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Autore: Adeia Di Elferas    31/07/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Era ormai tardo pomeriggio. Caterina stava rileggendo una volta di più il brevissimo messaggio che Fortunati le aveva fatto avere il giorno prima.

Il piovano era stato conciso, ma molto diretto, facendole capire che i Salviati avevano mostrato di essere favorevoli alla sua richiesta. Le aveva anche specificato che, nel giro di pochi giorni, avrebbe ottenuto per lei un nuovo permesso per recarsi alle Murate, per continuare, ufficialmente, i suoi esercizi spirituali.

Non faceva cenno, nemmeno velatamente, alla possibilità, per lei, di andare nei boschi o di guadagnare nuove piccole libertà. La metteva in guardia, invece, verso tutto e tutti, facendole intendere che a Firenze l'aria era tutt'altro che salubre e che da un lato aumentavano i malumori verso i francesi e, dall'altro, cresceva l'attesa per le prossime mosse dell'Imperatore. 'Che è dunque bene che sia stia dove si è senza spostarsi', concludeva, rimarcando come, per il momento, conveniva loro attendere di capire da che lato la Signoria si sarebbe messa a guardare con più benevolenza.

Alla Tigre l'unica cosa che interessava davvero, nell'immediato, era sapere quando, di preciso, avrebbe rivisto Giovannino. Fortunati le faceva sapere che a breve sarebbe passato alla villa per parlarle a quattrocchi, ma per ora non si era ancora visto.

Con un sospiro, la donna lasciò la scrivania e andò verso la finestra. Nella luce plumbea di quell'ottobre, era difficile capire se ciò che scendeva lentamente dal cielo fosse acquerugiola o proprio nevischio. Faceva freddo, quello era vero, ma alla Leonessa pareva impossibile che cominciasse già a nevicare... Si era fatta persuasa che nel fiorentino gli inverni fossero più caldi, che non a Forlì...

Qualcuno bussò alla porta, che era solo accostata e non chiusa. Accigliandosi, ma pensando che potesse trattarsi di Bianca, avendo una questione in sospeso con lei, la donna diede subito il permesso di entrare.

Non si sbagliava. Sua figlia, guardinga, si fece avanti e, chiusasi l'uscio alle spalle, restò in attesa, con le mani giunte in grembo e lo sguardo basso.

“Mi avevi detto di venire qui da te, quando fossi stata pronta per parlare...” fece la giovane, azzardandosi a malapena ad alzare lo sguardo.

“Sai già di cosa voglio parlare.” disse la Sforza, passandosi un momento una mano sulla fronte e poi incrociando le braccia sul petto.

La Riario deglutì e poi sussurrò: “Dimmelo tu.”

Più in difficoltà di quanto credeva sarebbe stata, la Tigre prese tempo, ma poi, rendendosi conto che tergiversare era inutile, se non ridicolo, dato che era stata lei a pretendere quell'incontro, le chiese, a bruciapelo: “Tra te e quell'emiliano è successo qualcosa?”

Bianca non rispose, ma il modo in cui avvampò bastò come conferma alla madre.

Pur essendo la prima a non crederci, la Leonessa domandò: “Ti ha forzata a fare qualcosa che non volevi?”

La ragazza scosse il capo, con una sicurezza che non ammetteva repliche.

“Ti ha sedotta approfittandosi della vostra differenza d'età? Ti ha ingannata con delle promesse? Ti ha convinta a...” in realtà Caterina non voleva sminuire Bianca, provando ad avanzare certe ipotesi, ma la reazione che ottenne fu quella dettata dall'orgoglio ferito.

“Sono stata io a volere che diventassimo amanti.” ribatté la Riario, non riuscendo più a trattenersi.

La Sforza non aprì bocca. Quell'ammissione, quasi ringhiata, l'aveva sorpresa. La libertà che aveva sempre lasciato a sua figlia, forse, si esprimeva anche a quel modo, eppure in una certa misura la spaventava.

“Se proprio vuoi saperlo – proseguì la giovane, passandosi nervosamente la punta delle dita sugli occhi – lui non è stato nemmeno il primo.”

