~ Cronache
di una strana collaborazione ~
♤L’indaffarata
giornata di Kaito Kuroba ♤
Fanart credits: non sono riuscita a trovare il propietario
L’odore
del caffè impregnò le mura della cucina nell’uggiosa mattina d’autunno
raggiungendo con il suo aroma afrodisiaco il corridoio lì accanto in un
silenzioso ed etereo canto ammaliatore. Il battito di ciglia apertamente
esagerato fu a malapena sufficiente a scacciare il desiderio. Kaito avrebbe
voluto intraprendere una profonda e ben consolidata relazione con la
caffettiera lasciata incustodita sul balcone.
Forte, pungente penetrante.
Le palpebre pesanti e il rivolo di saliva caduto sulla divisa scolastica
avrebbero dovuto essere il primo sintomo da prendere al vaglio per
l’instabilità fisica a cui era giunto. Invece no, nessuna domanda era sorta ai
kanji del proprio nome intravisti fra le volute di vapore.
Era servita l’occhiata circospetta dell’ispettore e la sua fronte dolorante per
giungere all’unica e insindacabile conclusione: quella di essere totalmente
impazzito.
Aveva provato ad entrare in cucina, dal lato sbagliato della porta a vetri.
«Kaito-kun, sei sicuro di stare bene?»
Sua madre gliel’aveva sempre detto di dormire a sufficienza – ovviamente dopo
averlo chiamato nel cuore della notte per coerenza – ma quel consiglio
era parso superfluo e insignificante per lui, ragazzo nel fior fiore degli anni
pieno di energie.
Avrebbe dovuto ascoltarlo almeno una volta a settimana, così tanto per
cominciare non avrebbe annusato l’aria con la stessa foga con cui il
cocainomane posizionato all’ingresso della metro di Ekoda
cercava i contanti ogni mattina.
«Sì
sì, non avevo visto la porta»
Scoraggiato per la sua stessa vuota e imbarazza risatina di circostanza e la
scarsa inventiva per una scusa tastò la fronte dolorante concentrandosi sulla
punta delle pantofole. La mole di informazioni elargitegli da Yusaku continuava
a uscire e riordinarsi nei vari cassetti della memoria non trovandovi apposita
collocazione. Lo stress contenuto nella casa dello scrittore gli era ritornato
indietro con la forza di una catapulta, non aveva bisogno dell’ispettore
Nakamori per completare il quadro di persone a cui tenere testa dissimulando
freschezza.
I genitori di Shinichi e l’inquietante agente dell’FBI lo avevano prosciugato
abbastanza.
La caffeina non avrebbe avuto effetto attraverso le vie respiratorie,
inspirarlo non sarebbe stato sufficiente. Avrebbe potuto aspettare di essere
solo per sgraffignare una, due, magari tre tazzine ma era
altrettanto cosciente di non potersi permettere quel lusso.
Dopo l’esorbitante quantità di tè ingerito in nottata avrebbe dovuto mantenere
le dovute distanze da qualsivoglia bevanda eccitante. Lo slancio d’energia
appena sufficiente a farlo tornare a casa era sparito da un pezzo
abbandonandolo a pensieri incoerenti.
Aveva esagerato con il tè, con l’istinto, l’altruismo e forse persino con la
paranoia.
Il
biglietto della metropolitana al ritorno non l’aveva sfruttato per intero.
Sceso a metà tragitto aveva girovagato in tondo per diversi isolati fuori il
proprio quartiere. La tranquillità di uno sportivo che si allenava all’alba, il
grado di attenzione di un artificiere pronto a disinnescare una bomba con
decine di civili a carico. Si era fidato di Yusaku e l’uomo si era fidato di
lui ma la vita dell’ultimo anno gli aveva insegnato più del dovuto a non
abbassare la guardia, nemmeno con il proprio migliore amico. Soltanto dopo
essersi assicurato di non avere nessuno alle calcagna era entrato in un
edificio diroccato per nascondere il cellulare restituitogli dal padre di
Shinichi.
La
prudenza non era mai troppa quando si parlava dei membri di casa Kudo.
Aveva percorso il resto della strada a piedi, circa otto chilometri di corsa sotto
un improvviso temporale. Rientrato a casa alle sei e mezza più simile ad un
pesciolino di quanto fosse stato disposto ad ammettere – il solo paragone gli
aveva procurato i brividi – pur di non rischiare la tentazione di intraprendere
un duraturo e indeterminato rapporto con Morfeo aveva evitato di infilarsi nel
letto ormai divenuto un mero miraggio. Si era diretto invece a casa di Aoko dopo
aver goduto dei massimi confort della sua doccia e aver preparato quanto
necessario per svolgere il favore.
Perché
essere un mago, un ladro e uno studente non richiedevano troppo tempo.
No, lui aveva dovuto accettare pure l’incarico di spia/consulente/aiutante in
affari in cui sarebbe stato più sensato chiamare la polizia/angelo custode e
altre svariate associazioni che per il proprio bene non aveva voluto ricercare.
«I maghi che ho conosciuto hanno
questo vizio di essere fin troppo altruisti»
«Andiamo Kudo-san,
si fida così tanto dei ladri che incontra?»
«No, solo di te»
Le
parole erano e sempre saranno l’arma di uno scrittore. Yusaku ne aveva
strategicamente fatto un abile uso colpendolo nel suo punto cieco, quello che
lo rendeva diverso da un criminale qualunque. Non era stato lui a condurre i
giochi nuovamente e per quanto avesse cercato il rancore per detestarlo, questo
non era arrivato.
Nemmeno quando la fortuna l’aveva momentaneamente abbondato.
Il
pensiero di infastidire Aoko con qualche scherzetto e svagarsi con lei era bastato
a concedergli la spinta necessaria per iniziare quella giornata nonostante
l’umore nero e la dea bendata da sempre fedele alleata d’un tratto vacillante. Da
quando nella sua vita era indirettamente entrato il piccolo detective,
l’attira disgrazie, la calamità naturale per le altrui tragedie, difficilmente
qualcosa aveva seguito il proprio corso senza intoppi. Quell’ormai lontano
primo aprile (1) anziché
scherzare con la polizia avrebbe dovuto starsene buono e tranquillo in casa,
guardare il film scadente noleggiato da Aoko e ridere della nottata in bianco
dell’ispettore.
Incontrare Conan Edogawa era una costante sfida contro la propria vita,
un viaggio di andata dall’incerto ritorno. Un momento potevi respirare la sua
stessa aria e quello successivo trovarti una pistola alla tempia, un omicidio a
tuo carico o ancora un intero gruppo terroristico pronto a farti saltare in
aria. Forse era esagerato, forse no, ma nello scrutare il coloratissimo
arcobaleno svettante nel cielo diradato insieme allo sfavillante astro solare
ove prima c’era stato il diluvio universale Kaito aveva avuto pochissimi dubbi.
Non era Shinichi o la sua forma rimpicciolita il problema, un malaugurio
indiretto gravava su tutta la maledetta casa situata a Beika,
distretto due, blocco ventuno. Le spore della sfortuna vivevano con loro e lui nel
prolungato soggiorno notturno ne era stato infettato.
