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Autore: An13Uta    20/07/2021    1 recensioni
Biografia a frammenti di Oitesch, che non aveva nessuno al mondo - o almeno, della vita che avrebbe avuto.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Link, Malon, Nuovo Personaggio, Sheik, Skull Kid
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'occhi d'ambra'
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età adulta




Perché?

Perché una voce deve essere familiare?


Tutto ciò che conosceva ormai erano le grida dei bambini silvestri dalle vesti di smeraldo, vittime dei suoi scherzi, il tintinnio giallo e purpureo (e a volte azzurro) delle fate, i canti fruscianti dei boschi, e quella risata blu, blu, blu.


Perché?

Perché una voce deve portare memorie sopite?
 

Gli ricordava la Luna. Gli ricordava terra spaccata in crepe infinite, lunghe e interconnesse come fili di una ragnatela, del colore della sete e del Sole assassino. Gli ricordava parole accompagnate da colpi sulle ossa, urla indistinte che amalgamavano i giorni. Gli ricordava occhi da incubo.

 

Perché?

Perché una voce deve essere così, così...?


Bambolina, bambolina mia, bambolina mia, vieni, vieni! Vieni, bambolina mia, vieni, vieni!


Era dolce come il veleno della digitale purpurea.

 

Non riusciva a dormire.


Infinite dita lo sfioravano appena sulle braccia, aguzze, crudeli, lasciando segni rossi di sangue sulla pelle scura. Voltò la testa piano, come incantato, fissando le pupille vacue verso un punto indefinito del buio tra le piante. Si alzò ancora in trance nella confusione quieta e tintinnante delle due due fate e prese a camminare come se avesse una meta, tirato da quegli artigli che affondavano sempre di più nella sua carne.


La volpe aveva un pelo di stoffa viola e carne umana.

Sedeva con le zampe posteriori incrociate nella forma di gambe.

Aveva una gobba di pelle usurata, riempita da volti di legno fino a scoppiare.


Non ne vide gli occhi.


Il sangue sul ramo – sulla tempia che aveva colpito con una forza disperata che nessuno si sarebbe aspettato, spaventando persino gli alberi – era rosso scuro, senza riflessi. Odorava di vecchio.


Strappò la sua sacca come una belva incurante di tutto senza sentire più nulla come se i suoi sensi fossero stati completamente di strutti triturati ridotti in cenere e rovistò tra le delicate effigi di corteccia furiosamente impazzito matto ossessionato smanioso di ritrovare la voce le mani il viso gli occhi del suo incubo del suo culto del dio fasullo menzognero sfacciatamente disonesto che lo chiamava e che anni e anni e anni e anni e anni e anni e anni e anni e anni prima lo aveva designato non come profeta araldo ambasciatore avatar prescelto ma solo bambola giocattolo pedina marionetta burattino e sentiva quella voce quelle mani quelle iridi cangianti sempre più vicine più vicine più vicine finché non sentì il bruciore incomprensibile delle pupille come aghi incandescenti conficcati negli occhi pronti a strappargli la mente ed il dolore era incomprensibile incomprensibile incomprensibile fino a che il legno non gli aderì perfettamente al viso e urlò urlò urlò U R L O' e poi smise.


Bambolina, bambolina mia, bambolina, che corpicino piccolo, che corpicino piccolo! È troppo piccolo per me, bambolina mia, bambolina, è troppo piccolo per me, e così non va, bambolina mia, così non va!


Cos'era successo...?

Dopo, cos'era successo...?

Come sotto una coperta senz'aria, era rimasto inerte nello spirito. Mosso secondo i gusti del viso impresso sul suo, perse ogni pensiero.


Ogni desiderio della maschera fu fatto suo stesso; e come un bravo bambino, come un bravo nipote del sangue maledetto che per primo aveva risposto al richiamo mellifluo, affamato, egoista che cantava oltre la radiosa Luna costruendo in suo onore un tempio e per il suo potere un vessillo, Oitesch, che non aveva più nemmeno sé stesso al mondo, accettò il destino deciso per lui dal Tempo secoli prima, e come bambola di Chi Consuma Ogni Cosa dilagò una lenta, ingiusta, ingorda morte.


