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Autore: Sofyflora98    02/08/2021    0 recensioni
Chi sapeva cosa sarebbe potuto succedere se si fossero spostati?
Chi sapeva se quell'incantesimo si sarebbe infranto? No, meglio non muoversi di lì, meglio tenere il mondo al di fuori e continuare a sognare.
Genere: Erotico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Gellert Grindelwald
Note: Lemon, Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Era l’estate del 1899 quando lo vide per la prima volta, ed avvenne nei pressi del cimitero. Non era da molto che Albus aveva ottenuto il suo MAGO e fatto ritorno dalla sua famiglia a Godric’s Hollow. Si erano trasferiti lì su volere di sua madre, dopo che suo padre era stato rinchiuso ad Azkaban. La morte di sua madre l’aveva obbligato ad abbandonare il viaggio che aveva in programma con Elphias Doge per permettere al fratello di continuare la scuola.

Ebbene, nel cimitero di Godric’s Hollow fu dove il suo sguardo cadde per la prima volta su di lui. Un giovane alto, biondo, avvolto in abiti di un tessuto scuro, intento a studiare una delle lapidi. Il modo in cui ne scrutava la superficie ruvida e macchiata di licheni, con assorbimento totale e fascinazione, e le labbra appena dischiuse che mormoravano qualche incomprensibile parola, costrinse il mago a rallentare il passo. Non era lì per piangere sulla tomba di qualche parente, Albus lo intuiva. Non c’era afflizione, tristezza, la sua postura non faceva pensare ad una qualunque sorta di gravità nel suo stato d’animo. Gli aveva ricordato piuttosto un ricercatore che dopo anni trovava finalmente ciò che desiderava.

Albus senza volerlo si fermò. Non gli sembrava di averlo mai visto lì, forse era un parente in visita, o un turista. Non un turista babbano, loro non avevano alcun interesse in quel paese, a differenza della comunità magica.

Lo sconosciuto dovette accorgersi di essere osservato, perché voltò il capo di scatto nella sua direzione.

- Salve. - gli disse con un sorriso sornione.

Albus rispose con un cenno del capo ed un sorriso decisamente più forzato di quello che era stato rivolto a lui, ed si affrettò a riprendere la sua strada.

Nei due giorni successivi non ebbe difficoltà a catalogare quel breve episodio come un imbarazzante occasione. Lo intravide un paio di volte mentre era in paese, ma non gli ricapitò di incrociare il suo sguardo. Un paio di litigi con Aberforth furono sufficienti a relegare il ragazzo con il sorriso malizioso nella remota periferia dei suoi pensieri. Se ricordava correttamente, il battibecco aveva qualcosa a che fare con delle capre, cosa ridicola sicuramente, ma che sul momento gli era parsa importante. Così fondamentale non doveva essere se non era riuscito a tenerne memoria.

Il terzo giorno lo vide nuovamente, ma questa volta anche l’altro si accorse della sua presenza. Avvenne dal panettiere della cittadina, il che perlomeno era meno spiacevole che un cimitero.

Il sole batteva insolitamente forte persino per quel periodo dell’anno. Forse per il torpore, forse per la stanchezza causata dal caldo, ma quel giorno c’erano pochissime persone fuori dalle loro case. Era abituato alle strane occhiate che gli riserbavano per via del suo litigioso fratello e della strana sorella semi reclusa.

Albus aveva appena fatto la sua richiesta al negoziante, quando lo sconosciuto entrò.

- Salve. - il mago ne riconobbe la voce. Era ancora una volta vestito completamente di nero, i capelli biondi che ricadevano soffici sugli zigomi e sulle spalle. Si domandò, Albus, se ci fosse una qualche particolare ragione per cui non un filo di colore s'intravedeva tra i suoi abiti, o se semplicemente amava quella tinta. Dovevano pure fargli caldo: un velo di sudore gli imperlava la fronte, e difatti gli erano rimaste alcune ciocche dorate incollate appena sopra le sopracciglia.

- Ci siamo visti l’altro giorno, o sbaglio? – l’estraneo si stava rivolgendo a lui, con un sorriso curioso, gli angoli della bocca appena incurvati in su. Quando Albus esitò a rispondere, causa la bocca improvvisamente secca che gli aveva fatto incollare la lingua al palato, inclinò appena la testa da un lato, come un piccolo cenno d’incoraggiamento.

- Uh… certo. Credo proprio di sì. – riuscì a biascicare il rosso, e sperava davvero di non essere sembrato un idiota. Ma che colpa poteva avere lui se quel giovane dalla testa dorata aveva davvero una bellissima voce? Sarebbe stato disumano chiedergli di non distrarsi. – Non credo di avervi mai visto in passato, però. Siete un visitatore o vi siete trasferito qui da poco? –

Così doveva andare bene, pensò. Dialogo casuale, nulla di strano.

Il sorriso del ragazzo si fece più ampio. – Mi fermerò qui per qualche mese. Sono in visita per… motivi accademici. –

Albus sollevò un sopracciglio. I babbani non avevano alcuna ragione al mondo per andare a Godric’s Hollow per “motivi accademici”, il che confermò la sua ipotesi che si trattasse di un mago. La cittadina aveva un valore storico solo ed esclusivamente per la comunità magica.

L’estraneo doveva avergli letto nel pensiero, perché con un gesto quasi casuale della mano destra fece trapelare il manico di una bacchetta dalla tasca.

- Capisco. E questi motivi accademici vi hanno portato al cimitero l’altro giorno, immagino. –

Il panettiere gli stava porgendo il sacchetto di carta con una mano, e teneva il palmo dell’altra aperto in attesa del denaro, che Albus si affrettò a contare e consegnare.

- Non vi sbagliate. Alcune tombe sono molto interessanti. – confermò il biondo, e seguì l’altro mago, mentre egli si apprestava ad uscire dal negozio. – In questo luogo sono vissute alcune famiglie dalle vicissitudini singolari. Si tratta di cose che non si possono sempre apprendere nelle aule, se mi capite… -

Nonostante parlasse perfettamente inglese, Albus notò un lieve accento slavo nella parlata del ragazzo.

