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Autore: _Trixie_    25/07/2021    0 recensioni
[Dead to Me]
Tre momenti in cui Jen e Judy potrebbero o non potrebbero essersi baciata nel corso della serie.
[Questa storia partecipa alla "Challenge delle Parole Quasi Intraducibili" organizzata da Soly Dea sul forum di EFP.]
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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[Questa storia partecipa alla "Challenge delle Parole Quasi Intraducibili" organizzata da Soly Dea sul forum di EFP.]
 

 
FYLLEANGST
o
sulle colpe di un bicchiere di vino
 
 

Shakespeare scrisse, tra molti notevoli versi, che il vino muove la voglia, ma smuove l’efficienza.
E magari sarà capitato a molti, dopo un bicchiere di vino di troppo, di aver guardato la persona accanto a sé e, all’improvviso, averla vista sotto una luce diversa. Invitante. Incantevole.
E sì, Shakespeare ha ragione, il vino muove la voglia, ma certo non la crea.
Perciò, se vi è capitato di bere un bicchiere di troppo e aver provato un improvviso, irresistibile desiderio di baciare la persona con cui avete brindato poco prima, ci sono buone probabilità che la colpa non sia del vino. 
 

 
*
 
 
Judy si svegliò, ma non aprì gli occhi. Si sentiva priva di forze e profondamente confusa, come se la sua coscienza galleggiasse nel nulla, alla deriva, lontano da lei.
E, forse, era meglio così, dopo… dopo l’incidente.
Judy gemette.
Era una persona orribile, ecco cosa ora.
Aveva… Aveva ucciso un uomo e…
Jen.
Judy spalancò gli occhi, ma non si mosse. Sapeva perfettamente dove si trovava e non voleva rischiare di svegliare Jen, sdraiata nel letto accanto a lei. Era così difficile che la donna riuscisse a dormire per più di un paio d’ore consecutivamente perciò, anche se spesso l’alcol era indispensabile perché questo accadesse, Judy sentiva sempre un certo sollievo quando accadeva. Erano entrambe stese su un fianco, il viso di Jen tanto vicino a quello di Judy che avevano finito con il condividere lo stesso cuscino. Con un tuffo al cuore, si rese anche conto che si stavano tenendo per mano, sotto le coperte.
Chiuse di nuovo gli occhi, desiderando, disperatamente, di riuscire a tornare a dormire.
La realtà era troppo pesante da sopportare.
E non si trattava solo di quello… di quello… Non si trattava solo di quello che aveva fatto. Di quello che aveva fatto a Jen, prima ancora di sapere chi Jen fosse, e ai ragazzi.
Era soprattutto quello che provava per Jen. Quei sentimenti che Judy non avrebbe dovuto provare in primo luogo, a cui non avrebbe dovuto permettere di nascere. All’inizio, credeva si trattasse solo di senso di colpa. Era il motivo per cui si era avvicinava a loro, per cui aveva fatto amicizia con la donna, quel senso di colpa. Ma poi Judy si era affezionata e, con il senno di poi, avrebbe dovuto saperlo, che sarebbe successo. Perché non poteva fare a meno di affezionarsi alle persone, Judy. E ancora, la sua realtà si era complicata qualche tempo dopo, quando Judy aveva capito che per Jen… Che non si trattava più di semplice affetto. Era il desiderio di esserci sempre e comunque, per Jen, per assicurarsi che non le mancasse mai nulla, che riuscisse di nuovo a trovare un po’ di felicità nel mondo. Era l’incanto in cui Judy precipitava ogni volta che Jen entrava in una stanza e Judy non poteva fare altro che rimanere lì, ammirata. Era l’assoluta e incrollabile certezza che Jen fosse comparsa nella sua vita all’improvviso, sì, ma non per caso. Che, se Judy avesse avuto la possibilità di cambiare ogni singola scelta del proprio passato e vivere un’altra vita, in qualche modo, prima o poi, avrebbe comunque incontrato Jen.
Ma Judy non avrebbe mai potuto cambiare il passato.
Non avrebbe mai potuto cambiare ciò che era successo a Ted, per quanto disperatamente lo desiderasse, per quante suppliche avesse fatto a Dio, o chi per lui, perché prendesse la sua vita e restituisse a Jen tutto quello che le aveva portato via, ogni cosa.
E così l’amore che Judy provava era un dolore costante, era la punta di un pugnale che incideva il nome di Jennifer Harding ancora e ancora e ancora sul suo cuore, facendolo sanguinare. Ma anche così sarebbe stato un dolce supplizio, se solo Judy non fosse stata consapevole quello stesso amore avrebbe ferito Jen, se mai avesse scoperto la verità. Essere amati è la sensazione più bella della vita, certo, ma essere amati dall’assassina del proprio marito…
Judy scosse la testa.
Si alzò dal letto, incapace di stare tanto vicina a Jen senza rivelarle la verità e al diavolo tutto quanto. La sua vita era un farsa in ogni caso, Judy era pronta a lasciarsela alle spalle all’istante, se fosse servito a Jen.
Tuttavia, non appena Judy appoggiò i piedi sul pavimento e si alzò, tutto intorno a lei vorticò pericolosamente e fu costretta a sedersi nuovamente sul materasso.
Doveva smetterla di bere tanto quanto Jen. Da quel che ricordava – ed era ben poco – avevano sicuramente aperto una seconda bottiglia dopo la prima.
Qualcuno, probabilmente Henry, a giudicare dalla cadenza dei passi, percorse il corridoio di fronte alla loro camera – no, non loro, di Jen.  
Judy si passò una mano sulla fronte. Doveva alzarsi e preparare la colazione per i ragazzi. Si guardò intorno, alla ricerca del bicchiere d’acqua e delle aspirine che sicuramente aveva preparato la sera precedente, più che consapevole di non poter tollerare la sbronza del giorno dopo. Prima che potesse individuarle, sentì Jen muoversi dietro di lei e afferrarle l’orlo della maglietta.
Judy sussultò.
Jen mugugnò nel sonno.
«Cosa?» bisbigliò Judy, incerta, chiedendosi quanto Jen fosse effettivamente cosciente.
«Dormi» rantolò Jen, con quello che sembrò uno sforzo immane per lei.
«Tu dormi» replicò Judy, dolcemente. «Io vado a preparare la colazione ai ragazzi».
«Non devi» tentò di nuovo Jen, pur lasciando la presa sulla maglia di Judy. «Charlie può…»
Ma il resto delle parole di Jen si perse tra le sue labbra.
 
