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Autore: FrancescaPenna    30/07/2021    0 recensioni
Possono cinque ragazzi non ordinari sperare di trovare il loro posto in una società dove l'essenza viene spesso sottomessa all'apparenza, dove le persone rincorrono una perfezione che non esiste per sottrarsi ai pregiudizi?
Casey e Satèle Johns sono due gemelli albini.
Markus Lancaster ama la lettura e odia le persone.
Johnnie Bailey è silenzioso.
Angel Hassler è un maschiaccio.
Cinque ragazzini diversi con cinque vissuti diversi, che si affacciano al contesto delle scuole medie diventando i protagonisti del primo atto di una storia che parla di diversità, accettazione, amicizie e primi amori, ma anche di bullismo, famiglie disfunzionali, autolesionismo e disturbi mentali.
Una storia in cui impareranno a conoscersi per come appaiono agli occhi di tutti, ma anche e soprattutto per come loro stessi si sentono dentro: strani.
Genere: Drammatico, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: De-Aging, Kidfic | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 1 – Nuova scuola, nuova vita

1º settembre 2011

Casey sedeva sul sedile posteriore dell’auto di suo padre, con lo sguardo sconsolato e forse un po' adirato rivolto verso il finestrino, con vista sul Rock River.

Si sentiva come se stesse vedendo il mondo per l’ultima volta in vita sua, come se tutti i posti a lui noti stessero per diventare solo un lontano ricordo.

L’estate era volata e lui non voleva credere a quello che gli stava per succedere: varcare l’ingresso del collegio Hamilton e stare lontano da Satèle per tutta la settimana.

La sua gemella era seduta al centro, fra lui e Coco, e sembrava desiderosa di parlargli, ma non ne aveva il coraggio. Non avrebbe comunque saputo cosa dirgli, in un’occasione del genere; era distrutta.

Intanto, Brad li fissava attraverso lo specchietto retrovisore. Premette i piedi sull’acceleratore e proseguì dritto su Jefferson Street.

“Vorrei avvisarti, Casey”, disse d’un tratto, “che tenere il broncio non ti cambierà le cose. Vale anche per te, Satèle.”

Coco smise di esaminarsi le unghie apposta per osservare la loro reazione, in particolare quella della sorella, invece nessuno dei due rispose.

Cominciò dunque a pensare a un modo per istigarli. Metterli contro i genitori era uno dei suoi passatempi preferiti da sempre.

Essendo Casey il meno incline a perdere le staffe, puntò sull’irascibilità di Satèle. Elaborò il piano nella propria testa e decise che l’avrebbe attuato al ritorno.

Il resto del viaggio proseguì tranquillo; fu quando Hannah annunciò di essere quasi arrivati che Casey entrò in agitazione e iniziò a sudare freddo. Il suo incubo stava per diventare realtà.

Pensò a quanto gli sarebbero mancati i pomeriggi in cui si chiudeva in camera a suonare la sua Gibson – la chitarra che sua zia gli aveva regalato quando aveva appena sette anni – mentre Satèle – che prendeva lezioni di canto da quando ne aveva cinque – cantava a squarciagola le canzoni rock che trasmetteva la radio. Nel frattempo, Satèle, Coco e i suoi genitori avevano aperto le portiere ed erano usciti dall’auto.

“Casey, muoviti!”, urlò suo padre. Lui si affrettò a recuperare la valigia dal bagagliaio e li raggiunse.

Hannah iniziò a fargli le solite, noiose raccomandazioni, ma smise non appena vide l’auto di Luke, fratello minore di suo marito e marito di sua sorella, parcheggiata proprio accanto alla sua.

Fu Diana la prima a scendere e andarle incontro come una furia, seguita da Luke.

“Sei sorpresa di vedermi, eh? Dire l’orario sbagliato per impedirci addirittura di salutare nostro nipote…”, rammentò Diana. “Complimenti, Hannah, sei molto furba”, aggiunse sarcastica.