Mentre era impegnato a pensare ciò, l’altro gli si era avvicinato. Forse gli si era avvicinato un poì troppo, di sicuro più di quanto farebbe normalmente uno sconosciuto.

Posso farvi una domanda? – gli chiese a voce bassa. Albus annuì senza pensare. – Voi siete Albus Silente, non è così? Il mio nome è Gellert Grindelwald. – si presentò il giovane senza dargli il tempo di rispondere alla domanda.

Il nome non gli disse nulla, ma se quel giovane sapeva il suo nome, il loro incontro non doveva essere un caso. Con apprensione pensò che si trattasse di un altro dei curiosi che speravano di sapere qualcosa sulla ragazza strana dei Silente, e di infierire su di loro riportando a galla lo scandalo causato da loro padre. Si allontanò di un passo da Gellert Grindelwald, rivolgendogli uno sguardo diffidente.

- Sì, sono Albus Silente. È un piacere fare la vostra conoscenza, ma posso chiedervi come sapete il mio nome? –

Gellert sembrò esitare e misurare le parole prima di continuare. – Non era mia intenzione sembrarvi sgarbato o invadente. Vi ho riconosciuto da una fotografia stampata in una delle vostre ricerche pubblicate. Mi erano parse estremamente brillanti, e speravo di fare la vostra conoscenza per poterne discutere con voi in prima persona. Sarei venuto a Godric’s Hollow comunque, non pensate che voglia perseguitarvi. –

- Nessun disturbo. – si ritrovò a dire Albus. si scoprì distratto dagli occhi del nuovo arrivato. Erano particolari: mentre uno pareva di un grigioverde, l’altro era di un affascinante color ghiaccio. – Non prima di domattina, però. Per la giornata, sono molto impegnato. –

Gellert Grindelwald sorrise con soddisfazione. – Non vedo l’ora. – mormorò. – Non immaginate quale piacere sia per me sia stato incontrarvi. –



Albus non ricordò molto del ritorno verso casa, né di come esattamente si fossero separati, di sicuro non aveva capitò granché di cosa gli fosse appena successo. Quel giovane era apparso di punto in bianco, gli aveva detto di sapere chi fosse ed era riuscito a fargli accettare di vederlo ancora, semplicemente così, con poche frasi soltanto, dritto al punto e senza nemmeno preoccuparsi dei comuni convenevoli.

Albus si rese conto di non avergli nemmeno chiesto da dove venisse, e dove alloggiava nel frattempo. Si diede dello stupido. Come avrebbe potuto vederlo ancora se non sapeva nemmeno dove cercarlo?

Poi ricordò che probabilmente quel Grindelwald sapeva anche dove lui abitava, visto che non pareva essersi fatto sfuggire nulla. Non ci credeva neppure un po’ che il loro incontro non fosse stato almeno in parte volontario da parte dell’altro.

Entrando in casa, lasciò l’involto di carta marrone sul tavolo, tirando lunghi sospiri.

- Aberforth? – chiamò. Nessuno gli rispose. Stava per fare un altro tentativo, quando fu interrotto da una voce sottile e flautata.

- Nostro fratello è uscito. – Ariana gli si era avvicinata, i capelli biondi costretti in due trecce ai lati della testa. – Bentornato. – disse ancora lei, con in volto appena l’ombra di un sorriso. Era il meglio che le aveva visto fare da molto tempo.

- Sai dov’è andato? – sospirò di nuovo, ricevendo una risposta negativa dalla ragazzina. – Hai fame? –

Lei gli rispose di nuovo scuotendo la testa.

Albus ripensò a quel ragazzo. C’era qualcosa di singolare in lui, come una scintilla che gli illuminava quegli occhi bizzarri. Lo aveva percepito dalla trepidazione nella sua voce mentre gli parlava, c’era un desiderio o un’aspirazione che lo colmava, che lo aveva fatto brillare e vibrare nell’avvicinarsi ad Albus, come un qualcosa che spingesse per liberarsi. Era davvero bastato poco a intuirlo, quel Gellert Grindelwald non era particolarmente bravo a celare le proprie emozioni.

Desiderava rivederlo. Non sapeva perché, ma sentì un’irrefrenabile curiosità nei suoi confronti.

Nel suo studio, ci arrivò in pochi secondi. Forse era irresponsabile da parte sua lasciare sola la sorella minore così tanto tempo ogni giorno, ma non era in grado di restare solo con lei a lungo, il bisogno di immergersi nel suoi libri lo soverchiava.

Con un colpo di bacchetta fece levitare un ventaglio, che prese a sventolare nella sua direzione. Quell’estate era veramente molto caldo.

Sedette alla scrivania e riprese in mano i tomi che aveva lasciato lì posati dalla sera prima. Stese un rotolo di pergamena davanti a sé, afferrò una piuma ed una boccetta d’inchiostro, e riaprì il libro in cima al mucchio al punto che aveva lasciato segnato.


ALBERO GENEALOGICO:

FAMIGLIA PEVERELL


Quella notte sognò il corpo della madre riverso sul pavimento, il viso attraversato da segni grigiastri ed un rivolo di sangue che le usciva dalla bocca in un fili sottili. Sentiva i lievi singhiozzi spezzati di Ariana e le urla spaventate di Aberforth mentre la sorella tornava ad assumere sembianze umane. Le sue dita avevano ancora la parvenza di vorticante cenere nera.

Gli faceva male la testa, non riusciva a respirare.

Il volto di Kendra, digrignato dal terrore e dal dolore che doveva aver provato, era volto verso di lui, come in segno d’accusa, o come a dirgli che quel fardello ora era suo da portare: mantenere il resto della famiglia, tenere Ariana lontana dagli occhi del mondo, impedire che la portassero via da loro.

Si svegliò con il viso premuto contro le pagine di un libro ed un forte dolore al collo. Doveva essere crollato sulla propria scrivania la sera prima. ormai era un’abitudine stare alzato fino allo stremo, chino sulle sue ricerche. Su alcuni punti l’inchiostro era leggermente sbavato, e sul viso, attorno agli occhi, sentiva la pelle secca e tirata dal sale. Si ripulì in fretta dalle tracce di lacrime secche.

