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Autore: meiousetsuna    27/07/2021    3 recensioni
Questa storia ha vinto il Contest "Dai vita alla tua fantasia con i generi letterari! II edizione, il ritorno." Indetto da 6Misaki sul forum di EFP
[Western - All!Human – light!magic – violenza – mild!language]
Alina è una ragazza semplice, che dirige un orfanotrofio nel selvaggio Texas, nella città di Os Alta, dominio incontrastato di un feroce bandito che tutti chiamano l’Oscuro.
Kaz Brekker è uno sceriffo fuori dalla norma, forse più pericoloso delle piccole bande di malviventi che si trova a controllare.
Tra di loro, un lembo di terra maledetta abitata dai fantasmi delle persone sfruttate a morte per costruire la ferrovia che taglia a metà lo Stato, e quelli dei nativi massacrati per rubare loro le terre.
Li manterrà sempre divisi, o si incontreranno, e con che esito?
Il titolo è un ovvio omaggio al meraviglioso “Il Buono, il Brutto, il Cattivo” del mio amato Sergio Leone, ma la trama segue il classico Grishaverse.
Buon divertimento,
la vostra Setsuna
Genere: Avventura, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Alina Starkov, Darkling, Inej Ghafa, Kaz Brekker
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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Genere letterario: Western - Prompt: Stelle cadenti. Citazione: Io dormirò tranquillo perché so che il mio peggior nemico veglia su di me". Elementi extra: Tradimento, burlesque. Animale: Bisonte - forza soprannaturale

Questa storia ha vinto il Contest "Dai vita alla tua fantasia con i generi letterari! II edizione, il ritorno."
Indetto da 6Misaki sul forum di EFP

All!Human – light!magic – violenza – mild!language

Lo Zoppo, la Santa, L’Oscuro

Non era un calore normale quello che attanagliava i dintorni di Os Alta, ma un’afa così soffocante da sembrare vomitata dalle profondità dell’inferno. Una mano guantata di nero si mosse con studiata lentezza per sollevare con la punta dell’indice e il pollice un cappello da cowboy dello stesso colore, scoprendo un viso ben noto. Il ritratto di Aleksander Kirigan era diffuso in tutto lo stato del Texas, ma era soprattutto in quella terra di nessuno nota come “la Faglia” che era sinonimo di terrore e morte. Sulle sue origini si raccontavano storie mirabolanti: che fosse un principe fuggito nelle Americhe per aver tentato un colpo di stato contro lo Zar, che invece si trattasse di un attore teatrale che usava il suo nome d’arte; che soltanto la sua freddezza nel colpire con un tiro perfetto gli avversari gli avesse donato un appellativo in una lingua che richiamava ghiaccio e neve, qualcosa di opposto – quindi ostile – al territorio dove si trovavano. Quale che fosse la verità, in breve tempo un piccolo avamposto dimenticato da Dio si era trasformato in un vivace punto di commercio e molti nuclei di persone considerate ai confini di quella pur selvaggia civiltà che era il Far West si erano radunati lì. Si potevano scorgere volti dagli occhi sottili tipici della Mongolia, altri bronzei e fieri dei pochi emigrati indiani che si erano spinti così lontano. E naturalmente, come richiamati da una strana magia, molti russi si erano radunati spontaneamente intorno a quel leader emerso dal nulla, diverso anche da loro. Tra le trecce color del grano delle donne e gli occhi di smalto blu dei ragazzi, Aleksander spiccava con i suoi capelli e iridi nere, uguali agli abiti e anche al magnifico stallone dal manto intessuto di notte che cavalcava. Nessuna meraviglia che poco dopo avessero cominciato a chiamarlo “L’Oscuro”, soprannome che lo compiaceva in modo così evidente da alimentare egli stesso la propria leggenda. Solo due piccoli, insignificanti fastidi turbavano la sua esistenza sempre più gloriosa e appagante. Forse, in un remoto angolo della sua mente contorta, li vedeva diversi da quello che erano in realtà. Il primo lo sottovalutava, ma cosa poteva fare lo sceriffo della contea di Kerch, non avendo giurisdizione al di là del proprio territorio? Un ragazzino venuto su dalla più misera delle situazioni, dai bassifondi di una città come Ketterdam che sembrava impossibile avesse persino uno strato sociale più infimo dell’altro che appariva alla luce del giorno. Non aveva neppure vent’anni, Kaz Brekker, nessuna fortuna o famiglia alle spalle, ed era un povero zoppo; ma era intelligente. Non in modo normale, no. Si vociferava che fosse imbattibile nello sventare furti, scoprire covi di banditi e che fosse anche un salvatore di donne sfruttate. Sì, perché Kerch viveva di due attività: una miniera d’argento, che per quanto poco produttiva costituiva una ricchezza importante, e un bordello chiamato “Il Serraglio”.
Probabilmente sua madre aveva lavorato proprio in quel posto, perché non c’era altra spiegazione alla sua generosità verso quelle ragazze che erano considerate buone solo come carne da macello.
Il piccolo sceriffo gli aveva lanciato un guanto di sfida, e prima o poi sarebbe arrivato il momento di farglielo ingoiare, magari con all’interno qualcuna delle sue dita veloci a premere il grilletto. Non andava per il sottile, Aleksander, quando puniva chi era contro di lui. E l’altra persona, al contrario, la stimava forse più di quanto valesse. L’Oscuro appariva giovane ma di età imprecisabile e nella sua esistenza aveva visto tanti tipi di individui, corrotti o virtuosi, coraggiosi o pavidi, ma tutti, infine, avevano un prezzo, tranne Alina Starkov la direttrice di un orfanotrofio che si era reso necessario, vista l’alta mortalità in quel territorio governato dalla violenza. Molti uomini erano deceduti costruendo la ferrovia che tagliava il Texas a metà e sterminando le tribù che avevano cercato di opporsi, e quei corpi insepolti gridavano vendetta. Tutti sapevano che sia di notte che di giorno i loro fantasmi inquieti si aggiravano nella Faglia, che di fatto era un immenso cimitero scoperto. Ma lei l’aveva attraversata da sola per giungere a Os Alta in cerca di una nuova occasione, e non aveva mai rivelato che trucco avesse usato: certo è che i suoi capelli erano diventati bianchi come la luna, pur essendo una fanciulla di diciassette anni. Il suo aspetto era emaciato e fragile, ma quella grazia delicata le conferiva qualcosa di unico. I bambini di cui si curava la chiamavano madre, o la Santa, e non c’era nulla che suonasse più appetibile al cuore sporco di Aleksander. L’aveva blandita con regali che non si sarebbe potuta permettere – abiti di tessuti impalpabili e profumi – per vederseli rimandare indietro. Era passato a un altro tentativo e questo non era stato rifiutato: i bambini, abituati a tirare avanti con pane e zuppa di cavolo, si erano visti consegnare un carro pieno di prelibatezze fatte arrivare appositamente da Dallas. Carne in scatola, biscotti, pesche sciroppate, farina, frutta secca e altre provviste sufficienti per mangiare bene per sei mesi. Alina si era piegata ma ora lo odiava; l’aveva messo in conto, questo non lo spaventava di certo, era solo la sua indifferenza a farlo impazzire.
“D’accordo, fai di me il tuo cattivo”.
La ragazza aveva chiuso gli occhi quando lui l’aveva baciata, ma non per timidezza, soltanto per non vedere il lampo di soddisfazione sul suo volto crudele. E dire che le altre donne si gettavano ai suoi piedi, mentre quella creatura insignificante, a mala pena carina con la sua statura minuta e il seno appena accennato, si rendeva inarrivabile. Santa Alina.
Quel nome ridicolo ormai si era affermato in tutta la città, poi in quelle confinanti e così via con un passaparola fatto di bisbigli all’inizio, poi di dichiarazioni. C’era chi voleva incontrarla a costo di un lungo viaggio difficoltoso, come se davvero potesse chiederle un miracolo. Lui non andava particolarmente di fretta, anzi quel mix di seduzione e ricatto lo divertiva molto, un po’ come un gatto che gioca con un topolino spaurito. Tanto alla fine avrebbe vinto lui.

