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Autore: sacrogral    22/07/2021    20 recensioni
… in cui la storia termina con un lieto fine, come prevedibile conoscendo l’autore.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Soldati della guardia metropolitana di Parigi
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso – parte 1

 

… in cui la storia termina con un lieto fine, come prevedibile conoscendo l’autore.

 

E poi, quando tutti se ne andarono in silenzio vergognandosi, e forse riflettendo su tante cose, e su quanto fosse labile il confine che separa il bene dal male, e su quanto le vie dell’inferno siano lastricate di buone intenzioni, non fu facile neppure il confronto diretto fra il colonello Oscar de Jarjayes e il marchese de Sade.

Insisteva, la prima, per buttare tutti nelle patrie galere, in nome della giustizia e della piccola, dimenticabilissima Thèrése – ma de Sade, che una morale tutta sua aveva, stimava più la ragazza da morta che molti nobili da vivi; e la stupì il nobile che invece pretese, e molto serio:

“Colonnello Oscar de Jarjayes, se qualcosa di buono per voi ho fatto, ascoltatemi: le mie fonti mi dicono che avete lasciato andare il Cavaliere nero, il ladro gentiluomo di cui parlavamo durante la vostra precedente visita”.

Lei si irrigidì. Non confermò. Avrebbe pagato per sapere chi fossero le fonti così attendibili di quell’uomo. Guardò André, che accennò un diniego. André con entrambi gli occhi vivaci e intatti, come se il fendente di Bernard fosse stato solo un brutto sogno.

“Qualsiasi cosa abbia deciso di fare allora, non ha niente a che fare con questo” ribatté, prudente, il comandante della Guardia parigina.

“Madamigella, son tutti padri di famiglia, questi bifolchi. Volete che finiscano sotto le mani immonde del vostro boia? Davvero volete ridurre alla fame donne e bambini?”

Il volto di Oscar era sempre duro. Pensava a tutti gli innocenti del mondo, a tutti gli innocenti uccisi.

“Faranno quello che hanno sempre fatto e porteranno nel loro cuore il peso delle loro azioni. E non tutti sono fatti per portare certi pesi, mademoiselle, credete a me. Da parte mia, farò in modo che non si ripetano episodi simili, ma non garantisco che qualcuno non arrivi a togliersi la vita, o per allontanare da se stesso la colpa la getti su qualcun altro. Farà la natura e farà il fato, non certo il demonio o divinità ancestrali inesistenti. E neppure noi faremo niente. Solo gli occhi del vostro amico ci dicono che chi doveva perdonare ha perdonato. Io stesso ho giocato abbastanza a essere Dio, e mi sono già abbastanza divertito. Pur” sorrise di sbieco, nell’alba che sorgeva “con qualche dubbio e certezza da uomo da rivedere”.

“Amico mio” disse André Grandier, inaspettato “abbiamo vissuto qualcosa che va oltre la comprensione, è tempo di tornare alla realtà. Faremo tutti conto di aver sognato. Ma voi, signore, voi che siete un uomo libero e avete scelto liberamente la parte giusta, voi siete degno della nostra stima e della vostra libertà”.

“E senza il vostro intervento tempestivo ogni mia scelta sarebbe stata inutile e vana” concluse l’altro, meditabondo “Colonnello de Jarjayes, quanto noi possiamo affermare o anche deliberare è niente se non abbiamo il vostro placet. Fin dall’inizio altro non avevate a cuore che il bene dei parigini, e poi non avete esitato a lasciare da parte ogni preoccupazione per voi stessa, come se la vita di chiunque valesse quanto la vostra. Vi ho vista rifulgere di una grandezza che non avevate neppure in quel giorno adesso così lontano, quando scortaste una Marie Antoinette illusa e giovinetta fra le vipere francesi. Quando ancora lei avrebbe potuto cambiare tutto se meglio indirizzata e se di cuore più saldo. Ma voi ci avete mostrato, e non per la prima volta, cos’è un cuore puro e saldo. Accontentate un vecchio libertino e un figlio del popolo, che ha mostrato di tenere alla vostra persona ben oltre il rispetto per la vostra divisa”.

