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Autore: Carme93    02/08/2021    1 recensioni
Pio ha sedici e una passione smodata per i videogiochi.
I videogiochi sono il suo rifugio, lontano dai compagni, dalla scuola e soprattutto dall'antipatico fratello maggiore.
In realtà, ciò da cui Pio si nasconde è solo la verità.
[Questa storia si è classificata seconda al contest "La Geografia del Buio" indetto da Asmodeus EFP].
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di un anno scolastico'
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Promesse virtuali
 
 



 
 
L’asse del mio mondo ancora si inclina
e la felicità sta sempre più in alto, troppo in cima
da sola lì su un’altra riva dove neanche a nuoto ci si arriva.
(Un secondo prima, Michele Bravi)
 
 
 
 



«Pio». La voce sottile e timorosa di Andrea, il suo fratellino, gli arrivò attutita ma chiara. Nascose la testa sotto il cuscino, sperando che si dimenticassero di lui.
Andrea lo scosse. «Dai, svegliati. Robi si sta arrabbiando. Dice che arriverà in ritardo per colpa nostra».
Che gliene fregava a lui? E poi suo fratello aveva anche concluso le lezioni, doveva solo andare a studiare con i colleghi.
Pio sospirò e si mise seduto, ma solo perché Andrea aveva la voce lacrimosa. Si passò una mano sul volto assonnato e lo fissò: era vestito di tutto punto, con la camicia ben infilata nei jeans.
«Vi muovete?» gridò dalla cucina Roberto.
«Andiamo?» lo sollecitò febbrilmente il più piccolo.
Pio evitò di rispondergli e si sollevò lentamente dal letto, cercando con lo sguardo i jeans che aveva lanciato da qualche parte la sera prima.
«Tieni. Sono puliti. Mamma ha messo i vestiti che avevi ieri in lavatrice».
«Grazie» biascicò.
Si preparò velocemente, tallonato per tutto il tempo da Andrea che non aveva alcuna voglia di raggiungere Roberto da solo e beccarsi una predica sulla puntualità.
Dove aveva messo lo zaino? Perché non trovava mai nulla? Roberto avrebbe detto che lui era un disordinato cronico. Forse era vero. Eppure la loro camera era molto piccola, come il resto della casa: tre letti occupavano una delle pareti, vicino alla porta vi era un armadio di medie dimensioni, una piccola finestra e due scrivanie. Fine. Un bugigattolo. Ma non potevano permettersi di più, considerando che l’unica che lavorava in casa era la madre.
«È sotto il letto» mormorò Andrea, che si era unito alla sua ricerca.
Ah, già, l’aveva nascosto lì perché a Roberto non venisse il ghiribizzo di controllargli il diario – neanche fosse un bambino! ˗ per verificare se avesse mentito o meno sul fatto che non gli fossero stati assegnati compiti. Naturalmente, aveva mentito, ma aveva una partita da giocare e i suoi commilitoni non avrebbero certo atteso che lui studiasse Socrate o il legame covalente.
Mise lo zaino in spalla, senza nemmeno preoccuparsi di sostituire i libri del giorno prima con quelli che gli sarebbero serviti. Roberto li accolse lanciando loro un’occhiataccia e senza un ‘buongiorno’ o un ‘ciao’.
«Visto che ve la prendete comoda, oggi niente colazione. Rischio di arrivare in ritardo! L’esame di Analisi I è sempre più vicino».
Quante volte aveva nominato quella materia negli ultimi mesi? Da quando aveva iniziato l’università era ancora più noioso, ma almeno Pio non ce l’aveva più tra i piedi a scuola.
«Come fai ad arrivare in ritardo se sono le otto meno venti?» chiese scocciato.
Roberto non gli rispose, prese la sua tracolla e le chiavi della macchina e li precedette fuori dall’appartamento. Pio e Andrea lo seguirono subito. Non abitavano vicino al centro e, come al solito, incontrarono un po’ di traffico. Quando il fratello maggiore accostò per farli scendere, Pio, prima di sbattere più forte del necessario la portiera, sibilò: «Visto? Sono le otto e cinque, arriverai persino in anticipo. Idiota».
«Perché lo provochi sempre?» scoppiò Andrea, quando furono sul marciapiede da soli.
«Perché è uno stronzo».
Andrea sospirò, lo salutò e corse via. A Pio, invece, non interessava nulla di essere in ritardo. In più il professore di filosofia non cacciava mai i ritardatari, probabilmente convinto che sarebbero stati comunque meglio dentro che fuori dalla classe; nonostante ciò non evitava la predica, specialmente a quelli che era convinto se la prendessero comoda in piazzetta a fumare o a bighellonare.
All’ingresso nessuno lo fermò, nonostante fossero quasi le otto e dieci. Sarebbe stato meglio come nei telefilm americani, dove a scuola non si potevano fare due minuti di ritardo che il protagonista di turno diveniva una specie di criminale incallito. Non che lui li guardasse, ma Andrea sì e, essendoci un’unica tv in casa, doveva adeguarsi.
Entrò in classe e borbottò un saluto. Raggiunse il suo posto e si lasciò cadere, già seccato di trovarsi in quella che per lui era solo una prigione. Il suo banco era in fondo a sinistra. L’aveva scelto appositamente, riuscendo a sfidare Isaac Alani, un cretino pieno di soldi e viziato. Accanto a lui c’era Paolo Gotto, il più alto della classe. Tutti lo trovavano divertente: il più grasso e il più alto della classe insieme. Oh, sì che spasso, pensò acidamente.
«Pio, sei preparato?». La voce del professor Grimaldi risuonò nell’aula.
Personalmente, Pio avrebbe preferito essere ignorato da tutti e da tutto. Solo lui e il suo computer. Niente di meglio. «No» rispose secco. La sera prima aveva affrontato una partita pazzesca e, checché ne dicessero i suoi alleati invidiosi, aveva fatto fuori metà esercito avversario completamente da solo.
«Pio, ti ricordi che il quadrimestre sta per finire?».
Il ragazzo si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo: Roberto gliel’aveva urlato un milione di volte. «Sì».