 

-



Potevano immaginare, quei begli occhi blu, che lo avrebbero rivisto così?


Che tornando bambini avrebbero rivisto ancora quell'orrendo corpo emaciato che avevano dovuto abbandonare al suo delirio in un futuro da evitare, bruciante ancora nella loro memoria di sangue (che sarebbe dovuto essere il loro) sgorgante a fiotti e lacrime disperate non perché sull'orlo della morte, ma perché due paia di mani stavano cercando di trascinarlo via da essa?


Che avrebbero rivisto l'ultimo caposaldo della loro quieta infanzia, l'ultimo rimasto loro al mondo, trasformato in una creatura allungata con la forza, mani artigliate strette attorno a due luci tintinnanti di terrore, striata di graffi aperti e lunghi lividi come serpenti avvinghiati a guance scavate e arti rattrappiti fatti crescere troppo in fretta per capriccio, con una bocca aperta in una risata a s s o r d a n t e ma non abbastanza da coprire i lamenti agonizzanti nella sua voce ancora di bambino?


Che avrebbero rivisto quel viso che lo aveva tanto amato, incorniciato ancora da un'aureola di rame tinta di rosso vermiglio, con quelle iridi d'ambra in cui balenavano maligni anelli di un verde tossico e soffocante, scuotersi in un'estasi dolorosa mentre rubava loro quel colore che nel futuro era stato il suo idolo, rimpiazzandolo con le iridi acquose dei cespugli deku?


Che lo avrebbero rivisto ancora, nel corso di tre interminabili giorni, spiritato e fuori di sé sulla cima della torre dell'orologio, sotto una Luna che avrebbe inghiottito il mondo in una palla di fuoco?


Che lo avrebbero rivisto ancora, tremante e contorto, come non avrebbero voluto rivederlo mai più?


Un brivido gli solcò la spina dorsale.

La testa gli si piegò.


Il cielo era...

Il cielo era...

La maschera gli disse che era rosso; e per lui rosso fu.


Qualcosa...

Qualcosa... Davanti a sé...

La maschera di disse che era nulla; e per lui nulla fu.


Il nulla lo guardò con occhi blu, blu, blu.


Se ti sembra qualcosa che tu possa fermare... Allora fermala!


La maschera gli alzò le braccia; sentì la pelle strapparsi in brandelli e gridò.

Più forte del suo grido, il nulla cantò con un suono blu, blu, blu.


Aprì gli occhi d'ambra contro il grigio scarlatto della Luna che si avvicinava sempre di più, un respiro strozzato bloccato in gola da un ricordo improvviso (un braccio dalla forma appena abbozzata che si alza dalla terra senza spaccarla, lo sfiora mentre corre verso la sua salvezza silvestre, e urla con la maledizione ancora attorno alla caviglia mentre una testa grande quando il mondo si erge sopra di lui per rinchiudere nuovamente il violaceo artificio nella sua prigione) e per un momento, un momento, uscì dalla maschera in un corpo martoriato sospeso sopra un mondo sull'orlo della fine.


Urlò.

Urlò con tutto il fiato ancora aggrappato alle sue magre ossa.


Non vide le mani che bloccarono la rovinosa caduta del satellite, né la caduta di Tael, né come Tatl si fosse schermita dietro verdi vesti, né l'orrore sul pallido viso sotto di lui.

La voce gli morì con uno strattone secco, e non sentì più il suo corpo – solo uno sciame di formiche carnivore che andavano erodendo le sue carni. La voce rimbombò nell'interno del suo cranio illuminato da iridi cangianti come una sentenza mortifera.


Un burattino che non ha più alcun uso non è che spazzatura.


Cadde.