“Divisa che adesso, grazie a voi, non indosso” ribatté Oscar, in maniche di camicia appunto “Pertanto, come diceva André, faremo finta di aver sognato. Volevamo spezzare la maledizione del vostro vino, alla fine è stata spezzata. Propongo di rientrare, e a voi di togliervi quell’aria di compunzione che non vi impreziosisce affatto”. E il sorriso di Oscar de Jarjayes fu la palata di terra sulla vicenda del Maudit, che aveva funestato Parigi in quei giorni d’autunno, che nessuno avrebbe mai raccontato e la cui memoria sarebbe rimasta sepolta in un vigneto che, nella luce dell’aurora imperante, già sembrava aver dimenticato.

 

E poi il marchese li congedò anche troppo in fretta, dicendo che si era impegnato a impartire lezioni di metafisica araba ad una promettente fanciulla dai capelli rossi e lui, che sarebbe arrivato in ritardo pure al suo funerale, non voleva farla aspettare. In realtà Donathien Alphonse François de Sade avrebbe appreso più che insegnato, e concetti che non avrebbe dimenticato, e non li avrebbe imparati con i vestiti addosso. Resta il mistero di come un uomo che non riesce a reggere una corsa campestre notturna riesca invece a farsi onore in battaglie che richiedono più energia e anche più sangue freddo, se resta comunque il dubbio di poter essere divorato sul finir della tenzone. Ma questi dettagli impensierivano poco il libertino.

 

E poi altro non rimase che mettersi in viaggio, per Oscar de Jarjayes e André Grandier, nemmeno troppo stanchi, quasi resi più giovani da quelle ore durate secoli, passate fra il Paradiso terrestre e  l’inferno in terra, lasciando i cavalli al trotto affiancati per potersi raccontare ciascuno la sua storia, quella parte di storia che li aveva visti separati. André allontanava i capelli dall’occhio miracolato, e rideva chiedendosi come avrebbero spiegato questo a Alain, ai ragazzi della compagnia B; Oscar scuoteva dalle spalle i suoi sensi di colpa, quel debito che non avrebbe mai potuto ripagare e sentiva una leggerezza che aveva dimenticato e perduto per le strade di Parigi, o forse molto prima, nei corridoi di Versailles immobile e magnifica, splendida gabbia d’oro, altèra e folle di champagne. E ancora, alle spalle l’orrore di una falce nel buio e quello ancora più spaventoso dell’umano fanatismo, si chiedeva se quell’onda di felicità spensierata che la trasportava a dispetto di ogni cosa, delle scelte discutibili sul destino di quei pazzi furiosi ma anche della povertà che stringeva i francesi in una morsa sempre più stretta ogni giorno che passava; si chiedeva se quell’onda di felicità spensierata avesse ‘amore’ per nome – e si domandava se non avesse sbagliato a credere che l’amore fosse tormento e lacrime, se invece non fosse una nota musicale che rende perfetta la sinfonia della vita, armonia e leggerezza. Dimenticava il suo titolo e il suo grado, tornava bambina. Forse il metro dell’amore non era la lontananza ma la vicinanza. O forse erano tutte sciocchezze, quelle – pensava, guardando il profilo di André Grandier – erano tutte sciocchezze e lei dell’amore non ne sapeva niente, sapeva solo di non essere uno sbaglio di natura, pur rispettando suo padre senza riserve; sapeva che quel soldato che sarebbe stato più a suo agio impugnando la penna anziché la spada si sarebbe strappato il cuore dal petto per lei, come il marchese de Sade aveva minacciato di fare con un normanno terrorizzato; sapeva che le parole hanno sempre ucciso, da quando c’è una folla attorno ad un uomo armato e lo incita; e infine sapeva che il desiderio sotterraneo e costante di quei baci che tanto aveva desiderato tornassero mentre si diceva che era impossibile faceva parte di quell’amore che era il suo modo di amare, e che essere libera significava consegnarsi a qualcuno che non avesse paura di nient’altro che di un rifiuto.

“A che pensi, Oscar?” le chiese quindi André, spensierato.

“A niente” rispose lei, pronta.

