Anime & Manga > I cinque samurai
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Autore: PerseoeAndromeda    20/07/2021    0 recensioni
Genichiro Hashiba non è mai stato un padre modello. Ma una cosa è certa: ama suo figlio e vorrebbe potergli dimostrare quanto è orgoglioso di lui
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Rowen Hashiba
Note: Kidfic, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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UN BAMBINO SPECIALE
 
Lo studio nel quale lavorava otoosan aveva una grande vetrata, che si affacciava sui grattacieli della città e su un parco pieno di ciliegi.
Genichiro Hashiba aveva precluso l’accesso, era troppo prezioso, per lui, il luogo in cui svolgeva le proprie ricerche e manteneva i contatti di lavoro anche quando era a casa… perché lui lavorava sempre, non conosceva il concetto di vacanza e nemmeno quello di tempo da trascorrere in famiglia.
Quella notte il piccolo Touma si era svegliato, c’era il temporale e lui aveva paura.
Era un bambino precoce, era sempre stato normale lasciarlo da solo, lui aveva imparato a camminare e a parlare molto presto e, fin dai primi anni di vita, aveva acquisito una proprietà di linguaggio e una capacità di movimento che si sarebbero potute definire miracolose.
Ma era pur sempre un bambino e dei bambini aveva le paure e i bisogni, non ultimo quello di un adulto vicino che potesse rassicurarlo e cacciare quelle paure.
Come tutti i bambini, quando aveva paura il suo istinto era quello di cercare la mamma.
Ma in casa Hashiba, spesso, una mamma mancava, anche lei fuori, in qualche parte del mondo, a rincorrere qualche notizia per il suo giornale.
Il bambino si trovò a camminare nel corridoio buio, sulle sue piccole gambe ancora instabili, procedeva a tentoni nell’oscurità, tastando il muro con una mano e, a tratti, quando il bagliore di un lampo delineava la realtà in contorni spettrali, si rannicchiava a terra, sforzandosi di non urlare, perché a mamma e papà non piaceva che strillasse o facesse i capricci.
Gli dicevano sempre che era un bambino speciale, grande e maturo.
Non sapeva bene cosa significassero quelle parole, ma era ciò che volevano che lui fosse e aveva compreso che un bambino speciale, grande e maturo, non strillava e non faceva i capricci.
Così si metteva le mani sulle orecchie, chiudeva gli occhi e aspettava che il tuono sfogasse la sua furia, poi riprendeva il suo percorso alla ricerca di qualcuno.
Fu attratto da una luce rassicurante che filtrava dalla fessura bassa di una porta.
Lì per lì non ragionò sul fatto che l’accesso a quella stanza gli era strettamente proibito, tutto quel che contava, per lui, era trovare qualcuno che gli dicesse, semplicemente:
«Non c’è nulla che non va, il temporale non è niente, non ti farà del male».
Così prosegui, giunse davanti a quella porta, si mise in punta di piedi e, con fatica, tendendosi in ognuno dei suoi piccoli muscoli, raggiunse la maniglia per poi abbassarla.
Spinse la porta e sgattaiolò attraverso lo spiraglio che si era aperto.
Riconobbe di profilo il suo papà, chino su uno dei suoi lavori, così misteriosi per Touma.
Attraverso la vetrata che dava sulla città si stendeva la notte illuminata della metropoli sconvolta dal temporale.
Genichiro non si era accorto di lui e, quando l’ennesimo tuono esplose con una tale violenza da dare l’impressione che la casa tremasse, il piccolo Touma strillò e corse ad aggrapparsi alla gamba del padre.
L’uomo, che sembrava non essersi neanche reso conto dello sconvolgimento degli elementi, sobbalzò invece a quel contatto inatteso, che lo strappò bruscamente al suo principale interesse.
«Touma!» esclamò, con una durezza tale che il bambino non aveva mai percepito in lui.
Suo padre tendeva a non parlargli, a non guardarlo, a non cercarlo, ma non gli urlava mai e per il piccolo fu una tale sorpresa che saltò all’indietro e lo fissò con occhi sgranati.
L’uomo non sembrò lasciarsi intenerire dallo spavento che aveva causato nel bambino, si alzò in piedi, sovrastandolo e, in quel momento, mentre si stagliava contro la luce fredda di un fulmine che ne evidenziava i lineamenti più duri, lo fissò attraverso gli occhiali, scintille nel buio simili a due occhi di demone:
«Vai fuori di qui, subito!».
Non vi era ombra di gentilezza, si trattò di un ordine espresso a voce alta, tagliente, accompagnata dal gesto che non ammetteva repliche, con il quale l’uomo gli indicò l’uscita della stanza.
Touma rimase immobile qualche istante, il corpicino scosso dai tremiti.
La voce si alzò ancora, nervosa, irritata:
«Non mi hai sentito?! Fuori di qui!».
Non c’era bisogno di altro.
Il bambino gli diede le spalle e, sulle sue piccole gambe, rischiando di inciampare nei suoi stessi passi ancora incerti, corse via. Il temporale faceva tanta paura, ma sentirsi apostrofare così, in un modo che mai si sarebbe aspettato, era decisamente peggio: significava che papà non era più fiero di lui? Che non
era più un bambino speciale?
 

