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Autore: Dama_del_Labirinto    19/07/2021    1 recensioni
Quando pensieri negativi si affacciano all’orizzonte, Minami può contare sull’aiuto di Kishimoto, ma nella placida notte di settembre sarà difficile per l’ex-capitano del Toyotama tenere nascosti certi sentimenti dal gusto proibito.
Kishimoto/Minami
post Shohoku-Toyotama
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'In bilico'
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Note dell’autrice: Mi stavo annoiando sull’autobus ed ecco che mi viene questa idea su Minami e Kishimoto, coppia più rara che non si può. Forse questi due non sono il massimo della simpatia, ma hanno un che di affascinante e volevo provare a mettermi nei loro panni. Ovviamente, disclaimer, i personaggi appartengono a Takehiko Inoue (sia benedetto il suo intero albero genealogico) e ricavo niente da questa storia. Buona lettura!
 
Minami sbatté la porta di casa mentre usciva. Aveva affrontato le interminabili preoccupazioni dei suoi genitori, ma alla fine era riuscito a levare le tende dopo cena. Al suo fianco Kishimoto scuoteva la testa con disapprovazione.
“Che c’è? Su, dimmelo,” chiese Minami, serio, mentre camminava in compagnia dell’amico.
Kishimoto sbottò, “Stai troppo sotto ai tuoi,” e la sua voce rimbombò nel quartiere immerso nel buio e nel silenzio.
“Sai che se non rispondo di sì a quello che dicono, non mi fanno uscire,” mormorò Minami con le sopracciglia aggrottate. “Da quando hanno scoperto che ho messo le mani addosso al coach, rompono parecchio.”
“Lo so. La scuola ha telefonato anche a casa mia dopo il campionato. Intanto Kanehira se n’è andato e voglio vedere chi mettono al suo posto,” disse Kishimoto.
Minami calciò un sassolino sul marciapiede. “Che te ne frega, noi abbiamo chiuso con il club di basket.” La frase gli era uscita abbastanza seccata. Accorgendosi di essere di pessimo umore, si morse il labbro per essersi espresso in quel modo e pensò che Kishimoto non aveva colpe. L’amico reagì solo con un borbottio contrariato.
Attraversarono la strada, dirigendosi fino al punto in cui stava parcheggiata la moto, rasente al muro. Sotto la luce del lampione, Kishimoto spostò la giaccia di pelle che teneva allacciata sui fianchi e ficcò la mano nella tasca dei suoi jeans, tirando fuori le chiavi.
“Stasera siamo solo noi due,” disse, mentre porgeva il casco a Minami. “Tutti gli altri si sono defilati.”
“Guarda, meglio così,” commentò l’altro. “Non ho voglia di casino.”  
Kishimoto sollevò le sopracciglia, ma non indagò. Salirono e Kishimoto accese il motore.
Corsero a tutta velocità per le strade di Osaka. Le ruote calpestavano i riflessi delle luci colorate e abbaglianti della città. L’aria di settembre era ancora calda e il fresco dell’aria causata dal movimento della moto dava piacere sulle braccia scoperte. Sui marciapiedi gruppi di impiegati andavano in giro alla ricerca di un izakaya in cui infilarsi per poi uscire ubriachi ore dopo. Minami li osservò provando solo noia, poi girò la testa verso l’amico che guidava. I suoi capelli lunghi raccolti in una coda volavano da una parte all’altra, irrequieti com’era lui. La schiena di Kishimoto era ampia, gli piaceva. La sua maglietta blu sprigionava un profumo buonissimo. Minami sapeva che Kishimoto aveva speso tutti i soldi che aveva per comprarsi quella colonia. Imprecò, pensando che la serata non poteva andare peggio se si sentiva felice per una cosa così stupida come la fragranza sprigionata dalla pelle del suo migliore amico.
 
