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Autore: Adeia Di Elferas    17/07/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Avanti... Adesso è ora di andare a dormire...” disse piano Lucrezia, cercando di scrollarsi di dosso Piero, che, con i suoi cinque anni che sarebbero diventati sei in gennaio, le sembrava pesante come un macigno.

Il bambino, con un smorfia, si aggrappò ancora di più al suo collo e così la donna dovette sospirare e cercare di convincerlo in modo più deciso.

“Luisa è più piccola di te – gli disse, afferrandolo, per come poteva, e provando ad allontanarlo a forza – tu sei suo fratello e sei più grande...”

Piero, poco convinto, lanciò uno sguardo al padre, che stava in piedi a poca distanza, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo pensieroso. Resosi conto che da lui non sarebbe arrivato alcun aiuto, il piccolo fece ancora un po' i capricci e poi lasciò che la madre lo allontanasse da sé.

Era ormai sera inoltrata, eppure in casa Salviati quasi nessuno dormiva, a parte i bambini più piccoli. Tutto era iniziato con un piccolo litigio per un giocattolo tra la quattrenne Luisa e Caterina, che di anni ne aveva già otto. La più grande, dopo poco, si era stufata e aveva lasciato la bambola alla più piccola, ma a quel punto era intervenuto Piero che, forse per farsi notare dai genitori o forse perché riluttante all'idea di andare a dormire, aveva ben pensato di strappare l'oggetto della contesa alla sorellina. In tutta risposta, questa gli aveva lanciato un giocattolo di legno, e Piero si era messo a piangere, sostenendo di essere stato 'gravemente ferito'.

Lucrezia, accorsa subito, aveva cercato di placare gli animi e aveva portato Piero al cospetto di Jacopo, che era ancora nella saletta. Il marito, però, non le era stato di grande aiuto, fino a quel momento.

“E poi ormai sei grande, per giocare con certe cose...” borbottò la Medici, non appena il bambino si asciugò una volta per tutte gli occhi.

“Andiamo a dormire?” chiese a quel punto Jacopo, sorprendendo un po' la moglie.

“Certo...” disse lei, preoccupata dal tono assente dell'uomo.

Piero, che non si lasciò scappare l'occasione di avanzare ancora un paio di puerili recriminazioni, si lasciò infine vincere e accettò che la madre lo portasse nella sua camera per riposare.

“Ti aspetto in stanza.” borbottò Jacopo, rivolgendosi a Lucrezia, dedicando solo una breve carezza al figlio.

La Medici, dopo aver sedato una volta per tutte le rimostranze del figlio, e aver controllato che anche gli altri, Giovanni, Lorenzo, Caterina, Luisa, Battista, Maria ed Elena, fossero tutti sotto le coperte, si decise a raggiungere il marito.

“Cosa c'è, Jacopo?” gli chiese, non appena ebbe chiuso la porta della loro stanza alle sue spalle.

L'uomo, accigliato, scosse piano la testa e non disse nulla. Tanto per non starsene con le mani in mano, la moglie accese ancora qualche candela, in modo da rendere meno cupo l'ambiente, e poi si andò a sedere sul letto accanto a lui.

“Cosa ti preoccupa? È da tutto il giorno che... Non ci sei.” gli sussurrò, posando una mano sulle sue, strette l'una all'altra in grembo.

L'uomo guardò le loro mani sovrapposte e poi sollevò lo sguardo verso di lei: “Scusami... Non è niente... Forse sono solo stanco.”

“Siamo sposati da ben più di due giorni: ormai so quando hai qualcosa che ti disturba... Dimmi di che si tratta. È colpa della Signoria? Sei preoccupato per qualcuno dei nostri figli? Si tratta di mio fratello Piero? Di Lorenzo..?”

“Anche...” fece lui, evasivo, con un sospiro: “Non lo so... Oggi sono... Sarà anche questo clima strano...”

In effetti quel giovedì il cielo era stato per tutto il tempo di un azzurro grigio molto particolare e anche la Medici aveva avvertito delle sensazioni strani, come il presentimento che stesse per accadere qualcosa. Tuttavia, con l'andare delle ore non era accaduto niente e aveva smesso di farci caso.