Kaito
trattenne a stento uno sbadiglio ricevendo un’ulteriore occhiata perplessa
dall’ispettore Nakamori intento a sistemarsi la cravatta allo specchio del genkan (2).
Per buona sorte l’uomo così abituato alle sue stranezze non si era
fatto domande quando l’aveva visto piombare in casa all’alba vestito di tutto
punto ma con la voglia di vivere di uno zombie. Tantomeno aveva insistito sul
piccolo e imbarazzante incidente con la porta.
Forse stare distante da Beika era sufficiente ad
annullare le onde negative.
«Kaito-kun dovresti smetterla di passare la notte davanti ai videogiochi»
borbottò burbero l’ispettore con un ultimo nodo per poi passare ad allacciarsi
scarpe, aggiungendo sconfortato con un cenno del capo verso le scale «E per
favore assicurati che si rinfili a letto prima di andare via, ostinata com’è ha
voluto prepararmi il pranzo nonostante non si regga in piedi»
«Non
si preoccupi sarà fatto! Mamma tornerà per ora di pranzo e le ho lasciato un
messaggio chiedendole di passare qui a fare compagnia ad Aoko»
Kaito
annuì svogliato alle sue stesse parole, sbadigliando l’ennesima volta. Il padre
della sua migliore amica sembrò voler dire qualcosa ma si limitò a tirargli
debolmente in testa la cartellina blu piena di scartoffie. I rapporti
sull’ultima rapina di Kid molto probabilmente.
«Tu
devi di dormire di più ma non ora» il chiavistello scattò con la stessa
enfasi sinistra dell’ultima parola «Una volta uscito di qui fila dritto a
scuola!»
Kaito
si riscosse immediatamente dal suo stato catatonico all’improvviso tono elevato
scattando sull’attenti. Braccio sinistro lungo il fianco e mano destra alla
fronte.
«Signorsì
ispettore!»
Nakamori chiuse la porta sghignazzando sommessamente. Il lavoro quel mattino
sarebbe stato ingrato e poco soddisfacente dato l’ennesimo gioiello rubato
sotto il suo naso e non ancora restituito ma le buffonate di Kaito avevano reso
il tutto più piacevole. Neppure i suoi sottoposti reagivano con quella celerità
e nemmeno per un istante la mente matura indagò a fondo quella azione
involontaria considerandola diversa da un rimasuglio del sonno.
Kaito
espirò sonoramente alla chiusura della porta schiaffeggiandosi le guance.
Totalmente confuso ed estraniato aveva creduto di trovarsi ad una delle sue
rapine, travestito da agente della squadra investigativa laddove quel tono
veniva usato in continuazione.
Così com’era giunta l’adrenalina altrettanto rapidamente scemò in una
silenziosa invettiva.
L’ispettore Nakamori e la sua malsana tendenza di urlare sarebbero stati la sua
morte.
Sempre se non ci avessero pensato prima
Shinichi e l’allegra combriccola con il loro arsenale.
Abbandonate
le braccia lungo i fianchi Kaito sospirò pesantemente avvicinandosi al
sottoscala, precisamente alla porticina semiaperta che svelava la sua amica
rannicchiata in terra. La coperta in pile a stelle rosse e gialle avvolta in
più strati avevano reso Aoko più simile a un bozzolo
raggrinzito che un essere umano, lasciando spuntare all’esterno un solo
ciuffetto di capelli.
«Aoko,
lo so che sei lì sotto» picchiettò divertito un punto dell’ammasso informe più
o meno all’altezza di quello che suppose essere il fianco della ragazza «Alzati
e vai in camera tua, prenderai solo più freddo seduta lì per terra ed io non
voglio una strigliata da tuo padre quando scoprirà che non ho assolto al mio
compito»
L’omino
delle coperte ondeggiò in segno di diniego accompagnato dal colpo di tosse che
spezzò la frase rimostrante facendolo preoccupare ulteriormente. Si era presa
davvero una brutta influenza. Forse non avrebbe dovuto obbligarla ad
uscire da scuola dopo averla inzuppata con la pompa dell’acqua il giorno prima
ma Aoko gli aveva rovinato il trucco magico finendo per rendere il cortile
scolastico la succursale di una piscina con le sue stesse mani.
Lui
aveva soltanto insistito per tornare in fretta a casa.
Aoko
non gliel’aveva perdonato e forse un briciolo di ragione era disposto a
concederglielo.
Maledetti
sensi di colpa.
«Aoko
lo so che sei arrabbiata per lo scherzetto di ieri…mi dispiace?»
«Bakaito le scuse non vanno fatte sottoforma di domanda!»
lo strillo offeso da sotto le coperte lo raggiunse prima che esse venissero
scostate per lasciar sbucare parzialmente il dolce visino arrossato «Andrò a
letto quando te ne sarai andato!»
«Hai
ragione, ho sbagliato, ma il mio intento era solo farti uscire allo scoperto, Ahoko» pizzicò delicatamente la guancia della
ragazza scandendo ogni sillaba del nome «E se ti stai nascondendo per quel tuo
pigiama con i pulcini, mi spiace ma l’ho già visto quando sei corsa a nasconderti»
Aoko
arrossì fino alla radice dei capelli alla vocina scanzonata tornando a
nascondersi nel suo piccolo bunker morbido decisa a non farsi più vedere da lui
per il resto della vita. Lui l’avrebbe presa in giro per settimane se non mesi
e sarebbe stata una fortuna se non l’avesse reso pubblico davanti a tutta la
classe. Lo faceva già con la sua biancheria intima, non poteva di certo
aspettarsi un trattamento di favore per il pigiama.
«Dai
Ahoko sono solo dei pulcini! Piccoli e
cicciosi animaletti gialli» anche non avendolo davanti, lei poté sentire tutto
il divertimento malcelato «Dovresti preoccuparti più dei tuoi capelli, sembravi
un porcospino»
«Sparisci
idiota!»
Aoko
urlò inviperita scalciando alla cieca, presumibilmente colpendo in pieno il suo
fastidioso amico seguendo il contatto spugnoso del piede e il gemito seguente.
Non le importava se si fosse fatto male. Kaito non mostrava mai un briciolo di
tatto quando si trattava di darle giuste attenzioni, doveva rimarcare sempre
l’aspetto sbagliato. Lo sapeva da sola che era un disastro su tutti i
fronti con il naso rosso per il raffreddore e i capelli reduci da una guerra
persa con la spazzola. Se avesse saputo della visita si sarebbe chiusa a chiave
in stanza prima del suo arrivo. Il suo amico non era mai stato puntuale quando
si trattava di andare a scuola, proprio quel mattino doveva venire in anticipo?
Qualcuno
di potente doveva avercela con lei.
Aoko
avvertì la coperta pendere da un lato e prima di arrivare a comprendere cosa stesse
architettando il suo combinaguai preferito lo trovò a due centimetri dal viso. Infilato
all’interno del rifugio con i gomiti poggiati sulle ginocchia e un piccolo
spiraglio luminoso utile a far trapelare la luce necessaria a distinguerne i
lineamenti.
Inaspettatamente
i calori febbrili arrivarono in tutto il loro splendore.