“Non mi interessano le tue motivazioni, L’Oscuro lo vai a catturare da solo”.
Kaz non batté ciglio, questo perché sarebbe stato un movimento sprecato. Inej era sua, sua in un modo tutto loro. Non erano amanti ma era proprio quello che lo rendeva l’uomo al quale era più legata. Dopo un anno passato nel Serraglio la compagnia maschile che la giovane preferiva era quella di chi poteva addestrarla all’autodifesa, darle un tetto, appoggio e un senso di appartenenza che la lasciasse comunque abbastanza libera – per quanto si potesse usare quella parola a Ketterdam.
“La taglia sulla sua testa è di trentamila dollari, lo sai quante cose potremmo fare, anche dividendo in tre o quattro? Hai mai visto tanti soldi, Inej?”
La ragazza rimase senza fiato per qualche istante, sufficiente a far apparire un’ombra di sorriso sulle labbra dello sceriffo. Certo che no, nessuno che provenisse dalle bande di miseri ladruncoli come gli Scarti o la Rosa Bianca aveva mai immaginato una cifra simile. Lei per ultima: essere la figlia di una nativa e un hindi la rendeva due volte spregevole agli occhi degli altri, che neppure capivano la differenza tra persone che chiamavano tutte “indiani”. La verità era questo sangue misto le aveva conferito una bellezza straordinaria, con la pelle bronzea, i lineamenti scolpiti e un fisico modellato e questo l’aveva resa appetibile per il sesso, per sua sfortuna.
“Cosa dovrei fare?”
“L’impossibile. Per questo conto su di te. Non lo attireremo mai da questo lato del Paese, siamo noi che dobbiamo attraversare la Faglia, e credo che ci sarà qualche difficoltà”.
Inej lo fissò cercando segni di follia sul suo volto, ma vi trovò la stessa consueta espressione fredda del corvo d’argento scolpito sul suo bastone da passeggio. Lo chiamavano ‘Manisporche’ perché non aveva troppe remore – anzi, quasi nessuna – quando si trattava di guadagnare da una causa definibile giusta, anche se sul filo del rasoio. Forse per questo era l’unico a poter fermare un uomo come l’Oscuro, devoto solo a se stesso. Ma tutti hanno un punto debole, e per il suo amico era il bisogno di controllo che lo spingeva sempre un gradino più in alto sulla scala del rischio. Ma strane dicerie giravano tramite i pochi che riuscivano a passare la linea di confine e avevano ancora la capacità di parlare in modo comprensibile. Si vociferava che il loro nemico avesse un’amante dotata di poteri, ma non quelli di una strega, bensì di una creatura angelica. Una santa. Questo faceva da scudo contro tutte le maledizioni che le sue vittime gli mandavano? Pochi, quasi nessuno nel triangolo tra Os Alta, Caryeva e Adena non era un suo soggetto. Di fatto era un tiranno, un re come quelli da cui i coloni erano fuggiti dai più svariati angoli del mondo. Riceveva tributi e decideva chi poteva ottenere una carica, pretendeva obbedienza e viveva nel più grande ranch di tutto il Texas, che era chiamato il Grande Palazzo. Ma non gli bastava, perché lui voleva tutto e non si sarebbe fermato finché non l’avesse ottenuto.