“Il Valentino...” soffiò Jacopo, trovando finalmente gli occhi della moglie con i suoi: “Hai sentito quello che ha fatto... Quella ragazza che...”

Lucrezia annuì, evitandogli di andare oltre nel rivangare la storia ormai nota a tutti di Bona Pasolini, e, per cercare di acquietarlo, fece solo peggio: “Non pensarci troppo... Di lei si è saputo solo per via del cognome che porta... Di certo non è stata la prima e non sarà l'ultima donna che finirà nelle mire del figlio del papa...”

Il Salviati deglutì e distolse lo sguardo.

“Di cosa hai paura?” domandò lei, immaginando di aver centrato il motivo dello scoramento del marito: “Il Valentino non conquisterà mai Firenze. Le nostre figlie sono tutte al sicuro. E poi ci siamo noi a proteggerle.”

Jacopo annuì, ma senza convinzione: “È solo che...” si morse il labbro e riprese: “Tuo cugino Lorenzo sta ancora facendo tutto quello che può per far sì che Firenze alla fine cada in mano francese...”

“Non credo che lo voglia ancora.” tagliò corto la donna, accarezzando lentamente la guancia del Salviati che, quel giorno, non si era nemmeno fatto radere, tanto era immerso nei suoi pensieri.

“Perché?” il modo in cui l'uomo aveva posto quella semplice domanda diede una stretta al cuore della Medici.

Le ricordava un bambino che, atterrito dalla realtà che lo circondava, cercava conforto e sostegno in una madre. Le faceva tenerezza, e allo stesso la spaventava. Benché avesse già trentun anni e avesse otto figli, scoprire che qualcuno contava così tanto su di lei l'atterriva sempre.

“Perché mio cugino Lorenzo – si convinse a rispondere, facendo del suo meglio per dissimulare il nervosismo che la paura del marito le instillava – vuole piegare la Tigre di Forlì al suo volere e quella donna è protetta dai francesi. Come potrebbe favorirli e intanto cercare di prendergliela?”

“Potrebbe pretenderla in cambio del suo appoggio.” fece notare il Salviati.

La Medici non aveva mai ragionato in quei termini, riguardo quella questione e ora capiva appieno i timori del marito.

Non sapeva come smontare l'idea di Jacopo, e quindi decise che, almeno per quella sera, l'unica cosa sensata da fare fosse non pensarci e basta.

“Stai tranquillo, Jacopo... Rilassati, adesso.” gli bisbigliò, protendendosi verso di lui e dandogli un leggero bacio sulle labbra: “Vedrai che andrà tutto bene. Adesso è sera... Non pensare più a nulla...”

Il Salviati ci mise un paio di minuti, ma poi, capendo che Lucrezia aveva ragione, si impose di mettere da parte tutte le sue ansie e concentrarsi solo sull'immediato presente.

Visto che il marito si era calmato, la Medici aveva cominciato a cambiarsi per la notte, lasciandolo seduto sul letto a fissarla. Avrebbe voluto scuoterlo e dirgli di fare altrettanto, ma pensò che fosse meglio lasciarlo cuocere nel suo brodo ancora un po'.

Solo quando lei fu pronta e gli fece capire che aveva intenzione di coricarsi, anche lui si tolse gli abiti da giorno e cominciò a cercare quelli da notte. Aveva infilato delle brachette comode, e stava per prendere il camicione largo, quando cambiò idea e andò a infilarsi a petto nudo sotto le coperte, accanto a Lucrezia, come faceva quando era piena estate.

La donna colse quella silenziosa richiesta, resa più palese ancora dal modo in cui lui si era stretto a lei, baciandole lentamente il collo e poi le labbra e, ben felice di vedere che Jacopo reagiva in qualche modo, lo assecondò con piacere.

Erano ancora abbracciati l'uno all'altra, in silenzio, sotto le coperte, pelle contro pelle, scrutandosi nel buio, quasi cercando di capire il mistero che li aveva uniti una volta di più, dopo tanti anni trascorsi assieme, quando entrambi avvertirono uno strano brivido lungo la schiena. Subito dopo un boato innaturale riempì le loro orecchie e subito ogni cosa attorno a loro cominciò a tremare.