«Dato che non uscivi, sono entrato io»
Il sorriso aumentò dinanzi agli occhi lucidi sbarrati, le mani svolazzarono nel
poco spazio a disposizione serrandosi attorno allo stelo di uno sgargiante girasole
materializzatosi al centro del pugno serrato. Il luccichio accattivante perse
però intensità nelle iridi cerulee accartocciando il giubilo in una goffa piega
dinanzi alla sua perplessità.
«Ehm…avevo finito le rose, lo accetti lo stesso come segno di scuse?»
Aoko avrebbe voluto urlargli in faccia quel “no” premuto sulla punta
della lingua mandandolo alla ricerca per tutto il globo se necessario ma,
in contraddizione con il suo stesso pensiero, strinse il fiore tra le mani
prima che bocca e cervello si collegassero. La febbre aveva giocato la sua
parte offuscandole la testa e gli altri sensi, il suo cuore non reggeva
sufficientemente l’ordine di battere pacatamente.
«Ora valgo così poco da non cercare nemmeno le rose per farti perdonare?»
«Eh? No…Il girasole si intona con i pulcini!....Ehi, no!
Ahoko ferma!»
Kaito mugugnò per il dolore al pugno sulla testa finendole praticamente addosso
in un groviglio informe di pile nel vano tentativo di liberarsi e ricambiare il
gesto in maniera del tutto diversa, soffocandola con il solletico. La paura di
farle male al buio lo costrinsero in svantaggio al punto da permettere alla
coperta di aggrovigliarsi per terra attorno ai loro corpi e ai gomiti di urtare
le strette e basse pareti del sottoscala. Il manico di scopa gli cadde in testa
mostrandogli in uno sfolgorio di lucine l’intera Via Lattea sancendo la fine
della soffocante lotta.
«Ahoko…fermati! Posso liberar-»
«KAITO!» l’urlo feroce contro i propri timpani interrotto da un fragoroso colpo
di tosse fece tremare lui e le stesse pareti cosicché colpito dal timore si
immobilizzò all’instante, in quella famiglia avevano tutti il fastidioso vizio
di urlare troppo «Togli quella mano da lì! ORA»
In piena confusione e stordimento Kaito ritirò piano l’arto incriminato
inumidendosi le labbra secche quando alla coperta tirata via con forza capì
cosa avesse infastidito la ragazza. Involontariamente aveva esagerato, di
nuovo. Aoko rizzatasi immediatamente in piedi incurante della testata
tirata alla scala era sguisciata fuori dal piccolo stanzino sorreggendosi la
coperta davanti al petto. Kaito preferì concentrarsi sui pulcini danzanti
raffigurati sul pantalone e i calzini imbottiti piuttosto che sul luogo del
misfatto.
Sarebbe stato un bugiardo ad ammettere di provare rimorso per quell’errore.
Ritornò a un grado di respirazione normale soltanto quando Aoko fu costretta a
poggiarsi al muro per non accasciarsi al suolo ai feroci attacchi di tosse. Con
i propri impulsi passati in secondo piano Kaito sospirò alzandosi a propria
volta per avvolgerle a sorpresa un braccio intorno alla vita e l’altro sotto le
gambe. La sua massa muscolare serviva da rinforzo più per esibizioni atletiche
che manifestazioni di forza, su per le scale percorse in completo silenzio e
senza sforzo considerò di avere tra le braccia un peso piuma anziché una persona.
Un leggiadro corpicino troppo caldo, segno indiscutibile della febbre alzatasi
più del dovuto. Suo malgrado preferiva accertarsi prima della salute della sua
amica che mantenere fede alla parola data ad un manipolatore seriale quanto
lui.
Giunto in cima alla fila di gradini percorse il corridoio fino alla camera
della ragazza attraverso quei muri visti e percorsi centinaia di volte.
«Dimmi la verità, lo hai fatto solo per toccarmi il sedere» sbottò infine in
una mormorata accusa Aoko tra le sue braccia, il cui volto nascosto dalla
chioma spettinata la diceva lunga su quanto credesse veritiera quella
affermazione.
«C-cosa?!...No! Cosa ti salta in mente?!» rispose evasivo spingendo con il
gomito la maniglia della porta, desideroso di porre quanta più distanza
possibile «Volevo solo aiutarti visto che sei tanto incosciente da non tornare
a letto per uno stupido pigiama!»
«Come se ci credessi! Lo sanno tutti che sei un pervertito!»
In risposta Kaito lasciò andare la presa guadagnandosi un urletto spaventato
dall’ammalata atterrata sul morbido materasso. Aoko grugnì scontenta
scostandosi la frangia senza sputar via la sua acida critica sui metodi bruschi
al risolino sarcastico, il bicchiere d’acqua con la medicina disciolta le era
già stato porto insieme al termometro estratto da chissà dove.
Lei ricordava di averlo lasciato in cucina.
«Accidenti, accidenti, accidenti!»
Kaito evitò la carrozzeria cremisi saltando sul cofano dell’altra vettura ferma
al semaforo dell’attraversamento pedonale non ancora divenuto verde. La
maledizione del demone in miniatura reincarnato l’aveva colpito ancora una
volta scombussolando la sua tabella di marcia della giornata. Sdraiato al fianco
di Aoko per tenerle compagnia aveva finito con l’addormentarsi abbandonando ogni
buon proposito, i pochi minuti erano diventati dieci, la mezzora due intere ore
e la stanchezza aveva fatto festa mentre i suoi doveri piangevano miseria.
«Guarda dove vai teppistello!»
Piegatosi in un impetuoso inchino di scuse volteggiò come una trottola attorno
ad un invisibile asse dopo aver afferrato al volo le decine di arance fatte
cadere all’urto con una cassetta di frutta. La colpa non era stata la sua ma
non si preoccupò di sottolinearlo. Incurante dello stesso fruttivendolo e
cliente annessa rimasti imbambolati ad osservare il sacchetto spiegazzato,
incapaci di comprendere quando e come la frutta fosse stata raccolta, fuggì oltre
il cavalca pedonale per guadagnare qualche secondo.
«Maledetta famiglia Kudo»
A denti serrati sbiascicò il suo malumore svoltando repentinamente verso una
stradina secondaria per accorciare il tragitto, rimpiangendo di aver lasciato
la moto in garage il giorno in cui gli sarebbe stata più utile. I vicoli
apparentemente tutti uguali erano più facili da interpretare dei suoi stessi
desideri, aveva ormai memorizzato tutti le stradine esistenti e anche quelle non
presenti sulle cartine stradali tanto da non dover nemmeno concentrarsi per non
sbagliare strada. Una svolta a destra, una a sinistra, ancora destra, un’orchidea
offerta all’anziana signora seduta sconsolata su una panchina, di nuovo
sinistra fino alla scaletta antincendio di un condominio. Era in ritardo per la
scuola, per il bene della sua concentrazione e lucidità avrebbe fatto meglio a non
pensare al suo dolce risveglio a cui ritornava ogni minuto, al braccio stretto
attorno al busto di Aoko, al volto addormentato proprio accanto al suo, alla
maglia del pigiama scostata per il troppo caldo.
Fortunatamente per lui Aoko non si era svegliata durante la sua fuga.
