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Autore: Manto    26/07/2021    2 recensioni
❤ Terza classificata al contest "Favole di oggi – II edizione" indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP
(Sigma x Gogol')
Nelle profondità dei boschi del monte Hakone riposa un segreto che le leggende dicono non appartenere agli uomini, ma a una forza che li supera; ed esso tocca le anime e rintocca in esse, dando la spinta necessaria per seguire i propri desideri e la luce che palpita sotto il buio del dolore...
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Fyodor Dostoevsky, Nikolai Gogol, Sygma
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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{ III ◊ Trovami, Io Ti Aspetterò }





 

Il procedere del nuovo anno porta immediatamente a due cose: la rottura definitiva di qualsiasi rapporto con Dostoevskij e uno degli inverni più freddi che il Giappone abbia mai patito. Il primo fatto si mostra inevitabile fin da subito; per quanto gli abbia fatto male e sia stata causa di uno degli episodi più spiacevoli della sua vita, una parte di Gogol’ ringrazia la pesante sbornia che gli ha permesso di sfogare ciò che prima non ha mai osato realizzare e accettare, ma questo implica anche chiarire la questione e chiuderla definitivamente.
Ogni qual volta il ragazzo ne parli con Sigma, risulta lampante come non sarà un momento facile; e per quanto l’amico consigli prudenza e calma, Nikolai non può promettere che non finisca nel modo più brusco possibile.
Questo è proprio ciò che alla fine succede, con una variazione inaspettata: è Sigma, infatti, il primo a trovarsi innanzi a Fyodor e ad avere non il migliore dei confronti con lui, anticipando di un poco il compagno.
Nonostante questo succeda a poca distanza da Komababa, nessuno assiste a quanto succede o sente nulla, come se una sorta di nebbia sia calata su loro tre e li abbia celati a qualsiasi testimonianza. Solamente le nocche sbucciate, qualche ematoma e tracce di sangue sulle vesti di Sigma fanno intuire cos’è accaduto, ma non una parola esce dalle loro bocche e la faccenda rimane un mistero per l’intero mondo; certo è che da quel momento le loro strade divergono drasticamente da quella di Dostoevskij, in quanto nella mente di entrambi il ragazzo è come morto e da tale viene trattato.
Poco dopo questo fatto, le temperature già basse precipitano e il Giappone viene investito da bufere che si abbattono in maniera continua sull’isola, mettendo a dura prova i servizi, le comunicazioni e l’incolumità delle persone; Tokyo, come le altre città e centri, viene isolata dal resto della nazione dopo un’intera giornata di tempesta, così che l’Imperiale si trova a doversi organizzare per proteggere i suoi studenti e ad aprire gli studentati a coloro che non sono riusciti a fare ritorno a casa in tempo.
Per la prima volta, Sigma è costretto dormire da solo, in una stanza unica dello studentato e lontano da qualsiasi persona che abbia mai chiamato famiglia e tranquillità; questo e la situazione d’emergenza non possono che far vacillare la sua stabile routine, con il risultato che tornano gli incubi e i sogni si fanno più nebulosi, e nella veglia vengono a fargli visita vecchie paure.
Lo studio e le esplosioni d’allegria e caos di Nikolai riescono ad arginare queste per tutto il tempo del giorno, ma non possono tenerle lontane quando scende la notte e i pensieri si fondono con le visioni oniriche, mutandosi in condanne e fantasmi che tolgono lentamente, una dopo l’altra, tutte le energie. Divengono sempre più intollerabili e spaventose, e neanche riempire il taccuino di parole e parole dà a Sigma la sicurezza che la sua mente non perderà mai la coscienza di tutto ciò che lo circonda e rimarrà solamente l’incertezza di non vedere una strada davanti a sé, e nemmeno dietro.
Come può essere e diventare qualcuno, se notte dopo notte svaniscono frammenti di sé?