Hannah la guardò in modo truce. “Chi ti ha detto che eravamo qui?”

“Tua figlia.”

Ovviamente si riferiva a Satèle, che osservava la scena con la testa piegata di lato e un’aria di sfida.

“Presumo che non ci permetterete di cacciarvi”, sbuffò Brad.

“Presumi bene”, rispose prontamente Luke.

Allora Hannah concesse a entrambi di salutare Casey, ordinandogli però di fare presto.

Luke abbracciò forte il nipotino, che fra le sue braccia trovò il coraggio di lasciarsi andare e piangere, cosa che infastidì molto suo padre.

“Casey, ma che cavolo ti prende? Smettila di frignare e comportati da uomo!”, lo sgridò, ma Luke lo difese.

“Lascialo stare, Brad”, disse. “È solo un bambino ed è spaventato.”

Asciugò le lacrime a Casey e lo strinse ancora più forte. “Andrà tutto bene, piccolo. Te la caverai”, lo rassicurò.

Poi venne il turno di Diana. “Ascolta, tesoro”, gli disse dolcemente. “Capisco molto bene come ti senti, ma lascia che ti dica una cosa: non tutti i mali vengono per nuocere. Infatti sono sicura che riuscirai a ricavare qualcosa di buono anche da questa esperienza, che adesso ti sembra così brutta. Perciò forza e coraggio, mia piccola rockstar.”

Sul volto di Casey comparve l’accenno di un sorriso.

“Aspetta”, continuò Diana, “c’è una cosa che voglio darti prima di andare via”. Si scrollò la borsa dalla spalla e dalla tasca, più esterna tirò fuori un piccolo quaderno dalla copertina cartonata nera, con tanto di lucchetto.

“Un quaderno?”, si accigliò Casey.

“Potresti usarlo come diario. Anche io ne scrivevo uno, quando avevo la tua età, e mi faceva stare bene. È come confidarsi con un amico, solo che hai la certezza che nessuno andrà a rivelare i tuoi segreti.”

Casey si strinse il quaderno al petto. L’idea gli piacque, soprattutto perché lui – a parte Satèle – non aveva amici in carne e ossa.  

“Grazie mille, zia. Ti voglio bene.”

“Anch’io, tesoro. Vieni qui, dammi un bacio”, rispose lei, abbassandosi leggermente.

Dopo abbracciò Satèle e le disse di stare tranquilla, perché avrebbe potuto sempre contare su di lei.

“In realtà no”, la contraddisse Hannah. “Io e Brad concordiamo sul fatto che voi due – specialmente tu, Dia –, abbiate una cattiva influenza su Satèle, e che lei la eserciti a sua volta su Casey. Quindi, l’unico modo per spezzare questa specie di circolo vizioso è limitare le vostre visite.”

“Cosa?!”, strabuzzò gli occhi Satèle.

“Satèle, zitta!”, l’ammonì sua madre.

Dia sollevò le sopracciglia e rimase a bocca aperta. “Io eserciterei una cattiva influenza sui tuoi figli?” Si fece prendere da una risatina nervosa e pretese che le venisse spiegato il motivo di tale affermazione.

“Intendi dire un motivo che superi tutti gli altri motivi?”, la provocò Hannah.

Delle due era lei la sorella maggiore, eppure certe volte si comportava da ragazzina immatura nonostante avesse trentasei anni. Dia detestava quando faceva così.

“Te lo dico io, il motivo”, s’intromise Brad. “È che sei una svitata! Davvero, Diana, non ti rendi conto di tutte le cretinate che gli metti in testa, prima su tutte quella che un giorno potrebbero diventare dei musicisti?”

Neanche le diede il tempo di replicare che subito riattaccò dicendo: “Inoltre sei un pessimo esempio da seguire, e credo che tu possa capire a cosa mi riferisco… ammesso che non ti sia completamente bruciata il cervello con…”

“Basta così!” lo zittì Luke. “Andiamocene, Dia, non dargli retta.” Passò un braccio intorno alle spalle di sua moglie e risalirono in macchina.