Scuotendo ferocemente la testa prese il cellulare della tasca del pantalone premendo
due volte sull’icona azzurra della sua app preferita prima di saltare in rapida
successione due cassonetti del vicolo parallelo. Le immagini delle diverse
angolazioni di casa Kudo occuparono il suo schermo portandolo
a chiedersi retoricamente per l’ennesima volta nell’arco della mattinata chi
gliel’avesse fatto fare di accettare il velato invito dello scrittore durante
l’intervista. L’impianto di videosorveglianza intorno alla villa l’aveva
posizionato dopo essersi congedato dai coniugi sfruttando le modernità della
tecnologia e le sue obbedienti colombe appollaiate sui gli appigli più svariati,
oltre alle videocamere nascoste fra fronde e cespugli.
Mandando a ritroso le registrazioni salvate su una memory card – che avrebbe
dovuto formattare l’indomani per non ritrovarsi con la memoria piena – constatò
l’assenza di eventuali minacce. Il video mandato a velocità elevate aveva
mostrato nel tempo trascorso da avvio registrazione sino a quel momento solo
passaggi sporadici del vicinato. Uomini e donne pronte al lavoro, il postino,
i bambini amici del piccolo demonio diretti alla casa accanto. Il più
sospettoso di tutti, un uomo dalla corporatura massiccia completamente vestito
di nero e con un berretto scuro calato sul viso, si era rivelato infine essere
un buco nell’acqua. Alleato non si sa in quale bizzarro modo con la famosa
famiglia e lo strano agente dei servizi segreti, l’uomo aveva provato a porre
una videocamera all’ingresso in maniera fin troppo plateale. Il display del
cellulare secondario con il numero di Yusaku composto era già finito accanto al
suo orecchio quando Shūichi nelle vesti di
Subaru l’aveva tirato dentro di peso insieme all’appariscente oggetto.
Kaito giunto ai cancelli della scuola sperò vivamente che l’omaccione non
facesse realmente parte dell’FBI.
La fresca brezza di
inizio ottobre scosse le fronde degli alberi riflesse sul display del cellulare
prossimo alla batteria scarica. Kaito appeso a testa in giù ad uno dei rami nel
cortile del liceo spostò la schermata al video successivo, strizzando gli occhi
alla luminosità massima con cui era costretto ad analizzare ogni singolo
filmato. Le cuffiette all’orecchio non riproducevano alcun suono, le aveva
indossate soltanto per non essere disturbato.
Al suono di notifica arricciò le labbra contrariato e quasi graffiò lo schermo
per eliminare l’ennesimo messaggio fastidioso. Sua madre atterrata sul suolo
giapponese aveva improvvisamente ricordato l’assenza di eccessive tariffe
telefoniche su rete nazionale.
Il quindicesimo poup-up ostruì la visuale del retro
della casa con una emoji recante due occhioni enormi colmi di lacrime e
l’ennesima punzecchiatura alla sua insensibilità di figlio portandolo a
sbuffare sonoramente. Le voleva bene, tanto, ma aveva deciso di non aprire più alcun
messaggio dopo essersi ritrovato la foto di Aoko placidamente addormentata con
tanto di didascalia annessa: “Non la trovi tanto carina anche tu?”
Se non fosse stato un
mago a cui le dita erano necessarie tanto quanto l’aria se le sarebbe staccate
via a morsi quando la risposta affermativa per poco non era partita all’interno
della chat. Sua madre dirottava la sua attenzione verso ben altri scopi e non
poteva permetterlo, aveva una dimora da sorvegliare. Doveva continuare a
ignorarla.
«La tua stravaganza va di pari passo con la stanchezza Kuroba-kun?»
Kaito imprecò internamente gettando completamente il capo all’ingiù all’odiosa
voce proveniente a pochi passi da lui. Gli occhi color cioccolato dai contorni
dorati inchiodarono i suoi sottosopra con un’ombra di divertimento miscelato
alla saccenza.
«Non hai altre persone da infastidire?» le dita bloccarono velocemente lo
schermo incriminato mentre la voce risuonò visibilmente annoiata «Sai, qualcuno
con cui parlare, un amico…Smetti di fare l’asociale e vai a fare
amicizia. Su, su Hakuba-chan»
Saguru accomodatosi ai piedi del tronco non si preoccupò di fornirgli risposta.
Incrociate le gambe accanto al mucchietto di foglie aprì lo zaino con misurati
gesti scoperchiando il proprio bentō per la
pausa pranzo. Kaito inarcò dubbioso un sopracciglio rimarcando il suo dissenso,
consapevole di non lasciar trasparire il giusto grado di fastidio a testa in
giù, magari il detective anziché uno sbuffo scontento avrebbe visto uno
sfavillante sorriso.
Un allineamento astrale
proprio non voleva farlo concentrare sui filmati di casa Kudo.
L’ampio cortile della
scuola offriva decine e decine di altrettanti posti riservati per una
consumazione tranquilla e Saguru non aveva accennato alcuna ritirata al suo
palese sfottò, di bene in meglio. Era nei suoi giorni del mese, quelli
in cui doveva indagare ogni sua parola, gesto o respiro.
Riportò l’attenzione allo
schermo ancora guardingo per quell’inusuale calma solitamente preludio di
tempesta. Hakuba non era avvezzo a pranzare in sua compagnia nemmeno per i suoi
fantomatici scopi superiori, si univa soltanto sotto invito di Aoko attualmente
assente. Il soggetto dei suoi pensieri sembrò notare l’elettricità alleggiante
e anziché scacciarla distese le labbra in un sorrisetto di superiorità mentre
inforcava il proprio pranzo.
Kaito si morse l’interno
guancia valutando se cambiare o meno postazione.
Il viale antistante casa Kudo era deserto tanto quanto il suo stomaco e il profumo
dell’omelette dell’inglese non mitigava la fame. L’ultima cosa ingerita erano
stati i biscotti della signora Yukiko ormai dodici ore prima.
Zoomò sconfortato sull’ingresso dell’abitazione scandagliando centimetro per
centimetro la zona alla ricerca del più piccolo indizio. I due coniugi non
l’avevano aiutato a capire cosa individuare e ripensando alla nottata almeno
un’idea dei volti di questi presunti criminali avrebbe voluto averla. Giocare a
mosca cieca sarebbe stato più semplice. Dubitava l’esistenza di fotografie ma
almeno descrizioni fisiche o disegni segnaletici avrebbero potuto averli da
mostrare, se non i coniugi almeno Shūichi con le
sue conoscenze.
Kaito sbatté le palpebre
restando con il dito sollevato sullo schermo. Lui aveva parlato con un agente
dei servizi segreti ma per come si era posta la situazione non era detto che il
capo delle azioni o la stessa FBI sarebbe stata informata della sua
collaborazione, altrimenti in primo luogo non avrebbero chiesto il suo aiuto. Per
quanto ne sapeva il capo dell’operazione poteva essere lo stesso Shūichi, alla fine aveva svelato la sua identità e non
era stato necessario indagare per appurarlo, erano bastati gli sguardi
intercorsi fra loro.
«Pensi al tuo prossimo
furto Kuroba-kun?»