«E quando pensi di farti interrogare?».
«La prossima settimana» rispose pur di accontentarlo.
«Va bene» assentì il professore. «Però, mi raccomando. In questo momento hai la media del 3 e, se non vieni, ti presento con questo voto agli scrutini. E lo stesso vale per storia».
«Sì, professore». Gli adulti volevano avere sempre ragione, per Pio non era un problema: bastava solo che lo lasciassero in pace. Si isolò e gli occhi gli caddero sulla PSP che Isaac, seduto davanti a lui, usava incurante della presenza dell’insegnante. Sentì un moto di rabbia montargli dentro: Alani aveva tutto, dalla PSP all’ultimo modello di IPhone. Perché? Era un idiota colossale!
Tra l’altro Alani non sapeva neanche giocare: mancava metà dei bersagli! «Mi fai fare una partita?» gli sussurrò.
«No» rispose quello senza voltarsi.
Pio si infuriò, ma tentò di mitigare la rabbia: non poteva mettersi nei guai. Strinse forte il bordo del banco, finché le nocche non divennero bianche.
Aveva chiesto alla madre sia la PSP che un cellulare nuovo, perché quello che aveva non supportava né Fortinite né Call of Duty, né nessun gioco decente. Odiava le persone come Isaac. Appoggiò la testa sul banco e cercò di pensare a una nuova possibile strategia da usare nella prossima partita: la sua mira era quasi perfetta, ma doveva migliorare gli spostamenti e doveva essere meno impaziente. Quando suonò la campanella era ancora troppo impegnato a rimuginare su questi aspetti per preoccuparsi di altro.
«Grassone, spostati» lo apostrofò Isaac Alani.
Avrebbe voluto strozzarlo. Se avesse avuto uno dei suoi mitra, l’avrebbe sistemato per bene.
«Ehi, parlo con te. Levati prima che arrivi la Diaconi».
Pio strinse i denti e si spostò come richiesto, anche se era inutile: la professoressa di matematica li spostava a suo piacimento prima dei compiti in classe. Effettivamente così fu, ma quel cretino di Alani finì vicino alla Marchetti e, nonostante non fossero amici, sarebbe riuscito a copiare qualcosa. Non che a lui fosse andata male questa volta: la Diaconi l’aveva lasciato in fondo alla classe.  
Rimase a fissare vagamente il foglio con gli esercizi per un po’: geometria analitica, ma chi l’aveva inventata? Appoggiò la testa sul braccio e si chiese se sarebbe entrato nel Guinness dei Primati se avesse consegnato il terzo compito di fila in bianco. Un po’ di soldi non sarebbero stati sgraditi.
La volta precedente, però, la professoressa aveva convocato sua madre e non doveva succedere di nuovo. Si guardò intorno disperatamente, ma Paolo e Mara Feniri, ai suoi lati, sembravano più in crisi di lui. Si mordicchiò il labbro e provò a scarabocchiare qualcosa. Un’ora dopo aveva disegnato un perfetto guerriero d’assalto con tanto di bombe a mano alla cintura, ma non aveva svolto nemmeno un esercizio.
Alisia Silvestri si voltò indietro il tempo sufficiente per passare una gomma a Mara. Pio seguì i loro gesti e notò che la gomma era scavata al centro e dentro c’era un bigliettino. A quel punto comprese che sarebbe bastato chiedere aiuto alla compagna per avere un quattro e mezzo – non chiedeva molto, anche quello gli avrebbe alzato la media. Eppure era restio a farlo. Si morse il labbro fino a farsi sangue: se non voleva che sua madre venisse convocata un’altra volta, doveva umiliarsi.
«Alisia» sussurrò. Lei lo ignorò. «Alisia, aiutami». Si odiò, ma doveva farlo per sua madre.
«Perché dovrei?» sbuffò lei.
«Ti prego». Voleva che si mettesse in ginocchio? Voleva solo qualche esercizio.
«Neanche per sogno, Majin Bu».
Ignorò il soprannome, ne aveva avuti tanti fino ad allora, ma il più simpatico era quello in onore di un personaggio di Dragonball. Il suo unico desiderio, però, in quel momento era svuotare una bottiglietta d’acqua sulla testa di Alisia, ma ancora una volta si trattenne.  
Se non voleva aiutarlo avrebbe fatto da solo: quando la vide passare un temperino a Mara, si sporse e glielo strappò dalle mani.
«Sei cretino?» sbottò Mara.
«Che avete?» chiese la Diaconi, avvicinandosi.
«Niente» risposero i due ragazzi guardandosi male. L’insegnante non controllò il temperino, ma li tenne d’occhio per il resto del tempo.
Pio, per non consegnare nuovamente in bianco, s’inventò la soluzione di qualche esercizio. Forse la professoressa avrebbe premiato la sua fantasia.
Concluse le due ore di compito, il ragazzo si appoggiò sul banco ben deciso a recuperare qualche ora di sonno. Appena suonò la campanella dell’ultima ora, raccolse il suo zaino, pronto a filarsela, ma non fu abbastanza veloce.
«Pio, puoi aspettare?».
Ancora una volta non disse quello che pensava e attese che gli altri sparissero, poi si avvicinò alla cattedra.
«Tutto bene?».
«Sì, grazie» mormorò.
«Sicuro? Sei stato tutto il tempo con la testa sul banco».
«Avevo sonno. Dovrei andare».
«Solo un attimo» insisté il professore. «C’è qualcosa che ti preoccupa? Possiamo parlarne se vuoi».
Odiava quell’atteggiamento degli adulti: quelle proposte amichevoli erano solo trappole.
«Sto bene».
«Sicuro? Io ti conosco dal primo, rispetto alla maggior parte dei miei colleghi, e il tuo rendimento è peggiorato. Trovi difficoltà? Il programma del terzo è più complesso, avete iniziato materie nuove…».
«Tutto bene» lo interruppe.
Don Lorenzo, l’insegnante di religione, non gli credette: d'altronde come dargli torto? Non aveva una sola sufficienza.
«A casa come va?».
Perché s’impicciava? Per giunta don Lorenzo sapeva tutto, tutto quello che gli aveva raccontato Roberto. Quindi la versione sbagliata dei fatti. «Tutto bene. Posso andare?».
L’insegnate sospirò e annuì.
Una volta fuori, Pio si appoggiò al muro, tentando di calmarsi per non farsi vedere da Andrea in quello stato. Ormai aveva imparato a tenersi tutto dentro.
 