Alina sollevò lo sguardo verso l’orizzonte, malgrado la polvere e sabbia sottili che si agitavano sopra la Faglia soffiando fino a lei, bramandola come una preda ingiustamente sfuggita; il suo cuore era diviso a metà tra la terra della sua infanzia e questa nuova vita che si era guadagnata. In quanto al suo segreto sapeva di non poterlo conservare a lungo, sarebbe stato egoista; era ben lontana dall’essere un’anima da venerare, però – con suo assoluto timore e neppure un briciolo di soddisfazione – forse poteva diventare un capitano e distruggere una volta per tutte il governo di Aleksander e mettere a tacere le voci delle larve inquiete che si aggiravano nella Faglia, ma il prezzo probabilmente sarebbe stato quello della vita. Non era pronta, in fondo era troppo giovane per morire. L’Oscuro lo sapeva bene, lo aveva sussurrato nelle sue orecchie versando parole come unguenti velenosi, l’aveva soffiato sulle sue labbra di un rosa tenue, l’aveva scritto con tocchi elettrizzanti malgrado il ruvido tessuto dei semplici abiti che li dividevano. Il ricordo di quella notte era di fronte a lei come se stesse osservando un libro di illustrazioni.
Il treno che percorreva la tratta dalla regione di Fierda a quella di Shu Han viaggiava regolarmente, però con i vetri sigillati e i suoi passeggeri terrorizzati ma decisi a tentare la sorte. Non c’erano mai attacchi lungo la linea, ma solo se qualcuno scendeva nelle stazioni intermedie per tentare di raggiungere una delle città costruite sui confini. Naturalmente si potevano percorrere molte altre strade: passando attraverso il deserto, nelle riserve dei nativi giustamente pronti a vendicarsi, violando trattati di non sconfinamento. La verità era che l’unica zona ricca del Texas era su quella striscia di terreno maledetto, e che il primo che avesse trovato il mezzo avrebbe avuto tutti alla sua mercé.
Alina si fregò le mani dalla paura, sentendo freddo all’improvviso in quel vagone che era una trappola di metallo arroventato di giorno e una ghiacciaia di notte. Era nascosta sotto un sedile, nella puerile speranza che non la scoprissero, perché era senza biglietto e perché una ragazza che aveva già troppi occhi addosso malgrado il suo aspetto banale era nel mirino degli schiavisti da tempo. Finora, mostrando meno dei suoi anni, si era industriata come sguattera cercando di rendersi indispensabile, e nel contempo essendo abbastanza istruita insegnava a leggere a scrivere ai figli dei suoi padroni ma questo non poteva proteggerla per sempre. C’era un punto preciso nel quale lei e gli altri fuggiaschi sapevano di dover scendere, saltando giù dal treno in corsa, un piccolissimo tratto che aveva scoperto grazie alla sua passione per la geografia. Poco prima della stazione di Os Alta le rotaie avevano formato una leggera curva, non riportata su nessuna mappa, che riduceva di molto il tratto da percorrere a piedi pregando di avere fortuna. Nessun cavallo si avvicinava al confine, né con le buone né con le cattive e in ogni caso non avrebbe certo avuto qualcuno che le venisse incontro. La sua amica Nadia, Tamar e il suo gemello Tolya erano tutti e tre pronti. La voce roca del capotreno che avvisava di non aprire nessuno sportello, finestrino, persino le tendine per evitare spaventi terribili fu il segnale: Alina balzò fuori dalla pianta vuota del sedile, tra le grida agitate dell’anziana donna che vi era accomodata, i gemelli lasciarono il baule di vimini che era stato il loro nascondiglio, complice Nadia che l’aveva imbarcato come bagaglio, per poi raggiungere il vagone dove conservavano alcolici e caffè da vendere ai passeggeri, essendosi fatta assumere come cameriera.
Per primi saltarono giù i due gemelli, agili e allenati nel combattimento, seguiti da Nadia, che da sola riusciva a mettere in fuga anche tre uomini quando si scontravano nei vicoli di Os Kervo. Alina ebbe un attimo di incertezza; non era addestrata al dolore fisico e catapultarsi da un mezzo di locomozione lanciato alla maggiore velocità possibile poteva tradursi nel collo spezzato, anche atterrando in modo corretto, sempre che le dune fossero libere di insidie. Serpenti corallo e giganteschi scorpioni neri attendevano pazienti, nascosti solo da un sottile strano di sabbia; le prede erano scarse tranne gli sventurati che restavano bloccati dalla paura troppo a lungo. Quattro o cinque scorpioni potevano divorare una ragazzina come lei in un’ora, prendendosela comoda, visto che il veleno dei pungiglioni l’avrebbe mantenuta paralizzata. Ma naturalmente erano le ombre la più grande paura. Nei pochi attimi di incertezza che la videro in ritardo, appena in tempo per non mancare la curva, i suoi amici erano stati circondati da un gruppo di fantasmi e cercavano di lottare con diversi amuleti e armi che recavano con loro: prismi di cristallo, spade di osso, pugnali benedetti da sacerdoti di diverse religioni, ma questi passavano innocui come se fendessero delle nuvole, mentre le forme grottesche degli spettri trapassavano a loro volta i combattenti. L’effetto però era ben diverso; Tamar e Tolya caddero a terra privi di forze, gli occhi sbarrati dai quali scendevano lacrime di sangue.  Nadia si portò le mani al fianco, cercando di gridare con la poca voce rimasta. Alina era così terrorizzata da non riuscire a muoversi, neppure per soccorrere i suoi cari, e mentre le ginocchia cedevano, si trovò a pregare. Non era sua abitudine, ma ormai era cosa fatta, e non voleva lasciare questa terra portando con sé pensieri di odio, perché quei fantasmi un tempo erano esseri umani. Uno strano tepore la avvolse, facendosi sempre più vicino, fino quasi a bruciare. Quando la ragazza aprì gli occhi di fronte a lei c’era l’essere più spaventoso che avesse mai visto, ma era così maestoso nella sua imponente figura da scatenare insieme panico e ammirazione. Un gigantesco bisonte bianco* si era materializzato a pochi passi di distanza, solo un bordo di pallida luce sfrangiata che mostrava la sua appartenenza al mondo dell’aldilà. Dalle enormi cavità oculari si sprigionavano fiamme, e il suo fiato sapeva della terra fertile delle praterie. Alina smise di avere paura, perché questa era troppo grande per poterla contenere nel suo fragile corpo. Sollevò una mano senza tremare, accarezzando la fronte coperta di candida lana, e in quel momento successe qualcosa. Il tempo sembrava scorrere al rallentatore, fermando i fantasmi bramosi di vite umane, che non osavano avvicinarsi all’aura del magnifico animale. Questi si inginocchiò, e come se fosse la cosa più naturale del mondo Alina salì sulla sua groppa reggendosi alle corna arcuate, facendosi portare sana e salva alla fine della Faglia. Solo il giorno successivo avrebbe pianto gli amici perduti, ma di nascosto: non avrebbe mai potuto raccontare cos’era successo, l’unica cosa possibile era cercare subito un lavoro, qualcosa da mangiare. In quanto ai suoi capelli diventati bianchi in una notte se ne crucciò poco; non era mai stata una bellezza, chi ci avrebbe dato peso?

Delle carte da gioco dall’aria sospetta erano abbandonate sul vecchio tavolo dell’ufficio dello sceriffo, segno che Jasper, il suo assistente, era passato di lì per andarsi a cacciare in qualche guaio nel saloon. L’Ostrica non era grande, niente a che fare con la Corte di Ossa, quello che apparteneva ad Aleksander. I messaggi che riuscivano ad arrivare con un complicato giro di posta portavano voci che fosse un edificio di lusso, dove un uomo poteva perdere sia la testa che il borsello. Le più belle ragazze della regione si esibivano su un vero palcoscenico in numeri così audaci che alla fine il privilegio di passare una notte con loro era messo all’asta, e i liquori che venivano serviti erano degni di un principe. I tavoli da poker erano attivi tutto il giorno, perché nella Corte di Ossa non era mai mattina né sera: l’illuminazione provvista da decine di lampade a gasolio con paralumi rossi con le frange dorate manteneva una luce morbida e avvolgente che invitava a non volerla lasciare.
In questo fasto, l’Oscuro spiccava come voleva il suo nome; i suoi abiti erano sempre neri, ma la sera ne indossava alcuni di velluto, corredati di stivali della nappa più fine e un fermaglio d’onice intagliato a forma di teschio di lupo stringeva il cravattino di seta. Kaz si rigirò tra le mani le prime quattro carte che si trovavano in cima al mazzo, per cercare i segni usati per barare. La regina di picche, bruna e altera. Il re di picche, portatore di giustizia. La regina di coppe, chiara e dolce. E l’asso di picche – la morte… non credeva nel destino, di certo non in quello delle profezie, ma quelle due coppie lo fecero sorridere, qualcosa di così raro da essersi scordato come succede. I primi due erano lui e Inej, gli altri la Santa e l’Oscuro: chissà chi avrebbe prevalso.

