Fanfic su attori > Tom Hiddleston
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Autore: _Recneps    01/08/2021    0 recensioni
[...] i suoi occhi celesti vagano fino a quando due sguardi che non hanno nulla di accidentale s’incrociano, incastrandosi in una muta intesa che ha ancora il sapore di amara testardaggine, sfrontata rabbia e velenoso orgoglio. Ma ci vogliono soltanto pochi secondi prima che entrambi capiscano di aver nuovamente messo in gioco le reciproche difese, la stoltezza che nega a ciascuno di vedere la realtà dell’altro e le confortevoli forme d’astio con cui sventare ogni possibilità di intima comunicazione. Bastano pochi secondi in più, un eccesso di tentennamento da parte di entrambi e la concreta incapacità a tornare sulle proprie strade: uno schiocco spaventosamente chiaro. Tom vede Ris e Ris vede Tom. Non possono far altro che sciogliersi con una scarica di parole che non prenderanno mai forma, con un reciproco e silente perdono. Pensieri trattenuti, ma non abbastanza: iniziano a fluttuare in un che di sospeso di cui entrambi sentiranno, in un modo o nell’altro, la carezza di fumo.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo Sette

 
 
Scorge il sorriso sghembo di Rick oltre le spalle della sua avversaria, così affilato da sovrastare senza alcuna difficoltà l’informe platea di volti che assiste al suo crollo, a quell’intima sconfitta che si trasformerà presto in una becera vittoria.
Come le ultime quattro notti passate tra le urla degli avvoltoi e sotto le grinfie della sua stessa maledizione, Ris permette alla nebbia di sbriciolare gli ultimi residui di lucidità, perdendo totalmente l’ancoraggio a sé stessa, al suo corpo, a quelle quattro mura sudicie e a quel ring sporco di sangue.
L’adrenalina inizia a calare e il dolore all’addome la coglie di sorpresa, costringendola a piegarsi. Nello stesso momento si leva un boato dalla folla che incita la sua avversaria a cogliere l’opportunità d’oro per rivoltare l’epilogo di quella nauseante fiaba e darle il colpo di grazia, decretando la prima sconfitta di Ris.
I capelli castani le ricadono sul viso mentre si tiene con una mano il ventre e il sudore le cola dalla fronte per ricadere in piccole gocce sul suo palcoscenico. Una mano le afferra la maglietta e la trascina indietro, verso le corde improvvisate del ring. Il cuore le batte all’impazzata, incapace di realizzare quello che sta accadendo. Viene voltata con uno strattone e Ris si ritrova faccia a faccia con Rick, che poggia deciso una mano dietro il suo collo e l’avvicina in modo da farsi sentire nel trambusto di quel giovedì sera: «Le gambe.»
La voce martoriata da troppe sigarette s’infila tra i suoi pensieri confusi e non fa in tempo a realizzare quanto quel contatto ravvicinato le contorca lo stomaco che si ritrova gettata nel bel mezzo del ring. Rick la fissa e Ris mantiene il contatto, rivolgendo le spalle al suo predatore nel più classico e banale errore. Prima di lasciare che le sue palpebre prendano le redini di quella stanchezza ormai insopportabile, si lascia cadere a terra. La fame del suo pubblico infuria, maledicendo quella piega degli eventi decisamente inaspettata. Le ombre del volto di Rick si tramutano in un’espressione incredula – e sicuramente irritata – mentre Ris avverte la donna alle sue spalle avvicinarsi, già assuefatta dal profumo della vittoria.
“I sensi, Ris. Che te ne fai di tutta questa spaventosa tecnica se non sai usare l’unico vantaggio che hai sull’avversario?”
La voce di Bruce, per quanto gli faccia male, esplode in un punto indefinito della sua mente ormai folle e – forse – della sua anima.
Socchiude gli occhi e con uno scatto repentino fa leva sul polso destro, rotea di 180 gradi e stende la gamba, interrompendo l’avanzata dell’altra combattente: la colpisce all’altezza delle ginocchia e la fitta la fa crollare a terra. Sbatte la testa, rimanendo sdraiata un secondo di troppo. Ris le si trascina addosso e il countdown parte. Nello stesso momento in cui lo folla esulta per l’ennesima vittoria della cadetta Morales, la sua sofferenza, il fantasma della voce di Bruce e il martirio dipinto sul suo stesso corpo la gettano in una confortevole incoscienza.
Rick sale su ring tra le esultazioni della folla con un sorriso a trentadue denti. Si avvicina alle due combattenti insieme ad altri tre ragazzi, raccoglie Ris e le allaccia un braccio attorno alla vita mentre intrappola l’ennesima sigaretta tra le labbra screpolate. Si allontana dalla folla, non riuscendo comunque a non bearsi di tutte quelle pacche sulle spalle, delle lodi che si sollevano nel fracasso di quel sudicio luogo dimenticato da Dio. E Rick ne è il temuto e incontrastato regnante.
«Oh andiamo principessina, svegliati», ridacchia facendola sdraiare a terra. Si piega accanto a lei e lancia uno sguardo a Brent, fermo a fissarli a braccia conserte. «Avanti, lanciami dell’acqua.»
«E secondo te dove cazzo la trovo dell’acqua?»
Rick ringhia spazientito e poi fischia in direzione di un anonimo cliente con un bicchiere in mano: «Ehi, ehi, tu! Maglia rossa e jeans luridi, ti pago un altro drink, ma passami qualsiasi cosa tu stia bevendo.»