Il numero di persone
informate era eccessivamente ridotto, probabilmente lo stesso Shinichi sarebbe
stato mantenuto fuori da tutto. La mancanza del bambino alla riunione parlava
da sola ma non aveva prove sufficienti per appurare le sue ipotesi. Supponeva
che un bambino avrebbe destato qualche sospetto in mezzo a future adunanze di
agenti operativi quindi la sua assenza non era effettivamente una
giustificazione, in più, Yusaku aveva sottolineato svariate volte come avesse accettato
il tutto ancor prima di conoscere i dettagli.
Adorava giocare col fuoco ma gli piaceva anche non scottarsi nel processo.
«Kuroba-kun?»
Il loro gioco era un
azzardo su tutta la linea come aveva fatto notare anche a loro, ma il punto più
importante, quello che aveva contribuito alla sua assenza di sonno finché non
aveva sentito il respiro di Aoko adeguarsi al suo, era il dover mettersi in
gioco per loro. Un’organizzazione criminale sulla sua coda era più che
sufficiente, svegliare il cane che dorme avrebbe comportato problemi non solo alla
sua incolumità e sicurezza. Le persone che cercavano Shinichi erano pericolose,
folli, pronte a tutto e ad atti estremi molto più di Snake. Un solo
gesto sbagliato, una sola parola di troppo con orecchie indiscrete in agguato,
un solo errore di valutazione e avrebbe ritrovato alle sue calcagna
un’ulteriore macchina assassina pronta a colpire chiunque, soprattutto le
persone a lui care.
Quell’organizzazione non
doveva neppure immaginare la sua collaborazione e l’ultimo avvertimento
dettogli da Yusaku poche ore prima acquisì molta più importanza, l’uomo ci
teneva a mantenerlo al sicuro. Non l’avrebbe venduto coinvolgendo persone di
cui non si fidava ciecamente o che avrebbero mostrato problemi a collaborare
con un criminale, doveva smetterla di dubitare di lui. I signori Kudo era un conto, Shūichi aveva
un debito con lui e si stava nascondendo a proprio volta sotto mentite spoglie,
ma gli altri?
Lui restava un ladro e loro l’emblema rappresentativo della giustizia.
Eppure, non era quello a gettarlo verso la paranoia. Organizzazioni così grandi
e fuori dai mirini investigativi dovevano avere i loro agganci, spie inserite
nella fazione avversaria come avevano fatto loro. Shūichi
e Yusaku non erano sprovveduti, dovevano essere giunti alla sua stessa
conclusione anche se non vi avrebbero dato credito fino allo sfinimento.
Forse sarebbero stati realmente solo loro quattro le persone informate del
piano ma aveva bisogno di ulteriori sicurezze.
«Kuroba!»
Kaito sobbalzò arraffando
al quarto tentativo il telefono sfuggitogli dalle mani per lo spavento. Strati
di sudore freddo scivolarono alla base della nuca al pollice schiacciato a
pochissima distanza dal pulsante di disconnessione. Un solo centimetro di
troppo e avrebbe potuto dire addio alla sua fonte di informazione.
Saguru scrutò
silenziosamente il ragazzo provando di riflesso dolore alle proprie
articolazioni. La sola vista delle gambe intrecciate attorno al legno e il
volto capovolto gli mettevano in subbuglio le viscere. Era lì da mezz’ora
appeso come un animale facendola sembrare la posizione più comoda del mondo,
rendendo quasi sbagliato l’acido lattico alle sue gambe sorto dopo ogni
inseguimento notturno.
Kaito non era il tipo di persone facilmente impressionabile ed anche nei
momenti di nervosismo tendeva a non stare fermo, dopo mesi a studiarlo qualcosa
seppur piccola l’aveva compresa. Un vizio più che un’abitudine, concentrato o
sovrappensiero Kuroba agitava e muoveva sempre qualcosa, specialmente le
monetine che iniziavano a roteare fra le dita ovunque si trovasse. In quel
momento non c’era stato nulla.
Né un battito di ciglia
né un sollevamento del petto.
Kuroba era sembrato una
statua di pietra fin troppo realistica.
«Sabato non partire per Londra»
Kaito rilassò i muscoli
delle gambe piantando i suoi occhi in quelli scuri.
Il cellulare pesava nel
palmo abbandonato sul petto mentre le parole sfuggivano dalla diga
accuratamente eretta fra lui e il detective. Non era un pipistrello, stare a
testa in giù non gli aveva favorito il sistema circolatorio. Il sangue sceso
più del dovuto gli aveva annebbiato la ragione, oppure, aveva allentato e
infuso coraggio alla lingua l’altrimenti recalcitrante.
Saguru l’aveva sentito,
poco importava il tono volutamente abbassato.
«Immagino di dover
suppore che la tua richiesta sia del tutto casuale» la risposta serena e
il boccone di riso lentamente allontanato dal viso non avevano raggiunto la più
piccola percentuale delle sue aspettative «E ovviamente non abbia alcuna
relazione con gli individui che ti hanno sparato due sere fa»
Saguru non scendeva a
patti con lui, erroneamente aveva attirato la sua completa attenzione.
Il liceale suo compagno di classe aveva lasciato il posto all’indole del
detective.
Lo stomaco di Kaito
bruciò a ritmo con le bacchette picchiettate sul bordo d’acciaio.
«Sparato?»
sollevò esageratamente le sopracciglia allargando la bocca in una deformata e
apparentemente pura manifestazione di sorpresa «Di cosa stai parlando?»
«Lapsus
freudiano, perdonami» parole vuote artificiosamente studiate come la mano
alzata sul torace il cui dispiacere non toccava neppure la punta del mignolo «Per
un attimo ho creduto di star parlando al grande Kaitō Kid»
«Ancora
con questa storia? Non ti stanchi mai? È ovvio all’interno mondo che non
sia io!»
Kaito
sbloccò nuovamente il cellulare in una rotazione esasperata degli occhi. Se il
detective avesse voluto condurre la conversazione su quel punto avrebbe perso
in partenza, lui avrebbe voluto chiedergli tutt’altro. Nell’accettare a cuor
leggero quell’incarico aveva dimenticato di dover tenere al sicuro una persona,
quella più importante.
E
i brutti presentimenti andavano sempre ascoltati.
«Il
mondo è pieno di cose ovvie che nessuno si prende mai la cura di
osservare»
Il
bambino sul triciclo insieme a sua mamma persero subito importanza. Kaito
scostò il cellulare di lato alla solenne esternazione, osservando il detective
come il risultato di un esperimento genetico malriuscito.
«E
questa da dove ti è uscita? Dai biscotti della fortuna?»
«No
ignorante, è una citazione di Sir Arthur Conan Doyle»
«Uno,
non se ne salva uno» borbottò il mago scuotendo esasperato la testa nel
vuoto, saturo di tutti quei detti e quelle conoscenze decantate a gran voce da
ogni persona che si riteneva superiore alla media «Detective o scrittori non
cambia assolutamente nulla, sono tutti così maledettamente noiosi e poco
originali, oltre che strani»
«E
a dirlo è il ragazzo che si crede una scimmia» ribatté prontamente il londinese
chiudendo con un tonfo il pranzo parzialmente consumato.
Kaito
tolse le cuffiette balzando giù dall’albero, sopprimendo ogni reazione al
giramento sopraggiunto al repentino cambio di posizione. Saguru lo osservava in
attesa di vederlo collassare al suolo ma non gli avrebbe dato la minima
soddisfazione di cedere o mostrarsi vulnerabile. Anche se i nervi delle gambe
tremavano a fior di pelle.