 

E lui, che aveva creduto di sentirne i pensieri e di saper leggere nel suo sguardo quello che aveva desiderato da quando ricordava di aver imparato a desiderare, che la osservava di nuovo nitida e pura nelle linee del volto e dell’anima, e la vedeva coperta di rose lanciargli rose a riempirgli la bocca e il viso, e se fosse accaduto di nuovo, di dover dare un occhio per lei, non avrebbe battuto ciglio, perché quello che sentiva importante ma importante davvero portava il suo nome, un nome da uomo in una donna di Sole; lui, che a un soffio dalla morte si era sentito potente e invincibile quando aveva creduto di leggere nel suo sguardo carico d’amore in maniera spaventosa il suo passato, e il suo presente e anche il suo futuro, disse, allegro: “Anch’io”.

 

Fu di lì a poco che videro qualcosa che li riempì di stupore.

“Oscar, è quello che penso?”

“ La Taverne des âmes perdues (1). Non può essere” trasalì lei.

Ma, a ben pensarci, chi ci faceva caso ormai a ciò che può essere e a ciò che non può essere?

La signora nera e le due sorelle pallide si stavano sbracciando la lontano, salutandoli come persone care. Udivano distintamente la risata della prima, così come l’avevano sentita, poche ore prima, spezzare il silenzio della vigna del Maudit.

“Non ci metto piede neanche morto!” disse lui perentorio, ma ridendo.

“Mi sa che ci aspettano” lo contraddisse lei “e credo che la Dama non ci sia. In fondo sappiamo che rispetta e teme il Vero amore” si lasciò sfuggire lei. Si silenziò all’istante e fermò il cavallo.

André Grandier fece altrettanto e sentì un groppo alla gola. Avrebbe dato oro per avere un decimo della fluidità di parola di quel marchese mezzo depravato e mezzo filosofo che adesso si divertiva con la metafisica araba, perché ora si chiama così.

Pronunciò il nome di lei e sentì il sudore alla base del collo, sulla nuca; pensò di star facendo una sciocchezza e che adesso avrebbe rovinato tutto un’altra volta, pensò che non era il momento e non era il tempo, che per gli amori come il suo non c’è mai né un momento né un tempo, mentre il suo demone si risvegliava ringhiando: “Muoviti, pezzo d’asino, ma deve far tutto lei? Ti ci vuole un editto del Re per buttare fuori due parole?”

“Se i tuoi sentimenti per me” avvampò sentendo freddo e caldo “Se i tuoi sentimenti per me sono gli stessi di un anno fa, di due anni fa, io ti giuro che non dirò un’altra parola. I miei non sono cambiati. A dispetto di tutto, io ti amo, Oscar Françoise” e chiuse gli occhi, pensando che era la dichiarazione d’amore più fallimentare che mai uomo avesse raffazzonato, mentre il suo demone si portava una mano al viso nell’universale gesto dello sconforto.

Lei lo chiamò e lui aprì gli occhi con una frazione di secondo di ritardo.

“Io ti amo, André Grandier. A dispetto di tutto. E vorrei poterti chiamare “amore” per la prima volta”.

Il viso di lei era talmente sereno, gli occhi di lei talmente brillanti che a lui sembrò fosse già accaduto, una volta, mille volte, e si chiese di cosa avesse avuto paura, lui che lo sapeva che era così, che non avrebbe potuto essere diversamente.

“Scendi da cavallo, Oscar” gridò, felice, prendendola mentre smontava e facendola girare ridente fra le sue braccia.

La risata che giungeva dalla Taverne des âmes perdues sembrava musica di paradiso.

E quando la depositò a terra, lei leggera come una farfalla, gli sembrò più donna che mai.

“Sarà una follia, lo sai vero?” le domandò in un sussurro.

E senza traccia di paura o incertezza la voce di lei riecheggiò: “Allora il nostro sarà un folle volo”.

E mentre i cavalli se ne andavano qua e là disinteressati, e il cielo d’autunno aveva il dolce colore di uno zaffiro orientale, pensò che quello era il momento perfetto per baciarla, e lo fece.