Il ragazzo lo guarda con un cipiglio, ma non appena lo riconosce scatta agli ordini. Meglio non scatenare dispute con Rick Morales.
Il proprietario afferra il drink e storce il naso nel momento esatto in cui l’intenso odore di alcol lo investe con prepotenza. Saetta lo sguardo tra il bicchiere e il viso pallido di Ris, fa una smorfia di sufficienza e le getta addosso tutto il contenuto.
Lei scatta a sedersi con il cuore che le pulsa freneticamente nella gabbia toracica. Sbatte le palpebre velocemente, mettendo a fuoco la ressa che ancora infesta il retro del locale e il ghigno compiaciuto di Rick, piegato accanto a lei con una smorfia tagliente. Tossisce un paio di volte e sente la pelle del viso pizzicare fastidiosamente.
«Che…che cazzo è?» ringhia frustrata passandosi una mano sul volto. Un odore sgradevole inizia a solleticarla e si rende conto di avere le dita appiccicose.
Rick risponde con una risata sguaiata ed espira l’ultima spira di fumo, per poi sollevarsi, lasciar cadere il mozzicone a terra e disintegrarlo con la scarpa.
«Mi hai fatto quasi prendere un infarto piccola stronzetta. Pensavo ti stessi per arrendere.»
Ris si limita a sospirare esausta, appoggiando una mano a terra nel tentativo di rimettersi in piedi, impresa che si rivela a dir poco insormontabile. Rick rotea gli occhi al cielo e le afferra un gomito, trascinandola verso l’alto. Lei barcolla e appoggia una mano sulla sua spalla, ancora annebbiata. Si stacca immediatamente e senza dire nulla si volta per andarsene.
«Ehi! Non te li godi i festeggiamenti della vittoria?», interviene Rick richiamandola a gran voce e raggiungendola con due falcate. Le afferra il polso e la volta, avvicinandosela il più possibile: «e poi questi sono tuoi. Te li sei meritata.»
La mano di Rick fa scivolare dalla manica della felpa una mazzetta, frapponendola tra i loro corpi. Ris volta la testa di lato disgustata: non lo fa per quello.
«Tieniteli.»
Si allontana con uno strattone prima che lui possa ribattere e lo sente solo farneticare qualcosa sul fatto che Natale è arrivato in anticipo di un mese.
Supera Brent cercando di dissimulare il dolore all’addome e la fatica di un paio di passi.
L’uomo le appoggia delicatamente una mano sulla spalla e le tende la giacca di pelle di cui non ricordava nemmeno l’esistenza. Si scambiano un semplice cenno e per Brent può bastare così.
La brezza di inizio novembre e il silenzio delle quattro di notte le sferzano il viso non appena si lascia alle spalle l’ingresso del suo inferno personale. Si stringe nella giaccia di due taglie in più ed estrae da una delle ampie tasche un cappellino con la visiera bassa. Se lo infila assicurandosi che i capelli raccolti in una coda bassa scivolino al di sotto del colletto della giacca e abbassando il più possibile la visiera. Nascosta nell’ombra di un mondo di cui non si fida, di un mondo che – per quanto letale possa sembrare agli occhi di chi scommette sulle sue vittorie – la trasforma in cucciolo indifeso, fottutamente terrorizzato.
Quando si ritrova a vagare per quelle strade deserte e buie, da sola e vulnerabile, non può far altro che cercare di difendersi prima ancora di venir attaccata. Si porta appresso quell’ossessione dalla notte della sua prima morte – l’unica vera, l’unica che considererà tale –, nella convinzione che il male che l’ha sorpresa tempo prima non possa nemmeno notarla in quella sua maschera, nel fantasma di sé stessa.
Quando è sola porta sempre una giacca che le arriva fino alle ginocchia e che potrebbe ospitarne altre tre, di minute ragazze di un metro e sessantacinque. Quando è sola e respira gli odori della notte, raccoglie i capelli per renderli invisibili sotto un cappuccio o un cappello. Quando è sola e macina i metri che la separano dal suo nido, indossa pantaloni della tuta larghi, in modo da nascondere le forme definite, snelle e femminili delle sue gambe. Quando è sola e non può essere distratta da quella paura primordiale, tiene il capo basso nella speranza che nessuno possa cogliere la forma delle sue labbra carnose.
Quando è sola ed è consumata da ricordi vivi, si trasforma in una massa informe e cancella la sua identità, tenendosi ancorata alla possibilità di passare inosservata, di riuscire a raggiungere i suoi punti fermi e gli angoli neutrali in cui la paura tace sana e salva, letteralmente integra.
Dalle undici di sera non prende mai mezzi pubblici; cammina solo per le vie centrali; passa per i quartieri in cui sa che un padre di famiglia o una donna assuefatta davanti all’ennesima puntata di Criminal Minds si catapulterebbero per strada se dovessero avvertire delle urla; si infila nelle vie in cui i bar chiudono più tardi, sapendo di poter sgattaiolare in una qualsiasi porta e issarsi su un’asse di legno nel bel mezzo di quel mare infestato da squali.
Semplici regole, imprescindibili comandamenti che teme non potrà mai lasciar andare.
E dal giorno in cui Bruce le ha confessato cosa ne sarebbe stato della loro vita da lì in avanti, non è riuscita a tenere a bada l’incendio e la rimonta di quei timori, i momenti di gelida paralisi, intrappolata nel tremolio di un corpo che, in realtà, non si era mai risollevato. Si era semplicemente appoggiata ad una certezza che si era convinta potesse rimanere tale per sempre, delegando ad altri il compito di reggere le redini della sua esistenza e di garantirle la dose giornaliera di linfa per continuare a procedere passo dopo passo.