 

Un’ennesima tempesta è finita da poche ore, quando Sigma si sveglia e immediatamente ha consapevolezza di quanto sognato. Non può dubitare e nemmeno illudersi fino a farlo: conosce bene gli effetti che quelle visioni hanno sul suo corpo e li sente tutti addosso, dal cuore che batte tanto forte da far male alle mani che tremano, alla mente straziata che chiede una pietà che non arriva.
La piccola, bianca stanza dove alloggia è immersa nella luce artificiale di un apparecchio elettronico; il giovane ci mette qualche istante a comprendere che è il suo cellulare a emanarla, sotto la spinta di una chiamata.
Senza nemmeno leggere il nome di chi lo cerca, risponde. E se ne pente subito.
Sigma-kuuuuuun!
Il ragazzo alza gli occhi al cielo e stringe le coperte fino allo spasimo, quindi prende un forte, lento respiro per non mettersi a gridare parole poco lusinghiere e svegliare l’intero studentato.
Dall’altro capo della linea, le risate di Gogol’ si sprecano e irritano di più di secondo in secondo. “Mi hai riconosciuto, veroooo?
E chi non l’avrebbe fatto, per quasi una decina di ragioni?
Non sto indossando niente!”, continua imperterrito il ragazzo.
«Perché sei un idiota. Copriti, si gela anche in camera, e dormi maledizione, è l’una passata.» Sigma chiude la chiamata senza attendere un’altra parola e spegne il telefono, afferra le coperte con un gesto secco e se le tira fin sopra il capo. Rimane immobile per qualche istante, poi sospira e si scopre per metà, accende la luce dell’abat-jour accanto al letto e fissa il soffitto distendersi sopra di sé.
Ora la testa gli gira e il petto continua a pulsare come se lo stessero percuotendo senza sosta: non può andare avanti in quello stato ancora per molto, è ormai al limite… e questa volta non ha voglia di sfogarsi solamente con sé stesso.
Mentre fissa lo schermo del cellulare illuminarsi nuovamente, si chiede se non stia facendo uno sbaglio enorme; ma è l’unico modo per provare ad alleviare la pena, per allontanarsi dall’onda che cresce e non lascia respiro. Che Gogol’ lo faccia anche arrabbiare, e sia; ma che non lo lasci affogare, che piuttosto lo privi della sanità mentale. Questa non è una notte da passare in silenzio.
Uno squillo, appena uno; subito dopo, Nikolai risponde alla chiamata e Sigma lo precede immediatamente: «Sono io.»
Forse non lo sai, ma vedo il tuo numero dal display; altrimenti non avrei risposto così in fretta!”
Ignorando il tono ironico dell’amico, Sigma si morde un labbro nell’esitazione, quindi si mette seduto nel letto e stringe il telefono fino a far dolere le dita. Ha paura, tanto almeno quanto è stanco di temere i propri sogni. «Posso parlarti? Seriamente, intendo, e non attraverso un cellulare. Di persona.»
Certo che sì! Ma prima non mi dovrei rivestire…?”
«Fai in fretta, per favore.»
Rimango nudo, se non vuoi perdere molto tempo!”
«Continua così e ti prendo a calci in bocca, se non altrove. Promesso.»
Una risata squillante, che finisce presto. “Ti aspetto, tu preparati con calma.”
Sigma annuisce come se l’altro potesse vederlo, quindi termina la chiamata e abbassa lentamente il telefono. Le mani fanno quasi fatica ad afferrare la prima felpa che trova nell’armadio e a infilarla sopra la maglia del pigiama; tuttavia, sono leste ad aprire la porta della camera e a chiuderla senza rumore, sicure.
Il corridoio dello studentato è immerso nel silenzio e nel subitaneo lucore che si attiva appena i sensori di movimento avvertono la presenza di Sigma; dalle finestre poste lungo il percorso filtra solamente il precipitare della neve, in un battito calmo che è completamente opposto a quello del giovane.