Casey vide sua zia salutarlo per l’ultima volta con un cenno della mano, poi Luke premette sull’acceleratore e l’auto svanì nel traffico.

Satèle si fece avanti e abbracciò suo fratello, ormai rassegnata e pronta all’idea di vederlo

varcare la soglia di quel posto.

“Mi sa che è giunta l’ora”, disse piangendo. Odiava farlo in pubblico, specie davanti ai genitori, ma stavolta non ce l’aveva fatta a trattenersi.

“Mi mancherai da morire, Sat”, rispose il gemello.

Restarono avvinghiati fin quando a entrambi non rimasero più lacrime per piangere. Si guardarono negli occhi e se li asciugarono a vicenda, poi Casey prese il viso di Satèle fra le mani e le solleticò le guance con i pollici come faceva ogni volta che voleva tirarle su il morale.

“Satèle, ti ricordo che fra poco tuo fratello dovrà entrare”, la sollecitò sua madre, così lei lasciò la presa.

“Adesso vai, Casey, o farai tardi”, ribadì Brad. Lui e Hannah, invece, non si degnarono di salutarlo.

Coco gli disse semplicemente ciao, in maniera molto fredda.

Casey si allontanò da tutti loro senza aggiungere nulla, avvicinandosi sempre di più all’entrata.

“Andiamo”, dissero i genitori alle ragazze. Risalirono in macchina, chiusero le portiere e ripartirono.

Satèle guardò la sagoma di suo fratello attraverso il finestrino e raccolse con la lingua tutte le lacrime che le colarono alle estremità delle labbra.

Coco lo ritenne il momento migliore farle beccare una sgridata dai genitori.

“Che c’è, Satèle? Ti senti come Cip senza Ciop?”, la stuzzicò.

“Piantala!”, tuonò Satèle.

“Mi presti tu la pala?”, perseverò Coco.

“Stronza!”, la chiamò Satèle, tirandole una ciocca di capelli.

“Ahia!”, piagnucolò Coco, più per attirare l’attenzione dei genitori che per il dolore.

“Satèle, vuoi smetterla o preferisci che ti faccia sbattere la testa contro la portiera?”, la minacciò suo padre.

Lei gli mostrò il dito medio e continuò a guardare, fuori dal finestrino, la sagoma di Casey che diventava sempre più piccola, sempre più lontana da lei.

 


Casey era fermo davanti alla facciata principale del collegio e alzò la testa più che poté per riuscire a scorgere il tetto a salienti.

L’Hamilton si presentava come un edificio molto simile a una cattedrale gotica dalle proporzioni ciclopiche, al quale si accedeva tramite un portale strombato, affiancato da colonne e finestroni ogivali dai vetri colorati (almeno al primo piano), in contrasto con il grigio freddo delle pareti, in alcuni punti un po' crepate a causa di tutte le intemperie a cui erano state sottoposte durante gli anni. Appena sotto il rosone c’era un fregio sul quale era inciso il nome dell’istituto, invece sopra, in corrispondenza del secondo piano, correva un elegante parapetto dal quale svettava una bandiera raffigurante lo stemma ideato dall’antico fondatore, lo stesso che era riportato sulla giacca dell’uniforme.

Essa consisteva appunto in una giacca blu scuro, dei pantaloni dello stesso colore e una camicia bianca che portava un cravattino nero annodato al collo, l’unico elemento che a Casey piaceva perché gli ricordava Billie Joe Armstrong, il frontman dei Green Day, ai tempi di American Idiot. Per il resto, si sentiva ridicolo vestito in quel modo. Ai piedi aveva i mocassini e rimpiangeva le sue adorate Converse.

L’uniforme femminile era pressoché identica, l’unica eccezione era la gonna al posto dei pantaloni.

Casey impugnò saldamente il manico della valigia e si decise finalmente a entrare nell’edificio, con il cuore che gli martellava forte contro il petto.