La verità è che nessuno – nemmeno Bruce – possiede il potere per renderla nuovamente viva, realmente viva.
La verità è che solo lei è in grado di farlo e la verità è che lei non ne ha intenzione.
Sa dove si trova quel potere e non è più nelle sue mani: l’ha lasciato accartocciato a terra, su un marciapiede scivoloso, intriso di urla e lacrime.
E se non è in grado di ricostruirsi e rinascere, allora l’unica cosa che può fare è distruggersi. Ed è questo che ora – e da tempo – la intrappola in una spirale senza fine.
Ed è per questo che torna a casa per l’ennesima notte piegata in due dal dolore, abbastanza intenso da non farle sentire un’intima sofferenza ben più corrosiva.
Apre lentamente la porta sul retro della palestra, sapendo di non poter farsi sentire da un Bruce ancora ignaro della sua ricaduta, un Bruce che ha l’anima e il cuore sovraccarichi di cose belle e di nuova vita per poter essersi accorto dell’improvviso crollo.
Da quel venerdì Ris lo ignora, cercando di non trasmettergli nulla del profondo disagio che in realtà le sue parole le hanno provocato, nonostante fossero state pronunciate con il migliore degli intenti, danzando su un sorriso che l’aveva ferita ancora più a fondo.
La mattina esce alle sei, prende il pullman e aspetta le nove nello studio 3, allenandosi con l’ormai familiare sacco da boxe in pelle rossa o recuperando il sonno perduto prima che arrivino i tecnici; glissa la cena inventandosi molti più extra con Kade di quelli reali; torna a casa giusto per mostrargli di essere esausta, infilandosi in doccia e poi rifugiandosi in camera; aspetta l’una di notte, controlla che Bruce dorma e se la fila furtiva verso il suo girone infernale.
E proprio come quel giovedì sera, torna alle tre o alle quattro di mattina per godersi giusto due ore di sonno.
E mentre sale lentamente le scale verso l’appartamento, realizza di aver intrapreso la strada che la porterà all’effettiva autodistruzione. Ne è spaventata e vorrebbe tornare sui suoi passi? No.
Silenziosa come un gatto attraversa il salotto, facendo attenzione a non far scricchiolare il parquet. La porta della stanza di Bruce è chiusa e tutto tace.
Si leva il cappello ed entra nella sua stanza, sospirando sollevata.
Due secondi più tardi, un nodo alla gola la paralizza sulla soglia.
Bruce è seduto col capo basso sulle lenzuola sfatte e stringe tra le mani la sua maglia dei Red Sox che Ris, ormai da anni, usa per andare a dormire. Il labbro inferiore di Ris, ancora leggermente segnato dal disastro di domenica notte, trema a quell’inaspettato incontro.
Non è pronta e non ne ha la forza.
Bruce scuote la testa continuando a guardare verso il basso e le sue nocche sbiancano mentre affonda le dita nel tessuto della maglia.
Alza lentamente gli occhi e li punta nello sguardo colpevole e annebbiato di Ris.
Rimane a fissarla per quelli che sembrano secoli, non risparmiandole neanche una briciola di tutta la delusione che lo incendia.
Ris sa con assoluta certezza di aver spezzato irrimediabilmente il loro rapporto e non vede altro che una buia e infinita voragine sotto i suoi piedi.
L’ha distrutto. Lui e il loro nido. Se l’è trascinato con sé in quel circolo vizioso, così come tutto il resto dei momenti che in quei cinque anni le avevano scaldato cuore e anima.
Rimane impalata, letteralmente pietrificata, mentre lui si alza e getta la maglia a terra.
Le passa accanto ignorandola, ma prima di superarla si blocca: «Pensi veramente che io sia così stupido?»
Le dà una spallata e se ne va.
Ris sussulta quando a pochi metri da lì la porta della stanza di Bruce si chiude con uno schianto.
Davanti a sé le lenzuola sfatte del suo letto, le stesse ancora macchiate del sangue di una delle ferite delle sere precedenti, e la maglia dei Red Sox di Bruce a terra.
Una lacrima e poi un’altra mentre scivola sul pavimento.
Una lacrima e poi un’altra.
 
 
 
«No, non ci siamo.»
Kade è seduto a gambe incrociate sul profilo del quadrante e sospira per l’ennesima volta mentre Tom e Michael respirano affannosamente, fermi nella posizione in cui si dovrebbe concludere quella sequenza infernale.
I due attori si lanciano un’occhiata sconsolata e si separano. Sono entrambi madidi di sudore ed esausti dopo un’ora e mezza di continue ripetizioni, correzioni ed errori madornali. Nonostante i passaggi più difficili siano coperti dalle rispettive controfigure, sia Michael che Tom lavorano al 95% dei propri stunt, inclusa buona parte delle coreografie più macchinose.
Kade si passa una mano sulla barba leggermente cresciuta e lancia uno sguardo a Ris, chiedendole soccorso con uno sguardo più che esausto.
Lei è rannicchiata sulla panchina poco lontana, alle spalle del suo mentore.
Tom la tiene d’occhio da quando ha messo piede nello studio 3 e, in realtà, lo fa da giorni, incapace di ignorare un profondo turbamento, come se non riuscisse a distrarsi dall’immagine di quel volto sfigurato.