Per quella che in altre occasioni avrebbe considerato una sfortuna ma ora ringrazia, la camera di Nikolai è situata a distanza di pochi corridoi dalla propria, così che il tormentato arriva in fretta a destinazione e, affidandosi a ogni divinità esistente, bussa piano alla porta dell’amico, dalla quale proviene una bella luminosità azzurra. Passa un istante, quindi questa si apre; e Sigma perde un’altra delle speranze che ha mai avuto su Gogol’ mentre osserva e subito tenta di ignorare l’enorme pigiama che indossa: a forma di pulcino e di un giallo così intenso da dare il mal di testa — e il voltastomaco —, con un cappuccio provvisto di occhi e becco in paillettes nere e rosse.
Semplicemente un orrore.
«Era meglio se rimanevi nudo», è la prima cosa che Sigma mormora intanto che l’amico si fa da parte e con un piccolo inchino lo invita a entrare. «Quindi ora mi devo spogliare? Ma non sei mai contento!», risponde Nikolai con una smorfia, chiudendo la porta alle loro spalle e poi indicando la felpa dell’altro, allargando il sorriso perenne e facendolo diventare una risata soffocata: «Ma… non credevo fossi così teeenerooo!»
Sigma abbassa gli occhi e dà una veloce occhiata alla fila di lanose pecorelle saltellanti ritratte sull’indumento ― in verità non è suo, gli è stato prestato da un altro; ma a che scopo provare a dirlo? ―, arrossisce di colpo e assesta uno schiaffo alla mano di Gogol’. «Smettila, ti stai divertendo anche troppo», soffia mentre ritorna a guardare il cappuccio dell’assurdo pigiama; solo in quel momento nota che l’occhio destro è mancante e il sinistro segnato da una linea che lo attraversa verticalmente come una cicatrice. Senza volerlo lancia uno sguardo al volto di Nikolai e improvvisamente, inspiegabilmente, quell’abito non gli sembra più così terribile.
«Sigma-kun», lo richiama intanto il compagno, occupando la sedia accanto alla scrivania e girandosi verso il letto mentre gli fa segno di accomodarsi su di esso, «hai fatto dei brutti sogni, vero?»
Il giovane non risponde subito; prima sprofonda nelle morbide coperte di Gogol’ e le stringe appena tra le dita, per poi osservare la camera straripante di libri, copioni teatrali, fogli e vestiti sparsi nell’ordine ― non è proprio questo il termine corretto ― più casuale. Tutto profuma di una simbiosi particolare e unica, dove ogni componente ha trovato la strada per entrare in sintonia con gli altri; e quel tutto gli sottolinea quanto lui sia fuori posto.
Senza provare a nascondere il fatto di aver avuto quello che considera un incubo, Sigma china il capo e inizia: «Solamente uno, sempre uguale.» Esita un attimo, poi non si trattiene più. «Già, il soggetto è sempre lo stesso: io, mamma e papà, in una valle tra montagne che non ho mai visto. Facciamo un picnic, giochiamo, raccogliamo fiori, viviamo una giornata piacevole.
Che cosa ti spaventa di quello che vedi?, chiederai. Presto detto: ogni volta che sogno, l’ambiente e le figure dei miei genitori sono meno definite. Svaniscono lentamente ma inesorabilmente: prima il dettaglio di un fiore, poi la cima di un monte, infine la collana di mamma, l’orologio di papà, la luce con la quale osservano il mondo, la loro voce… e quello che ero io allora.
Quando mi sveglio, qualcosa è andato perduto sempre e per sempre.
Gogol’-san… io non sono davvero figlio di Bram Stoker: quando ero piccolo, i miei genitori sono morti annegati nell’oceano di Yokohama. 
Neanche il tempo di salutarli per bene ― stavo dormendo quando sono andati in spiaggia ―, che le onde me li hanno portati via. E io li sto dimenticando… tutto ciò che mi rimane di loro, una traccia qualsiasi, sta svanendo e io non riesco a trovare un modo per fermare questa continua scomparsa.
E non voglio, maledizione, non voglio! La memoria è tutto ciò che di loro mi resta, il passato è ciò che mi forma… e io lo sto rimuovendo! Non lo faccio apposta ma è lui ad andarsene, a scomparire senza un senso e senza uno scopo. Finirà così, dunque? Toglierà senso e scopo anche a ogni parte di me, finirò per non riconoscermi più? E dopo, che cosa rimarrà? Dove potrò mai andare, cosa sarò in grado di fare? Sarò sempre solo.»