Un colpo sordo risuonò tra la sua schiena e le sue costole svuotate come una bomba, togliendogli anche quella poca aria che aveva testardamente cercato di rimanere aggrovigliata alle viscere ormai vuote. Qualcosa di soffice, graffiato, pallido lo sollevò dal nulla e lo guardò con occhi terrorizzati – blu, blu, blu, occhi blu, blu, blu.


Il colore si espanse piano, piano, piano.


Dev'essere così che ci si sente, a morire.


E Oitesch, che al mondo (e come il mondo) non aveva che pochi minuti ancora prima della fine, voltò gli occhi d'ambra verso il buio nero dentro il suo teschio e si lasciò morire.


 

-



La morte era un prato assolato con un albero al centro.


Quando aveva smesso di respirare, aveva pensato che sarebbe stata viola.
 

L'erba lappava piano le sue gambe, le mani abbandonate sul suo grembo; dura corteccia sosteneva la sua schiena. Aliti di vento si accoccolavano attorno al suo collo, scivolavano lungo il collare troppo largo della sua lurida tunica. Riusciva a sentire i passi felpati di bambini che correvano sull'erba.

Le sue viscere si erano trasformate in blocchi di legno, e l'aria non riusciva a penetrare nemmeno il suo naso. Non poteva chiudere né muovere gli occhi.

Il legno sul suo viso era liscio. Sentiva le sue spine conficcarglisi nella pelle.


Una bambola rotta.


Aveva davvero immaginato che la morte sarebbe stata viola.


Qualcosa di verde si avvicinava sempre di più contro l'azzurro smunto del cielo. Puntava dritto verso di lui.


Non riuscì a sentire il tintinnio di Tatl, né il suo tepore disperato mentre cercava di scuoterlo collidendo con la sua testa. Piano, con dita rosa e pallide, le verdi vesti cercarono di liberarlo dal cuore crudele conficcato sul suo viso; le spine spinsero più a fondo nelle insensibili carni di cannella, svuotate di ogni dolore come le putride pelli dei morti, e i polpastrelli pallidi non ebbero successo. Occhi blu, blu, blu fissarono i suoi (fissarono quelli crudeli della maschera) e non dissero nulla.

Gli si sedettero davanti, in silenzio, per un tempo interminabile.

Le sue pupille erano nere.

Completamente nere.

E in fondo al nero, se si sforzava di guardare, erano blu, blu, blu.


Si rialzò con uno scatto. Senza una parola fermò la corsa di una delle marionette d'aria che correvano attorno a loro; la voce viola scaturì dal volto inesistente come da un fantoccio da ventriloquo, le mani protese, ingorde.

Quali volti furono sacrificati alle sue fauci? Quante volte ripeterono quello scambio impari?

Non c'era alcun rumore.

Solo vento tra le foglie.


La morte era troppo calma per essere vera.


Gli occhi blu, blu, blu tornarono senza più nulla nelle pallide mani rosa, né sulle logore vesti verdi, né sotto gli sporchi capelli gialli.


Qualcosa (sentiva sé stesso lontano, lontano, in quel nulla di legno del suo cranio) qualcosa, qualcosa non quadrava, non quadrava... Perché non avevano niente? Non era giusto, non era giusto... Non era giusto... Qualcosa, qualcosa... Doveva trovare qualcosa... Un tesoro, un tesoro solo per lui... Un tesoro...


(Non si accorse di averla presa mentre il viola parlava attraverso di lui, con la sua voce viola, come attraverso un pupazzo di pezza. Non la sentì contro la pelle – solo un peso vago sui palmi, ovale, portato via da mani rimaste strette attorno alle sue nocche un poco, come una promessa, prima di accettarla.)

(Era stato, in fondo, niente più che un piccolo ladro.)
 


Il legno gli fu strappato lentamente dal viso, l'aria gli entrò nei polmoni tutta insieme; nel tempo che impiegò a prendere un respiro era già tutto finito.