Dopo un solo istante di esitazione, entrambi saltarono giù dal letto, infilandosi il primo abito che trovarono e, senza bisogno di dirsi nulla, corsero come lepri verso le stanze dei figli, mentre tutto il palazzo continuava a tremare e tutta la servitù schizzava impazzita da un punto all'altro della casa, cercando la strada più veloce per scappare all'aperto.

 

Troilo teneva la schiena appoggiata alla testiera del letto e guardava Bianca con un'espressione un po' mesta: “Non posso non andare.” stava dicendo: “Già avrei dovuto essere in viaggio da giorni, non posso ritardare ancora molto... La mia non è una posizione semplice.”

La Riario, sistemata in modo simile all'uomo, gli teneva una mano, sotto le coperte, e non parlava.

Il De Rossi le aveva spiegato bene come fosse stato complicato, per lui, negli ultimi mesi, tenere buoni rapporti coi francesi e, in più, occuparsi di San Secondo. Suo padre faceva il possibile, come Conte appena incaricato, ma non era più giovane e una vita di peregrinazioni e fatiche l'avevano provato non solo nel fisico. Adesso era stato chiamato a Trento, per scortare Georges d'Amboise nel suo rientro in Italia e non poteva rifiutarsi.

“Sarebbe un affronto al re di Francia.” sottolineò di nuovo lui.

Bianca deglutì un paio di volte, ancora tacendo. Lui le aveva detto che, al massimo, dopo la reprimenda ricevuta quel giorno, poteva permettersi di aspettare sabato mattina per partire, ma non di più. Significava avere a disposizione ancora solo un giorno e una notte, se si escludeva quella che già stavano trascorrendo assieme.

In quei giorni avevano avuto modo di conoscersi un po' meglio anche fuori dal letto. Anche se non potevano dire di aver approfondito in modo esaustivo la reciproca scoperta, Troilo aveva scoperto che la donna con cui desiderava passare ogni sua notte non gli piaceva solo come amante, ma anche come amica e come confidente e allo stesso modo lei aveva scoperto in lui un uomo elegante, sobrio e solido, qualcuno di cui apprezzava la compagnia e con cui sapeva intendersi all'istante, anche solo con uno sguardo.

Doversi dire di nuovo addio in così breve tempo, e chissà fino a quando, era per entrambi una tortura.

“Mi spiace non poter restare fino al tuo compleanno...” sussurrò lui: “Avrei voluto fare in tempo a farti un bel regalo e...”

La ragazza a quel punto lo fermò. Lo zittì posandogli una mano sulle labbra e poi scosse il capo, accoccolandosi contro di lui. Le piaceva sentire il suo calore addosso, l'odore della sua pelle...

Era conscia della forte differenza d'età che li divideva, eppure quando era da sola con lui se ne scordava completamente. Troilo era un uomo giovane, malgrado la sua reale data di nascita. Le sembrava diverso da qualsiasi trentanovenne che avesse mai incontrato. Lo percepiva quasi come un suo coetaneo. Eppure... C'era in effetti qualcosa in lui di differente. Era come una sorta di quieta forza, una autorevolezza sommersa... Fin da subito aveva trovato in lui non solo un uomo da amare e da desiderare, ma anche qualcuno da cui lasciarsi proteggere. Fin da quando era piccola, doveva ammetterlo, per quanto avesse amato suo padre, non aveva mai avuto vicino, se non per il poco tempo in cui Giovanni Medici era stato sposato con sua madre, una figura maschile la cui presenza le desse la sensazione di essere al sicuro.

“Non preoccuparti...” gli disse, dopo un po': “Tanto io condivido il giorno del compleanno con Livio, mio fratello... In fondo per me è anche un giorno triste.”

“Però avrei voluto esserci lo stesso.” insistette lui, accarezzandole i lunghi capelli biondi, che andavano a solleticargli il petto nudo.

“Magari ci sarai il prossimo anno.” sussurrò lei, sentendosi anche troppo ardita a fare una simile previsione.

L'emiliano aspettò qualche secondo, per poi dire: “Se tra un anno mi vorrai ancora...”

La Riario si irrigidì un istante. Sapeva che Troilo, malgrado tutto, aveva paura di averla fraintesa, di non aver capito che donna si era trovato davanti. Era comprensibile, in fondo. Non erano tante le ragazze con un cognome importante come il suo che si permettevano di vivere liberamente come faceva lei.