Si è mantenuto a distanza di sicurezza per l’intera settimana, rispettando le sue difese e cercando di non far caso alle smorfie di dolore e ai gemiti sommessi durante i loro allenamenti. Avrebbe voluto inondarla di domande, dirle che poteva parlargli, che non si era dimenticato di come lei aveva cercato silentemente di accompagnarlo nello sfogo delle sue angosce, fingendo una noncuranza a cui Tom non aveva creduto neanche per un secondo. Ogni sera avrebbe voluto chiederle di fermarsi con lui, dirle che le avrebbe lasciato carta bianca per rimbeccarlo con il solito fare irritante ad ogni penoso gancio destro e confessarle quanto le era stata preziosa per essere riuscita a smuoverlo, anche se sull’onda della rabbia e dell’astio.
E poi, non può negarlo: Tom percepisce ancora la potenza di un muto sguardo con cui Ris gli aveva permesso di assistere al tremolio della sua fredda apparenza e con cui entrambi si erano bloccati nel bel mezzo delle loro strade per potersi dire – sferzati da un vento freddo e dalle rispettive vulnerabilità – che si erano visti, realmente visti.
Lei aveva colto le sue illusioni, i suoi copioni, il suo imperioso indice giudicante.
Lui aveva ascoltato i suoi attacchi e aveva letto tra le sue parole l’odio con cui accusava sé stessa di non sapere cosa fosse l’amore, di essere solo un’egoista, di non meritare nulla. Gli aveva inavvertitamente confessato di non avere alcun affetto per sé stessa, di essere la maledizione della propria esistenza.
E Tom, di fronte a quel dolore incommensurabile, non era riuscito a far altro che risvegliarsi da una capricciosa cecità, riuscendo a trovare una bizzarra connessione che ora lo condanna a studiarla cautamente da lontano, assicurandosi che stia bene e che non ci sia nemmeno un graffio su quel viso stanco.
Più volte ha cercato di avvicinarsi, sfiorandola con un braccio, come per ricordarle che nonostante il silenzio, nonostante eseguisse ogni suo ordine senza controbattere e si mostrasse concentrato sul proprio allenamento, un pensiero per come stesse e per quello che stava accadendo nella sua vita lo preoccupava. E Tom non si era nemmeno dato il tempo di riflettere su come fossero nate quella premura e quella cauta attenzione. Si era semplicemente ritrovato e lasciarle defluire, senza freni, accogliendole con la più disarmante naturalezza.
«Ok, sentite, stasera non risolveremo sicuramente nulla. Meglio lavorarci su lunedì», concede Kade distogliendo lo sguardo da una Ris insolitamente stanca e alzandosi in piedi.
Micheal e Tom annuiscono all’unisono, entrambi privi del fiato per poter spiccicare parola.
Kade tentenna ancora ritto al suo posto, incapace di scacciare quel presentimento negativo che gli striscia sulla pelle non appena si sofferma sulla figura quasi irriconoscibile della sua prediletta.
Si è allenata per tutta la mattina e per buona parte del pomeriggio, per poi abbandonarsi su quella panchina scricchiolante e rannicchiare le gambe al petto, guardandolo istruire i ragazzi con le palpebre a mezz’asta.
Le ombre sotto gli occhi sono talmente evidenti da spingerlo a chiedersi se ultimamente non stia esagerando, se non le stia chiedendo troppo. Ma soprattutto, se non gli stia sfuggendo qualcosa.
Tom si avvicina al suo borsone, scansandolo di lato per sedersi accanto a Ris.
«Allora, sei pronta? Sai, potremmo fermarci dal messicano vicino al parco e mettere qualcosa sotto i denti, ti va?» le domanda Kade avvicinandosi e dandole un pizzicotto sulla guancia.
Ris, totalmente sovrappensiero, si scosta di scatto. Kade rimane con la mano a mezz’aria, sorpreso. Lei sbatte velocemente le palpebre e saetta tra una scusa e l’altra per trovare la scappatoia perfetta: «Oh, non ti preoccupare. Pensavo di rimanere ancora un po’ prima che passino a prendermi un paio d’amici. Corri pure dalla tua partita del venerdì sera.»
Tom, che si passa l’asciugamano sulla fronte con studiata lentezza, piega leggermente le labbra verso l’alto.
Sa che Ris si sta inventando tutto da cima a fondo.
«Che il Signore sia lodato: Charice Stevenson passerà un degno venerdì sera da autentica venticinquenne», commenta sarcasticamente Kade sollevando le braccia verso l’alto e mimando un ringraziamento verso il cielo. Poi riprende: «Mi raccomando, non bere troppo e non fare cazzate. Lunedì alle nove in punto ti voglio qui, rapida e scattante: nessuna sbronza epocale da smaltire.»
Ris alza semplicemente gli occhi al cielo e scuote la testa quando Kade le passa un’innocua carezza sul viso prima di congedarsi e salutare gli altri due.
Michael scocca un’occhiata in tralice a Tom, ancora bellamente abbandonato sulla panchina e apparentemente poco intenzionato a velocizzare i tempi.
«Tom, ti puoi dare una mossa? Te l’ho detto che ho un appuntamento tra neanche un’ora.»
Le chiavi della Cadillac ruotano attorno all’indice di Michael.
«Sei proprio una palla al piede», risponde il collega buttando giù l’ultimo sorso d’acqua, «corri pure a vestirti da damerino e risparmiami i discutibili piani per la tua serata.»