 

(1)    Cfr. la mia Lei arriva coi fulmini nel cielo sereno.

 

 

FINE

 

 

infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso – parte 2

 

O meglio, questo sarebbe il momento perfetto per un autore degno di questo nome di mettere la parola “fine”, congratularsi con se stesso perché contrariamente a tante altre volte ha portato in fondo un racconto lungo, e respirare con quella soddisfazione con cui si respira quando appunto si mette la parola “fine”.

Ma dato che ragiono storto e comunque delle storie ho sempre in mente l’incipit e l’explicit e poi quello che c’è nel mezzo mi sfugge dalle mani, mi trovo qui adesso, incastrato in una rue Saint Lazare che è un po’ diversa dai miei ricordi, a pagare un debito e a realizzare un sogno. Eccola qui, la Disperazione, senza insegna ma tanto il nome lo sanno tutti. È sbarrata e c’è un ragazzino con qualche problema sulla porta. Mi aggiusto il nodo alla cravatta e faccio per entrare.

“Parola d’ordine” mi dice il bimbo, serio.

“Foret, guarda che sono io”.

“Parola d’ordine” ripete, stolido.

“E va bene. Maudit”.

“Ciao Gral, benvenuto!” sorride, con un sorriso che scioglie il cuore “Vieni, mancavi solo tu” e poi, tutto misterioso “Io questo l’ho già sognato”, prima di fuggire dentro veloce come un topolino.

Eppure mi fermo un attimo sulla soglia di questa bettola infame, e mi par ieri che Gobemouche la spalancava entrando e portandosi dietro la sua faccia storta da poeta, che sembra fatta con pezzi di altre facce, e tutto doveva ancora iniziare. È luminosa, stasera, questa Disperazione, quindi Joss le petit, quello che sembra mio zio Gigi quando era nei suoi cenci, non ha badato a spese. O forse è l’affresco. No, non quello della Morte ridente che si trascina dietro giovani e vecchi, poveri e ricchi, preti e peccatori. Quello resta cupo ed esaltante, la mano di Caravaggio senza dubbio, o di qualcuno ancora più bravo. Forse è l’altro a illuminare, quello con Oscar de Jarjayes fra le rose, quello dove i colori ci sono senza esserci. Avrei dovuto osare, fargliela dipingere nuda in mezzo alle spine, il profilo perfetto. Ma va bene lo stesso.

E poi mi salta subito all’occhio il divin marchese, è venuto dunque, vecchio bastardo. Più in forma che mai, circondato da soldati della compagnia B. Ma guardali lì, Camille Bertinou detto Romanov e Voltaire – comandante, qual era il suo nome di battesimo? – usciti dalla penna superba di Capo Rouge e ospiti dei miei sogni di scrittura; guardali lì, a circondare di risate e giovinezza quell’uomo che è impossibile tratteggiare (divagazione: ma che personaggi, comandante Rouge, che storie le vostre, che Parigi); e Alain de Soisson tutto ridente al loro fianco, e un Lasalle sempre troppo riservato, tutti ad ascoltare le perle di quel dottor Lecter ante litteram e lui tutto felice: accettato, amico mio, uomo fra gli uomini, era quello che volevi, dico bene? Almeno una volta. Gobemuoche si intromette di colpo: “Sentite questa, altro che Bestia di Parigi” e dopo un minuto giù risate, e bolgia pazzesca.

“Un po’ di contegno, degenerati senzadio!” urla fra Etienne, ridendo, buttando giù una grappa come se fosse acqua fresca, e covandosi con gli occhi Foret, il ragazzino del miracolo. “Mondo boia!” esclama, soddisfatto, e poi: “Scusate, monsieur Sanson, è solo un modo di dire”.

Vedo il dottor Lassone seduto su una botte, sorride e par rilassato, e sorride monsieur Sanson, il boia di Parigi – stasera niente Morte e niente sangue sulle tue mani, amico mio, e nessun peso sul cuore.