Sigma si prende la testa tra le mani e si stringe i capelli, chiudendosi su sé stesso. Si sente smarrito e vuoto, deprivato ogni giorno di più, e niente e nessuno sembra poterlo aiutare, ora che l’unica persona che è mai riuscita nel tentativo non è al suo fianco. «Vorrei essere a casa, ora. Questa incertezza mi sta uccidendo.»
Gogol’ rimane in silenzio per qualche momento; quindi si porta le ginocchia al petto e vi appoggia sopra il mento. «Parlami di loro. Raccontami dei tuoi genitori», esordisce; immediatamente dopo, alza il capo e spalanca gli occhi, attraversato da un’idea. «No, ecco cosa possiamo fare!»
Ancor prima che Sigma possa cercare di comprendere quello che l’amico voglia dire, Nikolai balza giù dalla sedia e si tende verso l’altro. «Alzati anche tu», gli sussurra con un sorriso.
Il giovane ubbidisce con leggera titubanza, che si acuisce quando raggiunge l’altro in mezzo alla stanza e questi lo prende per le spalle, facendolo voltare. «Sai ballare, Sigma-kun?»
La domanda giunge inaspettata e scatena lo stupore dell’interpellato, che impiega un attimo a rispondere. «Non-non ho mai imparato», è la replica mormorata, dopo la quale il ragazzo gira il capo per guardare il compagno. «Cos’hai intenzione di fare?»
Con calma, Nikolai gli prende le mani nelle sue. «Quando abitavo in Ucraina[1], prima di andare in Russia, non ero molto bravo a esprimermi. Sia che i momenti fossero felici sia che le cose non andassero bene, trattenevo emozioni e parole e nessuno poteva spingermi ad aprirmi: ero come una statua.
Poi, un giorno, una nostra vicina di casa se n’è andata a vivere altrove e io ne ho sofferto molto: adoravo quella donna con tutto me stesso, e vederla partire… beh, non  è stato semplice.
La mia nonna ha compreso ciò che stavo provando in quel momento, ma era necessario liberarlo, non farlo ristagnare nel cuore; quindi, mi ha fatto voltare così come ho fatto ora con te, mi ha preso per le mani e ha iniziato a farmi ballare. Il movimento del corpo stimola quello dei pensieri, mi ha detto, e questi troveranno la loro via per uscire.
Quel giorno, dopo un’ora che la nonna mi faceva danzare con sé, le mie parole sono esplose: hanno iniziato a uscire senza tregua, rivelato le mie sensazioni più lontane e come mi stessi sentendo in quell’esatto istante, ho persino pianto. Mi sono liberato.» La presa sulle mani di Sigma si scioglie, mentre le dita di Nikolai sono sicure e gentili quando si posizionano sotto il mento dell’altro e raddrizzano il capo. «Ora, respira e chiudi gli occhi. Immagina di essere da solo: Tokyo non esiste, nessuno vive al suo interno e io non sono qui. Ci sei solamente tu e all’orizzonte, se vuoi, i tuoi ricordi.
Prova a immaginare di avvicinarti a loro.»
Sigma s’irrigidisce quando i loro palmi s’incontrano nuovamente, ma ancora di più quando le rispettive mani destre si staccano e Nikolai gli posa la sua sul fianco. «Tutto è… buio. Non c’è un orizzonte, non vedo nulla», mormora.
«Non ti agitare, va bene. Com’è quel buio?»
Il ragazzo rimane in silenzio, strizzando gli occhi quando Gogol’ inizia la danza. Sigma sente il braccio dell’altro avvolgergli l’intera vita e in un certo qual modo la cosa gli dà sicurezza, tanto che l’afferra con decisione come un appiglio. «Fitto, denso. Sembra non voler lasciarmi passare, faccio fatica ad avanzare. Non mi aspetto di veder apparire una luce.» Appena lo dice, un’immagine fiorisce nella sua mente: una lampada, un colore, un turbine di petali. Attende a parlare mentre insegue ciò che vede, e intanto Nikolai gli fa fare una leggera giravolta e subito un’altra più veloce, in modo che il ragazzo libera parte del fiato che ha incastrato in gola. «Non ha molto senso quel che vedo, sembrano foto spezzate. A volte succede, mi tornano in mente scene che non so contestualizzare.»