____
 
“Andiamo a bere qualcosa?” domandò Kishimoto
Minami rimase fermo ad osservare le insegne dei locali e non rispose. Non aveva voglia della ressa, del cibo fritto e caldo, e, per ultima cosa, di farsi sbattere fuori da qualche parte perché voleva bere alcolici e veniva fuori che non era maggiorenne.
“Minami, ci sei?” incalzò Kishimoto.
Minami sospirò. “Niente locali stasera.”
L’altro agitò una mano. “Ho capito, ho capito. Vieni con me allora.” Cominciò a camminare lungo il marciapiede per un centinaio di metri, poi si infilò nella stradina buia tra due alti palazzi. Girò la testa, per assicurarsi che l’amico ci fosse. “Ti porto in un bel posto.”
Minami lo seguì circospetto.
Scavalcarono un cancello, dopodiché trovarono una scala esterna, tutta traballante, attaccata al muro di uno dei palazzi.
Mentre saliva, Minami diede un’occhiata attraverso i fori degli scalini. La stradina del vicolo diventava sempre più indistinta. Ogni passo rimbombava lungo tutta la struttura metallica, che si inerpicava piano dopo piano fino al tetto.
Quando giunse in alto, un vento fresco lo colpì in viso e la prima cosa che catturò la sua attenzione fu la vista dell’immensità del centro abitato. I grattacieli spiccavano luminosi, il fiume scorreva scuro fino al porto e case su case si affastellavano nella pianura.
I due ragazzi trovarono posto sul punto più alto, comodi a guardare il panorama.
Fu Kishimoto a spezzare il silenzio con il suono dello scatto della rotella dell’accendino. La fiamma si sprigionò e bruciò la carta della sigaretta che teneva tra le dita.
“Ogni tanto vengo qui quando voglio stare solo. Mi sembra che i casini non possano raggiungermi,” mormorò, mentre si portava il tabacco alla bocca lentamente.
Minami lo fissò per lunghi secondi mentre fumava, poi tirò fuori il pacco delle sue sigarette dalla tasca. Si accorse che era praticamente vuoto e con un’imprecazione soffocata accese l’ultima che gli era rimasta.
“Che hai, Minami? Me lo vuoi dire, cazzo?” sbottò a un tratto Kishimoto.
Minami sbuffò. “E che ne so… non avevo voglia di fare niente stasera.”
“È per una?”
“Ma va.”
“E allora si può sapere che hai?”
Minami appoggiò i gomiti sulle gambe incrociate, guardando malinconicamente davanti a sé. Fece uscire il fumo bocca, poi decise che era meglio confidarsi.
“Sta finendo il tempo delle cazzate.”
Kishimoto si lasciò andare a una risata sommessa. “Ma guarda che mi tocca sentire da te.”
“Kishimoto, sai cosa intendo.”
La verità era che ormai erano a metà del terzo anno al Toyotama. A parte la presenza del coach Kitano, per Minami era sempre stata una scuola di merda. E quando la direzione aveva mandato via quel vecchio che stimava tanto, era diventata ancora più una merda. Gli sembrava che quel periodo fosse passato velocemente, che si fosse bruciato tre anni come quella sigaretta che aveva tra le dita. Avrebbe potuto godersi di più il basket, senza farsi troppo sangue marcio, invece era stato così preso dallo schiacciare gli altri da dimenticare di coltivare un briciolo di rispetto per se stesso.
“Intendi quelle cazzate del futuro?” disse Kishimoto. “Minami, tu puoi stare tranquillo. In fondo hai già deciso di proseguire il percorso dei tuoi, studierai seriamente, lavorerai in farmacia. Non mi sembra la cosa giusta farci le seghe sopra. E io che sono stupido, troverò qualcosa per mantenere mamma e fratelli annessi. Chiusa qua.”
Minami abbozzò un sorriso. Per fortuna che c’era Kishimoto a tirarlo fuori dai guai, o a farli con lui, a seconda dei punti di vista. Ne avevano passate davvero tante: giornate di sospensione, lezioni saltate riuscendo poi a infilarsi nella palestra dalla finestra del magazzino. Era stato un triennio di merda, avevano anche sbagliato, ma in fondo si erano divertiti.
Si sentì in colpa perché stava a lamentarsi di qualcosa che non riusciva ad afferrare ancora del tutto. A differenza sua, Kishimoto non parlava mai dei suoi problemi. Aprì bocca e, senza guardarlo, cominciò a dire, “C’è qualcosa che vuoi …”
“Lascia stare,” lo interruppe Kishimoto. “Ora mi sento felice e non voglio rovinarmi. Basta e avanza il tuo broncio.”
Minami sorrise, Kishimoto gli sorrise a sua volta.
“D’accordo, fanculo,” disse Minami. “Godiamoci il presente.” Spense la sigaretta consumata sfregandola con decisione sul cemento su cui erano seduti.
“Oh, proprio così. Fanculo,” esclamò Kishimoto. “Questa sera possiamo fare tutto quello vogliamo, domani non abbiamo nemmeno scuola. E poi di che ti lamenti, la scuola non è nemmeno finita.” Gli lanciò un’occhiata penetrante, poi lo prese per il collo e lo scosse vigorosamente. Minami cercò di toglierselo di dosso, sentendosi accaldato.
“Smettila,” intimò a bassa voce.
“Altrimenti che fai?” lo sfidò Kishimoto
Ti salto addosso, deficiente, ma certe cose era meglio pensarle soltanto. Anche se era sempre più difficile quando l’oggetto delle sue attenzioni stava diventando giorno dopo giorno più fisico nell’approccio. Quelle braccia forti e toniche svelate spesso da canottiere e magliette leggere gli facevano fare pensieri poco puri.
I maschi non dovrebbero avere certe voglie, si ripeteva… soprattutto dato il fatto che in passato era stato il primo a sfottere altri sulla loro scarsa virilità e a parlare di certe “inclinazioni disgustose”, tra l’altro in compagnia della persona in questione.
Per distrarsi guardò l’orologio. Erano le undici. Non sarebbe mai riuscito ad arrivare a casa in tempo per il coprifuoco di mezzanotte.
“Ho finito le sigarette. Dammene una delle tue,” disse.
Kishimoto ne tirò fuori una. “Non posso. Questa è l’ultima.”
“Fammi fare almeno un tiro.”
“Scordatelo.”
“Ma se mi devi dei soldi.” Lo afferrò per un polso.
“Che c’entra?” Kishimoto lo afferrò a sua volta per una spalla, mentre gli faceva resistenza. In quanto a forza fisica, Kishimoto era molto più avvantaggiato, lo era sempre stato. Si guardarono dritti negli occhi. Minami sentì il disagio salire. La presa della sua mano si allentò progressivamente, mentre le dita di Kishimoto cominciavano a spostarsi sul retro del suo collo. Minami sentì i capelli mossi dell’altro solleticargli la guancia, dopo che gli erano scivolati lungo la spalla. I loro volti erano molto vicini.
Minami non riuscì più a trattenersi. La sua bocca cercò quella aperta dell’amico. Ciò con cui si scontrò, tuttavia, fu un sussulto di sorpresa.
Kishimoto portò subito indietro la testa. “Minami, che cazzo fai?” se ne uscì di scatto. Le sue dita tremanti afferrarono la stoffa della camicia dell’altro.
Minami non rispose. Si chiedeva perché Kishimoto si mostrasse stranamente esitante. L’amico non si spostava, non lo aveva colpito con un pugno, continuava a restare a un sospiro dalle sue labbra, lasciandolo in attesa. D’altra parte, egli si trovava paralizzato. Socchiuse gli occhi, senza una giustificazione che lo potesse salvare e rassegnato al fatto di aver combinato il più grande casino della storia.
Poi però, all’improvviso, Kishimoto gli si fiondò addosso. Le loro labbra si sfiorarono di nuovo in un breve contatto, poi una seconda volta e una terza, in baci sempre più profondi e bagnati.
Minami inspirava, poi perdeva il respiro, affondava nella bocca dell’altro, cercando la sua lingua e trovandola ugualmente vogliosa.
Non si era mai sentito così.
Sentì la mano di Kishimoto tornare dietro al suo collo, lo stringeva abbastanza forte. Gli faceva anche male, ma gli stava bene così. Voleva sentirlo.
Quando dovette staccarsi, lo fece a malincuore.
I due si guardarono, increduli di fronte a quello che era appena successo. Minami si allontanò, passandosi le dita nei punti in cui Kishimoto aveva impresso il suo tocco e che scottavano ancora, e si mise di fianco a lui. Lo guardò di sbieco, spiandolo mentre si passava la lingua sulle labbra a testa bassa, e notò che anche lui stava cercando di riprendere fiato.
“E quindi…mi dicevi l’altro giorno che sei andato a trovare il signor Kitano?” domandò Kishimoto, con un tono di voce distaccato.
Questa volta Minami girò la testa verso l’amico. Non sapeva se avesse recepito una frase sbucata dal nulla perché il suo sangue aveva abbandonato il cervello per andare in altre parti del corpo, lasciandolo in stato confusionario, o se Kishimoto stesse cercando di far finta di nulla.
Stettero un po’ a chiacchierare, ma ci volle poco affinché riprendessero a baciarsi.
 