Era già giorno, e sentiva la voce forte e raschiante di Aberfort sbraitare concitatamente qualcosa. Forse a loro sorella, o forse a qualcuno alla porta. La seconda era più probabile, dato che Aberforth raramente usava toni aspri con Ariana, e lei non dava mai ragione di farlo.

Scese con calma per vedere di che si trattasse, e scoprì Ariana che osservava di nascosto l’altro fratello. Aberforth era alla porta, come pensava Albus, che parlava con qualcuno, e dal modo in cui gesticolava gli dette l’impressione che stesse tentando di scacciare via il malcapitato. Albus intravide una camicia scura e dei capelli biondi.

- Ah, eccoti! – sbottò Aberforth. – Questo qui dice di voler parlare con te. –

Dall’altra parte c’era l’avvenente sconosciuto del giorno prima, Gellert Grindelwald. Albus si fece avanti superando il fratello. – Tranquillo, Aberforth. Ora esco, stai con Ariana, d’accordo? – Aberforth borbottò qualche parola d’assenso, e occhieggiò il biondo con sospetto e ostilità.

- Temo di esservi sembrato un pedinatore, ieri. – gli disse Grindelwald quando si furono chiusi la porta alle spalle. – Stare lì ad aspettarvi, dopo avervi cercato appositamente… non vorrei avervi dato una troppo brutta impressione. –

- Non saprei dire ancora. – provò a dire Albus, tentando goffamente di scherzare.

- Ve l’ho già detto, forse, ma ho visto la vostra foto nella stampa delle vostre ricerche, ed in un giornale. Il più brillante studente di Hogwarts non passa certo inosservato. Zia Bathilda mi ha detto che siete compaesani, quindi… –

- Bathilda Bath? – esclamò il rosso con sorpresa. – La conosco da anni, non sapevo avesse un nipote. –

- Pronipote, per l’esattezza. Ora sto a casa sua. Lei mi ha confermato la vostra identità dopo che le ho descritto il ragazzo che ho visto al cimitero. –

- Posso chiedere cosa ci facevate lì? –

Gellert rallentò il passo e gli sorrise. Eccola di nuovo, quella trepidazione, quel luccichio vibrante di eccitazione nei suoi occhi. – Proprio di questo volevo parlarvi.–

Gellert gli raccontò una storia, una che Albus già conosceva. Si trattava della storia dei Tre Fratelli, un mito che ogni genitore aveva raccontati ai propri figli, e che qualcuno pensava fosse più che una favola per farli dormire.

Secondo il giovane, non si trattava di un semplice mito. Era convinto che i tre manufatti donati ai tre fratelli dalla morte fossero realmente esistiti, e prese a spiegargli le tracce e gli indizi che aveva trovato in anni di studio, e che lo avevano condotto fino a Godric’s Hollow.

Aveva un modo di parlare molto affascinante. La sua eloquenza nell’esprimere il suo pensiero, il suo modo di gesticolare con eleganza e vigore, avrebbero potuto fare di lui un agitatore di folle od un politico, se solo avesse voluto.

- Ho letto molte delle vostre ricerche, lo scorso anno. Il vostro metodo di analisi è straordinario. Credo che questo mi abbia spinto a cercarvi, Albus. – disse d’un tratto Gellert interrompendo il filo della sua spiegazione.

Erano giunti di fronte alla casa di Bathilda Bath. – Io al momento sto con zia Bathilda. – disse di nuovo Gellert. – Pensavo che se vi avessi mostrato qualcosa di più concreto di alcune parole, avrei potuto interessarvi di più. –

Albus acconsentì, e si lasciò guidare nella villetta di Bathilda. Lei era in ottimi rapporti con la famosa storica. Era stata una grande amica di sua madre Kendra, quando questa era ancora in vita.

- Albus caro! – lo accolse lei nel vederlo fare il suo ingresso. – Era più di una settimana che non ti facevi vedere! Qualche altro giorno, e avrei finito per convincermi che Aberforth ha solo una sorella! –

Lo baciò su entrambe le guance con fare materno. – Vedo che hai fatto conoscenza con il mio Gellert. Ti ha adescato con i racconti sulle sue affascinanti ricerche? –

. Qualcosa del genere, sì. – rise Albus. ora che ci pensava, forse lei gli aveva accennato qualcosa su un nipote, in passato. Un nipote che frequentava una scuola di magia all’estero. Forse era da lì che arrivava la strana cadenza di Gellert.

- Vuoi del tè? Una fetta di torta? –

- Se non ti dispiace, li porto in camera. grazie per il disturbo, zia. – le rispose il pronipote.

Tenendo un vassoio con tazze, zucchero e un po’ di quel dolce di cui parlava la donna, Gellert guidò Albus su per delle scale di legno cigolanti.

Oltre al letto, nella camera c’erano diverse librerie a coprire le pareti, una larga scrivania, alcune sedie e sgabelli e una cassettiera con armadio soprastante. Il biondo posò il suo carico su un lato della scrivania che era rimasto sgombro dalle montagne di libri, pergamene e bottiglie d’inchiostro che riempivano la stanza.

- Possiamo darci del tu? –

- Certamente. Qui è dove vivi, quindi? –

- Sì, ma non resterò qui molto a lungo. Me ne andrò alla fine dell’estate. –

Gli fece cenno di accomodarsi su una delle sedie. Fino ad ora non gli aveva ancora chiesto nulla del suo lavoro, solo parlato delle proprie ricerche. Non dovette attendere molto per intuire come mai avesse cercato proprio lui, tra tutti i grandi studiosi che c’erano, e perché non avesse coinvolto più di tanto sua zia Bathilda. Ciò che vedeva non sarebbe stato considerato storicamente rilevante dai più, e il motivo di tutto quel lavoro probabilmente non sarebbe stato approvato dalla zia.