Come in un incubo il giovane sceriffo rivide la notte dell’assassinio dei suoi genitori, la banda di Kirigan che festeggiava sparando in aria, terrorizzando i poveri cavalli superstiti. La carovana era stata assaltata ad Adena, e i pionieri erano stati legati tra di loro con una robusta corda alle caviglie che li collegava uno all’altro, le mani bloccate dietro la schiena. Tutti i beni faticosamente trasportati al di là del mare venivano saccheggiati da quei banditi, tranne da Aleksander in persona. Era giovanissimo, forse un ventenne, ma l’aura di potere che emanava non lasciava dubbi su chi fosse il capo, lì.
“Adesso vi daremo una possibilità: al mio tre correte, se attraverserete la Faglia sarete liberi”.
Uno scroscio di risate accompagnò quella dichiarazione, seguito da bestemmie e pianti da parte dei prigionieri. Kaz era terrorizzato, ma sapeva che restare in silenzio era la migliore tattica in certe situazioni.
“Uno, due…”
I prigionieri corsero come potevano, ma le ombre non si fecero attendere. Urla disperate si sollevavano da diversi punti della fila, finché dopo ripetuti attacchi la corda cedette in diversi punti. Suo padre, sua madre e suo fratello Jordie misero Kaz al centro del gruppetto, cercando di allontanare i fantasmi famelici. Quando scavalcarono la ferrovia un barlume di speranza si accese, ma inutilmente. Per primo cadde suo fratello, il viso gonfio di sangue e la lingua recisa dai denti aguzzi di uno spettro, poi sua madre, coprendolo col suo corpo mentre un’altra larva le mangiava il fegato. Rimase sotto il suo cadavere per minuti che parvero ore, finché si sentì strattonare dal padre, che lo prese in braccio e corse con tutta la forza che aveva; la maggior parte dei fantasmi si era fermato sui numerosi uomini ancora legati che costituivano un più comodo banchetto. Ormai erano vicini, così vicini… un grido terrificante, come non ne aveva mai uditi, perforò le orecchie del bambino, e un tonfo forte lo stordì per un attimo. Suo padre l’aveva lanciato al di fuori della Faglia, solo mezzo metro, ma era salvo; però aggrappate ai suoi vestiti laceri c’erano le mani mozzate dell’uomo, che erano state recise per la rabbia del boccone che avevano sottratto alla fame dei mostri. Kaz non poté far altro che guardare, incapace di chiudere gli occhi per lo shock. La mattina successiva era ancora lì, impietrito, che osservava lo scheletro con pochi brandelli di carne rimasta attaccata che pareva ancora chiedere aiuto. Lentamente si alzò, stringendo i denti per non lamentarsi. Una profonda ferita gli tagliava la caviglia sinistra, probabilmente era arrivata al tendine. Trascinando la gamba malconcia il piccolo si avviò verso la sagoma della città che si stagliava di fronte a lui. Era solo al mondo e disperato, ma in qualche modo ce l’avrebbe fatta. Lo doveva a coloro che si erano sacrificati per lui, e a qualunque costo si sarebbe vendicato. Il sole spietato del Texas fu il muto testimone del suo giuramento.

“Chiunque lo capirebbe, non fatemelo ripetere due volte”.
La mano sottile di Kaz scorreva sulla vecchia cartina ormai mangiucchiata dalla tarme — se non dai topi.
“Questa è l’unica mappa affidabile della Faglia, voglio che la copiate con precisione, basterebbero pochi metri di errore a condannarci. Quando tenteremo di attraversare dovremo essere come una macchina che lavora all’unisono”.
“Hei, ho sentito ‘tenteremo’ o mi sbaglio?”
La voce petulante di Jasper si sollevò coprendo quella del suo capo.
“Non so se mi va di diventare concime!”
“Non c’è il rischio, non avanzerebbe tanto di te da far crescere un cactus. Non lamentarti, se moriremo potremmo dire di aver provato”.
Brekker si impose di restare impassibile, ma la dedizione di Inej si stava scavando un posto nella sua cavità toracica dove avrebbe dovuto avere un cuore. Purtroppo la sensazione era piuttosto quella di un verme carnivoro che avanzasse consumando quello che gli impediva di raggiungere il suo obiettivo; non era capace di innamorarsi, era certo, quindi doveva solo scrollare le spalle e liberarsi di quella vocina molesta che gli suggeriva di non respingere la felicità così a portata di mano.
“Diremo? Perché, i cadaveri parlano? Alle signore mancherebbero i miei talenti, e anche a qualche ragazzo”.
“Puoi essere serio per dieci minuti, Fahey? La Faglia non è molto estesa, è abbastanza lunga, ma larga appena un mezzo miglio, eppure le stragi ci sono state lungo tutto lo stato, c’è una forza che fa da catalizzatore, ma non riesco a scoprire se è qualcosa di magico o se…”
“É la vita, siamo noi che li attiriamo, lungo la ferrovia non ci sono città più grandi e affollate. E la magia non esiste”.
Inej era pratica, e poi a certe possibilità non voleva neppure pensare.
“Giusto” la risposta di Kaz suonò affrettata “quindi badiamo ai fatti concreti; loro hanno le riserve d’acqua, la terra coltivabile, il legname. Noi l’argento, il ferro, la produzione di armi. Se qualcuno riuscirà a espandersi da ambedue le parti avrà in mano tutto, e non deve essere l’Oscuro, lui ha un esercito; noi siamo slegati, tanti ratti che scappano cercando la propria salvezza. Non potremmo opporci, quindi possiamo fare solo una cosa, attaccarlo per primi e fermarlo. Non se lo aspetterà”.
“Certo che no, perché non ne abbiamo il potenziale!”
Mentre Inej rispondeva il modo poco gradevole a Jasper, Kaz strinse le mani schermate dai guanti blu. Era vero, loro non ne erano in grado, eppure avrebbero dovuto lo stesso. Un brivido gelato lo tagliò da parte a parte.