«Allora, perché non vuoi che parta sabato?»
Stranamente
però, non fu lui a riporre l’ascia di guerra.
«Vorrei
che facessi compagnia ad Aoko in questi giorni, compreso sabato» si fermò un
istante ad analizzare le iridi brune ridotte a due fessure ottenendo il tacito
consenso di proseguire «È malata, sicuramente l’influenza non le passerà prima
della prossima settimana e non voglio che resti sola»
«Scusami
ma non sei tu il suo migliore amico?»
«Sì,
ma io sono occupato»
Saguru
rizzò le spalle e se fosse stato un coniglio Kaito sarebbe stato certo di poter
immaginare due orecchie alzate e mosse in allerta nell’aria. Stava gettando
benzina sul fuoco, attizzando quella curiosità malsana che prima o poi gli si
sarebbe ritorta contro. Detestava Saguru e la sua dannata smania di conoscere
ogni dettaglio della sua vita per via delle sue giuste e non accertate
conclusioni, ma al contempo era la persona maggiormente degna di fiducia per
far compagnia ad Aoko. Le avrebbe impedito di andare in giro ancora
parzialmente malata e quello gli bastava. Aveva bisogno di libertà di movimento
e preoccuparsi di andare a casa di Aoko o di guardarle le spalle non collimava
con i suoi piani.
«Non
posso disdire un volo di punto in bianco, mi credi ricco sfondato?» cosa si
aspettasse di vedere il detective Kaito non lo capì, Saguru interrotta la frase
l’aveva penetrato con un’occhiata di fuoco aggiungendo più pacatamente «Vedrò
cosa posso fare ma non contarci troppo»
In
tutta sincerità Kaito aveva pensato di dover subire un ulteriore interrogatorio
per presunte attività malavitose e quell’improvvisa condiscendenza gli diede
fastidio. Saguru avrebbe passato del tempo in casa solo in compagnia della sua
amica ammalata, non pericoloso come un approfittatore ma fastidioso quanto il
damerino qual era.
«Momoi-san, hai portato il tuo pesce rosso per il progetto
di scienze?»
Kaito
immerso nei propri pensieri sussultò alla domanda di cortesia diretta alle sue
spalle. D’istinto ad occhi sbarrati si voltò di scatto con la paura infusa
nelle vene sopprimendo a stento il gemito pauroso involontario, pronto ad
arretrare e porre quanta più distanza fra lui e la migliore amica di Aoko
sempre presente al momento sbagliato. Nemmeno si ricordava di averlo un
progetto di scienze da consegnare.
I talloni piantonarono il terreno sollevando uno strato di polvere e null’altro.
Dietro di lui non vi era nessuno, anzi, gran parte del cortile si era svuotato in
vista dell’inizio delle lezioni. I suoi sensi non avevano fatto cilecca non
avvertendo nessuno arrivare di soppiatto.
«Hakuba
che dia–»
L’imprecazione restò inespressa mentre ritornava ad affrontare il detective. Le
dita di Saguru schioccate debolmente sulla sua fronte in un blando e divertito
ammonimento smossero l’impolverato ricordo passato in secondo piano dopo le
ultime ventiquattro ore.
«Volevo
fare anche io una magia Kuroba-kun» cantilenò
astutamente l’avversario ritirando la mano con negli occhi la stessa gioia
sfavillante di un vincitore della lotteria.
Kaito
serrò le labbra contrariato arricciando le dita nei propri palmi fino a
scavarsi la pelle. Quella svolta non andava affatto bene e non aveva nemmeno il
giusto tempo per occuparsene, avrebbe dovuto risolvere i conti in sospeso con
Saguru al termine della settimana. La colpa era stata tutta del proprietario
del rubino cremisi.
Uno stupido proprietario di un altrettanto stupido acquario.
Suzuki aveva ispirato la concorrenza nel modo sbagliato o semplicemente la
gente ricca non sapeva più come spendere i propri soldi tanto da preferire
inventare stravaganti e complessi luoghi in cui conservare i propri tesori. La
gemma era stata posta proprio al centro della struttura, in mezzo alle vasche
per pesci con la scusa che Kaitō Kid non avrebbe potuto nuocere a così
tanti animali provando a sfuggire rompendo le vasche d’acqua.
Kaito li avrebbe sterminati tutti più che volentieri.
Al
contrario delle loro aspettative, infatti, non era arrivato nuotando e il solo
ripensare all’eventualità scampata gli accapponava la pelle. Le viscide
creature esistevano al mondo con l’unico scopo di rovinargli la vita. A causa
loro il problema maggiore era sopraggiunto nel bel mezzo dell’inseguimento nei
corridoi desertici con solo Hakuba al seguito. Spessi teli neri erano stati posti
sulle vasche come distrazione, una scusante per i suoi filmati di video-mapping
psichedelici che a dispetto da quanto sbraitato da Nakamori non servivano a
distrarli dalla sua fuga a nuoto ma a salvare sé stesso.
Fallimento totale.
Era stato messo alle strette in un vicolo cieco, punto preciso in cui era inciampato
nell’estremità facendo cadere uno dei teli, rivelando un enorme pesce con la bocca
premuta sul vetro giusto difronte a lui. La sua fuga era riuscita soltanto
perché Hakuba sopraggiunto a manette tese era rimasto immobile, costernato dal
puro urlo di terrore fuoriuscito dalla sua gola e dalle centinaia di carte
sparate istericamente in incerte direzioni differenti.
«Quando
me lo restituisci ricordati di inserirci qualcosa di cremisi»
Il
sopracciglio di Kaito scattò all’insù fissando incerto dapprima il complice
occhiolino – da quando Saguru gli faceva l’occhiolino? – e successivamente la sicura
linea delle spalle del ragazzo avviatosi verso le porte del complesso
scolastico. Ai piedi dell’albero Saguru gli aveva lasciato il portapranzo con
all’interno quel tanto necessario per mettere a tacere il suo stomaco fino a
sera.
Era
una sua impressione o le persone stavano diventando davvero strane attorno a
lui?
La
ventola del pc ronzò sempre più flebilmente man mano che il laboratorio nello
scantinato divenne distante. Un luogo buio senza finestre non era certamente il
posto più adatto in cui passare interminabili ore davanti uno schermo ad
analizzare formule chimiche e numeri che la maggior parte delle persone liquidava
come argomenti complicati da cui tenersi lontano.
Ai strusciò i piedi oltre la porta arrampicandosi su uno degli sgabelli per
poggiare i fogli dell’ultima ricerca sulla penisola della cucina avvolta nella
penombra creata dalle tende tirate alle finestre. La sensazione di vivere in un
mondo di giganti era svanita dopo i primi mesi di rimpicciolimento ma i limiti
della bassa statura e l’apparenza giovanile continuavano a infastidirla. Il
dottor Agasa era uscito quella mattina per andare a
un convegno di scienziati a Kyoto raccomandale di stare a letto a causa del suo
brutto raffreddore, non aprire la porta a sconosciuti e aspettare il signor
Subaru per il pranzo così da potersi rilassare.