«Anche loro hanno un senso, invece; devi solo trovarlo.»
Sigma attende di nuovo: Nikolai si è fermato e lo ha fatto girare in modo che i visi siano rivolti l’uno verso l’altro, per poi stringerlo a sé abbastanza forte da potergli permettere di seguire ogni suo movimento anche a occhi chiusi. La presa è un abbraccio e un’onda che si ripercuotono nella mente, e dentro questa nasce una sensazione.
La sensazione si distende intorno e si restringe immediatamente dopo, prende figura e ombra, trema come una fiamma nel vento ma rimane.
«C’è mamma… mamma che ha i capelli come i miei… so che è davanti a me ma non riesco a…» Sigma apre gli occhi d’istinto: contro il petto di Gogol’, il capo quasi incastrato sotto il mento di questi, ha davanti agli occhi la sua lunga treccia. La parte finale svanisce sotto il corpo di Sigma, ma il legaccio che la chiude, scarlatto e dotato di un campanellino, si fa sentire ancora. Ed è rosso, rosso… non è l’unica cosa ad avere quel colore.
«La sua collana… la sua collana! Rossa, con un pendente attorcigliato in oro, una creazione di un’amica di famiglia. Io l’odiavo, mi sembrava un serpente e mi faceva paura. Papà gliela rubava sempre e rideva.
Tutto è immerso nel buio, nel buio, ma si allunga verso di me.
Fermati un attimo, ti prego.»
Gogol’ obbedisce, si blocca; a occhi spalancati, Sigma cerca di andare oltre ma arriva fino a un certo punto. Tuttavia esso è tutto suo, come sono sue le emozioni che prova immediatamente dopo e le immagini che scorge. «Sono… molte. Tanti punti di luce.» Non vi cerca un senso e le lascia arrivare liberamente: alla rinfusa, come colpi che invece di fare male permettono all’anima di risuonare. Sono intense, sono forti. «Fammi ballare di nuovo.»
Sotto la guida di Nikolai e del passo a due che gli sta facendo eseguire, un’emozione si collega a un’altra e un’altra ancora come fili che s’intrecciano per una trama, dando vita a sprazzi di ricordi ― una bicicletta, una corsa sulla spiaggia, un nome ―, luci e colori. Ci sono rimproveri ed elogi, sbagli e vittorie, tracce di una felicità che l’oceano ha portato via ma non è riuscito a sottrarre davvero.
Le giravolte sono trombe d’aria che lanciano sulla spiaggia ciò che all’acqua non serve e allora restituisce, la tempesta dentro di sé scopre per un istante i relitti e i tesori che gli abissi tengono nel grembo; è tutto lì, niente se n’è andato.
«Puoi farmi danzare più forte? Farmi girare?»
«Certamente.» Gogol’ lo prende di peso e lo solleva con tutte le forze che possiede, mentre Sigma gli getta le braccia al collo, affonda il volto nella sua spalla e si lascia andare al vortice che nasce nel centro del petto. E corre, corre, corre… non ha meta, perché sono molteplici le strade, aumentano a mano a mano che si avvicina.
«Oh, Sigma-kun…»
Come anni prima, piove: piove su di lui, sugli occhi e giù per il volto, sulla spalla di Nikolai quando Sigma la picchietta delicatamente per chiedergli una pausa, sul letto dove infine Nikolai lo distende e lo raggiunge per accarezzargli i capelli.
«Ho visto, Gogol’-san», mormora Sigma tra i singhiozzi e mentre stringe i polsi dell’amico, «ho visto al di là del buio. L’orizzonte che hai detto… c’è. Ancora troppo lontano per me, ma esiste.»
«Ed è questo ciò che conta, no?»
Il ragazzo sorride e apre gli occhi. «Sì… lo è.» Si alza a sedere e si porta di fronte a Gogol’, che lo attende. «Quello che hai fatto… c’è riuscito solo il mio padre adottivo, per un poco. Credo che ci vorrà ancora più di questo, però.»
Nikolai annuisce, una luce gentile nello sguardo. «Un passo alla volta: non si può imparare a ballare in un’unica sera.»