Per raggiungere la sala convegni, dove si sarebbe svolta la cerimonia di inizio anno scolastico, dovette percorrere un lungo e freddo corridoio dalle pareti bianche e il pavimento in marmo talmente scivoloso che non poté neanche permettersi di accelerare il passo, altrimenti sarebbe caduto faccia a terra e qualcuno di passaggio ne avrebbe sicuramente riso.

Aveva però la sensazione che qualcuno l’avrebbe deriso lo stesso, anche se non avesse fatto niente.

 


Russell Richardson era al settimo cielo. I suoi ricchi genitori avevano esaudito il suo desiderio di frequentare una scuola esclusiva e l’avevano iscritto nientepopodimeno che all’Hamilton, così poteva star sicuro di non ritrovarsi come compagno di classe qualche pezzente.

In quel momento, con la schiena appoggiata alla parete esterna della sala convegni, aspettava che Jack Duncan e Jimmy Hunter, i suoi amici-assistenti fidati, gli portassero dell’acqua liscia a temperatura ambiente, così come aveva richiesto.

Nel frattempo lui si guardava attorno alla ricerca di qualcuno di interessante e allo stesso tempo disposto a ricevere ordini. Doveva pur farsi conoscere e attirare consensi, se voleva diventare popolare. Già immaginava i suoi compagni di classe che lo riconoscevano come leader, i ragazzi in corridoio che lo guardavano con ammirazione, le ragazze che lo ricoprivano di attenzioni.

Ne aveva adocchiata una carina dai lunghi capelli castani, ed era quasi tentato di andare a parlarle. Era sicuro di sé, era sicuro che nessuno avrebbe potuto far crollare le sue certezze.

Nessuno eccetto un ragazzino esile dai capelli bianchi.

Nel momento in cui lo vide sbucare praticamente dal nulla, il vociare che si era propagato nella sala cessò e si sentirono solo dei brusii perlopiù di sconcerto, ma anche di apprezzamento. Soprattutto da parte delle ragazze. Nel giro di pochi secondi il ragazzo aveva attirato sguardi come se fosse una calamita, compreso quello della ragazzina castana e una sua probabile amica, che l’avevano seguito all’interno e si erano sedute accanto a lui.

“Russell!”, lo chiamò Jimmy. “Ti abbiamo preso l’acqua.”

Russell afferrò la bottiglietta e bevve un sorso mentre continuava a osservare il ragazzo albino. Gli venne da storcere il naso; non riusciva a comprendere come avesse potuto attirare tanta attenzione non facendo nulla.

“Chi stai guardando?”, gli chiese Jack.

Russell spiegò tutto.

“Un tizio con i capelli bianchi?”, ripeté incredulo Jimmy. “Com’è possibile?”

“È una malattia”, lo informò Jack. Dei due era quello con più cervello.

“Come può la gente essere attratta da uno che ha un aspetto così strano?” si chiese Jimmy.

“Vorrei saperlo anch’io”, rispose Russell, abbastanza seccato. Fece una smorfia e ripose la bottiglia nelle mani di Jack. Schioccò le dita e ordinò ai due di seguirlo. “E comunque”, ci tenne a puntualizzare, “siete due incapaci. Vi avevo chiesto dell’acqua a temperatura ambiente, questa è ghiacciata!”

 


Casey attendeva l’arrivo del preside. Nel frattempo si era presentato alle due ragazzine sedute vicino a lui, che avevano fatto altrettanto.

“Sarah Green”, gli aveva stretto la mano la prima.

“Karen Armstrong”, si era presentata la seconda.

Si erano conosciute quell’estate a un campo estivo e subito era sbocciata l’amicizia.

Che bello, pensò Casey. Anche lui desiderava che, prima o poi, gli accadesse una cosa del genere. Aveva sentito dire che le migliori amicizie fossero quelle nate dal nulla, chissà se era vero.