“Io ti vorrei per sempre.” mise in chiaro, aggrappandosi a lui con più forza: “Io ti amo e basta.”

Il De Rossi ricambiò la stretta e le diede un bacio sulla fronte. In quel gesto, Bianca non ci lesse solo dolcezza, ma anche un modo per ricambiare la sua dichiarazione d'amore.

“Voglio un figlio.” ammise la figlia della Tigre.

Troilo non sapeva cosa dire. Non capiva, innanzitutto, se quella fosse un'affermazione generica o con implicazioni immediate. Bianca non gli aveva mai fatto mistero di desiderare una famiglia numerosa. Anzi, benché si conoscessero da pochissimo tempo, era una delle prime cose che lei gli aveva confidato. Tuttavia...

“Voglio un figlio da te.” precisò lei, senza guardarlo, premendo il viso rosso fuoco contro il suo petto coperto di peluria grigia, e poi, siccome non arrivava risposta, soggiunse: “Ma forse mi sto sbagliando.”

“Su cosa?” domandò infine lui, con un filo di voce.

“Su di noi. Su di te e forse anche su di me.” masticò lei, allontanandosi un po' e tornando ad appoggiarsi alla testata del letto.

“Ma che dici...” Troilo inclinò la testa di lato: “Anche io vorrei un figlio da te. Sei la donna che cercavo da anni. Ma come faremmo? Non siamo sposati e non possiamo nemmeno sposarci...”

“Astorre è nelle mani del papa, in una cella non dissimile a quella in cui è stata mia madre per oltre un anno. Non può sopravvivere ancora molto.” ribatté Bianca, dimostrando, con il suo tono spiccio, di averci ragionato sopra parecchio.

“Se avessimo un figlio adesso, nascerebbe probabilmente prima di avere il tempo di sposarci. Non hai pensato a che disastro sarebbe, per te?” il De Rossi la fissava con cupezza, come se quella situazione fosse anche per lui un macigno insopportabile e inamovibile.

La Riario non si arrabbiò davanti a tanta riluttanza solo perché nelle parole di Troilo sentiva un sincero patimento. Capiva che le sua perplessità non erano dovute all'idea di legarsi a lei in modo indissolubile, mettendo al mondo un figlio, ma a una questione pratica, del tutto dettata dalla legge e dall'etichetta che, almeno su certe cose, anche loro dovevano seguire, volenti o nolenti.

Nonostante ciò, quando la giovane parlò, lo fece con voce piccata: “Io saprei cavarmela, come ho fatto sempre.”

Tra i due scese un lungo silenzio. Entrambi stavano ragionando in fretta, estraniandosi l'uno dall'altra, senza quasi più accorgersi di avere accanto l'uno il calore dell'altra.

Alla fine Troilo ruppe gli indugi e decretò: “Scappa con me a San Secondo.”

“In qualità di tua amante?” chiese lei, sollevando un sopracciglio.

“In qualità di mia promessa sposa. Se Astorre non ha molto da vivere, come dici tu...” cominciò lui, puntellandosi su un gomito, per poterla fissare meglio.

“No, non posso fare quello che mi chiedi, non così. Lo sai.” lo interruppe la Riario, granitica.

In fondo anche Troilo conveniva con lei, perciò non insistette. Ragionò ancora per un po' a mente fredda e poi, più lo sguardo gli scappava sul corpo della giovane donna che amava, solo in parte nascosto dalle coperte, più la sua lucidità lasciava il posto alla bufera che gli agitava l'anima dal giorno in cui, per la prima volta, aveva baciato le labbra di Bianca.

“Vuoi davvero un figlio da me?” le chiese, con la voce tanto bassa da essere, pur nel silenzio della notte, quasi impercettibile.

“Sì.” rispose lei, senza la minima esitazione.

“Se questo figlio dovesse arrivare davvero, sai a cosa andremo incontro?” fece lui, con il cuore che cominciava a correre.

“Sì.” ripeté la giovane.

“Allora... Va bene.” dette lui.

La Riario si abbandonò a un sorriso spontaneo e prorompente e poi gli diede un bacio così profondo da fargli quasi perdere subito il controllo di sé.