Ris è ancora rannicchiata accanto a Tom, sempre a debita distanza. E per quanto si senta così abbattuta e priva di ogni energia, riesce comunque a lasciarsi scappare un sorrisetto sommesso.
«Ah sì? E come pensi di tornare in hotel?»
«Taxi, pullman, autista, jogging…», elenca Tom prendendolo in giro.
«Oh, va bene, va bene. Mi hai già stancato. A domani manico di scopa», lo interrompe alzando le mani in un segno di resa e incamminandosi verso l’uscita. Prima di macinare gli ultimi metri si volta per urlare un saluto alla sua “Bambi” testarda, nella speranza di irritarla o di essere ricambiato con un chiaro e netto “vaffanculo”. Nulla di questo accade, ma Michael non è sicuramente la persona che si arrende facilmente: ha ancora così tante occasioni per farla fumare come un vulcano dormiente.
Il portone dello studio 3 si chiude con una lentezza disarmante, lasciando che Tom possa fare i conti con gli stupidi impulsi che non sembra nemmeno più in grado di ponderare. Si sporge in avanti, poggia i gomiti sulle ginocchia e s’infila le mani nei capelli. Vorrebbe maledirsi: sa di non avere una buona giustificazione per trovarsi lì e sa che Ris non sta facendo altro che contare silenziosamente i minuti che separano Kade dall’uscita degli studios. Se ne andrà proprio nel momento in cui avrà la certezza di potersela svignare verso i suoi grigi guai, quelli che persiste a nascondere con testardaggine e che per Tom sono evidenti come luminosi segnali di pericolo.
Alza gli occhi verso l’orologio appeso e vede in un flash il volto di Jen. Il sibilo del senso di colpa gli fischia nelle orecchie, consapevole che tra dieci minuti una videochiamata proveniente da Londra risuonerà in una stanza vuota d’hotel e che quella non sarà che la prima di una serie di incomprensioni che porteranno allo sfacelo della loro relazione. Perché Tom non è ancora in grado di assumersi le responsabilità di quello che prova: è un codardo che ha il solo coraggio di guardare la naturale involuzione delle cose, un folle che piuttosto di prendersi cura di ciò che ha tra le mani si getta alla cieca in qualcosa che non lo riguarda.
Rimane proteso in avanti e si volta col capo, tamburellando le dita tra di loro.
Ris, con le gambe ancora strette al petto, lo guarda da chissà quanto, ma Tom non è in grado di leggere nulla in quell’occhiata: vede solo un muro bianco, una lastra d’acciaio inanime. E no, non è la solita espressione d’insufficienza capace di farlo imbestialire in due secondi e, al contempo, di farlo sorridere incredulo e forse incuriosito. Il nodo allo stomaco si stringe quando realizza di avere davanti a sé un corpo intimamente sfigurato da una stanchezza immane, arreso.
Sa che non gli dirà nulla e che si starà chiedendo per quale motivo sia rimasto, sentenziandolo subito dopo come un insulso tentativo di mostrare gentilezza o l’azione egoista di chi ha semplicemente bisogno di segnare l’ennesima spunta verde sul protocollo di buona condotta che imprigiona le anime come lui. Ma Tom, se può essere assolutamente certo di una cosa, è che non ha la minima idea di quello che sta facendo. Sa solo che sembra voler fare di tutto per riuscire a deragliare disastrosamente il treno della sua preconfezionata esistenza.
E mentre continua ad evitare di interrogarsi, muovendo passo dopo passo su un terreno accidentato che non conosce, realizza di non aver staccato gli occhi da Ris, ricambiato da mute domande che per la prima volta non assumono il profilo tagliente di una lama che prova ad allontanarlo.
«Sei troppo concentrato sulla tecnica.»
È solo una tenue constatazione, meccanica e fredda, ma a Tom sembra comunque un miraggio.
«Esegui, ma non interpreti», continua Ris distogliendo lo sguardo e fissandolo sul tatami davanti a sé, «dovresti pensare meno alla sequenza e provare a immergerti nei suoni, nelle emozioni, nell’odore, nei colori della storia che le dà senso.»
Il cipiglio di Tom si distende lentamente.
Non si sarebbe potuto comunque aspettare un’improvvisa confessione, un pianto liberatorio o una richiesta d’aiuto: Ris è Ris e Tom si sente sollevato anche solo all’idea di poter contare almeno sulla connessione lineare, fluida e professionale del loro lavoro. Insomma, quella confortevole e senza intoppi, la forma superficiale di un dialogo intimo a cui ormai avevano dato inizio, probabilmente senza neanche volerlo.
«Se non pensassi ad ogni singolo passo sono sicuro che farei solo disastri.»
«Li fai già.»
Un sorrisetto scappa dalle labbra sottili di Tom, tornato a guardare davanti a sé.
«Sta piovendo?», chiede improvvisamente lei.
Si è ridotta a tirare in ballo imbarazzanti conversazioni sulle condizioni metereologiche per riempire i buchi di silenzio?
«Uhm, si. E parecchio.»
«Vieni.»
Ris balza in piedi e si dirige verso l’uscita senza neanche aspettare una risposta.
Tom rimane al suo posto, guardandola con un cipiglio.
La sente sospirare quando realizza di non avere nessuno alle sue spalle.
«Tu e Michael girerete la scena sotto un acquazzone, di notte e in un luogo decisamente inospitale. Fino a che rimani tra mura confortevoli e all’asciutto difficilmente riuscirai a completarla come Dio comanda», spiega con espressione ovvia.