Come
se fino a qualche mese prima non avesse lavorato per un gruppo terroristico.
Bevve
un sorso d’acqua per placare il bruciore alla gola accentuato dal brodo di
pollo ingerito alla velocità della luce ad ora di pranzo, seguito da un secondo
bicchiere con l’amarognolo retrogusto della medicina. La pietanza anziché migliorarle
la salute l’aveva peggiorata, tutto a causa di Saburu
e il suo inquietante e sottile sorriso rimasto a fissarla silenziosamente per l’intera
durata del pasto. Shinichi l’aveva rassicurata sulla natura dell’uomo senza
ovviamente darle chissà quali esaustive informazioni e lei aveva voluto
fidarsi, la preoccupava maggiormente il giovane del Poirot ma ciò non le aveva
impedito di sentirsi ugualmente a disagio in sua compagnia.
Scuotendo
mestamente il capo si avviò all’ingresso indossando le scarpe e il cappotto per
evitare ulteriori colpi di freddo. Necessitava di un contatto con la luce
esterna e aria fresca oltre a un po’ di movimento dopo le interminabili ore di
analisi chimiche. Una passeggiata attorno all’abitazione non sarebbe durata
molto e le avrebbe favorito la circolazione.
Il
dottor Agasa sarebbe rientrato verso sera e Subaru non
le avrebbe fatto visita prima delle venti piuttosto preso dai propri studi
universitari. Teoricamente il ragionamento reggeva ma all’atto pratico aveva il
sospetto che un occhio del suo vicino fosse sempre puntato sull’abitazione, su
di lei. Era il momento perfetto per metterlo alla prova, poco sarebbero importate
eventuali scuse qualora fosse apparso all’improvviso.
Aveva smesso da un pezzo di credere alle coincidenze.
Richiuse
la porta inspirando a pieni polmoni l’aria filtrata oltre la mascherina
beandosi del pungente odore presagio di pioggia. Amava il contatto con l’aria
umida e densa di petricor alleggiante dal rovescio caduto a tarda notte, un
contatto diretto con la natura e quelle conoscenze studiate per anni. La
pioggia si mescolava ai composti del terreno formando le classiche bolle d’aria
che scoppiate rilasciavano nell’atmosfera le particelle fragranti tanto
apprezzate. Oli, resina, ozono e geosmina creavano
quel mix così attrattivo e irrinunciabile.
A
cuor leggero percorse il vialetto tirando su la cerniera del colletto abbozzando
un lieve sorriso dietro la stoffa tra respiri eccitati trasformati in sospiri
apprensivi oltre la quarta lastra di pietra del lastricato. Più rarefatti e
assenti alla quinta, inesistenti quanto il rumore dei propri passi nei pressi
del cancello spalancato della villa. Assordata non dallo stridio delle suole sul
suolo ma dai pesanti e opprimenti battiti del cuore salitogli in gola.
La spiacevole sensazione di essere osservata vestì di gelo le membra sotto la
giacca scivolando inesorabile lungo la schiena fino a farle tremare le gambe. Le
mani salirono all’altezza del cuore avvinghiandosi attorno ai lacci del
cappuccio tirato eccessivamente sul viso. La mascherina medica ostruì il
piccolo afflusso d’ossigeno gettandola in un film muto del primo decennio
televisivo. I piedi non collaborarono per tornare indietro, cementati nel terreno
affondarono sul posto spingendola ad aggrapparsi al muro granitico.
Il rombo del tuono squarciò la bolla cotonata in cui era caduta con la spietatezza
di un colpo d’artiglieria.
Il
capo scivolò in avanti oltre la soglia del cancello sporgendosi quel tanto per
osservare la strada, sulla destra, verso il ronzio di uno scooter fermo davanti
casa Kudo. La carrozzeria rossa e il logo delle poste
placarono soltanto per un’istante l’incontrollata paura.
La prima goccia d’acqua atterrò sulla mano pallida violentemente scossa e la
voce perì nelle profondità della gola insieme all’autocontrollo. Il lampo
squarciò il cielo illuminando cupamente il quartiere deserto, la posta cascante
nella cassetta, il ciuffo di capelli chiari altresì sempre bruno fuoriuscito
dal berretto del presunto postino.
Sottilissimi e innaturali crini biondissimi da sembrare fili d’argento.
Il
terrore ristagnò alla bocca dello stomaco, salì su per l’esofago, i denti
batterono fra loro e il più flebile suono di paura gorgogliò infine fra le sue
labbra. Una mano foderata di nero sbucata alle sue spalle le coprì la bocca e
la visuale agguantandola per la vita. A nulla valsero i tentativi di divincolarsi
dalla ferra presa attorno al bacino o le piccole mani stette attorno alle dita
schiacciate sulla sua faccia.
Il suo aggressore era più forte di lei.
Inerme
e impossibilitata alla lotta perse contatto con la realtà scalciando nel vuoto
con quanto vigore i piccoli arti glielo consentissero. I polmoni la implorarono
di ricevere aria e le spalle strattonate una tregua inattuabile nell’immediato
futuro. Sentì gli occhi bruciare di lacrime non versate ancora non disposte a colare
tra ispirazioni violente e pugni aggressivi sbattuti sul braccio saldamente ancorato
attorno al suo corpicino finché non riconobbe il familiare e stravagante
appendiabiti della casa del dottor Agasa.
Il panico non diminuì nella consapevolezza di non essersi nemmeno resa conto di
essere rientrata. Fuori da occhi indiscreti, alla mercè dove neanche urlare
avrebbe attirato l’attenzione. Forse avrebbe dovuto sperare maggiormente nelle
doti di stalking del suo vicino di casa.
Finita
sul parquet a poca distanza dall’ingresso dal quale avrebbe potuto provare a scappare
se oltre la porta non vi fosse stata Vermouth ad attenderla, ingoiò a fatica il
groppo in gola persistendo nell’involontario tremore. Il cellulare l’aveva
lasciato nel laboratorio, lontano e irraggiungibile per una semplice chiamata d’avvertimento
a Shinichi. Avvisarlo e intimargli di scappare, di non presentarsi per nessuna
ragione lì da lei.
Alla fine, l’avevano trovata.
Vermouth non si era fatta ingannare dal trucchetto sul Mistery Train
spifferando ai suoi compagni la sua vera identità, i veri effetti del farmaco
da lei creato e la sua morte fintamente inscenata. Le avevano teso un agguato
raggiungendo il loro scopo. I capelli scivolati ai lati del volto le impedirono
di osservare bene il rapitore dalle braccia ossute ed esili contro il cui petto
era schiacciata.
Al colpo di tosse sopraggiunto feroce sussultò violentemente avvertendo la
propria respirazione aumentare nell’aria rarefatta. Inspirò ed espirò affondo per
non permettere all’attacco di panico di prendere il sopravvento, ripetendo il
gesto fin quando l’ossigeno tornò a circolarle nei polmoni attraverso le dita guantate
distanziate e una mascherina non più esistente sul suo viso.
«Shhh, calmati, non voglio farti del male»
Il sussurro appena accennato al suo orecchio rimbalzò da una parte all’altra
del cervello gettandola dal terrore alla confusione. Le parole non contenevano
malizia, l’intonazione non somigliava per nulla a quella di Kron
a cui in un primo momento aveva associato l’identità.