Sigma esita, quindi si guarda le dita delle mani. Non riesce a fare a meno di parlare. «Non credevo che sarei giunto qui… ho sempre pensato di star recuperando tutto il possibile solamente da quando Bram Stoker mi ha adottato. Ogni qual volta lo ascolti suonare o insegni a me a farlo, vedo le immagini di poco fa, ma non come stanotte e non così tante. Pensavo che più in là non sarei mai andato, che fossero le uniche rimanenze… avevo perso le speranze, ormai.» Guarda il compagno, lo sguardo diluito da una riconoscenza intensa. «Devi insegnare a ballare per bene…»
«Lo vedo! E sappi che se mi osanni e veneri posso sì imbarazzarmi, ma non provo certo dispiacere!»
Nikolai para senza difficoltà il cuscino che Sigma gli lancia, quindi glielo tira addosso a sua volta e immediatamente dopo lo assalta per bloccarlo sotto di sé. «Tu però non dire a nessuno che anche io ho un cuore o ti darò la caccia per tutto il mondo, intesi?»
Il ragazzo socchiude gli occhi e fa una smorfia obliqua. «Non lo dubito», commenta un istante prima che Gogol’ lo copra con le coperte e lo avvolga dentro di esse, per poi abbracciarlo. «Tuttavia, sono così buono che ti lascerò dormire qui per stanotte, sei taaaaanto morbido e caldo!»
«Almeno fammi respirare!» Sigma esita, il tempo di pensare alla sua stanza fredda, e fa un sospiro. A dir la verità, si rende conto che non se ne vuole andare da lì e inventerebbe anche scuse pur di rimanere. Sperando che non si noti troppo. «… E va bene, resto.»
A quel punto l’amico lo libera e gli toglie le coperte per sistemare il letto, per poi gettarsi sotto di esse e attendere che l’altro lo raggiunga. Quando lo fa, gli picchietta gentilmente il naso con un dito, per poi scompigliargli i capelli con un sorriso che tutti definirebbero idiota.
Sigma lo respinge con un verso di fastidio, quindi ammorbidisce lo sguardo e, sentendo di essere in bilico sul bordo del letto, si avvicina di più a Gogol’. Gli occhi sono ora spalancati e fissi sull’altro, lucenti: due grandi gemme lunari che s’incontrano con l’oro del sole. «Grazie, Gogol’-san, e buonanotte. Prometto di non fare rumore quando mi alzerò.»
Nikolai scuote la testa e non cede il sorriso. «Prego, ma sappi che mi sveglierò prima di te e ti guarderò dormire, quindi ti farò i dispetti!»
Il ghigno che sorge sul volto di Sigma è eloquente, non privo di sfida. «Di solito mi sveglio alle cinque e mezza.»
Una pausa densa d’impressione e costernazione. «… Tu mi fai seriamente paura, Sigma-kun. Sei sicuro di essere umano?»[2], mormora Nikolai con uno sguardo terrorizzato, prima di seppellire il viso sotto il cuscino e far finta di tremare — forse non è finzione.
Sigma ride genuinamente a quella scena, quindi si raggomitola nel tepore del letto e lentamente chiude gli occhi. «Buonanotte», sussurra nuovamente la sua voce, ripetuta e amplificata da quella di Gogol’, che si è messo più comodo e ha leggermente tirato Sigma verso di sé, perché lui lo sia altrettanto.
La luce viene spenta senza che un rumore incrini l’improvvisa quiete, e le mani di Nikolai continuano a serrare lievemente come in un principio di abbraccio.
Sigma reclina il capo in avanti: ancora qualche centimetro e può toccare il petto dell’altro, e intanto si crogiola nello spazio in cui si trova, sentendosi tranquillo quasi come ogni volta che giunge a casa e vede suo padre attenderlo sulla porta.
Tra loro, è Gogol’ che si addormenta per primo, e grazie al suo respiro regolare, al calore che il corpo emana, Sigma è raggiunto da un senso di fiducia che mai avrebbe pensato di provare; non molto dopo si addormenta senza timore dei sogni, e nonostante le ore rimaste al sonno siano poche, quando si sveglia si trova riposato e sereno.
Nel buio che ancora preme la stanza di Nikolai, si volta sul dorso e si alza a sedere piano, per non svegliare il compagno; e aggrotta le sopracciglia, attraversato da una sensazione che non sa spiegare subito, mentre si tocca la fronte e la sfrega lentamente. Forse è una sua impressione, forse immaginazione: eppure, la pelle sembra conservare l’ombra di un bacio.