Tom vorrebbe controbattere, dandole della folle se pensa realmente che accetterà di allenarsi sotto la pioggia, in una ben poco tiepida serata di inizio novembre.
Alla fine – questa nuova tendenza a declassare ogni domanda dotata di senso per farsi sbattere dove tira il vento quando è nata? – la segue senza dire nulla, se non un “se mi prendo una broncopolmonite ti faccio causa” quando la supera con un finto sospiro.
Una cascata d’acqua gli ricade addosso, maledicendosi prima del tempo.
Indossa un paio di pantaloncini che arrivano appena sopra il ginocchio e un maglioncino decisamente troppo leggero su una t-shirt intrisa di sudore. Finirà male, senza ombra di dubbio.
Ris lo affianca tenendosi con una mano il cappuccio della felpa nera e accelera verso la vegetazione che circonda il campus degli studios.
Passano tra macchine, roulette, magazzini e stabilimenti deserti fino a quando collinette e rami spogli non li salutano con un che di tetro.
«Per l’inciso: tu sei completamente pazza.»
«E tu lo sei abbastanza da seguirmi.»
Tom si blocca, scartato nuovamente. Lei fa i primi passi su terreno accidentato e fangoso, lui scuote la testa e non si preoccupa di nascondere un risolino che gli vibra in fondo al petto.
Cristo, si prenderà un accidente e probabilmente si farà anche parecchio male: ridere è veramente la cosa più sensata.
«Pronto?» urla lei qualche passo più avanti.
Tom rallenta l’avanzata.
E che significa?
Se ne rende conto non appena vede il proprio avambraccio sollevato quel tanto che basta per parare l’improvviso colpo di Ris. Lei fa un sorrisetto compiaciuto e gli concede un cenno di approvazione.
Tom, per quanto assurda e folle possa sembrare quella situazione, non può che ricambiare con una mezzaluna provocatoria nel bel mezzo di una notte infestata che ha tutte le sembianze di un’agognata bolla di ossigeno.
E da quel preciso istante, nonostante la pioggia, il terreno scivoloso, il vento sferzante, una luna troppo pallida e un’oscurità penetrante, entrambi sembrano trovare la dimensione in cui poter incastrare le reciproche vulnerabilità, lasciando che si parlino e si solletichino a vicenda per concedere a ciascuno una misericordiosa pausa da quell’opprimente peso.
Tom perde l’equilibrio più spesso del dovuto, ritrovandosi più volte immerso tra erba incolta e con le mani affondate nel terreno umido. Ris, dal canto suo, sembra riuscire a gestire la situazione più elegantemente nonostante i suoi movimenti siano ben più lenti del solito.
Perdono la cognizione del tempo e scelgono di non recuperarla.
Circondati da un nero intenso, riescono inspiegabilmente a non perdersi: faticano persino a vedersi, ma un filo di brina lega quei movimenti come un botta e risposta che li tiene ancorati l’uno all’altro.
E più rimangono confinati in quell’assurda cornice, più la lucidità e il pensiero di cosa li aspetta oltre quella vegetazione si allieva, incoraggiandoli a tornare un po’ bambini, un po’ più loro stessi, un po’ meno le loro sofferenze.
E iniziano a ridere, all’improvviso. Dopo minuti e forse ore, iniziano a ridere.
Sono entrambi talmente stanchi da non avere nemmeno la forza di lasciarsi adombrare dai loro ruoli e dalle loro vite. Si sentono così leggeri da non riuscire a far altro che continuare a tessere quella bizzarra trama con risate così lontane da quello che hanno sempre e solo visto nell’uno e nell’altra.
Tom, probabilmente, non ha mai sentito Ris ridere così e Ris, probabilmente, non ha mai avuto il piacere di conoscere un Tom così poco composto, sporco di fango dalla testa ai piedi, stropicciato, vero.
Un tuono risuona sopra le loro teste, il cielo sembra esplodere e la pioggia si riversa con inarrestabile potenza.
Ris, con il cappuccio gocciolante che ormai le scopre il viso fradicio, para per l’ennesima volta l’affondo di Tom, inabissando i piedi nel terreno sempre più fangoso. Entrambi respirano con affanno, immobili nel bel mezzo della sequenza, intrappolati nelle fibre di una tela che i pittori avrebbero intitolato “l’apocalisse”.
E sospesi in una realtà da cui anime più libere si rifugerebbero, le loro mancanze, le loro urla silenti, le loro ferite e le loro incomprensioni trovano la proverbiale calma prima della tempesta.
Un paradosso che nemmeno loro saprebbero comprendere in altre circostanze, alla luce del sole, sotto il peso di esistenze da cui si fanno vincere quotidianamente, senza sapere di avere ancora il potere per riprenderne le redini in mano. Una sintonia tra anime sconosciute che non potrebbe vivere di parole, di risposte e di lucidi pensieri. Una mano che si tende verso l’altra nel silenzio, quando si spengono i riflettori, quando entrambi sono al limite del loro dolore, quando la razionalità defluisce e senza dover dare giustificazione legittimano sé stessi a trovare quelle bizzarre consonanze.
Tom si piega sulla spalla di Ris, letteralmente esausto.
«La migliore dimostrazione fino ad ora, Hiddleston. La migliore», sentenzia lei prendendo profondi respiri.