“Allora smetterò di prendere la mia pozione e quando tornerai da Trento...” la ragazza lasciò volutamente la frase a metà, lasciando che fossero le sue mani, che lo stavano cercando con insistenza, a fargli capire il resto.

“Promettimi, però – riuscì a specificare lui – che ci sposeremo nel momento stesso in cui Astorre Manfredi smetterà di respirare.”

Una frase del genere, in un altro contesto, avrebbe messo i brividi a Bianca, ma non quella notte.

“Te lo prometto.” gli fece eco.

L'emiliano stava per abbandonarsi tra le braccia della sua futura sposa – così ormai voleva considerarla – quando un suono sordo e lontano lo indusse a guardarsi attorno. Anche la Riario si spaventò, e, prima di capire l'origine del suono, profondo e arcaico come la Terra stessa, il mondo attorno a loro cominciò a tremare.

 

“Liberami. Liberami, Caterina...” la voce di Baccino era lontana, come se arrivasse dalle profondità del mare.

L'uomo che le tendeva le mani aveva la bocca aperta, era lui a parlare, eppure non assomigliava minimamente al cremonese. La Tigre ne aveva paura, voleva allontanarsene, ma quello continuava a raggiungerla, tendendo verso di lei le braccia incatenate e piene di sangue...

Trovandosi in mano una spada, senza sapere da dove l'avesse presa, la donna provò a difendersi. La sollevò e la calò con tutta la sua forza. Staccò la testa all'uomo che la perseguitava, ma questo continuava a camminare. Gli tagliò via le mani, le braccia, le gambe... Lo ridusse a un misero pezzo di carne.

L'odore del sangue le dava la nausea, cercava di allontanarsi, di correre via... Voleva togliersi di dosso il tanfo della morte, lavarsi gli abiti, la pelle, l'anima...

Inciampò, senza capire in cosa. Provò a rimettersi in piedi, ma quando appoggiò una mano in terra si rese conto di non aver trovato il suolo sotto al suo palmo, ma una bocca spalancata di un cadavere. Tutt'attorno c'erano solo corpi dilaniati e insanguinati. E a circondarla, confusa tra gli stendardi francesi, la sua rocca, la sua amatissima rocca, fatta a brandelli di pietra, stracciata e divelta, fredda e morta come tutti gli altri...

Si lasciò cadere, tra i cadaveri, sperando di confondersi con loro. Rigirandosi, si trovò davanti al volto deturpato, al ventre squarciato e alla gamba spezzata del suo Giacomo. Si voltò di nuovo e trovò il corpo gonfio e freddo di Giovanni. In lacrime, provò a trascinarsi oltre e un ciuffo di capelli lunghi e biondi le indicò il punto in cui avrebbe trovato anche il cadavere di Ottaviano Manfredi, così massacrato da essere impossibile da riconoscere...

“Caterina..!” gridava una voce, mentre la terra tremava e quel poco che restava di Ravaldino crollava a terra: “Caterina! Caterina! Caterina!”

Spalancando gli occhi di colpo, sudata fradicia, quasi febbricitante, Caterina vide davanti a sé Fortunati, che cercava di tirarla per un braccio per farla alzare. Il mondo stava tremando davvero.

“Vieni! Caterina! Il terremoto! Dobbiamo uscire di qui! Il terremoto!” urlò Francesco, riuscendo finalmente a smuoverla.

Smettendo di pensare, addestrata da anni vissuti in perenne e costante allerta, la donna tornò presente a se stessa, dimenticò i suoi incubi e ordinò: “Tu esci! Io vado dai miei figli!”

“Io penso ai più grandi!” si offrì subito il piovano, mentre uscivano in corridoio.

La Leonessa avrebbe voluto opporsi, ma non lo fece. Non era il caso di perdere tempo a battibeccare.

Proprio mentre correva verso la stanza di Bernardino, vide Sforzino che si affrettava verso le scale, appoggiandosi di quando in quando al muro, per non cadere per colpa delle continue scosse di terremoto, e gli gridò: “Corri fuori, più lontano che puoi dalla casa!”

Il ragazzino non se lo fece ripetere e scese i gradini a due a due, non scivolando per un puro caso.