«Grazie, Judy» cinguettò Henry, un istante prima di affondare la forchetta nei suoi pancake.
Charlie si limitò a un cenno, ma a Judy bastò. Si unì ai ragazzi per la colazione, assicurandosi di tenere da parte abbastanza pancake per Jen e, quando tutti ebbero finito e Henry e Charlie furono usciti per andare a scuola, Judy pulì scrupolosamente la cucina prima di prendere un vassoio da letto e sistemarvi la colazione per l’altra donna, senza dimenticare acqua e aspirina.
Con attenzione, Judy tornò in camera da letto, dove trovò Jen ancora addormentata. Appoggiò il vassoio sul suo comodino, prima di chinarsi su di lei per svegliarla.
«Jen» sussurrò Judy nel suo orecchio, scostandole una ciocca di capelli dal viso.
E Judy ritrasse immediatamente la mano, come se avesse preso la scossa. Un’immagine, nella sua testa, gli occhi verdi di Jen tanto vicini che a Judy era sembrato di precipitarvi all’interno, il respiro della donna sulla guancia, le sue labbra-
Lo aveva… sognato quella notte? O era un ricordo della sera prima..?
A Judy mancò il fiato. Doveva decisamente smetterla di bere tanto, intorno a Jen.
Colta dal panico, Judy si precipitò nella stanza di Charlie, ignorandone il disordine, prese una penna dalla sua scrivania e strappò un fogliettino da un blocco per appunti:
 
Buongiorno,
sono scappata al lavoro.
Spero che il tuo mal di testa sia migliore del mio.
Buona colazione,
Judy.
P.S. Ci siamo forse baciate questa notte? Domanda strana, lo so, però-
 
Judy scosse la testa, strappò l’ultima parte del foglietto, quella con il p.s. Doveva davvero iniziare a pensare, prima di fare le cose. Dopo un secondo di esitazione, aggiunse un cuoriccino accanto alla propria firma, perché è quello che avrebbe fatto se tutto fosse stato normale, per quanto normale le cose potessero essere tra loro.
E probabilmente lo erano.
Probabilmente Judy lo aveva solo sognato.
Ma se-
No.
E anche se non lo avesse solo sognato, certo Jen non lo avrebbe ricordato e, comunque, in ogni caso, erano ubriache. Non significava nulla. Era inutile.
Sistemando il fogliettino sul vassoio della colazione per Jen, Judy decise di non fare mai alcuna domanda a Jen riguardo a quella notte e che, qualsiasi cosa fosse o non fosse successa tra loro, sarebbe rimasto un segreto sepolto per sempre.
 