Ancora una volta, la Sforza non sapeva come ribattere. Era stata lei, dopotutto, a non imporle vincoli, se non un matrimonio fasullo con Astorre Manfredi, sempre lei a chiudere un occhio ogni volta in cui l'aveva vista scambiarsi effusioni con qualche soldato... Poteva forse lamentarsi del fatto che sua figlia avesse fatto di testa sua, scampando a un genere di imposizioni che lei per prima aveva subito e da cui non si era mai ripresa davvero? La risposta era anche troppo semplice: no.

Inoltre, inutile negarlo, ormai non aveva nemmeno più senso cercare la cautela al solo scopo di poter un giorno annullare il matrimonio con Astorre Manfredi sostenendo la mancata consumazione delle nozze: il mancato signore di Faenza, Caterina ne era più che certa, non avrebbe mai lasciato Castel Sant'Angelo, non da vivo, almeno.

L'unica obiezione che la donna si sentiva in dovere di fare ci mise qualche secondo per uscire dalla sua gola, e, quando ci riuscì, il suo tono era tanto incerto da risultarle quasi estraneo.

“Quell'uomo ha la mia età...” sussurrò, confusa, come se non potesse davvero capire cosa una ragazza di nemmeno vent'anni come Bianca potesse trovare in qualcuno che sfiorava i quarant'anni.

“Ha un anno in più di te.” la corresse la Riario, distogliendo lo sguardo.

Caterina, schiarendosi la voce, andò a sedersi alla scrivania. Il silenzio che era sceso tra lei e la figlia era pesante, eppure non se la sentiva ancora di romperlo. Stava cercando di ragionare in fretta, di trovare i lati positivi a quello che Bianca le aveva confessato, e, nel farlo, si rese conto di aver tralasciato un dettaglio fondamentale.

“Ma si tratta di una cosa seria o..?” provò a chiedere.

“Mi stai chiedendo se è successo solo una volta?” la voce della Riario si era fatta acuta, sulla difensiva.

La Tigre non voleva scatenare in lei quel genere di difesa, non voleva che si sentisse sotto attacco per qualcosa che lei stessa non le aveva mai vietato, in barba a tutte le convenzioni sociali a cui avrebbe, invece, dovuto sottostare.

“Voglio sapere solo se è stata un'avventura passeggera o se avete intenzione di fare sul serio.” tentò di spiegare.

“Appena potrà, tornerà da me.” disse Bianca, senza bisogno di fare il nome di Troilo: “Ci amiamo e ci sposeremo, quando Astorre sarà morto.”

“E quando pensavi di dirmelo?” ormai Caterina si sentiva del tutto smarrita, come se la ragazza che avesse dinnanzi non fosse più la Bianca che aveva creduto di conoscere a Ravaldino, o, forse, la era, ma era stata lei a voler sempre tenere una certa distanza tra loro, senza mai capirla fino in fondo.

“Non sono una sciocca.” anche la Riario cominciava a essere molto nervosa, perché aveva aspettato quasi con paura quell'incontro, e si era attesa di vedere la Sforza gridare, dibattersi, sgridarla, magari, minacciarla di qualcosa, ma non di trovarla tanto confusa e spaventata: “So bene che implicazioni potrebbe avere, un legame con lui. So che è un uomo del re di Francia e che le terre che sono state in parte rese a suo padre erano prima degli Sforza. Lo so. Ci ho pensato tanto, non credere che non sia così... Ma lo amo.”

“Lo conosci appena.” cercò di farla ragionare Caterina.

“Quanto tempo ti ci è voluto per capire di amare il tuo Giacomo?” contrattaccò Bianca, rendendosi conto di essere crudele, ma volendo essere capita fino in fondo: “Una notte? Due? Dieci? Quanto lo conoscevi, quando hai capito che non potevi rinunciare a lui? E quanto ti è importata la differenza d'età con lui? E la difficoltà politica che avrebbe comportato stargli accanto? Quanto sono pesate tutte queste cose?”

Quel paragone, inatteso e, per lei, molto doloroso – specie calcolando come la posizione di Bianca, nella congiura, non fosse mai stata troppo chiara, per lei – ridusse in silenzio la Leonessa per una paio di minuti. Nelle sue domande retoriche Bianca parlava di una, due, dieci notti... A Caterina era bastato il tempo di uno sguardo, per legarsi a Giacomo, e quello di un bacio per capire che non avrebbe potuto più dividersi da lui.