Il Grande Palazzo era la più volgare ostentazione di ricchezza che si potesse trovare in tutto il Texas, ma agli occhi dei rudi abitanti di quei luoghi era magnifico, una vera residenza reale, come suggeriva il suo nome. Tutti coloro che avevano delle particolari abilità collaboravano al suo andamento. I migliori cuochi, le sarte, gli ebanisti, gli addestratori di cavalli… e le donne. Ce n’erano per tutti i gusti: dalle chiome fulve, dagli occhi grigi come il cielo d’inverno; dalla pelle di rame, di latte, di cioccolato fuso. Alexander fece ruotare con soddisfazione una Colt Navy intorno all’indice destro. Purtroppo i fabbricanti d’armi e i banchieri si trovavano tutti al di là, nella zona inferiore, come amava chiamarla.
“Alina, quando ti deciderai? La mia pazienza non è infinita. Pensa a cosa potresti ricevere per te, o per tutti quelli che mi saranno leali. Non vuoi essere la mia regina?”
“La regina di un esercito di cadaveri? Questo sarebbe quello che otterrei. Io non voglio niente di particolare, solo innamorarmi e vivere una vita normale, con i miei bambini”.
“Ma tu sei innamorata di me” prima che lei potesse rispondere con una frase sprezzante l’Oscuro le aveva sollevato il mento con due dita, “stasera lo stai dimostrando”.
La ragazza cercò di mantenere un’aria altera, ma era difficile coperta com’era di seta azzurro cupo e con fermagli di perle tra i capelli raccolti ad arte. Aveva accettato un abito, poi una camera comoda con un vero letto di piume, questo dietro la promessa che avrebbero trattato. Una spedizione in massa attraverso la Faglia avrebbe significato centinaia di vite spese per proteggere quella di Aleksander, e i pochi giunti dall’altro lato avrebbero scatenato una vera guerra. Gli abitanti di Ketterdam e Novo Krisberg erano meglio armati, ma disorganizzati, senza uno scopo unitario. L’esito sarebbe stato incerto, la strage così grande che probabilmente la Faglia si sarebbe estesa, nutrita da nuovi spiriti infelici. Nuovi orfani, piaghe, fame. Alina sapeva bene cosa significasse avere solo un pezzo di pane nella giornata, scaldarsi dormendo raggomitolata in qualche stalla, coprendosi con la paglia. Ma l’Oscuro aveva un briciolo d’onore? Avrebbe mantenuto la sua parola?
Alina passò una mano dalle dita coperte di piccoli calli sulla seta voluttuosa, ricordando come Genya, la domestica preferita del ranch, l’avesse pettinata, rammaricandosi del colore dei suoi capelli; le aveva proposto una tintura bionda a base di sali di rame che lei aveva rifiutato categoricamente.
“Non capisci niente di uomini, vero? Sei una santa, d’altra parte! Come può non importarti di essere più attraente? Almeno lasciati truccare”.
“No” non c’era più nella sua voce la convinzione di poco prima “è già bellissimo così”.
La vasca di legno con il fondo di ceramica era un lusso smodato per la giovane, e così l’acqua profumata di mughetto. Tutti i dispiaceri e le paure, i piccoli dolori fisici dovuti al duro lavoro, sembravano affogare man mano, aggrappandosi con minuscole manine al bordo della vasca, reso scivoloso dall’essenza oleosa. Dopo averla avvolta con sua grande vergogna in un telo di cotone e asciugata come se non fosse stata capace da sola, Genya le aveva fatto indossare della biancheria di mussola e stretto un bustino con i lacci, tra mille lamentele. In ultimo le aveva proposto una coroncina di zaffiri da mettere tra i capelli, ma Alina li aveva rifiutati.
“Le perle. Hai i capelli bianchi e vuoi l’unica cosa che non ti darà risalto! Ascolta, non possiamo essere amiche? Vuoi farmi perdere l’unico lavoro buono che ho mai avuto?”
Genya era una persona sopra le righe, ma era divertente. A suo modo aveva buone intenzioni, anche perché era chiaro che era stata una delle amanti del padrone. Forse prendeva la cosa con disinvoltura, o forse Alina doveva prestare attenzione, ma un’amica era qualcosa che le mancava tantissimo.
“Non preoccuparti, non darei la colpa a te”.
Alina era stanca di scappare, al punto di stare immaginando come avrebbe potuto essere il futuro con Aleksander. Con la collaborazione di entrambe le parti si sarebbe potuto costruire un ponte chiuso, di metallo robusto, guardato dai migliori guerrieri dalle due parti, armati di tutto punto. Il commercio sarebbe fiorito, le leggi unificate e le persone avrebbero avuto scampo. Ma se la brama di potere avesse prevalso? Se lei fosse riuscita a permettere solo il suo passaggio, trovandosi le mani lorde di sangue? I fantasmi non l’avrebbero perdonata per questo, il Bisonte Bianco era uno spirito che riconosceva la purezza e il coraggio, qualità che in quel momento avrebbe perso definitivamente.
“Sei pronta, meglio di così non potevo fare, senza offesa”.
“Ma certo”.
Alina si stupì del suono della propria voce; era falso come il tintinnio dei ninnoli placcati d’oro che le ragazze indossavano nei giorni di festa per fare bella figura con i loro spasimanti. Non era lei ad aver scelto di essere chiamata la Santa, perché non lo era affatto. In fondo al suo cuore pensava che se avesse avuto le redini le cose sarebbero andate per il verso giusto, perché avrebbe operato per il bene comune. Ma era così che si cominciava. Quando scese la scala a chiocciola che portava al salone decorato con le corna di animali sacrificati e con preziosi manufatti dei nativi rubati durante i saccheggi, Alina si specchiò negli occhi di tenebra dell’Oscuro e quello che vide le piacque. Lui le stava tendendo la mano per aiutarla, con un leggero inchino che non avrebbe riservato neppure a una principessa. La accarezzò con lo sguardo da capo a piedi, soffermandosi sui fermagli di perle.
“Brilli di luce come un lago sotto una luna piena; siamo fatti per stare insieme, mia piccola santa”.
La cena consisteva in uno spezzatino succulento, condito con salsa brown e verdure stufate e una monumentale torta di cioccolato. La vicinanza al Messico non rendeva raro quell’ingrediente, ma Alina non l’aveva mai assaggiato; chiuse gli occhi assaporandolo fino in fondo, e nel farlo doveva aver assunto un’espressione particolare, perché lui la fissava come incantato. Dopo un paio di bicchieri di vino la testa le girava in maniera piacevole, i fiori presenti nella sala profumavano in modo quasi eccessivo, stordendola. Quando la mano dell’Oscuro si posò sulla sua la ragazza sentì caldo e freddo contemporaneamente, una vampata dall’interno che si spegneva sulla pelle gelata dalla paura. Stava per abbandonarsi alla persona più pericolosa che avesse mai incrociato sul suo cammino, e non c’era altro che desiderasse di più. Non l’avrebbe mai ammesso alla luce del sole, sarebbe rimasto il suo – loro – piccolo sporco segreto. Nessun uomo l’aveva mai privata delle vesti come stava facendo Aleksander dopo averla guidata fino alla propria camera, girandole intorno come il predatore che era, aprendo i bottoncini dorati con un tocco così delicato che era quasi impossibile da percepire.
Quando l’abito azzurro era caduto sul pavimento come una chiazza d’acqua viva l’aveva presa in braccio, facendola sedere sul letto coperto da un drappo di broccato nero: le aveva sfilato le scarpette di cuoio baciandole i piedi, e quando lei aveva sussultato, aveva sorriso.
“Santa Alina, accogli questo peccatore”.
Le calze di seta, il bustino e gli ultimi veli sparirono dalla sua persona, lasciandola spaventata, indifesa e tremante. Alina non avrebbe potuto dire se voleva davvero trovarsi lì, se era un sacrificio per il bene della sua gente, se era un piacere personale che le sarebbe costato il rispetto di se stessa, ma le dita esperte del giovane la accendevano nei punti in cui la toccava, risvegliando qualcosa in lei che neppure sapeva esistesse. Quando lui cercò di sdraiarla sulla morbida coltre senza spogliarsi, lei allungò una mano verso il suo petto, bloccandolo. Aleksander la guardò incerto, poi si tolse la giacca e slacciò la camicia, mostrando la pelle chiara cosparsa di cicatrici; per la prima volta in quel momento sembrò un essere umano come gli altri, con le sue insicurezze e con un fardello sulle spalle, non solo uno spietato conquistatore.
“Non spegnere la lampada”.
Non poteva crederci neppure lei a cosa aveva appena detto. Il sorriso crudele dell’Oscuro brillò sulle stesse labbra che le sussurravano parole d’amore, che percorrevano il suo corpo esile e spigoloso facendola sentire umida e bisognosa di qualcosa che ancora non conosceva. Poi, senza dire niente, lui si fece spazio tra le sue gambe sottili, muovendola come una bambola di porcellana per accomodarla sotto di sé. Il dolore del primo istante fu come uno strappo; ma era tardi per pentirsi, in ogni senso. La seconda spinta la trovò meno tesa, arresa, le successive furono sempre più facili, scivolose, appaganti. Quando tutto terminò in un grido di vittoria, Alina si trovò a ridere e piangere contemporaneamente, raccogliendosi come un uccellino ferito sotto l’ala nera di un corvo, protettore e carnefice nello stesso istante.