 

 

Un giorno capirai quanto ne vale la pena.
È un bel mattino di primo Ottobre: la luce è dolce mentre scende e scivola tra i boschi, percorrendo i sentieri insieme a lui e accompagnando il respiro con esplosioni di colore. Non è difficile trovare l’Orologio del Cielo, se questo lo desidera; certo, ci deve essere un motivo forte, ma la sua saggezza sa riconoscere le anime e non teme di palesarsi al mondo. 
Il misterioso abitante di Hakone è più piccolo di quanto Nikolai si aspettasse, ma non si può dire nulla sui simboli che reca incisi: sono loro la vera presenza della montagna, il segno che c’è qualcosa di più grande degli uomini tutti e che li lega l’uno all’altro.
Il tronco del cedro che ospita il mistero accoglie la sua mano come se lo stesse attendendo da sempre; appena si instaura un contatto si sprigiona anche un aroma sottile, ed è lo stesso profumo che intreccia i capelli di Sigma, il sentore della sua pelle quando gli è così vicino da potergli toccare il cuore. 
Sigma… il suo nome è breve quanto incisivo, più profondo e indelebile delle stelle e dei pianeti che danzano a pochi metri da lui; e il ragazzo è come un fiore, che si nutre di ciò che di più bello nasce e lo rimette nel mondo per condividerlo con gli altri. Se guarda indietro, ai primi giorni all’Imperiale, Nikolai quasi non lo riconosce: ora è più sicuro di sé, in grado di guidare e confortare, con le sue parti oscure proprie di ogni persona e le paure da placare, con ogni dettaglio che lo spinge verso la luce, il posto al quale appartiene.
E in quanto a sé… no, non è più lo stesso. Né migliore né peggiore, forse; semplicemente, mutato. La cosa che più importa è che l’ha voluto lui. 
Ho imparato che la libertà esiste e va conquistata, anche a costo di grande dolore; che il destino non ha potere su di noi, se abbiamo il coraggio di ribellarci.
Di quella stanza dell’Hoshino Memorial Hospital, Nikolai ricorda la luminosità: era una sera di plenilunio, e il paziente lì ospitato non la smetteva di sorridere. Era felice, diceva: felice di sapere che era sua la vita che stava per avere termine, e non quella di un ragazzino appena divenuto cosciente del dolore. 
Ma che cosa resta del senso dell’esistenza, se deve finire in un simile modo? Che cosa ci rimane della libertà di scegliere, di provare e vivere, se dobbiamo essere succubi delle sofferenze?” Le parole risuonano amare ancora oggi, intrise della tristezza di un cucciolo d’uomo che avrebbe voluto cambiare il mondo e spazzare via ogni ingiustizia, partendo dalla malattia e dagli ostacoli alla libertà. 
In verità resta tanto: sono molteplici i motivi per i quali le persone combattono e vivono, così numerosi che non si possono contare nemmeno avendo tutti gli anni che stanno attendendo te.
Ma ora… ora, tutti i sogni che avevi sono stati infranti da un errore.
Come i tuoi, ragazzino?
Gogol’ chiude gli occhi, respira forte. Gli sembra di essere ancora in quella stanza d’ospedale, con la luna a guardarlo tramite i suoi mille occhi neri, i risultati degli esami scambiati stretti nel pugno, la pelle percorsa da scariche elettriche dal sapore della sconfitta; e quelle parole…
Ho imparato che la libertà esiste e va conquistata, anche a costo di grande dolore; che il destino non ha potere su di noi, se abbiamo il coraggio di ribellarci.
Inizialmente, lui ha travisato il vero senso di tali frasi: troppo il peso, la sofferenza e il soffocamento dei legami affettivi e il pericolo da questi rappresentato per il suo cuore e quello altrui, perché chi può dire quando un errore riesce a divenire reale? Come poter affrontare serenamente una perdita, quando comunque vada comporterà sempre tristezza, lacrime e annientamento?
E allora ha scelto di distaccarsi dall’umano, perché solamente chi è solo non rischia di patire; e ha deciso di rimanere al fianco di Dostoevskij per inganno, perché illuso dalle proprie capacità di fuga.
Scappare, farsi del male e fare l’amore con il rischio per avere la sensazione di sentire vivo, di non provare il terrore subito in quella stanza d’ospedale; fingere, nascondere il turbamento in fondo e dietro a mille e mille maschere, cercare l’assoluta libertà tramite queste.
Ma voler essere privo di vincoli non implica saper prevedere gli eventi; e Sigma è arrivato così, senza fretta e senza clamore, con la dolcezza del vento di primavera, tanto delicato che inizialmente non l’ha nemmeno sentito.