“Io...” cominciò a dire la donna, masticando un po' le parole: “Io... Non ho mai voluto metterti dei freni. Non ti ho mai impedito di... Mi hai detto tu stessa che lui non è stato il primo, e mi sta bene, non ho mai preteso che... Da un lato credo sia anche un bene, perché sei più consapevole di quello che... Oh, insomma, lasciando anche da parte tutto quello che può essere un problema diplomatico e politico, quell'uomo ha quasi vent'anni più di te! Anche ammettendo che non si stufi prima, tra dieci anni sarai l'amante di un uomo che ti sembrerà un vecchio!”

Quell'uomo ha un nome.” soffiò Bianca, per poi soggiungere: “Capisco le tue ragioni, ma so quello che dico... Lui mi piace, moltissimo, mi piace la sua compagnia, anzi – precisò, con le guance rosse e gli occhi che non riuscivano a staccarsi dal pavimento di cotto – lo amo e mi piace andare a letto con lui, più di quanto non mi sia piaciuto con nessun altro. Io a lui non rinuncio e basta.”

Per nulla avvezza a sentirla esprimersi a quel modo, Caterina guardò la figlia per un lunghissimo istante. C'era qualcosa, in lei, quel pomeriggio, che le riportò alla mente in modo prepotente sua madre Lucrezia. La sua era una storia molto diversa, ma anche lei aveva amato un uomo contro ogni logica, e, anche se per poco e a modo suo, era stata felice... Anche se per pochi anni.

Dopo un po', come ripresasi dallo stordimento del momento, con lentezza Caterina si alzò dalla sedia, lasciando la scrivania e, fronteggiandola, le disse: “Se è così, se sei sicura di quello che stai facendo, a me sta bene. Ti chiedo solo di stare attenta.”

La Riario, colpita da quell'improvvisa virata, riuscì finalmente a sollevare lo sguardo e incrociò le iridi verdi della madre per qualche secondo.

“E comunque – concesse Caterina, mentre ancora cercava di metabolizzare quanto appreso – devo dire che è un bell'uomo...”

La ragazza non commentò, limitandosi ad annuire appena.

“L'importante è che tu sia felice, tutto il resto non conta nulla.” rimarcò la donna, guardando, comunque, sotto una luce un po' diversa la figlia: “Se vi amate e se è lui l'uomo che vuoi, se sa renderti felice... Allora io sono dalla tua parte.”

Bianca sbatté le palpebre un paio di volte e poi confermò: “Con lui so che sarò felice. La nostra intesa è profonda... Anche se non ci conosciamo ancora bene, so che è così.”

“Va bene...” sussurrò Caterina.

La Leonessa si trattenne per un soffio dal provare a ricordare alla figlia quanto sarebbe stato complicato, se si fosse ritrovata incinta di quell'emiliano, specie non sapendo – per quanto lei ne paresse convinta – fino a che punto realmente arrivasse il suo interessamento nei suoi confronti.

“Quando tornerà – chiese, invece, volendo dare credito all'uomo per cui Bianca sembrava nutrire una fiducia cieca – gli dirai che io lo so?”

La Riario si morse il labbro, non sapendo cosa rispondere. Alla fine, senza guardarla, le disse che sì, probabilmente glielo avrebbe detto.

Fuori il cielo si era incupito ancora di più, e madre e figlia non trovavano altro da dirsi. Quel confronto, tutto sommato breve, aveva ridimensionato, tra loro, molti confini ed equilibri, mostrando a entrambe lati poco noti l'una dell'altra. Se Caterina aveva trovato nella figlia una donna più matura e sicura di sé di quel che immaginava, così Bianca aveva scoperto in lei una madre più comprensiva e docile di quanto aveva temuto.

Solo dopo qualche minuto, la Riario riuscì a parlare di nuovo: “Secondo te... Astorre Manfredi quanto può sopravvivere ancora a Castel Sant'Angelo?”

Sentire il nome della prigione che l'aveva nascosta al mondo per più di un anno le diede un brivido, ma la Leonessa rispose ugualmente in modo pronto: “Se nessuno lo farà liberare, non credo possa resistere più di qualche mese. Io stessa, se l'Alégre non fosse intervenuto, probabilmente ora sarei già morta.”