 

Una mano bianca, bianca, bianca affondò nella sua spalla mentre la Luna si sgretolava sotto i suoi piedi, occhi bianchi, bianchi, bianchi puntati contro i suoi d'ambra e una bocca bianca, bianca, bianca digrignata fino alla pazzia come se cercasse di aprirsi e farlo a pezzi, a bocconi, di spezzarlo a morsi -

si aggrappò alla sua schiena bianca bianca bianca e conficcò le unghie nella sua pelle di memorie senza fine e tirò tirò tirò tirò tirò tirò tirò più forte che poté tirò tirò tirò tirò tirò tirò tirò fino a che il bianco accecante non perse ogni forza e lasciò solo rosa e giallo e verde e per un momento solo un momento brevissimo prima che crollasse su di lui e cadessero nel vuoto lasciò blu blu blu che afferrò stretto quanto più stretto poté e poi qualcosa di rosso di arancio di colossale li raccolse, li cullò nel suo palmo infinito, li adagiò a terra.


Le orecchie gli urlavano.

Non sentì nulla quando il bambino stretto nelle sue braccia si risvegliò.

Quando la volpe vestita di porpora e viola sorrise loro prima di svanire.

Quando i Giganti intonarono la loro ode prima di andarsene a passi tonanti.

Quando Tael e Tatl accorsero al loro fianco tintinnando lacrime.

L'inferno nei suoi timpani si attutì fino a sparire solo quando si voltò verso il bambino al suo fianco.


Aveva occhi blu.

Di un blu bellissimo.


Lo guardò con la faccia rosa e la bocca mezza aperta, ansimante come se facesse fatica anche solo a respirare. Sporse la testa verso di lui, tentò di parlare: la voce gli morì in bocca, raspando contro la sua gola.

Sputò un suono, una specie di lamento tossito. Tentò ancora.


Poi scoppiò in lacrime.


Lo fissò ululare senza ritegno, libero, libero, libero, lo fissò ricoprirsi di lacrime fino a non riuscire a respirare. Afferrò le sue guance madide tra le sue dita scheletriche, e portò la sua palpebra rosa contro le sue labbra di cannella.

Lo tenne stretto, il più stretto possibile; e Oitesch, che al mondo aveva (per la prima volta in secoli) una mente sua, lo lasciò singhiozzare contro la sua spalla sudicia, baciandolo piano, piano, piano, senza versare una lacrima.


 

-



Non lo avrebbe mai dovuto lasciare.


Avevano passato un'eternità nei boschi. Cercando. Cercando e cercando e cercando. Cercando senza fine. Probabilmente lo sapeva, che non la avrebbe mai ritrovata; ma l'avevano cercata tutti e quattro comunque. Una mattina durata decenni (con un cielo azzurro, azzurro come null'altro, azzurro come era stata Navi) erano rimasti immobili sotto una coltre di muschio a mo' di coperta, in un tronco colossale collassato da millenni, a dormire. Solo dormire. Niente di più. Non erano riusciti a muoversi, completamente paralizzati, sotto a quel bellissimo cielo completamente azzurro.

Avevano passato un'eternità nei boschi. Lentamente, si era abituato ad avere una mente vuota di ogni entità esterna. Al lento degrado dei suoi incubi senza contorno. Alla nascita di incubi più definiti. Al fatto che quei begli occhi blu, blu, blu non erano più la sua religione – un idolo falso a cui si era aggrappato disperatamente nell'assenza di un dio bugiardo davanti a cui prostrarsi.

Solo occhi blu.


Bellissimi, bellissimi occhi blu.


Ma la valle era laggiù, laggiù, laggiù, con le sue rocce ruvide e crudeli e senza vita, e dannati, dannati, dannati ricordi erano stati riesumati dalla sua vista così lontano nella pianura di Termina, così spoglia e rocciosa e morta, e l'aveva riconosciuta in un lampo senza comprendere appieno cosa stesse pensando, vedendo, sentendo; e la terra ondeggiante baciata da Dee che non conosceva a cui lui si sentiva legato erano laggiù, laggiù, laggiù, oltre il labirinto di corteccia e foglie, e lo aspettava, lo aspettava, lo aspettava.