Gli venne l’istinto di girarsi indietro e non riuscì a credere a chi vide: il ragazzino che, circa due mesi prima, aveva incontrato in corridoio con la madre. Lo riconobbe dal colore molto particolare dei suoi capelli: tendenzialmente un nero, con dei riflessi (che lui faticava a credere fossero naturali) di blu zaffiro.

Abbiamo una cosa in comune, pensò Casey.

Stavolta, però, il ragazzino non si accorse di lui. O almeno così gli parve.

Nonostante questo, si sentiva degli occhi addosso. Aguzzando la vista, riuscì a capire a chi appartenessero: in un angolo della sala, con le mani sui fianchi, tre ragazzi lo stavano squadrando dalla testa ai piedi in modo alquanto minaccioso.

Casey si sentì molto confuso.

Improvvisamente arrivò il preside e tutti si alzarono in piedi per salutarlo.

Era più simile a un armadio che a un uomo; alto, robusto e con la postura più dritta di un soldato.

“Buongiorno, sedetevi”, disse. Anche la sua voce metteva i brividi, tanto era grossa.

“È per me un piacere augurarvi un caloroso benvenuto al collegio Hamilton”, continuò. “Mi aspetto grandi cose da tutti voi. Adesso state diventando dei ragazzi, non siete più dei bambini. Sarete gli adulti di domani, il futuro del nostro Paese. Motivo per cui io e le vostri insegnanti vi forniremo tutti gli strumenti necessari alla vostra formazione. In questo collegio imparerete a maturare, a crescere, a essere indipendenti dalle cose futili. Motivo per cui dovrete abbandonare i vostri cellulari e tutti gli oggetti fonte di distrazione. Adesso ci siete solo voi e il vostro potenziale, e con questo mi sembra di aver detto tutto. Non mi resta che augurarvi un buon anno”, concluse il preside, ricevendo un applauso.

Niente cellulare. Casey cominciò a temere disperatamente che mantenere i contatti con Satèle sarebbe diventato sempre più difficile. Per fortuna che i suoi genitori avevano firmato quel permesso per prelevarlo da scuola per i fine settimana. Da un lato, però, si sentì in colpa per tutti i ragazzi che sarebbero stati costretti a vivere nel vero senso della parola a scuola.

“Adesso inizierà la cerimonia vera e propria”, annunciò il preside. “Ho qui l’elenco con la formazione delle classi. Una volta che il vostro nome verrà pronunciato, salirete sul podio e una delle vostre insegnanti vi fornirà la chiave della vostra stanza.”

Casey si sentiva pervaso dall’ansia, motivo per cui non riuscì a prestare attenzione a nomi che non fossero il proprio, che venne pronunciato circa una ventina di minuti dopo fra quelli dei ragazzi della sezione D.

Si alzò e salì sul podio. La sua insegnante, Suor Elizabeth, un’anziana signora dagli occhiali grandi e tondi, gli consegnò la chiave della camera 203.

Fatto ciò, Casey si mise in fila dietro quelli che sarebbero diventati i suoi nuovi compagni di classe.

Fra questi riconobbe Karen Armstrong, Sarah Green e il ragazzino dai capelli corvini.

Alla fila sia aggiunse poi un ragazzo dai capelli e gli occhi scuri, il profilo leggermente aquili-

no, che rispose al nome di Russell Richardson.

Casey riconobbe anche lui: era quello che prima lo stava guardando in malo modo.

Subito dietro di lui, i suoi amici: Jack Duncan e Jimmy Hunter.

 

 

Suor Elizabeth aveva condotto i suoi studenti in un’aula dalle pareti grigio chiaro pressoché spoglie a eccezione di un planisfero e un crocifisso in corrispondenza della cattedra e i banchi singoli in legno scuro, con tanto di scrittoio.

I ragazzi corsero subito a scegliersi i posti, ma la suora diede un colpo di bacchetta sulla cattedra e nessuno osò più muoversi.

“Fermi!”, ordinò. “Qui ci sono delle regole ben precise per sedersi, perciò voglio i maschi nella fila destra e le femmine in quella sinistra.”