Era il giorno che odiava di più ormai, ma sembrava non interessare a nessuno. Per fortuna, alle medie sarebbe stato diverso: insomma, niente più di quelle stupidaggini, quei lavoretti, che si facevano alle elementari. Così quel giorno era andato a scuola, annoiato ma tranquillo. Aveva rinunciato a stringere amicizia con i compagni, quando avevano visto che era imbranato a calcio e avevano iniziato a prenderlo in giro. Non era un ragazzino socievole, eppure una volta gli era sembrato così scontato fare amicizia.
Era filato tutto liscio fino all’ora d’inglese, un suo compagno gli aveva persino permesso di giocare con il suo game boy.
Aveva tirato fuori i libri, sperando che non lo interrogasse: il giorno prima aveva vagato per il quartiere e non aveva aperto libro. Anche se aveva detto alla mamma di aver studiato, quando Roberto le aveva riferito che era uscito senza permesso. Loro non capivano.
La professoressa d’inglese entrò in aula, sorridente e con la chitarra in spalla. In classe vi fu un boato di felicità: tutti adoravano quelle lezioni. Pio si rilassò: era semplice cantare in playback e sarebbero stati tutti contenti.
L’insegnante incaricò la sua compagna di distribuire le copie della canzone che avrebbero cantato.
«Pio, leggi tu?».
Odiava leggere: aveva una pessima pronuncia, la professoressa lo fermava ogni due secondi per correggerlo e gli altri ridevano. Non avendo scelta, sospirò e guardò il foglio che gli era stato dato. Ebbe un tuffo al cuore e fissò il titolo sconvolto. Non poteva essere. Quell’insegnante era una scema, non c’era altra soluzione. Era una canzone per la festa del papà.
«No» sbottò a denti stretti.
«No, cosa?» disse sorpresa la donna, che stava accordando la chitarra.
«Non leggo».
«Perché non vuoi leggere?».
«Perché mi fa schifo questa canzone» replicò e per rendere più chiaro il concetto strappò il foglio in mille pezzi.
Se fosse stata un’altra insegnante lo avrebbe direttamente sbattuto fuori, invece si avvicinò per capire cosa passasse per la testa dell’undicenne, cercando di tenere a bada il resto della classe che aveva trovato molto divertente quella reazione. Ciò fece infuriare ancora di più il ragazzino, che la insultò.  Se la cavò con una nota sul registro e un richiamo del preside.
 