«Ne sono onorato, Ris. Ne sono onorato», mormora lui sollevando il capo e incrociando il suo sguardo, «ma un secondo di più sotto questa pioggia e domani sarò ricoverato.»
Ridono entrambi, di nuovo.
Due paia di occhi più liberi, due candele nell’irrazionalità di quella sceneggiatura, due note stonate e una clessidra che scandisce le briciole rimaste a quella realtà sospesa.
«Andiamo, vecchietto.»
 
 
 
«Vorrei dirti che hai una foglia nei capelli, ma in realtà c’è molto altro di non immediatamente identificabile.»
Ris solleva lo sguardo verso il metro e ottantotto di Tom.
«Tu sei ricoperto di fango.»
«Se è per questo, penso anche di averne ingoiata una buona quantità.»
La fermata del pullman è a pochi passi di distanza e Ris continua a pensare che è mezzanotte, che non dovrebbe trovarsi lì e che doveva andarsene prima.
La leggerezza di poco prima inizia a contorcersi nelle sue primitive paure, quelle che la legano ad un’irrazionalità bambina e ribelle.
«Sei sicura di non volere uno strappo? Michael dovrebbe arrivare da qui a minuti.»
Ris continuare a ticchettare le unghie della mano sinistra, un tic che si trascina da anni e che s’intensifica in momenti come quello, quando dimentica di essere Lama e torna indifeso mucchietto di lacrime silenziose.
«N-no, non ti preoccupare.»
E Tom, comunque, non è un’idiota: sa che non accetterebbe mai e sa che vorrebbe farlo.
Ris si abbandona sulla panchina, in attesa, e lui la affianca, non smettendo comunque di studiarne il profilo.
Le trema il labbro e forse è per il freddo, ma anche la sua gamba inizia a traballare, in un ossessivo su e giù.
I suoi occhi poi, per quanto fossero stanchi e quasi in pace solo una manciata di minuti fa, sembrano così vigili, quasi allarmati.
Lui sospira e Ris non si rende nemmeno conto di quanta attenzione le stia prestando, troppo immersa in scenari non ancora accaduti che prendono forma da distorte visioni di un mondo che continua a dipingere di grigio-nero, imperterrita.
«Vuoi realmente perderti i fantasiosi resoconti di Michael sul suo appuntamento galante?» continua Tom cercando di distrarla da qualunque sia quel vortice di pensieri inaccessibili, «dev’essere sicuramente andato uno schifo se ha accettato di venire a raccattarmi.»
Ris si limita ad un mezzo sorriso, muto e distratto.
Il cuore perde un battito quando due fari illuminano il ciglio della strada.
È mezzanotte, è sola e ha paura.
Smettila Ris, smettila. È un fottuto pullman, un benedetto viaggio di venticinque minuti.
Ed ecco che l’ancoraggio al suo presente e alla sua lucidità torna a fare a botte con il potere più impulsivo, viscerale, inarrestabile e tremendamente vivo della sua amigdala corrotta.
Il respiro accelera, condensandosi in spire bianche.
La gamba traballa ancora, forse con un briciolo in più di veemenza. Le scoppierà il cuore se continua così.
Il pullman si ferma di fronte a loro e Ris fa saettare immediatamente lo sguardo oltre i finestrini: una donna che non dovrebbe avere più di cinquant’anni, ma che dalle ombre e i segni di un viso olivastro sembra averne molti di più. E poi un uomo dall’enorme stazza addormentato malamente, o forse svenuto.
Ris si alza in piedi e si passa la lingua sulle labbra improvvisamente secche.
«A lunedì, allora.»
Si volta verso Tom e boccheggia, come se la sua voce l’avesse improvvisamente risvegliata: «A lunedì.»
Muove i primi passi e sale i gradini del mezzo. L’autista le fa un semplice cenno con il capo e prima di dirigersi all’ultimo sedile, Ris timbra il biglietto che avrebbe dovuto utilizzare più di tre ore prima.
Le sue preziose regole la guardano dall’alto con aria giudicante, in attesa del pretesto per poterle rinfacciare un doloroso “Che ti aspettavi?”
Si muove con passo affrettato verso la sua solita postazione, vicina all’uscita secondaria.
Si sistema automaticamente il cappuccio sul capo e stringe il borsone a sé, cercando di calmarsi.
Il pullman parte, ma solo per fermarsi dopo neanche un metro.
Alza velocemente lo sguardo e scorge l’autista sbuffare, aprendo di nuovo le portiere.
E se per un momento a vincerla è la confusione, quando vede Tom scambiare qualche spiccio per un biglietto, ringraziare il conducente con un sorriso affabile e voltarsi nella sua direzione, raggiungendola con poche falcate, Ris non può proprio ignorare la sensazione di sollievo che scioglie con una doccia calda tutta quella spinosa tensione. 
Tom si siede accanto a lei e si abbandona mollemente, sorridendo.
«Che stai facendo?» indaga lei cercando di mantenere un’espressione corrucciata che non faccia trapelare quanto in realtà non le importi nemmeno perché o come, se non che sia così, semplicemente così.
«Non ti faccio tornare a casa da sola a mezzanotte, per quanto tu possa essere un soggetto terrificante a cui non si avvicinerebbe neanche un serial killer.»
Se fosse nelle sue condizioni ottimali, probabilmente gli risponderebbe che sa perfettamente cavarsela da sola, che non ha bisogno di quelle accortezze e soprattutto da parte di uomo. L’unica cosa che fa, invece, è voltarsi verso il finestrino trattenendo un sorriso, accogliendo per la prima volta la gentilezza di un gesto senza sminuirla e sviscerarla per trovare l’inganno.