***
 
 
 
«Quella volta mi hai cacciato».
L’uomo, seduto al tavolo del suo studio, praticamente immutato nel corso degli anni, smise di colpo di scrivere, sollevò il capo e, dopo qualche istante, si volse verso il ragazzo.
Touma gli stava dando la schiena, ma vedeva il suo viso riflesso nella vetrata che dava sulla città, in quel pomeriggio di primavera in cui i raggi del sole entravano con tutta la loro potenza e scaldavano l’ambiente e i loro corpi in maniera insopportabile. I ciliegi erano in fiore e, nella trasparenza, il viso del ragazzo sembrava incorniciato da quelle infiorescenze.
“Il ciliegio… la solitudine del guerriero e il suo estremo sacrificio” si trovò a pensare Genichiro e quella riflessione, collegata al figlio, fece sorgere in lui una tale angoscia che il cuore gli si strinse per parecchi istanti, generando in lui un senso di soffocamento.
«Di cosa parli?» chiese, senza riuscire a mantenere la propria voce del tutto ferma.
Le mani di Touma erano nelle tasche e vi rimasero mentre il giovane si voltò, a cercare i suoi occhi.
Era cresciuto il suo ragazzo, era diventato alto, sempre un po’ magro, ma non trasmetteva la fragilità di un tempo. Era cresciuto in statura ed anche in sicurezza e consapevolezza di sé.
Certo, Genichiro era orgoglioso, ma un po’ triste, perché quella crescita non era stata serena ed era facile leggerlo nello sguardo del figlio.
Quanta colpa avevano, di questo, lui e la sua ex moglie?
Quanto lo avevano aiutato?
Nulla… assolutamente in nulla.
Se Touma era diventato un giovane uomo di sani principi, forte, coraggioso… e soprattutto buono… non era stato certo merito loro.
«Non avevo neanche tre anni… avevo paura del temporale… è normale per un bambino, no?».
Lo disse in tono neutro, ma nei suoi occhi c’era uno strano lucore.
Genichiro si massaggiò con una mano il collo, sotto la nuca, segno di grande imbarazzo da parte sua:
«Immagino… immagino di sì…».
Era normale sentirsi così a disagio con il proprio figlio?
Per lui lo era.
Lo amava, oh se lo amava, la consapevolezza di tale sentimento era cresciuta negli anni, eppure… quanti tasselli gli mancavano per conoscerlo… e per farsi perdonare tutto?
«Però di solito…» proseguì Touma, ma si bloccò quasi subito e qualcosa nel suo sguardo mutò, non sembrava più così impenetrabile, qualcosa del piccolo Touma, forse, stava venendo fuori. «Di solito… ci sono le madri… i padri… quando un bambino ha paura del temporale… forse per questo mi venne naturale venirti a cercare».
Come se quelle parole avessero fatto riaffiorare il Touma insicuro, quello che cercava sempre l’approvazione, distolse lo sguardo, scosse il capo, con ogni evidenza pentito di ciò che stava tirando fuori.
Ma quei pochi cenni furono sufficienti perché un piccolo sprazzo di ricordo, che per Touma era evidentemente importante, laddove per l’uomo si trattava di qualcosa di poco conto, si delineassero nettamente nella memoria di Genichirò e lo sprazzo divenne un episodio concreto, che gli fece sgranare gli occhi.
Lui l’aveva cancellato, o forse non del tutto visto che era bastato a Touma farne un cenno perché rispuntasse così nitido alla coscienza.
Si portò una mano alla fronte, sbuffò.
Era crudelmente ironico, non aveva scuse: lui ignorava suo figlio, lui non era mai stato un autentico padre e, l’unica volta… una delle poche volte in cui gli aveva concesso un’attenzione un po’ meno fredda, era stato per cacciarlo malamente dal suo studio in una notte di temporale, senza neanche notare i suoi occhi di bambino spaventato.