 
*
 
 
«Sì» strinse il pugno in segno di vittoria, ma tenne il tono della voce basso: dormivano tutti in casa. Tutti tranne lui. Aveva appena vinto una partita difficilissima, ottenendo un sacco di premi fantastici. Si passò una mano tra i capelli. Notò una notifica del gioco e l’aprì. Sorrise esaltato leggendola, passando subito alla chat dove stavano commentando la novità: la settimana successiva ci sarebbe stato un live. Un evento imperdibile. Era la prima volta per lui e avrebbe dovuto organizzarsi al meglio: la madre non era un problema, perché di solito usciva sempre prima di loro per andare al lavoro, ma Roberto aveva il compito di accompagnarli a scuola e di certo non gli avrebbe permesso di rimanere a casa a giocare. In più vi era anche un altro problema: nello shop del gioco era apparso un nuovo equipaggiamento, perfetto per la nuova sfida. Peccato, che lui fosse al verde. Sbuffò e spense tutto. Si sdraiò con il pensiero fisso su come trovare i soldi. Quando sentì suonare la sveglia della madre, rinunciò a dormire e si recò in cucina con l’intenzione di chiederli a lei. Controllò direttamente nella sua borsa: nel portafoglio c’erano quasi un centinaio di euro.
«Pio, che fai?».
Sobbalzò all’arrivo della madre.
«Mi servono dei soldi» rispose sinceramente.
Sua madre assunse un’aria preoccupata e si avvicinò. «Per cosa?».
«Per un gioco».
Lei sospirò, scosse la testa e delicatamente gli prese il portafoglio dalle mani riponendolo nella borsa. «Mi dispiace, non è possibile».
«Ma dai, solo trenta euro».
«No, Pio, questi soldi mi servono per la bolletta della luce. Ogni volta arrivano cifre salatissime».
«Ti prego».
«Tesoro, non è possibile».
«Certo, però, i libri da cinquanta euro glieli compri a Roberto e gli paghi delle tasse esorbitanti» sbottò.
«I libri gli servono per studiare e non paghiamo tanto di tasse, è uscito con 100 alla maturità e ha avuto delle esenzioni».
Ah, già, era un genio, quindi poteva avere tutto. Strinse forte i pugni, nel tentativo di non prendersela con sua madre. L’amava troppo. E non poteva nemmeno darle torto: Roberto era il tipo di figlio di cui vantarsi con le amiche. Pio no.
«Senti, magari il mese prossimo, va bene?».
Pio strinse i denti e non le rispose. «Me ne torno a dormire». Si gettò di peso su letto, non prese più sonno ma ignorò il saluto della madre.
Quella mattina si preparò rapidamente lasciando senza parole persino Roberto. Doveva trovare una soluzione: aveva solo quello in testa.
«Andrea» chiamò il fratello prima che corresse dai compagni. Il ragazzino si fermò in attesa. «Mi puoi prestare dei soldi? La nonna ti ha regalato cinquanta euro a Natale».
«Li ha regalati anche a te» replicò lui.
«Li ho spesi». Ed era vero, si era comprato Call of Duty anche se in quella stupida vecchia play non girava bene. «E dai, non fare il tirchio, te li restituisco».
«Ma non posso, mi dispiace. Li ho spesi anch’io».
«Come li hai spesi? Mamma e Roberto sanno che li hai messi da parte!».
Il ragazzino arrossì e si fissò i piedi.
«Andrea?».
«Erano miei, però. La nonna me li ha dati, perché mi comprassi qualcosa» si difese.
Figuriamoci, se voleva delle giustificazioni! «Certo, ci mancherebbe. Ma che ti sei preso?».
Andrea si fermò e tirò fuori dalla borsa una sacca. Pio sgranò gli occhi quando vide il contenuto: erano delle adidas, molto belle.
«Erano scontate. Gli altri mi prendevano in giro, perché le tue erano vecchie e sformate».
Pio per un attimo fissò il fratellino e si sentì profondamente in colpa: a dodici anni era andato a comprarsi un paio da solo al posto di un gioco.
«Non voglio arrivare in ritardo di nuovo. Non lo dirai a nessuno, vero?».
«No, certo che no» mormorò.
Chi si prendeva cura di Andrea? Scosse la testa tentando di concentrarsi sui propri problemi.
Il giovedì era uno dei giorni più odiosi della settimana: uscivano alle due e avevano due ore di Lettere, due con la Diaconi, e per concludere la giornata storia dell’arte e ed. fisica. Per giunta, il quadrimestre era agli sgoccioli e tutti volevano solo interrogare. Naturalmente non aveva studiato, ma il suo interesse principale fu seguire Isaac e la sua PSP. E quando fu ora di andare in palestra, era ormai di pessimo umore. Odiava ed. fisica e odiava la sua insegnante. Almeno lei, però, non rompeva con le interrogazioni: le bastavano un paio di relazioni su argomenti concordati. La sua l’aveva copiata e incollata da internet durante le ore di informatica.
In palestra all’angolo c’era una cattedra che gli studenti utilizzavano per riporre cellulari e quello che non volevano lasciare incustodito in classe. Pio appoggiò il suo rudere e occhieggiò l’IPhone di Isaac insieme alla PSP. Quanto li desiderava.