E la piccola Rose è dietro il bancone con Joss, gli dà una mano a riempire i bicchieri, quelli coi nomi dei giustiziati sopra:  si è ripresa benissimo, è un fiore, e forse son pazzo, ma mi sembra che cerchi di sfiorare Joss – che si ritrae – e che lo guardi in un certo modo; non ci credo, questo è troppo pure per me, e poi non voglio mica farmi spaccare la mascella da Gobemouche, che sembra aver indossato la sua faccia migliore, stasera.

“È arrivato!” grida il pulcino, e quasi mi dispiace, perché questa scena meritava. E mi godo l’applauso di un’entrata trionfale, neanche fossi una rock star, neanche avessi scritto Guerra e pace. Ma che ci posso fare, ho dato loro una storia, ho dato loro il lieto fine, meglio di un cazzotto in un occhio sarà.

Pure Louise la zoppa viene ad abbracciarmi, pure un nano deforme che quasi mi ero scordato di aver piazzato alla Disperazione, una sera in cui il conte Girodelle diede qui spettacolo, e pianse.

Mi ci vogliono dieci secondi netti per entrare in questa atmosfera.

Ma prima stringo la mano a monsieur de Paris, perché no? “Siete una brava persona, signore” mi viene da dirgli, mentre Sanson ha quasi timore, ha quasi dimenticato come si stringe una mano.

E il marchese de Sade, inaspettato: “Penso la stessa cosa”. Guardare questi due uomini fatti, a contatto costante col dolore e con l’ingiustizia, mentre si fissano e si stringono la mano, davvero non ha prezzo.

Quanta confusione che c’è nel mondo, e quanti piani distorti, quante letture sbagliate e quante perline colorate scambiate per gemme, mi concedo, con un filo di retorica.

 

Non ho fretta di raggiungere loro, Oscar de Jarjayes e André Grandier, che non hanno fretta a loro volta.

“Poeta degli stracci e delle cause perse” dice il dottor Lassone, a voce un po’ troppo alta “Non ce l’hai una poesia per l’occasione?”

Gobemouche si fa serio, improvviso come i temporali d’estate.

“No, segaossa, non ce l’ho. I versi zoppicano. Ma qualcosa ho”.

E nel silenzio generale, e con mio stupore, e con una voce che sembra quello che faceva coppia con Mina, e che mia madre c’aveva preso una sbandata, ecco, sembra Alberto Lupo, inizia:

 

Prima di dirmi come devo vivere,
sotto un cielo morto di notti insonni,
negli anni lenti del castigo e della quiete,
nei sorrisi criminali quasi, nelle vocali
del suo nome,
il suo nome fra Dio ed arma,
nello sguardo di riconoscenza dovuto al nemico,
nei miei pensieri di amor sottile
e fermo, come quercia di mille anni,
prima di dirmi come devo vivere,
prova a camminare nelle mie scarpe.
 
Prima di dirmi chi devo amare
per censo, per rango o solo per opportunità,
per non desiderare la Luna o una stella a caso,
e ogni giorno un giorno d’amore da nascondere
e da preparare,
e ogni momento dimenticanza da conquistare
e da maledire,
per  vedere un altro inverno di petali
dal cielo bianchi riflessi in altri occhi,
ma prima di dirmi chi devo amare,
prova a camminare nelle mie scarpe.
 
Prima di dirmi come devo morire
sussurrando di sangue stanco
nel mio ultimo ricordo macchiato di rosso,
stupendoti tu di vedermi sorridere
e col pensiero del futuro già vissuto,
vivendolo senza saperlo,
come una pietra di fiume, come foglia, come neve,
polvere in piazza, nel cuore una donna sola
e sempre parlarle con parole oscure
eccetto ora,
prima di dirmi come devo morire,
prova a camminare nelle mie scarpe.
 
Prima di piangere per me e augurarmi
che la terra mi sia lieve, che copra i miei silenzi
come madre amorosa, come donna innamorata,
quando nel  silenzio son stato più vivo più vero
che nei gesti e nelle parole trattenute,
e senza far rumore una vita ingoiata senza masticare
non ha imbiancato i miei capelli, non ha mangiato le mie ossa,
prima di piangere per me
prova a camminare nelle mie scarpe.
 