Passarono le ore successive a sfogliare libri su libri, mentre Gellert gli mostrava estratti di alcuni manoscritti. Il ragazzo aveva raccolto e ordinato una spaventosa quantità di aneddoti e fatti di cronaca che potevano essere ricollegati ai cosiddetti Doni della Morte: strani accadimenti, furti di oggetti apparentemente futili, maghi e streghe ricoverati e dati per pazzi che affermavano di aver parlato con famigliari morti da tempo.

Gellert aveva ricostruito quella che sembrava una linea temporale che seguiva gli spostamenti ipotetici dei tre manufatti e la lista dei loro possessori. Aveva fatto ipotesi alternative che seguivano le varie piste, le aveva divise per probabilità di veridicità. Si trattava di un’opera di richerca magistrale, Albus era impressionato dalla determinazione e dalla convinzione di quello stregone.

La sua ricerca non terminava lì: aveva anche identificato l’origine di questo mito nella famiglia Peverell. Antioch, possessore della Bacchetta di Sambuco, Cadmus, possessore della Pietra della Resurrezione, e Ignotus, possessore del mantello dell’Invisibilità: così identificava i tre fratelli della leggenda.

Gellert era alla ricerca dei Doni, e per questo gli serviva aiuto. Silente era un talentuoso stregone, era abile in svariati campi della magia che avrebbero potuto tornargli utili, e, cosa più importante, era già affascinato da lui.



Quello che seguì fu un mese a dir poco esaltante. Non ci era voluto molto perché Albus stesso fosse preso dalla folle idea di Gellert, la caccia ai Doni. Aveva un ideale, il ragazzo. Voleva usare il potere dei tre manufatti per sostenere il mondo magico e rendere migliore la vita dei suoi abitanti, per liberarli dalla loro vita nell’ombra, così diceva lui.

- Non ti fa impazzire, Albus? – esclamava a volte, tormentandosi i capelli. – Come si può sopportare una vita di segretezza in cui dobbiamo nascondere la nostra vera natura? Siamo forse i servi dei babbani, il mondo deve girare sempre e solo attorno alla loro tranquillità? –

E questo accadeva nei giorni più ordinari. A volte perdeva il controllo di ciò che diceva (così pensava Albus, perlomeno), e diventava più pesante. In quei giorni i babbani diventavano una minaccia, per lui. – Sono così arretrati e mentalmente gretti! Hai idea di quante cose sono fuori legge per loro, quando per noi sono assolutamente normali? Sono peggio delle bestie! –

Purtroppo molto ciò che diceva sui babbani era veritiero. La loro società era estremamente arretrata sotto molti punti di vista, non poteva essere negato, però Albus pensava che questo non sarebbe rimasto così per sempre. Gellert, invece, parlava di un mutamento repentino, a suo parere necessario. Per il bene superiore, ripeteva.

L’idea di una rivoluzione non dispiaceva ad Albus, solo che non sempre capiva sotto quali termini

la intendeva Gellert. Ciononostante, non gli era difficile allontanare questi pensieri quando Gellert gli sorrideva radioso e gli diceva quanto fosse felice di averlo conosciuto, e di lavorare a tutto questo assieme a lui.

Aveva iniziato a proporgli di lavorare fuori, sul prato, sulla collina, sotto un albero. Passavano assieme un’enorme quantità di tempo, a malapena Albus tornava a casa sua.

Questa loro amicizia rendeva Aberforth tutto meno che contento. A lui Gellert non andava a genio, né l’avrebbe mai fatto probabilmente.

- Non capisco cosa ci trovi in quello. – era il classico borbottio che Albus sentiva ogniqualvolta provasse a raccontare a lui e Ariana di Grindelwald.

- Da quando lo hai conosciuto, stento a riconoscerti! – sbottò un giorno il fratello. – Parli come lui, ti sei sentito? Dici tutte le sue stesse assurdità sui babbani e i non magici, sei ossessionato da quei Doni della Morte! Ma ci pensi a noi ogni tanto? Ci pensi a tua sorella? È a lei e a me che tu dovresti dare più attenzioni, non ad un esaltato del genere! –

Quando accadeva il giovane si sentiva stringere lo stomaco dai sensi di colpa per ore.

Un giorno, poi, accadde qualcosa.

Quel pomeriggio era avvenuto un piccolo incidente: Albus aveva, nella distrazione, rovesciato un vassoio con tè e dolcetti che stava in bilico su alcuni libri addosso al compagno. Fortunatamente non lo ferì, l’acqua del tè si era raffreddata a sufficienza da non scottarlo, ma fece un disastro sui vestiti di Gellert.

- Oh, Merlino! Perdonami, Gellert! – con un colpo di bacchetta fece raccogliere i frammenti di porcellana della teiera e li fece riassemblare. Purtroppo non c’era modo di recuperare il cibo e la bevanda, così si limitò a pulire la moquette.

- Non ti affannare, Albus. è tutto a posto. – disse Gellert senza battere ciglio. Anzi, forse stava addirittura accennando un sorriso. – Non ti dispiace se io…? – non aspettò nemmeno una sua risposta prima di iniziare a spogliarsi dai panni lerci per infilare qualcosa di pulito.

Anche se gliene avesse lasciato il tempo, Albus non avrebbe saputo cosa rispondere. Non di certo dopo che il biondo ebbe sbottonato e sfilato la camicia, facendo mostra di una vasta distesa di pelle color crema, immacolata, e dei sinuosi rilievi della muscolatura appena accennata.

Una meraviglia, una bellezza squisita e frastornante, Albus non riusciva a distogliere lo sguardo.

- Oh, me ne è finito anche sui pantaloni! – ad Albus quasi venne un colpo quando Gellert iniziò a trafficare con i bottoni, e stavolta si costrinse a voltarsi prima di sembrare troppo interessato alla nudità dell’amico.

Fece comunque in tempo a cogliere la sporgenza dell’osso del bacino e la prima metà di una soffice curva in fondo alla schiena.

Sebbene ripresero poco dopo le loro attività, l’immagine lo tormentò fino a sera.

Sdraiato sul letto, non poté non chiedersi se Gellert l’avesse fatto di proposito, e cosa sarebbe successo se non si fosse voltato, o se avesse allungato la mano per sfiorargli la schiena.