Lo spettro. Tutti avevano un nome d’arte nei bassifondi noti come il Barile, e Inej non era certo da meno. Non la reputava una fortuna, quell’appellativo se l’era guadagnato col sangue. Aveva smesso di esistere quando il gruppo di ribelli** che l’aveva catturata aveva abusato di lei, vendendola come una schiava al Serraglio, era rinata quando Kaz Brekker l’aveva comprata, ma non per quello che lei si aspettava. Il ragazzo aveva notato i suoi movimenti sciolti, il fisico flessuoso, la disperata voglia di vendetta che brillava nelle sue iridi scure, e questo gli era bastato. Ne aveva fatta la sua spalla, l’unica confidente che conosceva il suo passato e la sua arma migliore. Non poteva amarla come un uomo qualsiasi ama una donna, tutti i contatti fisici gli erano avversi, ma l’idea che potesse essere di qualcun altro era l’unica cosa della quale lo sceriffo aveva paura. La carica che ricopriva era uno sberleffo sul volto della legge, ma chi meglio di un bandito ne può fermare degli altri? La stella d’oro non contava nulla per lui, era solo un simbolo vuoto di significato che gli permetteva un largo margine di manovra, una cavalcata sulla linea di confine tra lecito e illecito che lo rendeva l’unico ufficiale peggiore di parecchi dei fuorilegge che riusciva ad arrestare. Inej era il suo punto debole, la sua umanità, e sapere che la stava lasciando andare verso una morte quasi certa lo faceva gridare in silenzio, il suono che rimbalzava nella sua testa che procurava un dolore immenso.
“Non so perché pensi di darmi ordini, Inej”.
“Perché la gente qui ha bisogno di te, non puoi rischiare di… non farcela, e anche la vita di Jasper. Io me la caverò, sai che posso. Nessuno mi vede, non lo faranno neppure i fantasmi. Quello che abbiamo è l’unico piano possibile, per cui non serve a niente perdere tempo”.
Kaz strinse il bastone dal pomo d’argento così forte da farlo scricchiolare. Ogni parola l’avrebbe svuotato di un po’ di quell’energia apparentemente inesauribile che lo animava.
“Ogni giorno mi devi mandare un messaggio con un falcone, a qualsiasi costo. Se non lo riceverò correrò a cercarti”.
Un’altra ragazza a quel punto lo avrebbe baciato a forza, o avrebbe distolto lo sguardo dalla rara immagine dello sceriffo che arrossiva leggermente. Ma non lei.
“Sei zoppo, non penso che correresti da nessuna parte”.
“Allora striscerò fino a te”.
A quella frase non seguì alcuna risposta.