 
*


 
Quando Jen si svegliò, si accorse immediatamente di un peso sul petto. Ma non quel peso metaforico dovuto alle bugie che aveva raccontato e continuava a raccontare a Judy riguardo a quello che era successo tra lei e Steve nel giardino sul retro, no, era un peso reale. E piacevole.
La testa di Judy era appoggiata al suo petto, un braccio della donna stretto intorno al suo fianco. Jen sorrise, accarezzò i capelli di Judy, passò le dita tra le sue ciocche, leggera per non svegliarla, ma incapace di resistere.
Jen non si era nemmeno stupita di averla trovata nel suo letto, quella mattina. Tecnicamente, Judy dormiva ancora nella dépendance per gli ospiti, ma erano più le notti che la donna passava nella stanza di Jen che quelle in cui dormiva nel suo letto. Bastava che Jen si guardasse intorno perché i suoi occhi incappassero in vivaci macchie di colore come la vestaglia di Judy o il vestito che aveva indossato il giorno precedente.
Semplicemente, era comodo. Passavano quasi tutte le sere insieme, a guardare le tv con i ragazzi o ad assicurarsi che non trascurassero lo studio e, quando poi andavano a dormire, non era raro che stappassero una bottiglia di vino. La stanza di Jen era più vicina. E poi Judy preparava sempre la colazione e sarebbe stato ridicolo che dormisse nella dépendance, no?
Al pensiero della colazione preparata da Judy – che faceva i migliori pancakes che Jen avesse mai provato in vita sua, lo stomaco della donna gorgogliò e questo bastò perché Judy si svegliasse, con un sussulto.
«Cosa?!» domandò subito, sollevando la testa. E questa improvvisa mancanza pesò sul petto di Jen molto più che la sua presenza.
«Nulla, solo-»
Ma il resto della frase morì nella gola di Jen perché in quel momento Judy la guardò.
E all’improvviso Jen si rese conto di non ricordare nulla della sera precedente. Merda. Merdamerdamerda. Cosa avevano fatto?
Ricordava che avevano sgridato Charlie per il pessimo voto che aveva preso in matematica – beh, Jen lo aveva sgridato, Judy gli aveva chiesto se avesse trovato l’argomento difficile e si era offerta di spiegarglielo e studiarlo insieme. Per questo Judy aveva passato la serata seduta sullo sgabello in cucina ad aiutare Charlie, incoraggiandolo e ripetendo gli stessi, semplici concetti così tante volte che Jen, seduta con Henry sul divano a guardare i cartoni, avrebbe voluto alzarsi solo per urlare a Charlie di darsi una sistemata, cosa che non aveva fatto non solo perché sapeva che era un comportamento davvero di merda da parte di un genitore, ma soprattutto per gli sguardi di ammonimento che Judy le lanciava da sopra la spalla. E i sorrisi. Si erano scambiate sorrisi per tutta la sera.
Poi i ragazzi erano andati a letto e Judy aveva suggerito di aprire una bottiglia di vino, dicendo di averne bisogno dopo tutta la matematica con cui aveva avuto a che fare, e Jen era stata più che felice di accontentarla. Non che avessero bisogno di una scusa per condividere un bicchiere di vino o due.
Ma il problema era proprio questo: non si erano fermate al secondo bicchiere, di questo Jen era più che sicura, ma non riusciva a ricordare nulla del resto della serata.
E ora Judy aveva il rossetto di Jen – e Jen era più che sicura che fosse il suo, perché era la sua sfumatura preferita – sulle labbra e su parte del viso. Non che le stesse male, ma… Come ci era finito lì, esattamente?
Cazzo.
«Cosa?» fece Judy, guardando Jen come se la stesse mettendo a fuoco.
«Nulla» ripeté di nuovo Jen. «Cazzo» aggiunse poi, una nota di panico nel petto. «Devo… Devo andare in bagno. Ora!»