«Mettetevi in fila, avanti».
Che strazio. La Rumeno voleva che stessero tutti lungo una fila, mentre lei controllava che indossassero gli abiti giusti, prendeva eventuali giustificazioni, firmava il registro e verificava che fossero tutti presenti.
«Canocci, ancora senza tuta?».
Avrebbe dovuto pagarlo a peso d’oro per mettersela. «L’ho dimenticata».
«Ho sentito questa scusa un milione di volte» sbottò la donna.
«Non mi sento bene».
«Come no. Siediti, siediti pure».
Pio sapeva che era troppo accondiscendente e avrebbe dovuto preoccuparsi, ma non ne aveva proprio voglia.
I suoi compagni si divisero in due gruppi per giocare. Quella scema designò Vittoria Fullino e Isaac Alani come capitani. Pio distolse lo sguardo: avrebbero scelto per primi i loro amici. Fortunatamente si era tirato indietro: chi mai avrebbe voluto lui in squadra?
Sarah Marchetti e Cassandra Pasini si sedettero vicino a lui. Pio fissò sorpreso quest’ultima e si avvide che in campo c’era Samuele Vettori. Assurdo, normalmente Vittoria avrebbe scelto la sua amica, non Vettori.
Osservò le due ragazze e pensò di provocarle, ma lasciò perdere: non ne aveva voglia, anche perché Pasini avrebbe risposto a tono e avrebbero litigato.
«Dai, Sarah» esortò Cassy.
«Se la Rumeno se ne accorge…».
«Ma figurati, fidati di me. Su, ripetimi Cimabue».
Pio non si sarebbe mai fidato di Pasini. Capiva, però, la necessità della compagna: la Merisi, l’ora successiva, avrebbe interrogato ed era spietata. In prima Paolo si era rotto un dito giocando a calcio e gliel’avevano steccato, la Merisi l’aveva costretto comunque a disegnare! Era l’incubo di tutte le sue classi.  
Si chiese se fosse il caso di ascoltare anche lui, magari avrebbe ricordato qualcosa. Per Sarah non sarebbe stato un problema, lei era diversa da Alisia Silvestri.
La sua attenzione però tornava sempre al live e ai soldi necessari. Fantasticò per un po’ sulla possibile ambientazione, poi la sua attenzione si fissò sulla cattedra con i cellulari: i suoi compagni avevano così tanto. Se avessero perso i cellulari, i loro genitori glieli avrebbero ricomprati subito. Sarebbe stato un po’ come ristabilire la giustizia.
«La Rumeno è andata. Devo vedere le immagini» borbottò Pasini. Pio sobbalzò e si accorse che, al suo fianco, non c’era più Sarah, ma Samuele Vettori. Probabilmente la professoressa li aveva costretti al cambio. Si alzò con la scusa di prendere il proprio cellulare. Come avrebbe dovuto fare? Samuele e Cassy erano chini sul libro di arte, la professoressa non c’era e sei dei suoi compagni gli davano le spalle, ma gli altri sei, per quanto concentrati sul gioco, erano rivolti dal suo lato. L’avrebbero visto?
Prese il suo telefonino, posizionandosi in modo da coprire un po’ la cattedra. S’impossessò dell’IPhone e della PSP di Isaac e li nascose sotto la felpa. Con il cuore in gola si guardò intorno: nessuno sembrava averlo notato. Tornò a sedersi e si mise a giocare con il cellulare, come se nulla fosse. Alla fine dell’ora Isaac, però, se ne sarebbe accorto e non ci avrebbe impiegato molto a trovarglieli addosso; così si alzò e si recò negli spogliatoi. Non aveva portato con sé il suo zaino, ma notò la sacca di Samuele: ansioso, vi nascose tutto. Poi uscì.
«Canocci, che facevi negli spogliatoi?».
La Rumeno era riapparsa al momento sbagliato.
«Avevo sete».
«La prossima volta non ti allontanare senza chiedere il permesso».
«Sì, professoressa».
Tornò in palestra. Alla fine dell’ora, come previsto, Isaac, furioso, denunciò l’accaduto e la professoressa controllò nei loro zaini, trovando la PSP e il cellulare nella sacca di Samuele.
«Ladro» gridò Isaac. «Ti denuncio».
«Non ho fatto nulla».
«Bugiardo».
Pio non si sentiva in colpa: era una questione di giustizia.
«Professoressa, sono stato tutto il tempo in palestra» tentò Samuele.
La Rumeno si voltò verso Pio. «Canocci, dov’è la tua sacca?».
«Non ce l’ho».
«E allora dove hai bevuto prima?».
«Ehm» cavolo, ora era nei guai. «Ho bevuto da Paolo».
«Io non ho acqua, me la sono dimenticato» intervenne il compagno.
Lo spogliatoio era silenzioso.
«Canocci, non peggiorare la tua situazione» disse la professoressa. «Hai preso tu le cose di Alani?».
Pio si sentì sprofondare: che gli era saltato in mente? «Era solo uno scherzo» mormorò. «Glieli avrei ridati».
«Uno scherzo?» sbottò la Rumeno. «Perché non l’hai detto quando è stato accusato Vettori? Questi non sono scherzi».
«Ti denuncio» rincarò Alani con cattiveria.
Pio non rispose. Nemmeno dieci minuti dopo era fuori dall’ufficio del preside.
 