Tutti obbedirono e Casey occupò l’ultimo banco.

“Bene”, convenne Suor Elizabeth, “adesso possiamo procedere con la lettura del regolamento d’istituto.” Prese un fascicolo e cominciò a leggere: “È vietato mangiare o parlare senza chiedere prima il permesso in classe, è vietato disertare le lezioni se non per motivi di salute adeguatamente giustificati e i ritardi anche lievi verranno puniti con note di demerito. È vietato introdurre cibi o dispositivi elettronici all’interno delle vostre stanze. È vietato girare per i corridoi dopo le 21:00, che è l’orario limite per andare a letto. È vietato tingersi i capelli, in caso contrario vi verranno rasati. Le ragazze che li portano lunghi o medi li dovranno necessariamente legare se non vogliono tagliarli, quelle che li portano già corti possono anche evitare. È vietato l’uso di cosmetici e accessori, pertanto adesso dovrò sequestrarvi immediatamente bracciali, orologi, orecchini e collane.”

Riassunto del regolamento secondo Casey: era vietato esprimere la propria personalità.

Sarebbe stato un anno lungo.

Suor Elizabeth, nel frattempo, si faceva largo fra i banchi con una scatola di cartone fra le mani, pronta a sequestrare gli accessori di tutti.

Arrivata al banco di Casey, gli ordinò di consegnarle i due bracciali borchiati che portava ai polsi. Il ragazzo obbedì – a malincuore, ovviamente – e lei gli disse: “Sei in collegio, giovanotto, non a un concerto rock.”

Sfortunatamente, pensò Casey.

Fatto questo, la suora poggiò la scatola sulla cattedra e concesse ai ragazzi un po' di tempo per andare in camera e telefonare le famiglie prima di sequestrargli i cellulari.

I ragazzi salutarono e uscirono dall’aula.

 


Tutte le camere, all’Hamilton, erano singole e poco più grandi di un ripostiglio. La 203 non faceva eccezione. All’interno c’erano solo una brandina dalle lenzuola bianche che avrebbe potuto tranquillamente essere un letto d’ospedale, una finestra con le inferriate, un comò e un piccolo armadio di legno di scarsa qualità, per di più impolverato.

Sembrava più la cella di un carcere che la camera di un dormitorio, e in un certo senso Casey si sentiva un prigioniero. Quella sarebbe stata la sua nuova vita, per i successivi tre anni.

Aveva a disposizione pochi minuti per telefonare prima che gli venisse tolto il cellulare e voleva spenderli per le persone su cui sapeva di poter sempre contare.

La prima che chiamò fu sua zia.

“Casey, che bello sentirti!”, esclamò Dia. “Come procede lì?”

“Male, zia”, rispose lui. “Questo posto sembra una prigione, non si può fare niente. Non potrò più chiamare Sat durante la settimana perché ci toglieranno i telefoni, dovrò per forza aspettare di tornare a casa il sabato per sapere come sta e che sta facendo.”

A Dia dispiacque molto sentire tutto questo. Non riusciva proprio a capire come Hannah avesse potuto fargli una cattiveria simile.

Fece un respiro profondo e disse: “Tranquillo, tesoro, non durerà per sempre.”

“No?”

“No. Io farò di tutto per impedirlo, io…” Fece una pausa. Un’idea stava cominciando a balenarle nella testa.

“Zia?”

“Ti tirerò fuori da lì”, gli promise Dia.

“Davvero?”, chiese Casey speranzoso. “Come?”

“Sì, tesoro”, rispose lei determinata, “ma non sono ancora bene come. Dammi il tempo di pensarci, okay?”

“Ci conto”, le assicurò Casey. “Ora ho poco tempo, vorrei chiamare Sat.”

“Certo, vai. Baci.”

“Anche a te.”

Una lacrima calda rigò la guancia di Casey mentre si affrettava a comporre il numero di Satèle sulla tastiera.

 

   
 
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