Jen si precipitò fuori dal letto, uno sguardo distratto a Judy bastò a confermarne la confusione.
Quasi correndo, Jen raggiunse il bagno en-suite e si sbatté la porta alle spalle.
Si guardò allo specchio.
«Cazzo» bisbigliò sottovoce, prima di aprire il rubinetto e lanciarsi una manciata di acqua gelata sul volto. «Cazzo» ripeté, guardandosi di nuovo allo specchio, goccioline d’acqua a bagnarle la maglia. «Cazzo, cazzo, cazzo. Cosa hai fatto, Jen? Quale grandissima cazzata hai fatto ieri sera?» disse, tra i denti, chiudendo gli occhi nella speranza di ricordare.
Ma per quanto si sforzasse di ripetere gli eventi della sera precedente nella propria testa, alla disperata ricerca di un indizio, i suoi ricordi si fermavano sempre allo stesso momento, il sorriso di Judy da sopra il suo terzo bicchiere di vino.
Poi, nulla.
E poteva essere successo qualsiasi cosa.
Qualsiasi cazzo di cosa perché Jen non capiva un cazzo e lo sapeva che avrebbe dovuto fare un cazzo di qualcosa per quello che… per quel cazzo che era che provava nei confronti di Judy, ma non aveva mai fatto un cazzo di nulla perché si era sempre detta che le sarebbe passata e non voleva perdere Judy, per nulla al mondo, ma ora Jen non ricordava che cazzo aveva fatto e se l’avesse persa per-
«Ehi, Jen?»
La voce di Judy da fuori la porta la fece sobbalzare. «Cazzo» bisbigliò Jen. «Sì?» rispose poi, ad alta voce.
«Posso entrare? Vorrei darmi una rinfrescata prima di scendere a preparare la colazione. Henry si è già svegliato».
«No!» urlò Jen. «Sì!»
Cazzo. Non era come se potesse trincerarsi in bagno, no?
Judy aprì la porta, esitante. «Va tutto bene?»
Jen si limitò ad annuire. Si allontanò dallo specchio, si mise a guardare fuori dalla finestra dando le spalle a Judy che, nel frattempo, aveva preso il suo posto.
«Oh, Dio» esclamò Judy, sorpresa. «Mi dispiace tanto, Jen. Non volevo».
Jen prese un respiro profondo prima di voltarsi. «Judy, prima di dire altro è meglio che tu sappia che-»
«Non volevo rovinartelo» disse Judy, reggendo il rossetto preferito di Jen in mano, la punta completamente distrutta.
Jen sbattè più volte le palpebre. Un’immagine della sera precedente era prepotentemente riemersa dalla sua memoria sovrapponendosi al presente, Judy in piedi di fronte a quello stesso specchio, a malapena in grado di reggersi in piedi, che tentava di mettersi il rossetto di Jen e falliva miseramente. Entrambe ridevano. Judy la stava prendendo in giro, imitandola. «Come cazzo hai fatto a prendere un’insufficienza tanto grave, Charlie?!»
E così si spiegava il rossetto di Jen sulle labbra di Judy quella mattina.
«Scusa, non volevo-» provò nuovamente Judy, ma l’altra la fermò, prendendole il rossetto tra le mani e gettandolo nel piccolo cestino accanto al lavandino.
«Non importa. Ne ho uno di scorta in quell’armadietto».
«Scus-»
«Judy» l’ammonì Jen.
«Judy, sei sveglia?!» urlò in quel momento Henry, dal corridoio fuori dalla stanza. «Ho fame».
Jen e Judy si guardarono, scambiandosi un sorriso complice prima di sorridersi.
«Arrivo, tesoro» urlò Judy in risposta, prima di aprire l’acqua del lavandino per lavarsi il viso.
Prima di lasciare il bagno, Judy sistemò una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio di Jen, sorridendole. «Pancake ai lamponi?» domandò.
Jen sorrise e annuì, osservandola mentre si allontanava da lei per scendere in cucina a preparare la colazione per i ragazzi. Poi, puntò lo sguardo sul proprio riflesso nello specchio.
«Sei così fottuta» si disse.
 