Aveva gli occhi blu gonfi di lacrime, quando si divisero. Aveva insistito perché nessuna delle due fate venisse con lui nonostante si fossero offerte. Si strinsero forte, forte, il più forte possibile tra braccia gracili; gli lasciò un bacio lungo, silenzioso, sulla guancia pallida. Era un piccolo conforto, un ennesimo tesoro. Entrambi sperarono non sarebbe stato l'ultimo.


Si guardarono sparire dall'altra parte del tronco che avevano intagliato.

Non si erano mai parlati.


La terra arida sotto i piedi era familiare, e odiava che lo fosse.

Il cimitero pieno di corvi era familiare, e odiava che lo fosse.

Il freddo fiume tortuoso era familiare, e odiava che lo fosse.


Aveva le mani graffiate a furia di scalare le aspre rocce del canyon quando arrivò al villaggio deserto.

Era familiare.

E odiava.

Odiava.


Cadde a terra, si raggomitolò su sé stesso, e scoppiò in lacrime.


Odiava.


Aveva avuto contorni sfocati dall'afa nei suoi ricordi confusi ed era stata piena di urla e colpi e corpi senza volti con pugni e calci e voci senza amore, ma aveva dimenticato quel buco tra la roccia dedito alla Luna, quell'angolo di astio in cui le uniche parole insegnategli erano state l'affermazione del suo totale abbandono da parte dell'universo intero, quel regno da cui era scappato dopo aver rilasciato un orrore che per poco non aveva avviluppato il mondo intero, lo aveva dimenticato, lo aveva dimenticato, aveva dimenticato tutto, tutto, tutto, e ora – oraora doveva sentire la pietra contro la pelle, la polvere sotto i piedi, doveva vederedoveva vedere – doveva vedere tutto di nuovo, doveva rivivere ogni secondo maledetto, doveva ricordare – ricordarericordare ogni singolo istante e sentire ogni cosa di nuovo e sapere di essere a casacasa! – casa, e pianse, pianse, pianse, e odiò che lo fosse con tutto il suo cuore.


Sarebbe morto.

Se Tael e Tatl non lo avessero stretto in un abbraccio, sentiva – sapeva – che sarebbe morto.

Pianse tutta la notte, fino allo sfinimento. Pianse nel sonno.


Odiava.

Odiava così tanto che sarebbe morto.


Ma il Sole nasce sempre dalle viscere della notte; nasce sempre dal sangue di roccia, e tocca per prima Ikana.


Un regno vuoto. Privo anche dell'ultima maledizione.


E ora?

Si guardò intorno, svegliatosi, con la gola secca e le lacrime incrostate sulle guance con la polvere.

Ora che tutto questo non era nulla.

Ora che tutto quello che rimaneva di un intero regno era solo lui.


Non era stato che un piccolo ladro.


Cominciò dalle tombe. Gli ricordavano i lunghi tunnel dei boschi. Le case, sepolcri di abitudini, erano quasi vuote: prese quello che, come lui, era rimasto. Vestiti. Libri, racconti. Memorie di feste e tradizioni, di danze, di usi, costumi. Di arti. Di una vita che non aveva mai vissuto. Gli appartenevano di diritto. Erano la sua eredità, come lui era l'unica eredità di Ikana. E i morti non avevano più bisogno di nulla, ormai, riappacificati com'erano.

(Alcuni erano rimasti, scoprì, ed erano possessivi; ma lo sforzo per rimanere era ormai estenuante, e anche se ci vollero anni, li vide sparire uno a uno.)


Trovò il Re nel suo palazzo. Guardò a lungo le sue ossa abbandonate sul trono, il nulla polveroso nelle cavità degli occhi. In tutti i viaggi che fece alla reggia – svuotandola piano, man mano che il suo corpo cresceva e diventava forte abbastanza da maneggiare le spade da boia, capaci di staccare una testa dal collo con un colpo netto – fissava sempre a lungo il teschio vuoto.