Come fa qualcuno che ha sofferto così tanto a desiderare di non perdere il cuore? A volte Gogol’ se lo chiede ancora mentre fissa il giovane dormire nel letto della camera che dal nuovo anno condividono nello studentato, scorgendolo sorridere nei sogni e capendo che lo fa perché non è solo.
Ora nuove parole salgono alla mente, questa volta più vicine nel tempo: confessioni di una sera di poche settimane prima, una cena con Sigma e suo padre ― una delle tante che stanno avendo luogo nell’ultimo periodo; una chiamata che porta l’amico a cambiare stanza, e lui e Bram Stoker che rimangono da soli. Qualcosa, una forza superiore o semplicemente necessaria, spinge Nikolai a parlare, lo sguardo fisso sulla porta attraverso la quale Sigma è uscito. «Forse lei non si rende conto di quanto lo abbia salvato, ma lo ha fatto», mormora, non aspettandosi una risposta.
Invece, Bram non mantiene il silenzio e si sporge verso di lui. «In verità, con me è sopravvissuto; è al fianco di qualcun altro che sta riniziando a vivere.
Ringrazia lui, ragazzo.»
«Ma quella persona ha ancora i suoi dubbi e le sue paure.»
«E chi non ha gli uni e le altre? All’uomo non si può richiedere di cancellare i suoi limiti, gli si domanda per chi è disposto a superarli.»
Che cosa sei disposto a fare, quindi?
Lui e Sigma sono così diversi, e forse per questo sono entrati fin da subito in una sintonia unica nel suo genere: nel battibeccare, prima nel guardarsi senza vedersi realmente e poi nel sentirsi nonostante tutto, nel rimanere.
Nello scegliere di essere liberi di comprendere e affrontare quale cielo sovrasti loro la testa; nel realizzare e accettare che possono guardarlo da soli, ma anche insieme. Nessuno di loro due si è trovato destinato a tutto quello fin da principio; semplicemente, non hanno mai smesso di lasciar andare la vita.
Nonostante le bugie e la distanza, nonostante la stanchezza di fallire e il terrore di perdere sempre più, oppure niente.
L’Orologio del Cielo riflette tutti i suoi pensieri, brilla a ogni sensazione: e si piega docilmente sotto il taglierino che Nikolai estrae, accogliendo la lama come un dono. Le due stelle che il ragazzo incide al posto delle dodici non hanno nome: sono comparse in sogno a Sigma, così ha mormorato questi nel sonno, la notte appena passata. «Sono le stelle di coloro che ci vegliano», ha ascoltato dire l’amico, «coloro che sono sempre con noi.»
Tutti hanno bisogno di qualcuno che rimanga; qualcuno che condivida il proprio calore con loro, che riunisca i punti andati perduti e li colleghi, che li stringa forte e faccia loro capire che per quanto possano avere sbagliato, al di là dei silenzi che non sono stati in grado di superare e del dolore che deve essere ancora affrontato, sono amati. Forse non perdonati, forse non scusati, ma amati.
Se mai ti mancherò, io te lo prometto, ti sentirò e tornerò da te.
Anche se non ti conosco, io ci sarò.
«Lo avresti mai detto, Sigma-kun? L’Orologio del Cielo è per gli uomini: forse non creato completamente da loro, ma per loro e per le stelle che devono ritornare a casa. Le sue lancette seguono moti astrali e desideri umani: tutto trova il suo posto, anche chi e cosa esce dalle regole ha il suo senso.»
Il mattino si riempie di voci e richiami: sono cinguettii, la benedizione di Hakone, la miglior risposta a quanto ha appena detto.
Ed è ora di tornare a Tokyo, alla corsa di ogni giorno, alle prove di teatro, a prendere in giro Sigma sul fatto che a forza di studiare libri e libri di Economia diventerà il manager di qualcosa d’importante, magari di un casinò, e lui sarà lì ogni giorno per fargli perdere le staffe e farsi buttare fuori; è ora di tornare a casa, là dove va a riposare la sua libertà.
Che questa abbia i capelli argento e lilla, è solo un elemento che rende ancora più splendido lo spettacolo migliore in cui possa chiedere di esistere, di essere sé stesso.



 

A Marte,
E a me stessa.








 

NOTE

 

[1] L’autore era di origini ucraine.
 

[2] Parte dei credits di questo siparietto va a Marte.
 

 

CANZONI UTILIZZATE NEI TITOLI
 

  • Lontano da Qui » Brano omonimo di Elisa.

  • Io e Te, l’Inizio » Ripresa rimaneggiata della strofa “I know, you know / That we’ve only just begun”, presente in The Best Is Yet To Come, degli Scorpions.

  • Saggio  è il Caduto, e il Giovane » Ripresa rimaneggiata della strofa “I am the wisdom of the fallen, I am the youth”, presente in The Greatest, di Sia.

  • Trovami, Io Ti Aspetterò » Ripresa rimaneggiata della strofa “I’ll be waiting, come find me”, presente in Find Me, di Sigma e Birdy.

   
 
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