Rivide quel miraggio come se fosse stato davanti ai proprio occhi: i vestiti che scivolavano via, la pelle soffice, le braccia sottili ma toniche, un capezzolo rosa che faceva capolino da sotto la camicia.

Si sentiva tremare. Fece silenziosamente scivolare la mano sotto i pantaloni e prese in mano la propria virilità.

Di lì in poi fu ancora più facile focalizzarlo: i capelli biondi che ricadevano sulle spalle, gli occhi di due colori diversi, la sua voce e la sua bocca. Oh, la sua bocca! Poteva immaginare mille cose su quella bocca, a cominciare dai mille modi in cui voleva baciarlo.

Vide, sotto le palpebre chiuse, Gellert che lo spingeva gentilmente sul letto in cui si trovava ora, si faceva largo tra le sue gambe, e faceva uso di quella bocca per qualcosa che l’avrebbe fatto arrossire terribilmente alla luce del giorno, e nel mentre teneva lo sguardo inchiodato sul suo.

Dovette mordersi una mano per non gemere ad alta voce al pensiero.

L’immaginazione, una volta liberata, non può essere fermata. Il suo Gellert etereo non aveva cessato di fare ciò che… per imitare ciò che vedeva nella propria mente, Albus portò il pollice a strofinare la punta. Una cosa simile fece il Gellert immaginario, prima di allungarsi e stendersi su di lui per baciargli il collo. riusciva ad evocare la sua voce come se fosse lì realmente. Un sospiro spezzato del proprio nome detto dall’altro ragazzo, quella fu la sua fine. Raggiunse l’apice con gli occhi bicolori di Gellert e la sua voce alla mente.

Si addormentò a malapena due minuti dopo, il viso ancora accaldato e il cuore che batteva impazzito.

Quella era un punto di non ritorno.



- Pensi che Nicholas Flamel potrebbe esserci d’aiuto? –

Gellert annuì vigorosamente alla sua domanda. Non avendo ancora alcuna traccia recente sul mantello, ed essendo quelle sulla bacchetta ancora troppo flebili e difficili da seguire, avevano preso la decisione di concentrarsi sulla pietra, al momento.

Non era certo semplice cercare una pietra: non si conosceva l’aspetto di essa, e avrebbe potuto essere ovunque, anche gettata in una comune spiaggia di sassi, ma se fossero riusciti a capirne il funzionamento potevano tentare di riprodurla loro stessi. Sapendo che le origini dei Doni erano in realtà ignote, che la storia della Morte era quasi di sicuro una favola, non era improbabile che fossero stati i fratelli Peverell stessi i creatori dei Doni. In tal caso, sarebbe stato possibile crearli di nuovo, se si fosse venuti a conoscenza della loro vera natura e scoperto quale sorta di magia li aveva dotati di tali poteri.

Se si doveva parlare di una pietra per combattere la Morte, il creatore della pietra filosofale era un buon punto da cui partire.

- So che non sarà facile raggiungerlo a Parigi, ma credo che ne varrebbe la pena. Pensi di poterlo fare? – Gellert lo guardava speranzoso, una mano posata sulla sua spalla. Albus dovette trattenersi dall’abbassare lo sguardo sulle proprie ginocchia ed arrossire.

Erano diventati amici molto in fretta, e Gellert non sembrava disdegnare il contatto fisico. Non era raro che gli afferrasse le braccia, si aggrappasse sulle sue spalle o gli sfiorasse le mani distrattamente. Albus apprezzava tutto ciò. Era bello, semplicemente bello, stare con lui ed avere quella complicità e naturalezza, quella spontaneità nel loro rapporto. Lo sarebbe stato anche di più se ogni contatto non avesse fatto ribollire il sangue nelle sue vene, o se non gli fosse venuta la pelle d’oca ogniqualvolta l’altro gli toccasse le mani per prendere qualcosa che teneva.

- Sì, credo di poterlo fare. Però si tratterebbe di creare una passaporta illegale. –

Gli occhi di Gellert furono a pochi centimetri dai suoi appena un istante dopo che ebbe pronunciato quelle parole. Il biondo, con le braccia appoggiate sulle spalle di Albus, aveva catturato una delle ciocche rosse dei suoi capelli, e li tormentava scherzosamente. – Oh, ma sono sicuro che tu sarai perfettamente in grado di farci arrivare lì senza essere intercettati. Non è forse così? –

Il suo finto tono piagnucoloso e il broncio erano così buffi e fuori luogo che scoppiò a ridergli in faccia. – Sì, lo faccio, lo faccio! – assentì Albus, ridendo ancora. Gellert sorrise senza staccare le mani da lui, poi il suo sguardo si fece più serio. Aprì la bocca come per dire qualcosa, poi la richiuse e abbassò lo sguardo. si stacco da Albus, le sue braccia corsero ad incollarsi ai proprio fianchi.

- Gellert? –

- Dimmi. –

- Ho fatto qualcosa che non va? Sei rigido come una bacchetta. – non appena lo disse, Gellert mise le braccia conserte e sciolse la postura. Lo stesso non accadde al volto, però, che rimase immobile e distratto, sperduto.

Albus era esterrefatto. Non era accaduto nulla, aveva soltanto riso.

- Gellert, vuoi che riprendiamo con gli articoli di cronaca del ’56? –

Lui annuì. – Certo, certo. Subito. –

Ciononostante, non si mosse per prendere i documenti in mano. Dovette accorgersene lui stesso, perché si riscosse con un sobbalzo. – Sì, uh… certo. E poi, ricorda di cercare come fare la passaporta. –

Ripresero le ricerche, e il biondo fu stranamente silenzioso per le ore che seguirono, fino a quando Albus non gli disse che doveva tornare a casa per badare ad Ariana.