Disperdi nel vento le ceneri di una vita
ben spesa, come io la volevo.
Puoi dire lo stesso?
Prima di provar pena, di sognarmi nelle lacrime
prova a camminare nelle mie scarpe.

 

“Poeta dei cenci, questa è peggio del tuo quadro a macchie!”  grida Joss, rosso in faccia, la piccola Rose che lo tiene sottobraccio incredibilmente.

“In verità, non c’è un alessandrino che torni” rincara la dose il marchese de Sade, purista. Lui.

“Non la capisco tanto neppure io” confessa Michel Gobemouche, un po’ smarrito.

“Lascia perdere” mi sento di consolarlo “La capisco io e la capiscono i Depeche mode. L’ho ritrovata in una cartella dal titolo ‘minchiate varie’, pensa te. E mi ricorda una sera d’estate”.

“Sarà” mi risponde, perplesso.

 

“La capisco anch’io, Gral” mi dice André Grandier, il viso franco e gli occhi verdi – gli occhi – a fissarmi, quieti, appagati. E vorrei vedere. Sta' a vedere che mi commuovo, adesso.

Ma la mia attenzione adesso è tutta per lei, Oscar de Jarjayes. Niente sarebbe stato possibile senza di lei. E io sarei ancora fermo a cercare personaggi forti, in grado di sciogliermi la penna. Altro che Volo.

Vorrei avere altro tempo e altre parole.

“Ti aspettavi questo, mesi fa, quando sei apparsa nel mio giardino e non te ne sei andata più?” le chiedo, con quella timidità un po’ rustica degli adolescenti.

E intanto penso che no, non si aspettava questo, si aspettava di certo qualcos’altro che ancora non sono riuscito a fare come avrei dovuto. Si aspettava che scandagliassi il suo animo con più profondità, che seguissi le impronte di madame Ikeda in maniera meno originale, o più originale; si aspettava un ritratto di lei più personale, o meno personale; si aspettava più descrizioni e meno divagazioni, o forse il contrario. Davanti allo sguardo ironico ma dolce di lei ho di nuovo dodici anni, non c’è niente da fare.

“Te lo dico più tardi” mi liquida “Ora è tempo di brindare”.

Eh già. Valla a capire, valla a imbrigliare.

 

“Non vieni, Gral?” mi chiede l’orbo non più orbo – grazie a me, sottolineo.

“Fra qualche minuto. Attendo qualche minuto. Perché non siamo ancora tutti”.

“No?” mi chiede, alzando un sopracciglio.

“No. Anzi, manca ancora il piatto forte” faccio una pausa a bella posta “Mancano i lettori e soprattutto le lettrici. Che cos’è una storia, se non la legge nessuno? E non sai la vertigine dei riscontri in tempo reale, delle parole per me, da chi mi conosce solo attraverso la penna. È un ottovolante di emozioni” concludo, e non sono sicuro che lo capisca, cos’è un ‘ottovolante’. Mi batte una mano sulla spalla, contento.

 

La gente che legge, la gente che ancora legge. Chissà se qualcuno avrà voglia di brindare ancora una volta al lieto fine, per dire che è davvero un lieto fine e far splendere tutto.

 

E così, mentre torno a riveder le stelle di una Parigi fatiscente e ideale, sottofondo di risa e battute più o meno brillanti, la scorta di Maudit non più maledetto nei calici, capisco perché il piccolo Foret ha detto di aver già sognato tutto questo, e capisco che dunque è così che finisce, con il buonumore, mentre in mezzo c’è stata la vita, a vincere sulla Morte compiacente; e c’è stato l’amore, nascosto in ogni piega, a guardare tutti senza dir parola. C’è stato il mio cavalcare le nuvole sulle braccia candide e sulle ali di persone che immagino abbian ritrovato un po’ di tempo perduto, nelle pause dal lavoro, nell’ora d’aria che la banalità e lo splendore del quotidiano concedono al sogno, al tempo in cui tutto ancora era possibile e il futuro si stendeva davanti a noi come una pagina bianca, vergine e pura, tutta da riempire.
Facciamo finta di non aver perso niente che non possiamo ritrovare.

E che questa storia abbia inizio.

  
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