Un bidello, un tipo antipatico che puzzava di benzina, lo teneva stretto per le spalle e lo trascinava. Provò a tirargli un calcio e quello imprecò. In cambio, Pio lo insultò.
«Sei un piccolo delinquente» sibilò il bidello. «Una bella sospensione non te la toglie nessuno».
«Mi molli» strillò tentando di divincolarsi.
«Col cavolo».
Gli sforzi di Pio non servirono a nulla e il bidello lo lasciò andare solo quando furono nell’ufficio del preside.
«Allora, Canocci» iniziò calmo quello, ˗ in verità, non gliene fregava nulla e ringraziava solo che non si trattasse della sua macchina ˗, «ti rendi conto della gravità del tuo comportamento?».
Pio lo fissò con rabbia e si chiese perché ci girasse tanto intorno: il bidello aveva ragione, sarebbe stato sospeso. E allora perché metterci tanto?
«Hai buttato un petardo nella macchina della tua professoressa. Che cosa ti è saltato in mente?».  Era una domanda retorica, per il preside non c’era veramente un perché. «Sono costretto a convocare i tuoi genitori. Sarai sospeso».
Non replicò, tanto a che sarebbe servito? Marco aveva promesso che sarebbero stati amici, se l’avesse fatto. Doveva smetterla di credere alle promesse degli altri.
 