Gellert non cessò quel suo strano comportamento per tutta la settimana che seguì. Non fu mai quanto quel giorno, ma c’era una certa accortezza nel modo in cui si approcciava ad Albus. a volte gli sembrava che esitasse a toccarlo, e dopo che mantenesse il contatto più del necessario. Una mattina lo sorprese ad osservare lui invece che a leggere le pergamene che aveva posato sulla scrivania. Quando il ragazzo, vedendosi osservato a sua volta, sussultò e tornò in fretta a scrutare le rune scritte fittamente sui fogli, Silente non poté fare a meno di sperare che fosse significato qualcosa.

Costruire una passaporta, di per sé, non era eccessivamente difficile. Aveva tutte le competenze e le conoscenze che gli servivano per farlo, non dubitava delle proprie capacità. La parte complicata era un’altra: far in modo che non fosse tracciabile. Ogni magia di quella portata era percepibile, e il Ministero non ammetteva passaporte non regolamentate. Albus doveva far sì che passassero sotto il loro naso senza che se ne rendessero conto.

Ci impiegò otto giorni, alla fine. Lavorò giorno e notte per elaborare ogni sfumatura dell’incantesimo. Ciò che ottenne fu la formula per una passaporta perfettamente invisibile al Ministero, il loro mezzo per andare e far ritorno da Parigi senza che si venisse a sapere nulla.

Non disse nulla ad Aberforth, solo che sarebbe stato via un giorno o due con Gellert Grindelwald. Il fratello non ne era entusiasta, ma oltre ad un grugnito non disse nulla.

Gellert aveva insistito per essere presente quando avrebbe infine tramutato un oggetto in passaporta. Lo osservava, ora, con il fiato sospeso mentre puntava la bacchetta su un pezzo di metallo ricurvo che aveva trovato per strada. Aveva già lanciato i vari sortilegi per celarlo al Ministero.

- Portus. – mormorò. L’oggetto brillò qualche istante, poi torno apparentemente come prima.

Gellert lo sfiorò in punta di dita. – Straordinario. – la voce gli tremava appena. – Sei straordinario, Albus. –

La passaporta ora stava tra le mani di Albus. dopo solo un attimo di tentennamento, Gellert le ricoprì con le proprie, di poco più grandi, e sembrò soppesare quel ferro deformato e ossidato. Poi fece un piccolo movimento del pollice, una, due volte, e ancora, finché Albus non si rese conto che gli stava accarezzando il dorso della mano. Alzò lo sguardo suk suo viso affilato. Gellert lo guardava con un’intensità che lo fece quasi retrocedere.

- Andiamo a Parigi oggi. Andiamo da Flamel subito. – gli disse con trepidazione. – Per favore. – aggiunse poi.

Albus non poté dirgli di no.



La passaporta li aveva fatti atterrare sul limitare di un viale alberato, e poco ci mancò che fossero visti da un babbano che passava nelle vicinanze. La cosa fece ridere Gellert, con grande sconcerto del compagno.

Da quel punto, ci volle un po’ per trovare l’abitazione di Flamel. Nessuno di loro due era pratico delle vie di Parigi, e il sistema degli arrondissement non aveva in Inghilterra simili corrispondenti a cui potessero far riferimento. Perlomeno, la via dove poterlo trovare non era ignota.

- È sempre una bella sorpresa vedere dei giovani. – il vecchio mago li aveva accolti con benevolenza. Albus aveva già scritto qualche lettera all’alchimista per scambiare qualche opinione accademica con lui (e per chiedergli se sarebbe stato favorevole a lavorare assieme a lui in futuro), e doveva dire che non era esattamente come l’aveva immaginato. Era più grazioso, e molto meno serio. – Dà una certa allegria, mi capite? –

I due ragazzi annuirono energicamente, senza capirlo assolutamente. D'altronde, come potevano due ragazzi capire come si sente un vecchio?

Peronella, la moglie del mago, sedeva al suo fianco su un vecchio divano polveroso, e sorrideva loro con dolcezza e con una punta di malizia che fece arrossire il giovane Albus. aveva l’impressione che stesse osservando dove Grindelwald tamburellava le dita (ovvero vicino alla clavicola di Albus, visto che il biondo aveva un braccio sulle sue spalle e la mano che ricadeva vicino al suo collo).

Parlare con i coniugi fu illuminante, sebbene non li fece progredire molto nella loro ricerca. Gellert pensava che la pietra filosofale potesse avere qualche elemento comune con l’ipotetica Pietra della Resurrezione. Fece un vago accenno alla possibilità che quest’ultima si potesse creare, ma abbandonò l’idea in men che non si dica. Flamel fu molto categorico nell’illustrare come la possibilità fosse pari a zero, e che la sua pietra non avesse nulla che potesse riportare i morti in terra.

- La pietra filosofale tiene in vita il mio corpo. Ma riportare indietro i defunti? Non si tratta solo del corpo, dovresti riportare indietro la loro coscienza. Io non posso aiutarvi in faccende simili. –

Dopo qualche ora di discussioni, avevano finito per cambiare argomento, e quando i due ragazzi si congedarono, già da un bel pezzo i Doni della Morte non erano più l’oggetto del discorso.

Gellert ara già in strada prima che Albus uscisse del tutto dalla porta. La signora Peronella lo fermò mentre stava per scendere i gradini all’ingresso. Gli fece un cenno con la testa verso il compagno. – Sono felice per te. – gli disse con un tono di complicità, e lo lasciò andare.

Fu strano tornare a Godric’s Hollow. Quelle ore trascorse assieme, lontano da parenti e conoscenti, gli erano parse come un sogno, una fuga in un regno lontano. Era stato bello in un modo che non seppe descrivere, ed ora sentiva di nuovo un peso nello stomaco.

Per fortuna la passaporta li aveva riportati in cima ad un colle a venti minuti a piedi dal centro del paese. Avevano ancora un po’ di tempo.

Gellert però esitava ad incamminarsi. – Se vuoi possiamo restare qui qualche minuto ancora. –

Passò ben più di qualche minuto, e Gellert per ogni istante sembrava sul punto di dirgli qualcosa, soltanto che finiva per cambiare idea ogni volta.