La figlia deglutì, scorgendo sul volto della madre un'ombra di quelle persistenti, difficili da far scomparire. La lunga prigionia, checché ne dicesse la stessa Tigre, l'aveva segnata per sempre e quella profonda ferita non si sarebbe mai rimarginata del tutto, ma si sarebbe solo andata a sommare a tutte le altre.

“Sono un mostro, a sperare che muoia presto?” la domanda era scivolata fuori dalle labbra della Riario senza che lei lo volesse davvero, quasi più un pensiero ad alta voce che una reale richiesta.

Caterina provò a immedesimarsi in lei, immaginando che, al posto del De Rossi, ci fosse il suo Giacomo: “No, non la sei.” e poi soggiunse, con gravità: “Inoltre la morte, ormai, per Astorre sarebbe solo una liberazione. Stare in una di quelle celle è peggio, mille volte peggio, di una stilettata nel cuore.”

Bianca deglutì un paio di volte, domandandosi quale fosse, di preciso, l'inferno privato che sua madre doveva vivere ogni giorno e ogni notte nella sua anima, e le bastò per spaventarsi.

“Io non ho altro da dirti.” concluse la Leonessa, brusca, troppo presa proprio dai tremendi ricordi del passato recente, per riuscire a continuare una conversazione distesa con la figlia.

La Riario capì, senza che vi fosse bisogno di spiegarglielo, il bisogno improvviso di solitudine di sua madre, così, con un leggero sorriso, le disse: “Spero di vederti a cena.”

Caterina, sedutasi alla scrivania, fece un cenno con il capo, che poteva significare sia sì che no, e poi sollevò appena la mano in segno di saluto, mentre la ragazza già lasciava la sua stanza.

Sentendosi più vecchia di quanto non fosse, la Sforza rimase immobile sulla sedia fino a ben oltre l'orario della cena. Era venuto molto buio e le due candele accese non bastavano più. Fuori, ormai, quello che scendeva dal cielo era nevischio vero e proprio e dal vetro, benché spesso, entrava il freddo inconfondibile che preludeva all'inverno.

Quando sentì bussare, la Tigre si accigliò, ma disse ugualmente: “Avanti.”

Creobola, la serva, aprì con lentezza e poi, scusandosi per l'intrusione, entrò in camera con un vassoio su cui stavano in bella mostra una piccola caraffa di vino, del formaggio e un baio di uova stracciate.

“Perdonatemi – ribadì la domestica – vostra figlia mi ha chiesto di portarvi qualcosa da mangiare, visto che non siete scesa per cena.”

La Leonessa la ringraziò con un sussurro e le chiese di lasciarle tutto sulla scrivania. Creobola fece come le era stato detto e poi, servile, domandò se la sua padrona avesse bisogno di altro.

“Accendimi altre candele.” ordinò la Sforza.

Quando ci fu più luce, il profumo delle uova e l'aroma del vino la distolsero finalmente dai suoi pensieri.

Così, mandando via la serva, si dedicò al riempirsi la pancia. Era ancora un po' distratta, perciò si gustò solo in parte il sapore dei tuorli rossissimi delle uova frutto degli sforzi delle due galline che le aveva regalato Scipione Riario, e sentì a malapena il calore che il vino speziato le infondeva sorso dopo sorso.

Tuttavia, a cena finita, si sentì più in pace con se stessa e con il proprio corpo. Si cambiò per la notte e, senza spegnere nemmeno una candela, si andò a coricare sul letto, mettendosi a guardare verso la finestra. Gli scuri erano aperti, ma i riflessi delle fiammelle tremule rendeva difficile scorgere qualcosa oltre i vetri.

Con un sospiro pesante, mentre la sua menta lasciava certe memorie per cercarne altre, la Leonessa si rese conto che il suo corpo, placato nella fame di cibo, tornava a pungolarla, facendole provare un altro tipo di fame, un tipo di fame con cui aveva lottato e convissuto per anni...

Con un respiro profondo, si mise a fissare il soffitto, tornando a interrogarsi su se stessa e su cosa potesse fare. Sarebbe riuscita davvero a gestire la compagnia di un uomo? Seppur a distanza di oltre un anno dalle violenze del Borja, ancora faceva fatica ad accettare anche solo un breve contatto fisico con un uomo... Come avrebbe potuto conciliare quell'istintiva repulsione con il bisogno di soddisfare una sua atavica necessità?