 
*
 
 
Judy sogghignò. Avevano abbandonato la festa in cui si erano imbucate, spacciandosi per invitate al matrimonio, dopo che erano state scoperte dal barista, ed erano tornate al loro piano a fatica, premendo per ben tre volte il tasto sbagliato dell’ascensore.
«Fammi provare» disse Jen, pur ridendo, prendendo la chiave elettronica dalle mani di Judy, che non riusciva a farla passare nella serratura della loro stanza d’albergo.
Un bip segnalò che Jen era riuscita nell’impresa di aprire la porta e entrambe si precipitarono all’interno, ridendo. Al buio, Judy inciampò e fu solo grazie alla reazione istintiva di Jen, che l’afferrò prima che potesse cadere, che la donna non sbatté la faccia dritta dritta sul pavimento.
Entrambe ridevano ancora.
E continuarono a ridere, fino a quando Judy tornò stabile – per quando l’alcol le consentisse – sui suoi piedi, senza lasciare le mani di Jen che si erano intrecciate alle sue, quasi per automatismo, e i loro occhi si incontrarono.
E smisero di ridere.
La stanza era buia, illuminata solo dalla luna. Nessune delle due aveva avuto modo di accendere la luce. Né, in realtà, ne aveva sentito il bisogno. Lì, al buio, insieme, da sole, non esisteva altro.
Non esistevano le bugie su cui era stato costruito il loro rapporto.
E non esistevano le bugie su cui ancora si reggeva.
Ted non era mai esistito e nemmeno Steve.
Non avevano passato, ma solo un presente in cui la mano di Jen accarezzava il volto di Judy, che si alzava sulla punta dei piedi.
E non c’era silenzio intorno a loro, perché le musica della festa qualche piano più in basso le raggiungeva fino a lì e il traffico della strada era attutito appena dalle finestre della stanza e qualcuno stava guardando la televisione tenendo il volume decisamente troppo alto. Ma tutto quello che Judy riuscì a sentire fu l’oh! di sorpresa che sfuggì alle labbra di Jen quando si baciarono e, per un istante soltanto, Judy ebbe sufficiente lucidità per chiedersi se avesse fatto la cosa giusta, baciando Jen, o se non avesse mal interpretato l’intera situazione.
Ma ogni esitazione sparì non appena sentì Jen rispondere al bacio e le mani della donna prenderle il viso, come se temesse che si allontanasse.
Judy circondò il collo di Jen con le braccia, premette il proprio corpo contro il suo, ringraziò la propria preferenza per i vestiti leggeri che portava perché facevano ben poco per separarle. E, nonostante il calore che proveniva dal corpo di Jen, Judy rabbrividì.
Senza separarsi, incespicando, evitando per poco di distruggere un vaso posato sopra un basso tavolino, Jen e Judy raggiunsero infine uno dei due letti nella stanza e vi caddero sopra.
Interruppero il bacio, mettendosi a ridire.
La mano di Judy si era spostata sul fianco di Jen, dove stringeva la stoffa della camicia di jeans, come per assicurarsi che stava accadendo davvero, che era reale, che Jen aveva davvero ricambiato il suo bacio. E Jen aveva la mano affondata tra i capelli di Judy, incapace di distogliere lo sguardo dal viso dell’altra, da quegli occhi sempre sorridenti, dagli zigomi pronunciati, dalle piccole, delicate rughe agli angoli della bocca.
E anche se, quella sera, non avevano esagerato con il vino, ma solo con i superalcolici, i versi di Shakespeare si dimostrarono comunque attuali nel ventunesimo secolo, perché, dolcemente, beatamente, entrambe si addormentarono, il viso dell’altra come ultima immagine prima del nulla. Dormirono un sonno senza incubi e senza sogni, come sempre accadeva quando dormivano l’una accanto all’altra, perché quella vicinanza bastava non solo a tenere l’inferno a distanza, ma anche a far loro sfiorare il paradiso con la punta delle dita.
E la mattina seguente si sarebbero fatte una promessa solenne – pur consapevoli che non l’avrebbero mantenuta – di non esagerare mai più con il vino o la vodka o qualsiasi altro tipo di alcolico perché nessuna delle due riusciva a ricordare cosa fosse successo, la sera prima, dopo che avevano lasciato la festa.
Probabilmente nulla, si dicevano.
Nessuna delle due raccontò mai all’altra del vivido sogno di un bacio che avevano condiviso in quella camera d’albergo.
 


 
 
NdA
Ehi!
La citazione di Shakespeare a cui mi riferisco è: «It provokes the desire but it takes away the performance» / «Il vino smuove la voglia, ma smuove l’efficienza» da Macbeth II, 3 (Ed. Oscar Mondadori con la traduzione di Vittorio Gassman).
 
La parola che dà il titolo (almeno in parte) alla OS viene invece dal norvegese e la definizione data dalla challenge è «la paura di aver fatto qualcosa di cui non ci si ricorda mentre si era ubriachi».
 
La FF è stata scritta in realtà più di un anno fa, ma per un motivo o l’altro non mi sono mai decisa a pubblicarla fino ad ora. Grazie per aver letto! <3
T.  
   
 
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