- Albus. – mormorò ad un certo punto con voce tremante. Albus sentì le dita di Gellert stringersi attorno alle sue. – Vorrei poterti parlare in completa sincerità, ma temo ciò che potresti pensare di me. –

Sempre tenendogli con dolce fermezza la mano, il giovane si sedette lentamente a terra. L’erba era umida di rugiada, ma nessuno dei due badò a questo, e il rosso si calò anche lui a sedere vicino all’amico.

- Puoi dirmi qualsiasi cosa, lo sai bene. – lo incoraggiò, il cuore in gola. Era sempre riuscito a sentire il proprio battito con tale chiarezza?

Gellert fece una mezza risata alle sue parole, una risata nervosa. Albus rimase stupito dalla chiarezza con cui ormai era in grado di leggere le sue emozioni. La tensione, l’insicurezza, le risate finte, erano limpide come l’acqua ai suoi occhi. Ma quel tormento che leggeva nel suo volto, era nuovo. Non l’aveva mai visto nel viso del compagno, mai era trapelata quella sorta di brama tentennante.

- Tu mi affascini, Albus. – disse in un soffio. – Quando ti sento parlare, quando ti vedo chino sui libri, io mi trovo a pensare che vorrei essere nella tua mente. Vorrei capire come vedi le cose, sentire ciò che senti, distruggere ciò che ti affligge. E senza alcuna ragione o secondo fine, soltanto perché sei tu. Io… - si fermò a riprendere fiato: aveva parlato quasi senza respirare. Una febbrile trepidazione lo rendeva irrequieto. – Io desidero la tua presenza in ogni istante. Parlare con te, ridere con te. Oppure anche solo starti accanto, senza far nulla in particolare. Io ne ho la certezza. Se potessi legarmi a te per sempre… -

- È possibile. – lo interruppe Albus. – Se tu lo desideri, è possibile. –

Strinse con forza la mano di Grindelwald, che lo fissava a bocca aperta, come un animale selvatico colpito dalla luce di una bacchetta. – Ma devi prima dirmi in completa sincerità e a cuore aperto se è davvero ciò che vuoi, perché io lo voglio con assoluta certezza. Se tu mi illudessi per poi perdere interesse in me e sparire, non potrei sopportarlo. – non sapeva da dove venisse tutta quella determinazione, ma sembrava aver placato parte del timore di Gellert. Non tremava più come prima, anzi, gli occhi gli si erano accesi di una luce speranzosa.

- Anche tu…? – sul suo volto iniziava a comparire l’ombra di un sorriso sollevato. Quello stupore, quella luce che lo illuminava, erano le stesse di un bambino che per la prima volta vede il mondo.

- Gellert, se mi chiedessi di seguirti in capo al mondo, io lo farei. Voglio stare con te. Desideri legarti a me? Ottimo, non aspettavo altro. –

Gellert stette per lungo tempo senza proferir parola, lo scrutava soltanto con meraviglia, tanto che Albus iniziò a sentire quel coraggio che aveva raccolto farsi meno, ed un potente imbarazzo prese il sopravvento e gli infiammò le guance.

Poi, però, Gellert si porse verso di lui, e dannazione, quanto facilmente avrebbe potuto annegare in quegli occhi! Si fermò a pochi millimetri dal suo vis. Sentiva il suo fiato caldo sulla bocca. Sarebbe bastato così poco, così poco!

- Sì, sì. Legati a me, ti prego. Andremo ovunque vorremo, non abbiamo bisogno di nessun altro. – sussurrò Grindelwald. Un nodo strinse lo stomaco del più vecchio, si sentiva formicolare le membra.

- Allora facciamolo, ora. Facciamo un patto di sangue. –

Non ebbe bisogno di parole per capire la risposta di Gellert. Si alzarono lentamente. Un silenzio quasi religioso era calato d’un tratto.

Se l’avessero fatto, non ci sarebbe stata una via di ritorno. Era giusto così, non voleva che il loro legame potesse venir reciso con tanta facilità.

Albus estrasse la bacchetta, invitandolo con un cenno a fare altrettanto.

Quella che uscì sussurrata dalle sue labbra era una cantilena in latino finemente composta e raffinata da stregoni e streghe secolo dopo secolo. Il giovane dai capelli dorati ripeteva parola per parole al suo seguito, incapace di distogliere lo sguardo dal viso dell’altro.

Attorno a loro, eccezion fatta per le loro voci, c’era un grande silenzio. Albus non osava neppure parlare più forte di quanto facesse ora, seppur la sua voce fosse poco più di un soffio di vento.

Percepiva con spaventosa consapevolezza le trame dell’incanto che si tessevano man mano, che stringevano un filo dolce e inesorabile tra loro.

Per l’enormità di ciò che compiva, l’incantesimo non impiegava molto tempo a concludersi. Non erano passati che alcuni minuti quando la cantilena giunse al suo termine.

Gellert lo guardava dall’alto in attesa, e lui chiuse gli occhi con un sospiro. allungarono le mani l’uno verso l’altro. Strinsero forte le dita assieme, l’energia che fluiva da Albus a Gellert e viceversa. Due gocce di sangue furono l’unico segno fisico di ciò che stava accadendo. Due gocce che si staccarono dalla punta delle loro dita e si sollevarono in aria per congiungersi. Quello era il sigillo del sortilegio, ciò che avrebbe negato ogni via di scampo da quel legame indissolubile. Attorno alle gocce prese forma un piccolo gioiello che le racchiudeva. Poi cadde tra le sue mani, come un gingillo qualunque.

Era fatta.

Entrambi guardavano sbalorditi quel ninnolo scintillante. Così piccolo, così insignificante. Quell’oggetto era tutto ciò che contava nel mondo intero. Silente lo portò con dita incerte alla tasca del panciotto.

Si ritrovò avvolto da due braccia calde, ed una massa di capelli biondi gli solleticò il viso. Febbricitante per l’emozione e l’incredulità di ciò che avevano fatto, ricambiò la stretta con tutta la forza che aveva. Si staccò dopo poco da Gellert solo per prendergli il viso tra le mani e posargli un bacio leggero sulle labbra.