Sapeva, o meglio, intuiva la risposta: con qualcuno che conosceva bene, di cui si fidava e verso cui provava un forte trasporto. Se Baccino non fosse stato ancora a Roma, forse lui...

Scuotendo con forza il capo, la donna si rimise seduta sul letto e, dopo aver misurato a lunghi passi la sua camera, troppo nervosa per dormire, prese una delle candele a uscì. Arrivò fino alla sala delle letture, prese il primo tomo non a tema sacro che le capitò in mano e si andò a sistemare su una delle poltrone imbottite, sperando che la lettura le avrebbe alla fine spento i tormenti e donato il sonno.

 

Il Cardinale Raffaele Sansoni Riario stava fissando i fogli fitti di calcoli che gli erano stati sottoposti, ma in realtà la sua mente continuava a correre alla questione del cremonese Baccino.

Non voleva deludere le aspettative di sua cugina Caterina, verso la quale si sentiva perennemente in debito, dopo la morte del Barone Feo, ma fare esattamente quello che gli era stato chiesto di fare, per di più senza che nessuno potesse ricondurre alcunché a lui, non era facile.

Far liberare il ragazzo senza far capire quanto fosse importante per la Sforza era il primo problema... Farlo senza che si scoprisse che era stato lui a volerlo libero era ancora peggio. La parte più facile, tutto sommato, stava nel sistemarlo dopo. Negli anni, malgrado tutto, Raffaele aveva tessuto una buona rete di conoscenze. Aveva sottomano ben più di un prelato necessitante un giovane uomo che gli facesse da tuttofare o da guardia del corpo.

“Mi state ascoltando o no?!” la voce di Alessandro VI tuonò nelle orecchie di Raffaele come la squilla di un angelo apocalittico.

“Certo, certo vi sto ascoltando...” mentì il Cardinale, fingendo di ricontrollare scrupolosamente le somme e le sottrazioni che si annodavano davanti ai suoi occhi come fili di una tela di ragno.

“Io voglio, anzi, no, io esigo che questa festa sia la più memorabile di quest'anno! Ma che dico, di questo lustro!” nella voce del papa c'era solo rabbia.

Erano giorni che tormentava Sansoni Riario per indurlo a rivedere i conti e far saltar fuori i soldi necessari per organizzare quel ricevimento, che avrebbe avuto luogo il 31 ottobre, ma nemmeno la prospettiva di far festa riusciva a togliergli l'amaro dalla bocca. Da quando suo figlio Cesare aveva rapito e, assieme ad altri suoi compari, l'aveva piegata al suo volere per una notte intera, Bona Pasolini, il pontefice era diventato intrattabile.

Non solo l'atto di suo figlio l'aveva oltraggiato – anche a lui piacevano le belle donne, ma in vita sua non aveva mai commesso una simile barbarie – ma lo metteva anche in serissima difficoltà con Venezia, che aveva preso sotto la sua ala la giovane cesenate e ne stava facendo una bandiera non solo contro il Valentino, ma anche contro Roma stessa. Come se il colpo di testa di un uomo di ventisei anni potesse essere l'espressione massima della decadenza e della corruzione di un'intera Chiesa.

La situazione si era fatta tanto grave, che il papa aveva richiamato in modo imperioso il figlio a Roma, e, un po' a sorpresa, Cesare aveva accettato, ma solo a patto che potesse fare festa coi suoi amici. Riluttante, Alessandro VI aveva ceduto, pensando che ciò che accadeva tra le pareti affrescate dei palazzi vaticani lì sarebbe rimasto. Almeno, se suo figlio aveva intenzione di fare altri disastri, li avrebbe fatti nel silenzio di casa sua.

“Finora a che spesa siamo, più o meno?” chiese il Borja, accigliandosi, cercando di non pensare troppo a tutta la confusione creata da suo figlio, da colui che, invece, avrebbe dovuto risolvergli dei problemi e non creargliene.

“Ecco...” farfugliò Raffaele, che non aveva la minima idea di quale fosse la risposta giusta, dato che mentre il papa elencava cosa andasse comprato, lui continuava a pensare a Baccino da Cremona e a come farlo liberare.

“E voi sareste il mio Camerlengo!” sbottò Rodrigo, sgranando gli occhi e agitando in alto i pugni chiusi: “Ma io mi chiedo come abbia fatto il Vaticano tutto a non dichiarare bancarotta già da tempo, con voi come amministratore del nostro santissimo denaro!!!”

