lo scontro diretto... Avrebbe solo fatto in modo che il Medici perdesse, via via, la sua superiorità nei suoi confronti.

Era un gioco che non faceva da tempo, ormai, ma sapeva ancora come fare, per smuovere un po' di influenze. Aveva imparato tutto quando era a Roma, sotto l'ala di papa Sisto IV. Nel corso del suo governo in Romagna aveva potuto solo di rado mettere in pratica le sue nozioni diplomatiche e politiche, dovendo prediligere sempre metodi cruenti e bellici, ma quando l'aveva fatto era stata capace di ritardare enormemente una delle guerre peggiori subite dall'Italia negli ultimi decenni, bloccando Carlo VIII per mesi. E, si disse con un velo di rabbia e malinconia assieme, se non fosse stato per colpa del suo Giacomo, forse sarebbe addirittura riuscita a evitare del tutto la prima invasione dei francesi...

“Voglio scrivere all'Imperatore e a mia sorella Bianca Maria Sforza.” disse, con voce calma: “E poi voglio contattare Luigi Ciocca, che, se non erro, è uno dei portavoce di della Marchesa di Mantova.”

Fortunati stava perdendo il filo dei suoi discorsi, tanto che dovette chiedere: “Perché? Ciocca? Ma cosa..?”

“Il Marchese di Mantova mi ha chiesto un favore. Intendo far vedere che la sua questione mi sta a cuore, ma è inutile parlare di certi affari politici tanto delicati con un caprone come Francesco Gonzaga.” spiegò la donna, sollevando l'indice: “Sua moglie è la testa del Marchesato, è lei quella che capirà.”

“Che capirà cosa, di preciso?” domandò il fiorentino, ancora più confuso.

“Hai conoscenze alla Signoria? Anche di qualche membro minore... Mi basta qualcuno che possa sussurrare all'orecchio del Gonfaloniere e che possa convincere Firenze che il Marchese di Mantova è l'unico uomo al mondo che possa diventare Capitano Generale delle truppe fiorentine.” la voce di Caterina era lontana, così come il suo sguardo.

Probabilmente, pensò Fortunati, stava già pensando a cosa scrivere nelle missive dirette all'Imperatore e a Ciocca. Ciò che a lui premeva capire, però, in quel momento, era altro.

“Ho qualche amico, alla Signoria...” disse l'uomo, tentennante, pensando, soprattutto, a Jacopo Salviati, che aveva avuto modo di conoscere anni prima, quando Giovanni Medici viveva ancora a Firenze: “Ma per chiedere un favore, si deve offrire qualcosa in cambio...”

“Come si chiama questo amico?” lo incalzò allora la Leonessa.

Con una riluttanza di cui quasi si vergognava, il piovano glielo disse. La milanese parve pensarci a lungo, come se si stesse sforzando di recuperare qualche vecchio ricordo sepolto nella sua mente.

Solo dopo qualche minuto, disse: “Si tratta del marito di Lucrezia Medici, figlia del Magnifico.”

Siccome la sua non era una domanda, ma una mera affermazione, Fortunati non si prese nemmeno il disturbo di annuire.

“Tu cerca di avvicinarlo, spiegandogli quello che ci servirebbe.” ordinò la Sforza: “Se si mostrerà interessato, farai in modo di mettermici in contatto. O con lui, o con sua moglie.”

“Ma i francesi non vogliono che...” cominciò lui.

“I francesi non hanno nemmeno capito che invece che essere alle Murate a pregare ero con mio figlio al convento d'Annalena.” gli ricordò la Tigre: “E, fidati, sono pronta a scommettere che il De Rossi sarà pronto a chiudere un occhio e a farlo chiudere agli altri, se necessario.”

In realtà quest'ultima era solo una speranza, ma era certa, ormai, di aver visto un discreto interesse dell'uomo verso Bianca. Lungi da lei pensare che tra loro potesse nascere qualcosa di concreto, aveva tutta l'intenzione di sfruttare al meglio il favore dell'emiliano. Non a caso, pur avendolo alla villa ormai da giorni, si era ben guardata dal mettergli fretta e aveva deciso di aspettare che fosse lui a sollevare l'argomento Giovannino, cosa che per il momento non accennava a fare, benché fosse la ragione ufficiale della sua presenza lì.

“Come vuoi tu.” concluse Fortunati, allargando le braccia: “Domani andrò in città e cercherò subito di incontrare Jacopo.”

Caterina annuì, compiaciuta, e poi gli disse: “Voglio scrivere subito le lettere per mio cognato l'Imperatore e per Ciocca. Vuoi restare per aiutarmi?”

Pur immaginando che la donna non gli avrebbe lasciato mettere realmente il becco nelle sue lettere, l'uomo accettò, solo per poter restare ancora un po' di tempo con lei.

Fuori si era messo a soffiare un forte vento, ma non sembrava che volesse mettersi a piovere. Il clima strano che aveva permeato l'intera giornata, si stava esacerbando sempre di più, rendendo la sera quasi impalpabile. Nella stanza della Sforza, invece, tra il calore che arrivava dal camino quasi spento e la luce arancione delle candele, l'atmosfera era casalinga e accogliente, l'ideale, pensava Francesco, in una notte di ottobre.

“Siediti pure sul letto.” lo pregò lei, mentre si metteva alla scrivania, facendo in modo di non voltargli del tutto le spalle: “Potrebbe volerci un po'... Questo tipo di lettera va scritto con attenzione.”

“Io non ho fretta.” fece lui, abbozzando un sorriso, mentre si sistemava, guardando, forse più del dovuto, la porzione di schiena che l'abito della Tigre lasciava scoperta e lasciando la sua mente libera di vagare, lasciando da parte, almeno per un po', gli intrighi politici e le contese giudiziarie, e immaginandosi, con un piccolo strappo alle sue ferree leggi morali e religiose, di poter sfiorare quella pelle liscia con la punta delle dita.

Schiarendosi la voce, si impedì di andare oltre nelle sue fantasie e chiese, tanto per occupare la testa con altro: “A chi scrivi, per primo?”

“Prima alla famiglia.” rispose lei, alludendo alla sorella Bianca Maria e al cognato Imperatore.

“Prima alla famiglia.” fece eco lui, accavallando le gambe e sospirando, mentre i suoi occhi cadevano ancora sulla schiena bianca di lei, non riuscendo, questa volta, a frenare la sua mente, che si perse una volta per tutte tra i suoi desideri inconfessati.

   
 
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