 
 

 
*
 

 
Si lasciò andare pesantemente sulla sedia, tentando di ignorare le occhiate degli altri. Alla fine, il consiglio di classe l’aveva sospeso per una settimana con obbligo di frequenza, ciò significava dire addio alla sua unica sufficienza, quella in condotta. Fortunatamente, il signor Alani non aveva voluto sporgere denuncia e si era detto d’accordo con i provvedimenti che avrebbe preso la scuola. Unica soddisfazione era stata vedere Isaac nei guai con il padre: la PSP non avrebbe dovuto essere a scuola, ma sequestrata nello studio paterno. Soddisfazione che era durata molto poco: il compagno aveva fatto girare una sua foto con la scritta wanted. Tutta la scuola l’aveva vista e lo segnavano a dito. Sua madre non l’aveva presa bene, ma chissà perché l’aveva difeso davanti a Roberto.
Il live sarebbe stato il giorno dopo, ma Pio aveva rinunciato: aveva giocato molto nella speranza di dimostrare di non aver bisogno di un nuovo equipaggiamento, ma i suoi compagni l’avevano mollato.
 
«Allora, Pio vieni?».
Accidenti, si era dimenticato di Grimaldi! «Posso venire domani?» provò.
«Gli scrutini sono oggi e io avrei dovuto già consegnare i voti. Vieni».
«In storia o in filosofia?».
Qualcuno rise.
«Come preferisci».
«Storia». Era più semplice inventarsi qualcosa. Raggiunse la cattedra senza alcuna voglia.
«Parliamo della caduta di Costantinopoli?».
«Sì, ehm, è un evento importantissimo» buttò lì. «C’è stata una battaglia».
«In che anno siamo?» chiese pazientemente Grimaldi.
«Ehm…». In quel momento gli occhi gli caddero su Sarah Marchetti al primo banco e lei gli fece segno con la mano: uno, quattro, cinque, tre. «1453?».
«Sì, bene» disse il professore colpito. «E che cosa accadde?».
«È caduta Costantinopoli».
Molti risero.
«Sì, ma come?».
Pio rivolse lo sguardo verso Sarah che sillabò qualcosa due volte prima che capisse: «Ottoni».
«No, Sarah ti ha detto Ottomani» sospirò il professore lanciando un’occhiata alla ragazza. «Senti, Pio, parliamo di un argomento a piacere?».
L’ultima battaglia che aveva giocato a Fortnite non contava probabilmente, anche se ci sarebbe stata molto bene nel manuale di storia.
«Che cosa ti ricordi?».
«Niente» ammise per mettere fine a quella tortura.
«Vuoi parlare di filosofia?».
«No, peggio».
Grimaldi sospirò: «Vai al posto».
Pio non replicò e obbedì. Isaac si voltò verso di lui. «Complimenti per la prestazione. Sono sicuro che i tuoi fan gradiranno».
L’aveva ripreso. Stronzo.
All’uscita Isaac lo raggiunse e gli disse: «Hai bisogno di soldi, vero?».
Pio assottigliò gli occhi. «Può darsi, ma a te che te ne frega?».
«Sei bravo con il computer?».
«Sì».
«Se fai una cosa per me, ti pago».
«Cosa?».
«Dovresti trovarmi la password di un profilo».
«Quanto mi dai?».
«La mia PSP».
«Veramente?».
«Sì, promesso».
 