«E Michael?» chiede poi ridestandosi.
Prima di dire qualsiasi cosa, Tom si mette a ridere.
«Tra poco lo chiamerò per dirgli che mi sono dimenticato di specificare che non mi trovo più agli studios.»
«Ti ritroverai a dormire per strada, lo sai vero?»
«Rischierò. Il marciapiede sotto casa tua è comodo?»
«Potresti condividere la cuccia con Moka, un cane randagio forse non più troppo randagio.»
Tom batte le mani una volta, come se avesse trovato la soluzione a tutti suoi problemi: «Vedi? Potrei desiderare di meglio?»
Ris scuote la testa, tornando a guardare i lampioni che scorrono al di là del vetro.
Dal riflesso riesce comunque a vedere Tom e i suoi vestiti completamente rovinati.
«E poi penso che in queste condizione potrebbe tranquillamente scambiarti per un suo simile. Sai, anche Moka ama rotolarsi nel fango», lo punzecchia poi.
«Devo dire che i tuoi insulti gratuiti non mi mancavano.»
Ris segue a ruota la sua risata e poi infila una mano nell’ampia tasca della giacca di pelle. Estrae il suo vecchio cappello con la visiera bassa e lo porge a Tom: «Ti ricordo che potrebbe venirti un infarto se la tua faccia sporca di terra apparisse malauguratamente sulle copertine di lunedì mattina. Sai, potrebbero inventarsi che il venerdì sera ti diletti nel sotterrare cadaveri.»
Lui si volta con un’occhiata fulminante, poi afferra il cappello e lo indossa. Ris incurva un sopracciglio, con un’espressione beffarda.
«È per precauzione», specifica lui.
Pochi minuti dopo il pullman accosta ad una nuova fermata e una giovane madre si fa spazio tra i sedili tenendo per mano un bambino con corti capelli come pece e due grandi occhioni color mogano. Si accomodano sul lato opposto a loro, qualche sedile più avanti.
La madre sospira esausta, lasciandosi cadere accanto al finestrino. Il bambino, invece, si arrampica sullo schienale, puntando due pupille incuriosite proprio su Tom e Ris. Su Tom, in particolare.
Il piccolo inclina leggermente il capo e poi scatta verso il basso, nascondendosi. Sussurra qualcosa all’orecchio della mamma scuotendole il braccio, agitato. Lei scuote la testa liquidando le sue parole con un vago cenno della mano, gli intima di starsene buono e di provare ad addormentarsi.
Il bambino, al contrario, sbuca nuovamente al di sopra del sedile.
Ris, sorride: Tom ha trovato un piccolo fan particolarmente vispo.
L’attore si leva lentamente il cappello e Ris lo guarda incuriosita.
«Voglio semplificargli il gioco», chiarisce.
Gli occhioni del bambino, come previsto, si spalancano increduli. Si catapulta nuovamente addosso alla madre, farneticando.
Sia Ris che Tom ridono inteneriti.
La madre sbuffa e si volta giusto per accontentarlo. Tom alza una mano in segno di saluto non appena la giovane donna si ritrova a guardare incredula suo figlio. 
Il piccolo balza in piedi e inizia a strattonarla. Lei tentenna, come se fosse intimorita all’idea di fare una pessima figura, ma poi cede e si lascia trascinare.
«Non vogliamo disturbare, ma Lucas, mio figlio, è un grande fan dei film sugli Avengers e l’ha riconosciuta immediatamente. Sarebbe maleducato chiedere una foto?»
Tom distende i lineamenti del viso in un sorriso sincero.
«Scherza? Non c’è nessun problema. Avanti piccoletto», lo incoraggia battendo le mani sulle sue ginocchia. Lucas si illumina e si lascia prendere in braccio.
Ris cerca di scivolare il più possibile verso il finestrino, consapevole che comunque verrà almeno parzialmente inquadrata.
Il piccoletto inizia a fargli domande a raffica e Tom non trattiene risate vibranti, di quelle che nascono direttamente dal fondo del petto.
La madre lo ringrazia un centinaio di volte e cerca al contempo di allontanare il figlio.
Tom scompiglia i capelli a Lucas prima di lasciarlo andare e il bambino, felice come se fosse la Vigilia di Natale, segue la mamma saltellando.
«Dimmi che non sono uscita per sbaglio anch’io.»
«Presa in pieno, Ris. Presa in pieno.»
«Quindi, ricapitolando: faccia impolverata, vestiti ricoperti di fango, capelli fradici e una sconosciuta con un qualche chilo di fogliame in testa. Spera che la madre non abbia un account twitter.»
Tom sorride guardando verso il basso.
«Oh, ma che mi frega.»
«Tom Hiddleston, da quanto sei così ribelle e menefreghista? Sicuro che vada tutto bene?»
Lui si passa una mano tra l’accenno di barba – e i residui di terra – per poi scuotere la testa e ridere tra le sue stesse dita. Si scioglie sul sedile e rivolge un rapido sguardo alla ragazza, che lo guarda giusto un briciolo perplessa. Sposta gli occhi cristallini sul tettuccio del pullman e poi abbassa le palpebre, lasciandosi scappare un sospiro sollevato tra un paio di fossette e due labbra a mezzaluna.
«Non so come sarà domani, tra un’ora, tra una settimana. Ma Ris, ora, proprio ora, va tutto fottutamente bene.»
   
 
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