“Hai sentito? C’è roba nuova stanotte alla Corte di Ossa, un’indiana che si spoglia, una che fa proprio tutto quello che le chiedi”.
“Ti meravigli? Quelle sono cagne, anzi, attento che non ti stacchi l’uccello a morsi!”
Un coro di grasse risate ed entusiasti sputi di tabacco seguì lo scambio di battute dei due cacciatori di taglie; molti stranieri erano confluiti da ogni angolo del Texas, sotto richiesta dell’Oscuro. Adesso che conosceva il segreto di Alina si aspettava un attacco, in qualche modo. A lei non diceva niente di chiaro, pur rassicurandola sull’intenzione di unire le due metà della Faglia. Alla ragazza quella relazione faceva male, lo sentiva. I suoi orfani erano bene accuditi, ma non ricevevano affetto come da lei, e vivere nel Grande Palazzo la stava spegnendo. Aleksander la consumava nel fisico e nello spirito, e il suo soprannome diventava ogni giorno più reale; lei era una piccola fiammella luminosa che stava per essere inghiottita dall’oscurità.
Inej cercava di non pensare mentre allacciava il costume di scena di seta viola, quello tipico delle prostitute, anche se la sua esibizione sarebbe stata un burlesque, un genere di streap-tease che la debolissima presenza della religione nella vita di cowboys e pistoleri aveva dovuto ammettere pur di fermare, in cambio, dei veri baccanali che avrebbero distrutto il precario equilibrio delle famiglie di Os Alta. La coesione sociale era molto bassa, e l’unica cosa che mancava era che tutti i figli crescessero senza padri. Le mogli sopportavano, perché andare contro le regole dell’Oscuro non era raccomandabile: i loro uomini bevevano, si sfogavano con le ragazze, ma poi tornavano a casa senza aver perso tutto il loro denaro. Kirigan sapeva bene come usare il bastone e la carota con i suoi sgherri, perché il proprio potere derivava dal controllo di tutti.
Quando la pesante tenda si aprì un coro di fischi di apprezzamento e grida sconce accolsero la giovane indiana. L’abito consisteva in una gonna con mille volant, stivali texani, un corpetto allacciato davanti e un cappello da cowgirl. Inej era seduta sulla riproduzione in legno di un pony, verniciato di bianco e con decorazione nella coda e criniera posticce che rappresentavano quelle dei guerrieri Lakota.
*** Oh, give me land, lots of land under starry skies above, don't fence me in
Inej si sdraiò con un movimento flessuoso in modo da avere le gambe incrociate in alto verso la testa del cavallino, le mani a sorreggere il mento, mentre gli ubriachi cantavano insieme a lei il popolare motivo.
Let me ride through the wide open country that I love, don't fence me in
Ora era scesa, tirando il cappello coperto di lustrini al pubblico, che iniziò a litigarselo. Bene, dovevano apprezzare il numero, al resto avrebbe pensato dopo. Mentre li provocava con una lenta rotazione dei fianchi e delle giravolte che sollevavano la gonna vaporosa, Inej si concentrava su quanto l’umiliazione fosse sopportabile rispetto a quello che le avevano fatto nel Serraglio, e alla paura di morire che aveva avuta solo una notte prima.
Si era fatta lanciare dal treno in una botte di metallo, e quando il movimento spontaneo si era fermato aveva continuato a rotolare spingendosi, senza nessuna garanzia di stare procedendo dritta verso la salvezza o di starsi dirigendo lateralmente. Sentiva i rantoli disumani degli spiriti che l’avevano circondata, i loro artigli sottili ma fin troppo concreti che piano piano scavavano dei pertugi nel metallo leggero. Kaz aveva gridato e litigato con i suoi fabbri sull’esatto spessore del materiale che doveva essere abbastanza robusto da resistere almeno qualche minuto, ma altrettanto leggero perché Inej lo spostasse con facilità. Alla fine non era contento del risultato, ma lei l’aveva valutato accettabile, forse perché aspettare avrebbe lasciato che la paura invadesse il suo cuore.
Nel momento di salire sul vagone riservato ai suoi aiutanti, Kaz l’aveva trattenuta per un braccio.
“Quando tornerai staremo insieme”.
Inej trattenne il fiato. Doveva essergli costato ogni grammo della sua forza di volontà riuscire a pronunciare una frase del genere.
“Ma come, Kaz? Ti voglio senza la tua armatura, o non ti voglio affatto”.
Gli aveva fatto una carezza sul viso alla quale non si era sottratto, ma deglutendo a fatica.
Adesso doveva concentrarsi per diventare la ragazza numero uno della Corte di Ossa.
On my Cayuse, let me wander over yonder
Un abile movimento del polso, e la gonna a ruota volò via rivelando giarrettiere di pizzo e calze lucenti, tutto dello stesso viola dell’abito.
Till I see the mountains rise
Diverse monete d’argento erano lanciate sul palco, aumentando quando la ragazza si strappò le maniche a sbuffo facendole penzolare su decine di mani sporche e rudi.
I want to ride to the ridge where the West commences
Era la volta del corsetto, che gancio dopo gancio, rivelava centimetri di pelle bronzea e liscia.
And gaze at the moon till I lose my senses
Anche questo cadde a terra con un boato di approvazione, lasciandola solo con delle coppe di broccato rette da fili di seta quasi invisibili.
Don’t fence me in!
“Ancora, ragazza indiana! Dalle a noi, coraggio! Offro un dollaro!”
“Io due, ma le prendo con le mie mani!”
Il panico cominciò a serpeggiare nella mente di Inej; il ricordo di tocchi brutali era troppo vivo, come quello delle corde, delle catene, delle sevizie dalle quali era passata; ma in quel momento si udì un colpo di pistola sparato verso il soffitto. Alina era entrata nel saloon, e aveva usato la piccola rivoltella col calcio di madreperla che Aleksander le aveva regalato ‘per sua sicurezza’.
Non siete in un bordello, questo è un numero di danza. Se le farete qualcosa di male risponderete a me”.
Chi si celasse dietro quel pronome era chiaro a tutti. Protestando e non risparmiandosi le bestemmie gli uomini fecero passare la ragazza indiana, che corse a dare la mano ad Alina, seguendola senza dire nulla.
Pochi minuti dopo la ragazza chiudeva la pesante porta di abete della sua stanza, malgrado questa non avesse serratura. C’era comunque un senso di intimità maggiore, per quanto illusoria.
“Come hai fatto ad arrivare qui? Lavori per lo sceriffo Brekker, vero?”
Inej rimase senza fiato; l’istinto le diceva a gran voce di fidarsi, ma era troppo rischioso. Come aveva capito…
“Faccio dei sogni premonitori, sorella. Anche io sono di Ketterdam, e sono scappata qui per evitare gli schiavisti, ma è successo qualcosa che non potevo prevedere”.
Nel più breve tempo possibile Alina raccontò la sua storia, vedendo passare sul volto bronzeo dell’altra prima l’incredulità, poi il rapimento quando parlò dello spirito del Bisonte.
“Ladhotiyapi.**** È solo una leggenda, come puoi essere tu? Sei bianca”.
Dopo aver pronunciato la frase, Inej fu colpita dal suono delle sue stesse parole. Non era solo pallida, aveva i capelli del colore sacro pur essendo giovanissima, e brillava di un particolare chiarore. Dovevano essere quelle perle che indossava, o il suo abito altrettanto candido; aveva accettato tutto da Aleksander tranne che vestirsi di nero, anzi, per ripicca aveva preteso di indossare solo il colore opposto.
“Noi due vogliamo la stessa cosa, dobbiamo allearci; so che è difficile, ma abbiamo una possibilità. Non possiamo permetterci una guerra, dobbiamo trovare un sotterfugio”.
Alina!”
La voce dell’Oscuro rimbombò su per la scala a chiocciola che conduceva verso la stanza della sua amante, aspra e rabbiosa. Non c’erano dubbi che l’avrebbero informato, ma così presto!
Inej valutò tutto in un secondo. La finestra aveva le sbarre, e nascondersi sotto un mobile non l’avrebbe giudicata una soluzione valida neppure quando aveva cinque anni.
“Tu assecondami”.
Aleksander aprì la porta con veemenza, trovandosi di fronte alla visione di Alina nuda tranne le calze di seta bianca, le braccia abbandonate dietro la testa, alcune ciocche sfuggite alla treccia che spiccavano sulle lenzuola scure, e la nuova arrivata, con ancora addosso le culotte viola, che la leccava tra le gambe con abbandono. Quando lui entrò come una tempesta le ragazze saltarono su terrorizzate, coprendosi come potevano con le lenzuola.
“Dunque è questo che fai, piccola ipocrita, mi tradisci nella mia stessa casa, con della spazzatura indiana? Ti piace più di quello che ti faccio io?”
Inej si era inginocchiata a terra, la testa abbassata. Bene, ci era caduto, sapeva che gli uomini trovavano divertente una scena come quella.
“Nessuno si prende gioco di me e resta impunito, dovresti saperlo. Non ti ucciderò, ma avrai modo di pentirti. In quanto a te, indiana, vedo che sei adatta a lavorare in un bordello più che nel mio saloon. Non ti preoccupare, ti darò da fare finché non mi pregherai di mettere fine alle tue sofferenze”.
Rapido come un rapace Aleksander afferrò Alina per i capelli, facendole emettere un gemito soffocato, rovesciandole la testa all’indietro.
“Hai imparato bene, non posso lasciarti sola una giornata… c’è qualcosa che vorresti dire?”
La ragazza prese fiato, pensando velocemente, ma fu Inej a rispondere.
“Forse vuoi unirti a noi, signore?”
Sul volto dell’Oscuro si dipinse un sorriso maligno.
“Ma certo, che bella idea, sarebbe una soluzione. Però significa che siete così idiote da credere che sarei caduto in un tranello così semplice. C’è un motivo se ho il comando, qui. Nessuno mi può imbrogliare, pedina dello sceriffo; credevi che le mie spie non ti avessero riconosciuta subito? Metterò fine a questa farsa stanotte. Ora voi vi vestirete in modo conveniente, e andremo tutti alla Faglia”.