____
 
Minami si rese conto di essersi addormentato. Faceva un freddo cane che gli gelava le ossa. Le sue palpebre si aprirono, lasciando entrare il flebile chiaroscuro della notte che cominciava a retrocedere, poco prima dell’alba. Si passò la mano fredda sul viso, mentre la consapevolezza di come aveva passato l’ultima ora da sveglio lo colpì come un pugno.
Si alzò seduto.
“Kishimoto,” mormorò, scrollando poco gentilmente l’altro che giaceva al suo fianco.
Con un’imprecazione impastata, Kishimoto cominciò a muoversi. “Che mal di schiena, cazzo,” mormorò poi più forte.
Minami guardò l’orologio. “Sono quasi le cinque. Torniamo a casa.”
Si alzarono insieme.
Poco prima di scendere la scala, Minami deglutì.
“Kishimoto,” cominciò. “Non parliamo più di quella cosa che è successa.” Pensò di dover aggiungere che era stato un incidente, che gli aveva fatto schifo, ma non ce la faceva. Non ci sarebbe frase più falsa che poteva tirare fuori e a Kishimoto non aveva mai mentito.
“Di cosa?” ribatté Kishimoto con aria tranquilla. “Non ho idea di cosa tu stia parlando.”
Minami strinse le labbra e affondò le mani in tasca. Niente, doveva far finta che non c’era stato nulla. Era stato lui il primo a proporre l’accordo in modo implicito, eppure non poteva fermare la cupa stretta al cuore che lo stava tormentando. “Lascia perdere, andiamo via.”
Gli occhi di Kishimoto, però, guardavano qualcosa che solo dopo un po’ Minami capì che erano le sue labbra. I due stettero distanti, finché Kishimoto non afferrò Minami per un braccio. Sorrideva. Minami si chiese se si sarebbero baciati di nuovo, ma non accadde nulla. Eppure qualcosa era cambiato, lo sentiva, ma era troppo spaventato, confuso e felice per metterlo a fuoco.
“Ti senti meglio ora rispetto a ieri sera?” chiese Kishimoto.
Minami annuì. “Sì, ma non era nulla, comunque.”
“Dai, andiamo a casa.”
   
 
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