L’altro sgranò gli occhi come un bambino, poi scoppiò in una risata di gioia. Lo strinse di nuovo, premette la bocca sulla sua. Gellert aveva un buon sapore. Sapeva di erbe e caffè, Albus avrebbe potuto restare incollato a lui per anni ed anni senza stancarsi. Quando finalmente si staccarono con uno schiocco umido, il più giovane aveva gli occhi lucidi e trasognati, ed un ciuffo di capelli che gli si era appiccicato alla fronte. Albus era sicuro di non essere in condizioni migliori.

- Albus…? – chiese con voce ansimante il compagno, scoccando un’occhiata al terreno imperlato di rugiada.

- Sì. – rispose con semplicità e con una determinazione che non sapeva di avere.

Grindelwald gli sfilò la giacca e lo invitò a stendersi sul prato, con delicatezza. Lui si lasciò reclinare all’indietro, e sistemò la giacca così che facesse da barriera tra lui e il freddo della terra. Per fortuna non era inverno.

Un bottone alla volta, Gellert si stava facendo strada tra i suoi vestiti, con la calma e la meraviglia di chi apre un’ostrica e teme di perderne il contenuto. Per quanto tutto ciò lo facesse arrossire, Albus dovette venirgli incontro e aiutarlo a togliere di mezzo tutto quel tessuto inutile e fastidioso il più in fretta possibile.

Con un sospiro liberatorio, Gellert premette il viso contro la sua pelle nuda, e bacio dopo bacio impresso sul petto del maggiore, raggiunse e prese tra le labbra un capezzolo roseo. Ora fu Albus a sospirare, mentre il ragazzo lo stuzzicava con la lingua, e sporse le mani per liberarsi anche dei vestiti che Gellert aveva ancora addosso.

Lo tirò in giù, verso di sé, bisognoso di sentire la sua pelle bollente premuta contro la propria. Lo baciò di nuovo più pigramente e languidamente. Non era una battaglia quella che si svolgeva tra le loro lingue, più uno scivolare coordinato, il mergersi di entità che tendevano l’una verso l’altra.

- Per caso hai…? – chiese Gellert, con voce incerta.

- Sì, incantesimo. – Albus gli prese la mano e sussurrò qualche parola in latino. Ora le dita del compagno luccicavano di una sostanza oleosa e profumata. Piccoli trucchi che si trovano nei diari di alcuni stregoni molto libertini. Albus divaricò le gambe con lentezza, permettendo al compagno di sdraiarsi tra di esse, mentre avvicinava le dita al suo luogo più intimo. Ancora una volta lo guardo negli occhi per chiedere il permesso, e ancora una volta gli fu detto di sì.

Nonostante Gellert stesse facendo uso di tutto il controllo che possedeva per entrare il più delicatamente possibile, dopo aver cercato di prepararlo come meglio poteva, Albus si lasciò sfuggire un lieve gemito di fastidio e dolore. Non era nulla di sconvolgente, ma era passato davvero troppo tempo dall’ultima volta che l’aveva fatto con qualcuno, a Hogwarts, e il suo corpo non era più abituato.

Il compagno si fermò per dargli il tempo di abituarsi e rilassare i muscoli. Il suo respiro era affannoso, e le sue membra tremavano; Albus sapeva che non muoversi gli costava ogni briciolo della sua volontà. Lo sguardo di pura adorazione che aveva per lui, però, era tutto fuorché impaziente.

Dopo poco, ad un suo cenno, iniziò a muovere i fianchi con cautela, ad uscire e rientrare tentativamente, morbidamente. – Più forte? – chiese ad Albus. come risposta ottenne un gesti deciso della testa.

Da dietro gli occhi appannati, il volto di Gellert si era fatto vagamente appannato, tenerli aperti diventava più difficile man mano che il leggero bruciore veniva sostituito da una sensazione di piacere intenso.

- Sì, sì. Più forte. – ansimò. Gellert obbedì senza farselo ripetere, spingendosi più a fondo e con più decisione. Il calore che lo stringeva era soverchiante. Si stava sciogliendo, si stava sciogliendo per fondersi con il suo amante.

Qualcosa gli stringeva il petto. Forse erano le braccia di Albus, forse era quella bolla di gioia che cresceva, non sapeva dire quale dei due fosse.

Albus a sua volta lo stringeva forte e gli veniva incontro con il bacino.

- Ti amo. – sospirò il biondo. Fu molto facile e naturale dirlo, molto più di quanto avesse immaginato. – Ti amo, Albus, io ti… - trattenne il fiato. Il corpo del compagno si contrasse attorno al suo, mentre raggiungeva l’apice con un sospiro.

Erano state le sue parole? Gellert desiderava tanto che fosse così.

Con un’ultima spinta venne anche lui dentro al compagno. Il calore, non poteva descrivere cosa fosse.

- Mi togli le parole di bocca, Gellert. – poco più di un mormorio, valeva più che se l’avesse urlato.

Si lasciò scivolare a fianco dell’altro ragazzo, senza smettere di tenerlo vicino e accarezzargli la schiena e i fianchi.

Avrebbero passato la notte lì, in quel modo, se questo non avesse rischiato di destare sospetti nei loro parenti. Prima o poi sarebbero dovuti rientrare, ma per qualche minuto ancora non osarono muoversi.

Chi sapeva cosa sarebbe potuto succedere se si fossero spostati?

Chi sapeva se quell’incantesimo si sarebbe infranto? No meglio, non muoversi di lì, meglio tenere il mondo al di fuori e continuare a sognare.

Come a leggere loro il pensiero, una brezza leggere si alzò, portando un lieve profuma di terra ed erba, riportandoli alla realtà.

Silente spesso si era chiesto se, avendo potuto sapere in anticipo cosa il futuro avrebbe portato loro, avrebbe comunque scelto di stringere il patto di sangue, o anche solo di avvicinarsi a colui che sarebbe diventato uno tra i più pericolosi maghi oscuri e la sua nemesi.

Alla fine, la risposta che si dava era sempre la stessa.

Si, lo avrebbe fatto comunque.

Sì, tutto quanto.


   
 
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