«Ho capito» sospirò Genichiro, «credo… credo di ricordare…».
Perché Touma ne parlava proprio in quel momento?
Il ragazzo camminò fino al tavolo e lì tirò fuori la mano dalla tasca, passando la punta delle dita sulla superficie lucida, gli occhi posati su quelle carte il cui mistero lo affascinava un tempo… e delle quali, in quegli istanti, non gli importava assolutamente nulla.
«Almeno… per quella notte la paura del temporale passò in secondo piano…».
Genichiro tese le orecchie, consapevole che un nuovo frammento di confidenza stava per giungere. Era deciso a cogliere qualunque cosa, qualunque piccolo assaggio di sé il figlio avesse voluto concedergli, anche se ognuna di queste confidenze non finiva di mettere in evidenza che genitori difettosi erano stati, per il loro bambino tanto prezioso.
«Ero troppo occupato a pensare che ti avevo deluso… che ti avevo perso per sempre… che non ero più il tuo figlio speciale e che da quel momento mi avresti odiato».
Genichiro scosse il capo:
«Oh, Touma…».
La mano del giovane sollevò uno dei fogli, lo osservò distrattamente:
«Una volta non mi avresti permesso di stare qui con te a parlare… e toccare una delle tue carte… assolutamente proibito…».
«Beh… adesso sei grande…».
Dirlo e sentirsi stupido fu tutt’uno per il signor Hashiba.
«Già…» sulle labbra di Touma comparve un mesto sorriso.
Seguì un silenzio teso, che spinse l’uomo a tentare qualche passo verso il giovane.
«Touma… ascolta… quella notte… lo sai… io per il lavoro ho sempre perso la testa, non eri tu nel torto».
L’altro scosse il capo:
«Mi dispiace… sono uno stupido, ‘toosan… non avrei dovuto…».
Erano così vicini da sfiorarsi e Genichiro compì un gesto che non era da lui, il contatto fisico non era poi così contemplato tra le modalità dei loro rapporti. Gli mise una mano sulla spalla e si ritrovò a parlare, questa volta, con una voce così ferma e decisa che stupì lui stesso:
«Non eri tu nel torto! Lo dico sul serio, Touma».
Il ragazzo sussultò e finalmente sollevò il viso, lasciando che i loro sguardi si incontrassero. Era un po’ come specchiarsi l’uno nell’altro, non erano poi così diversi… forse le loro esperienze lo erano state e questo avevo reso Touma ciò che Genichiro non era mai giunto ad essere. Per questo riuscì a sorridere, sentendo i propri occhi pungere un po’:
«Tu sei il dono più prezioso che la vita mi ha fatto e…».
«Otoosan… ti prego…».
A Touma non piacevano quelle situazioni, sentir dire certe cose di se stesso lo metteva a disagio.
E questo Genichiro lo capiva, avrebbe messo a disagio anche lui. C’era tuttavia una differenza: Touma certe parole positive su se stesso le meritava… lui no.
Annuì:
«Almeno una cosa lasciatela dire, però, e soprattutto ricordatela, imprimiti queste parole nella mente: io… sono… fiero… di… te…».
Lo vide deglutire, gli occhi di cielo fuggirono ovunque, le gote si fecero color porpora. Ma Genichiro continuò:
«Okaasan è fiera di te, il mondo è fiero di te…».
«Smettila ora…» mormorò Touma, poi aggiunse, a voce ancora più bassa: «Grazie…».
Non osò confessare, tuttavia, ciò che si celava dietro al sorriso che concesse al padre: certo, gli era grato per quelle parole, ma per lui, più di ogni altra cosa, contava che quattro ragazzi fossero orgogliosi di lui, gli unici che aveva imparato a considerare la sua unica, vera famiglia, gli unici che lo avevano reso ciò che era diventato.
 
 
   
 
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