La Tigre riuscì a intercettare subito Galeazzo, che aveva già preso con sé Bernardino, e corse con loro fuori. Nel buio della notte, mentre la terra ancora tremava, la donna raggiunse Fortunati che, con sua gioia, era assieme a Bianca. La ragazza, notò Caterina, era sommariamente avvolta in un lenzuolo. A poca distanza, con indosso un camicione da camera indossato al contrario, stava Troilo De Rossi.

Tutti gli altri abitanti della villa erano in ordine sparso sul prato, a distanza di sicurezza dalla villa.

Anche Ottaviano era già in salvo, terrorizzato, un po' in disparte, seduto in terra, per non sentire le gambe tremare a ogni sussulto del suolo.

Dopo qualche istante, si acquietò tutto. Nessuno parlava. Erano tutti troppo spaventati per proporre di muoversi da lì. Poteva arrivare un altro sciame di scosse, poteva crollare la casa, poteva succedere ancora qualsiasi cosa.

Rimasero semplicemente tutti lì, immobili, a fissare chi la villa, chi il cielo, chi il bosco. Arrivò il sole, e un nuovo giorno. Infreddoliti per la notte trascorsa quasi per intero all'aperto, piano piano tutti si dissero concordi nel provare a rientrare.

Caterina volle essere la prima. Ispezionò con attenzione ogni stanza, ogni parete. Era così presa dal suo compito che non si rese nemmeno conto che il letto del De Rossi era intonso, mentre nella stanza di Bianca c'erano in terra anche abiti da uomo. Tutto ciò che i suoi occhi cercavano e vedevano erano eventuali nuove crepe, fratture o cedimenti.

Aveva accumulato una discreta conoscenza in materia, negli anni passati a Ravaldino, e quindi si sentì abbastanza sicura nell'andare ad annunciare a tutti che si poteva rientrare senza timore.

“Sempre che non venga un nuovo terremoto.” commentò serafico frate Lauro, con il suo consueto sorriso imperturbabile.

“Pregate Dio, voi che dite di essere ascoltato da lui, affinché non accada.” lo rimbrottò la Leonessa.

Solo in quel momento, passata la buriana di quella notte, mentre tutti cominciavano a ritrovare la parola, riuscendo perfino a tratti a ironizzare su quanto accaduto, Caterina si lasciò prendere dai dubbi.

Aveva intravisto Troilo De Rossi scambiare qualche parola con Bianca, aveva notato come tra i due vi fosse ben poco imbarazzo, malgrado lui fosse poco e mal vestito e lei avvolta in una coperta e basta.

Ripensò solo in quel preciso istante a ciò che non aveva voluto notare nelle rispettive camere da letto. Si passò una mano sulle labbra e affrettò il passo.

Riuscendo a lasciare indietro Fortunati, che cercava di non allontanarsi troppo da lei, credendola troppo provata da quanto accaduto, la donna andò nelle cucine. Cercò il vino nella dispensa e se ne versò un calice.

Le tremavano un po' le mani e sentiva il cuore battere più veloce del solito. Il terremoto, però, aveva poco a che fare con la sua condizione. Si sedette al tavolone di legno e finì di sorseggiare ciò che aveva davanti, provando a schiarirsi le idee.

Aveva sempre lasciato Bianca estremamente libera, ritenendola soprattutto capace di scegliere il meglio per se stessa. Aveva sofferto troppo per le costrizioni che aveva subito, per imporne qualcuna alla sua unica figlia. Questa, però, era una questione delicata, troppo delicata. Troilo De Rossi non era un uomo qualunque.

Quello rischiava di essere un terremoto decisamente peggiore di quello che avevano dovuto affrontare quella notte...

Lasciando il calice vuoto sul tavolo, la Tigre si alzò e, massaggiandosi la fronte, si disse che avrebbe lasciato calmare un momento le acque e poi avrebbe affrontato sua figlia. Voleva sapere se aveva capito quello che stava facendo e se era cosciente dei rischi che stava facendo correre non solo a se stessa, ma anche a tutti loro.

“Lasciami sola.” disse a Fortunati, non appena lo vide nell'ingresso ancora intento a cercarla: “Ho bisogno di stare da sola...”

   
 
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