Lo spogliò completamente, prima di andarsene per sempre da lì: il sigillo ancora rosso di sangue, le vesti, i gioielli, la corona. Il cognome.

 

Era ormai solo quando scalò la Torre.


Nel cimitero, più in alto di ogni figlio della dinastia reale, aveva sepolto le ultime luci della sua vita. L'ultimo ricordo dei boschi.

Sapeva non ci sarebbe mai potuto tornare.


La scalò piano.

Si torturò le mani, le piante dei piedi.

Lasciò segni profondi nella pietra con le lame Garo che mai l'avevano scalfita.

La dissacrò con perfidia controllata.

Non vi era nulla di sacro, in ogni caso, in un monumento a un mostro.


Ci pensò ancora, ormai lontano, sul passo più alto del monte che ormai finiva di attraversare, sui cui ciottoli si era sbucciato la pelle, ad una bestia del quale aveva dovuto sacrificare un seno e un bel po' di sangue per la cicatrice che gli aveva regalato.


Al momento in cui la sua testa aveva sfiorato il cielo.

A quando si era trascinato sul tetto di quel maledetto tempio dedicato alla morte delirante, e si era ritrovato lassù, sopra ogni cosa.

A quando aveva guardato quella distesa di terra senza un rivolo d'acqua che aveva combattuto senza mai fermarsi con poco più di una ragione per mandare le sue truppe a morire.


Aveva urlato.

Più forte che poteva.


Sentiva di stare annegando.


Non ci sarebbe tornato.

Mai più.



Entrò in terra sconosciuta ballando su piedi doloranti in sandali mezzi rotti dal viaggio, cantando nella lingua morta del regno che aveva sepolto dietro di sé. In cambio di una ballata, un ciabattino gli evitò di distruggersi le gambe.

(Scoprì di conoscere già la lingua.)

(Una fortunata coincidenza.)


Visse sparpagliando artefatti di un popolo bellicoso ai migliori offerenti, tenendo per sé ciò che più gli piaceva; visse di elemosine per spettacoli improvvisati e dimostrazioni di arti le cui origini non sarebbero potute venir riesumate neanche con un intervento divino.

(Maschere e burattini erano le sue creazioni preferite.)

(Ironia della sorte, forse.)

(Un testardo e vittorioso tentativo di uccidere le ultime infide trame che lo portavano a ricordare la perdita di tutta una vita sotto occhi cangianti e una melliflua, bastarda, maledetta bestia di viola, forse.)


Visse abbastanza a lungo da vedere un castello.

Da camminare nel borgo di un castello.

Da fermarsi in un vicolo, convinto di aver preso un abbaglio, di aver visto un miraggio che camminava, che lo stava oltrepassando.


Sei tu.


Si voltò. Fissò, stupefatto, il viso segnato.

Fissò, al centro di un'aureola di rame, due occhi d'ambra – uno offuscato da una nuvola bianca su una pupilla – schiacciarsi sotto un sorriso scuro a cui era sempre mancato un dente.


Sei tu!


Occhi blu rimasero immobili; poi il ragazzo si lanciò contro il suo petto magro e lo strinse come se avesse dovuto ammazzarlo, la testa bionda schiacciata contro il suo sterno, e Oitesch du Ikana, che al mondo non aveva che un vecchio flauto, una vecchia maschera e un vecchio amico, rise come non aveva mai riso prima, pescò il viso rosa da dove aveva cercato di nascondersi, e baciò con la foga di chi è veramente, completamente felice la guancia su cui aveva firmato il loro addio anni prima.





(Se posso - consiglio di rileggere l'ultima parte ascoltando "no children" dei mountain goats)
(inoltre permettemi ma porca Farore ci ho messo una vita a editare sto capitolo)
   
 
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