Non poteva andare a finire così male. Alina e Inej fissavano disperate le manette che le univano – la prima dai polsi e la seconda dalle caviglie – rendendo impossibile per una delle due sacrificarsi per salvare l’altra. Un fuoco robusto ardeva sul confine, indispettendo i fantasmi che fluttuavano a pochi passi da loro, ma senza poter valicare l’orlo della sabbia più scura. Osservando con attenzione si potevano vedere ossa sbiancate dal sole sputare tra le dunette, insieme a residui preziosi d’oro, ferro, legno, materiali che le larve fameliche non potevano masticare. Per ironia della sorte le stelle brillavano come se fossero messaggere di gioia, accendendo il cielo di un brillio quasi sovrannaturale. Non era previsto, ma a un certo punto una di loro cadde, spegnendosi nel cielo nerissimo.
“È a fine che farai tu, Alina, inghiottita dall’oscurità. Ti ho dato ogni cosa, avresti dovuto riflettere prima di ordire piani contro di me. Adesso cercate di dormire, all’alba vorrete essere in forze per una gara di corsa”.
C’erano pochi uomini a sorvegliare il piccolo accampamento, evidentemente Aleksander temeva che anche i suoi non fossero poi così fedeli, quindi la proposta suonò davvero inattesa.
“Non pensi che ti uccideremo nel sonno?”
“No, perché subito dopo i miei cowboys vi getterebbero nella Faglia, e con quali armi vorreste farlo, con quelle mani luride? Pensate che sia così debole? Siete prigioniere, e io nel luogo più sicuro che esista, dove posso vedere tutto quello che mi minaccia. Se provaste ad attirare le ombre con qualche rito divorerebbero anche voi, e vi impediscono di muovervi. Dormirò tranquillo perché so che il mio peggior nemico veglia su di me”.
Ci sono parole pesanti come il piombo e altrettanto pericolose di una pallottola, che scrivono tracce invisibili nell’aria, che evocano forze che dovrebbero restare indisturbate. Una, due, dieci stelle cadenti precipitarono illuminando la Faglia, ritagliando la sagoma di un enorme bisonte. Questo muggì con voce tonante, e i fantasmi, uno a uno, si bloccarono dov’erano, lasciando uno stretto tunnel libero dalla loro presenza, come se fossero trattenuti da pareti di vetro. Al dì la, visibili per le lanterne verdi che recavano, Kaz, Jasper e gli altri Scarti si trovavano esattamente di fronte a loro. Alina fece un cenno alla sua nuova amica, e lei annuì. Si alzarono all’unisono, e malgrado la paura che attorcigliava loro le viscere mossero alcuni passi incerti, fino a raggiungere il Bisonte Bianco.
“La testa di questo mostro sarà il mio ornamento più bello, lo appenderò nella nostra camera, Alina, così lo potrai pregare ogni notte mentre ti farò quello che voglio. Trattienilo, brava”.
Appena passato l’attimo di shock il ragazzo aveva impugnato la Colt, ma prima che potesse usarla, un proiettile passò a pochi millimetri dal suo collo. Kaz stava correndo, il bastone con il corvo abbandonato a terra. Non era veloce, ma pareva trasportato da qualcosa di sovrumano.
“Arrenditi, Oscuro, non puoi uccidere uno Spirito, ma soltanto me; però dovresti riuscirci!”
Una raffica di colpi fu esplosa, andando ogni volta a portare via un pezzetto di un cappello, un lembo di stoffa, perché i pistoleri erano ugualmente bravi e non stavano seguendo le regole di una sfida, ma si muovevano correndosi incontro a zig zag. Alla fine si trovarono di fronte, guardandosi negli occhi. Kaz era ferito alla mano destra e reggeva il revolver a fatica.
“Eccoti, sceriffo, azzoppato e con una mano inservibile. Non resta molto per la tua puttana, vero? Cosa credevi di fare, di passare tra i fantasmi per riprendertela?”
“Proiettili d’argento. Li rallentano, anche se non si può uccidere quello che è già morto”.
Kirigan sorrise trionfalmente.
“Se me lo riveli o sei pazzo o sai di essere finito. Quale delle due, Brekker?”
“Nessuna. Dacci la mano, Kaz, e chiudi gli occhi”.
Il ragazzo prese la destra di Alina e la sinistra di Inej senza fare domande. Un secondo dopo il Bisonte Bianco muggì di nuovo, questa volta soffiando fuoco dagli occhi. Gli spettri si liberarono tutti insieme, gettandosi su Aleksander, strappando la sua carne un boccone alla volta, lasciando per ultimo il cuore. Quando le grida terminarono, Alina posò una tempia sul possente fianco dell’animale sacro, seguendolo senza staccarsi da lui, portando gli altri con sé. Non fecero in tempo ad arrivare dall’altro lato, che Jasper e gli altri li stavano abbracciando, anche se tremavano ancora per lo spavento. Alina aprì gli occhi, e guardò. Quella che si trovava alle sue spalle era solo una striscia di sabbia sporca di sangue, piena di resti, e innocua. I fantasmi avevano avuto vendetta ed erano evaporati come nebbia al mattino. Il Grande Bisonte la salutò con una specie di inchino e lei capì che non l’avrebbe visto mai più.

Per giorni, settimane e mesi le più svariate leggende passarono di bocca in bocca a Ketterdam, poi nella contea di Kerch, poi in tutto il Texas. Era la solita vecchia storia, la bella aveva ucciso la bestia? Alina era davvero una santa, era l’incarnazione di Ladhotiyapi? O questa le aveva solo prestato il proprio potere perché aveva trovato in lei delle qualità sufficienti? Poi il commercio cominciò a fiorire, e anche i seguaci dell’Oscuro furono graziati. Alcuni, i peggiori, finirono nelle celle di Brekker, altri si misero al lavoro volendo solo dimenticare quanto accaduto. Inej e Kaz vivevano insieme, ma nessuno sapeva come, né osava chiederlo. Alina fu il centro dell’attenzione in un modo che la soffocava, ma non sapeva come respingere chi le chiedeva un lembo di veste o una piccola ciocca di capelli da conservare in un reliquiario. Poi la frenesia passò, come tutte le cose di questo mondo. La ragazza aveva scelto una casa modesta, che ospitava lei e i suoi orfani, accanto a quella dei suoi amici. Ogni sera li metteva a letto e leggeva una favola finché non si addormentavano, ma nessuna dove ci fossero fantasmi.
Poi, stanca dalla giornata, finalmente si concedeva il meritato riposo. Spegneva l’unica candela bianca sul comodino, sistemava la coperta fino al mento, per sentirsi più protetta, e pregava. Non era una santa, non lo era mai stata, ma cercava un conforto molte volte inutile. Appena il sonno la vinceva, lo sentiva arrivare. Erano sussurri sottili, a volte tocchi lievi come piume altre l’eco di un desiderio carnale che era inutile negare. Delle notti riusciva a svegliarsi in tempo, ansimando e coperta di sudore. Altre il sogno proseguiva, sembrando così reale…
“Sono qui, Alina, non me ne andrò mai. Hai ucciso gli spettri, hai ucciso me. Non pensavi che sarei tornato?”

The end

*L’aspetto del Bisonte Bianco è quello della sigla di ‘Amercan Gods’
**La conquista del West vera e propria fu a opera dei rinnegati e disertori della Guerra di Secessione
*** La scena del burlesque – con molti adattamenti! – è sempre mutuata da American Gods, con la bellissima canzone “Don’t fance me in”
****Ladhotiyapi – leggendaria figura dei Lakota; la fanciulla-bisonte è legata alla vita, perché arriverebbe a morire per soccorrere chi è in pericolo: è lei a inventare il calumet perché gli umani parlino col Grande Spirito
La fine è piuttosto citazionista di “Indiana Jones e i predatori dell’Arca perduta”
La cartina (orrenda, lo so ^-^) è un mix di: veri confini del Texas, il mio AU, e quella del Grishaverse

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