«Respira»
Aì
assecondò inconsciamente il comando inalando e riversando aria all’esterno a
ritmo con il conteggio mormorato sommessamente nella presa attorno al suo corpo
ancora salda ma meno opprimente. Il dolciastro profumo di rose le invase le
narici solleticando un pensiero nebuloso che non riusciva a definire, quella
inclinazione tonale armoniosa e sicura l’aveva già sentita.
Ogni tentativo d’individuazione cadde nel vuoto al suono del campanello.
«Come
si chiama il vostro postino?»
L’uomo
oltre la porta non era il suo postino bensì la donna dei suoi peggiori incubi, ma
la risolutezza della domanda bisbigliata le suggerì che non era necessario
specificarlo. Apparentemente non erano dalla stessa parte.
«Agasa-san, Ai- chan siete
in casa?»
L’ondata di terrore al sentire il suo nome fittiziamente adattato alla voce del
postino fu sufficiente a farle scegliere cosa fare. Al secondo scampanellio
tracciò con l’indice sulla gamba del presunto rapitore su cui era seduta il
nome del ragazzo che giornalmente consegnava la posta non capendo ugualmente la
necessità di tale conoscenza.
«Ho
capito Ishii-san! Non c’è bisogno di
insistere!» la melodia intermittente cessò al contempo con la frequenza
cardiaca di Ai «Ho anche io la mia età! Sarò anche un inventore ma se scivolo
nella doccia sono uguale a tutti gli altri»
La voce, quella meno acuta e più impastata che le aveva appena distrutto un timpano
era stata precisa in ogni singolo accento e cadenza a quella del dottor Agasa. Troppo perfetta per crederla
reale, troppo studiata persino nella risata di circostanza.
«A
tal proposito potresti lasciare la posta nella cassetta?» la pausa, la classica
interruzione esalta dal dottore ogni qualvolta stava per dire qualcosa di
impacciante «Sono solo in casa oggi e… sa, non molto presentabile al
momento»
Se
non fosse stata certa dell’assenza dello scienziato lei sarebbe stata la prima
a cascare in quel tranello. Una simile gaffe era già accaduta in passato, con
la sola differenza che quella volta aveva aperto lei al venditore porta a porta
sbattendogliela in faccia pochi istanti dopo. Non aveva avuto tempo per le cortesie,
il dottore era stato invitato a casa della signora Kimika
Tomoyose insieme a Conan.
«Come
desidera lei, dottore. A domani!»
Ai
allentò la stretta dai pantaloni dell’individuo che non ricordava di aver
afferrato. Vermouth si era davvero accontentata di non saperla lì? Non riusciva
a crederci davvero e quanto pare nemmeno il tipo lì con lei che da polsino
della maglia aveva estratto un cellulare sul quale poteva vedere distintamente
anche lei le immagini trasmesse.
Una ripresa in tempo reale della sua abitazione.
La
pioggia torrenziale ostruiva la visuale ma il longilineo profilo della donna fu
ugualmente individuabile attraverso il viale, in strada e successivamente in
sella al motorino delle consegne. Lo stesso rumore del motore messo in moto provenne
dall’esterno.
Vermouth era davvero andata via.
La
paura accumulata lentamente scemò via abbandonandola alla debolezza ben presto
dipanata da un’altra importante questione che andava risolta. Era stata sicuramente
salvata, quello era innegabile. Altrettanto certamente però non tollerava di
essere spiata.
Sfruttando l’occasione concessa dalle braccia del rapitore allentate fece la
prima cosa che le venne in mente per sgusciare via dalla presa. Piantò i denti
nel polso dell’individuo facendo immediatamente scattare lontano le braccia che
le offrirono la giusta opportunità per calciare all’indietro il suo stomaco e graffiare
ferocemente qualunque cosa a portata di tiro.
Distanziatasi di alcuni passi impiegò alcuni secondi a registrare la velocità
dei suoi stessi movimenti e il pezzo tenuto stretto fra le dita, gelatinoso e
scivoloso, simile al materiale trovato a casa Kudo
fra i vari oggetti di proprietà della mamma di Shinichi.
Polimero inorganico costituito da uno scheletro silicio-ossigeno.
Maschera in silicone.
Ai
non era una detective né un’appassionata di misteri, era una scienziata dal
nutrito e sincero interesse per la materia scientifica. Scienziati e detective
avevano però una cosa in comune, la voglia di indagare e capire a fondo un
determinato fenomeno. Alzò la testa con innaturale lentezza verso il polso sofferente
agitato nell’aria e il volto celato dal cappuccio extralarge coperto
parzialmente dalla manica della felpa laddove la copertura facciale era saltata.
Pochi passi, venticinque centimetri di distanza per l’esattezza, un solo salto per
le sue piccole gambe per colmare il distacco dall’accovacciato ragazzo occhio
d’ambra. Uno. L’altro era rimasto celato dall’avambraccio saldamente
piazzato sul lato destro del viso, ostinatamente nascosto per non mostrarle il
colore differente.
Ai non era un detective, non lo
sarebbe mai stata.
Lei era una scienziata, le interessavano i numeri e i processi chimici.
«Il bagno è al piano di sopra, la
seconda porta dopo le scale»
Non avrebbe mai messo alle strette la
persona che per la seconda volta le salvava la vita.
Note finali
Questo capitolo è dedicato alla mia amica
Serena, la poverina che più di tutte ha dovuto rinunciare alle sue ore di sonno
per tenermi compagnia nei miei esistenziali drammi universitari. ❤
(1) =
Riferimento al caso della Black star, il gioiello di proprietà della
famiglia Suzuki che comporta la prima apparizione di Kaito all’interno del manga
di Detective Conan (capitoli 156 – 157 – 158 – 159; Episodi 78 – 79 numerazione
italiana).
(2) = Genkan è la
tradizionale anticamera d'ingresso che separa l'ambiente esterno da quello
interno nelle abitazioni.
Ehm…c’è
ancora qualcuno? ç.ç
So bene di essere sparita per mesi ma non per mia volontà, purtroppo.
Il capitolo potrebbe sembrare riempitivo e fuori da quelle che sono le
avventure dei file di riferimento ma anche se sembra non scrivo nulla per caso,
non dimentico le cose che racconto come qualcuno che conosco…*coff* *coff* Gosho.
Ovviamente
Kaito non ha solo la famiglia Kudo a cui dover
pensare, ha una sua vita abbastanza caotica da dover gestire e adoro unire le
due cose, forse anche troppo.
Ringrazio
tutti coloro che hanno recensito questa storia, l’hanno inserita fra
preferite/ricordate/seguite e ringrazio anche le due persone che perennemente mi
hanno chiesto di aggiornarla. Spero di ricevere un vostro parere anche su
questo nuovo capitolo ❤
Restate
sintonizzati, nel prossimo ritorneranno i personaggi principali della storia
>.>
Akai non vede l’ora di incontrare nuovamente Kaito.
Ci credete tanto, vero?
Aky
Questi personaggi non mi appartengono, ma sono
proprietà di Gōshō Aoyama, questa storia è stata scritta senza
alcuno scopo di lucro.