Proprio mentre il pontefice stava per lanciarsi in una nuova arringa, atta soprattutto a scaricare il nervosismo che provava da settimane, Cesare fece capolino sulla porta dello studiolo.

“Vi si sente gridare da stare fuori.” disse, a voce bassa, guardando il padre.

Rodrigo smise all'istante di abbaiare e, fissando gli occhi freddi del figlio, ribatté: “Non prendertela con me, per l'incapacità di costui...” e indicò il Cardinale.

Questi, facendosi piccolo piccolo, benché le sue spalle larghe e asciutte non glielo permettessero molto, chinò il capo e si mise a leggere di nuovo i numerini che si rincorrevano sulle pagine davanti ai suoi occhi, sperando, così, di apparire più solerte di quanto effettivamente fosse.

“Il Cardinale è per metà un Riario...” soppesò il Valentino, con un mezzo ghigno: “Inetto come tutti i suoi parenti. Devo forse ricordarvi che fine hanno fatto i Riario di Forlì?”

Raffaele non sollevò nemmeno lo sguardo. Sapeva anche troppo bene il rischio che aveva corso, negli ultimi due anni, nell'avere il cognome che aveva.

“Che state facendo, comunque?” chiese, con fare annoiato il Duca di Valentinois, grattandosi distratto una cicatrice sul mento.

“Cercavo di discutere con il Camerlengo della spesa per la festa che...” cominciò a dire Rodrigo, ma il figlio lo bloccò.

“Quella festa è una mia idea – fece presente – voglio decidere io come si svolgerà.”

Il Santo Padre, in altri tempi, si sarebbe opposto in modo categorico, facendo la voce grossa e ricordando a Cesare che sulla sedia di San Pietro c'era ancora lui. In quel momento, però, mentre le iridi scure del giovane correvano alle sue e il suo volto particolare, quasi serpentino, si accendeva di una sfumatura inquietante, il papa ebbe paura.

Si vergognava nel provare un simile sentimento verso suo figlio, specie sapendo che, sotto molti aspetti, era solo un inetto, eppure era così. Non era più lo stesso Cesare di prima della campagna di Romagna. Anche prima era stato arrogante, malizioso e viziato, ma da quando era tornato dall'assedio di Forlì, qualcosa in lui era diverso. Era come se nella sua testa fosse stato piantato un seme maligno e stesse crescendo giorno dopo giorno, in modo sempre più evidente.

“Va bene... Va bene...” disse quindi, con una facilità disarmante: “Mi raccomando però – trovò l'ardire di aggiungere – ma ti prego, non... Non eccedere. Ricordati quello che è successo a Cesena.”

Il monito, detto però con tono spaurito, ebbe comunque un effetto importante sul Valentino, che, diventando rosso sul collo, strinse dapprima i denti e poi rimbeccò: “Sarà tutta una cosa tra noi, e sono certo che gradirete quello che ho in mente.”

Rodrigo non volle indagare oltre, e, prima di andarsene e lasciare campo libero al figlio, disse a Raffaele: “Fate quello che vi dice e basta. Solo... Cercate di farci andare in bancarotta.”

Il Cardinale annuì e poi, rimasto solo con il Duca, gli domandò: “Avete in mente già qualcosa in particolare?”

Il giovane sollevò l'angolo della bocca e poi, trattenendo a stento una risata, cominciò a dire: “Per il posto non c'è problema, sarò molto economico: faremo tutto nelle mie stanze.”

Sansoni Riario tirò un sospiro di sollievo, pensando a una voce di spesa in meno, ma poi avvertì un brivido gelido corrergli lungo la schiena, quando vide il ghigno ampliarsi sul volto del Borja.

“E poi ci servirà una bella scorta di castagne...” disse Cesare, incrociando le braccia sul petto, mentre il Cardinale prendeva appunto senza farsi domande: “E cinquanta meretrici, tra le migliori di Roma.”

Raffaele si lasciò andare a un colpo di tosse imbarazzato, e poi, cercando di mitigare la smania del Valentino, provò a dire: “Cinquanta? Non verranno a costare troppo, per vostro padre?”

Il Duca sbuffò e poi concesse: “Facciamo così, sceglierò personalmente cinquanta cortigiane cantoniere, così dimezzeremo i costi. Anzi... Scegliendo le cantoniere giuste, li decimeremo.”

Il Cardinale si abbandonò contro lo schienale di pelle della sua sedia e fissò il Borja. Davvero intendeva portare nei suoi appartamenti, laddove ci sarebbero stati ospiti altolocati, per quanto in buona parte abbietti, cinquanta meretrici cantoniere, ossia che esercitavano la loro professione agli angoli delle strade di Roma?

“E poi – proseguì imperterrito Cesare, che, a quanto sembrava, era più che serio – voglio dei premi... Calzare, lenzuola, giubbetti...”

“Per premiare chi?” domandò il Cardinale, fingendo di volerlo sapere solo per tarare la spesa per l'acquisto dei suddetti premi.

“Per premiare chi riuscirà a far sue più meretrici possibile, ovviamente!” esclamò il figlio del papa, mettendosi a ridere: “Voglio proprio vedere! Ovviamente sarà una gara regolarissima. Si farà tutto davanti a tutti, in modo che nessuno possa imbrogliare e dire di averne prese dieci quando, invece, non è riuscito ad avvicinarne nemmeno una! Scommettiamo che metà dei premi toccheranno a me?”

Raffaele, con un vago senso di nausea che gli stringeva lo stomaco, fece quello che gli riusciva meglio da una vita intera: finse di approvare il suo padrone, sorrise e chinò la testa, deciso a fare quello che gli veniva chiesto di fare, ossia calcolare la spesa e non dare giudizi.

“Peccato che vostra cugina sia a Firenze, in questo momento...” disse piano il Borja, sollevando un sopracciglio con fare insinuante: “Lei da sola avrebbe potuto soddisfare tutti i miei ospiti. Sarebbe stato un bel risparmio, non credete? Anche mio padre avrebbe approvato...”

Il Cardinale rimase immobile. Si trattenne a viva forza e riuscì a non muovere nemmeno un muscolo anche se, per la prima volta da che aveva memoria, provava l'urente sensazione di voler picchiare qualcuno.

Mise in pratica ciò che sapeva fare meglio di qualsiasi altra cosa: assecondare il suo padrone, sorridere, perfino, e fare tutto quello che gli era stato chiesto di fare, ossia occuparsi dei conti e delle spese per quella festa, senza dare giudizio alcuno.

“Che pena deve essere, avere dei parenti come voi...” soffiò allora il Duca, fissandolo: “Non siete nemmeno in grado di arrabbiarvi per quello che ho detto di vostra cugina...”

Continuando a mostrare il suo sorriso spento, sperando di passare per stupido, come aveva spesso cercato di fare in vita sua, pur di cavarsela, il Cardinale non disse nulla nemmeno quella volta, benché sentisse un leone ruggirgli nel petto.

“Se avrò altro da dire, vi verrò a cercare.” concluse Cesare, un po' deluso per non essere riuscito ad attaccar briga con il Sansoni Riario: “Tenetevi a disposizione.”

“Come sempre, mio signore.” rispose, a voce bassa, il porporato, guardando il figlio del papa uscire dallo studiolo.

Rimasto solo, Raffaele si alzò, allacciandosi le mani dietro la schiena e cominciando a pensare in fretta. Non era un uomo dedito ai colpi di testa, tanto meno agli atti di coraggio. Era impensabile, per lui, mettersi contro il papa.

Poteva ammansirsi solo dicendosi una grande verità: i Borja, come tutti quelli che li avevano preceduti, alla fine avrebbero visto la ruota girare e, anche loro, ne sarebbero rimasti schiacciati. Era quello che doveva aspettare. Quando fossero arrivati per loro lo sfacelo e la disfatta, lui avrebbe riso e festeggiato.

Nel frattempo, però, si sentiva in dovere di fare qualcosa per difendere Caterina, o, almeno, per appoggiarla. Deglutendo si disse che non poteva più tergiversare. Approfittando delle distrazioni del papa e del Valentino, sia per la confusione politica e diplomatica di quei giorni, sia per l'attesa della festa – che si preannunciava come molto impegnativa per loro – avrebbe fatto quanto in suo potere per liberare il cremonese Baccino.

Non era molto forse, ma, si disse, era quello che un povero Cardinale come lui poteva fare...

 

   
 
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