 
*
 
 
«Pio, dobbiamo parlare».
«Sì, un attimo» borbottò non staccando gli occhi dalla PSP.
«Quella chi te l’ha data?» gli chiese la madre turbata.
«Isaac. Abbiamo fatto amicizia».
«Davvero?».
«Sì».
«Ti hanno dato la pagella, oggi?».
«No».
«Pio, posa quell’aggeggio, per cortesia».
Pio decise di mettere in pausa, perché la madre sembrava agitata.
«Mi fai vedere la pagella?».
«Non ce l’hanno…».
«Ho parlato con il tuo professore d’italiano oggi».
E ti pareva. Si alzò, recuperò il foglio e lo consegnò alla madre. «Recupero nel secondo quadrimestre, tranquilla».
Lei la lesse e sembrò che le tremassero le mani. «Pio».
«Recupero» insisté. «Figurati».
«Ho pensato che potresti andare un po’ dai nonni o meglio ancora da zio…».
«Cosa, perché?».
«Hai bisogno di una figura maschile di riferimento, io non…».
«Io ce l’ho una figura maschile di riferimento» s’irritò.
«Pio…».
«No! Lo so che non ci credete voi, ma papà tornerà, me l’ha promesso!».
«Ti prego».
«No, devi credermi. Lui ha promesso».
«Per la miseria, Pio! Tuo padre ha promesso anche che mi sarebbe rimasto per sempre fedele! E davanti a Dio! Eppure non ha avuto nemmeno le palle di dirmi che si era trovato un’altra donna!».
Il ragazzo la fissò sconvolto: non gli aveva mai detto quelle cose. Questo lo fece infuriare tanto da ignorare le lacrime nei suoi occhi. «Sei una bugiarda! Tornerà! Perché lui mi vuole bene».
«Sei infantile. Se ti volesse bene, sarebbe tornato e invece non ha mai risposto alle tue chiamate. Svegliati, sono passati sette anni!».
Pio si voltò verso Roberto sulla porta. Strinse i denti e si lanciò su di lui, ma era uno scontro impari: il fratello era alto, slanciato e allenato, mentre lui non era altro che un sacco di patate; ma non si diede per vinto e tentò di colpire il più grande più e più volte, incurante delle grida della madre e di Andrea, che era sopraggiunto. Alla fine, Roberto perse la pazienza e lo atterrò, caricò il pugno ma la madre si mise in mezzo. «Smettetela, vi prego».
Roberto lo liberò dalla stretta e si allontanò. Pio rimase a terra, perché era così che si sentiva. Che senso avrebbe avuto alzarsi?
«Questa sarebbe la tua pagella? Ma non ti vergogni?». Pio chiuse gli occhi e tentò di ignorare le parole del fratello.
«Roberto, basta» provò debolmente la madre.
«No» sbottò il grande. «Non lo difendere. Si farà bocciare quest’anno! Il voto più alto è il cinque in condotta!».
«Roberto…».
«Ma ti rendi conto? Quattro, tre, due, tre…».
«Basta!». Questa volta la madre aveva alzato la voce. Era tanto che non lo faceva. «Uscite fuori».
Roberto fece per protestare, ma poi lui e Andrea lasciarono la stanza.
«Alzati».
Pio obbedì all’insolito tono duro della madre. Si sedette sul letto accanto a lei, senza guardarla negli occhi. «Non mi mandare da nessuna parte» mormorò. «Recupero».
La donna sospirò pesantemente. «Io non ti voglio mandare da nessuna parte, ma non so che fare. Ti sei messo anche a rubare».
«Ce l’avevo con Isaac».
«Va bene, allora facciamo così…».
 
 
Pioveva a dirotto e non aveva l’ombrello. Sua madre diceva sempre che era troppo distratto. Ma che importanza aveva? Sarebbe arrivato. Doveva arrivare. Quello era il giorno giusto. Se lo sentiva. Attese per almeno un paio d’ore, Ormai era buio e in strada non c’era quasi nessuno. Cominciava ad avere paura. D’altronde era stato sciocco: perché mai sarebbe dovuto andare lì quel giorno? Sospirò e si diresse lentamente verso casa.
«Oh, Pio» lo accolse sua madre. «Sei tutto bagnato».
«Aveva detto che sarebbe venuto. L’aveva promesso» mormorò.
La donna fece una smorfia strana, ma annuì. «Ti aiuto ad asciugarti».
La casa era piccola e caotica. Andrea gli corse incontro. «Giochiamo con i lego?».
«Dopo Andrea» intervenne la madre. «Ora, Pio si deve asciugare».
Pio notò l’espressione delusa del fratellino, ma quel giorno non aveva voglia di giocare con nessuno.
In camera Roberto gli lanciò un’occhiata di sghembo, ma uscì alla richiesta della madre. Non capiva più suo fratello: perché non si preoccupava per il padre? Perché si preoccupava solo lui? A Roberto l’unica cosa che interessava era essere al liceo e fare colpo sui compagni e i professori.
«Forse è meglio se fai una doccia calda, eh?».
Pio non rispose, ma obbedì. Compì i vari gesti abituali in modo meccanico. Era come se dentro di lui si fosse rotto qualcosa.
«Perché non è venuto? Gli ho lasciato un messaggio in segreteria… Tanti messaggi…» chiese alla madre dopo un po’, mentre ella lo aiutava ad asciugarsi i capelli.
La donna sospirò e disse: «Non lo so».
Da quando suo padre se ne era andato, sembrava che nessuno sapesse nulla di lui, com’era possibile? Una persona non spariva nel nulla. «Perché non risponde mai al telefono?».
«Forse l’ha rotto. Lo sai com’è fatto».
«Squilla, ma lui non risponde» la contraddisse.
«Senti, Pio, tuo padre è grande, sa cavarsela. Non ti preoccupare».
«Ma se non sa fare il latte!».
«Troverà qualcuno che glielo faccia» borbottò sua madre.
«Cosa?».
«Niente, Pio, niente» si affrettò a rispondere la madre. «È un uomo pieno di risorse, fidati».
«Sì, questo lo so». Suo padre sapeva fare tantissime cose, ma non sapeva cucinare né trovare i vestiti nei cassetti. «Però mi manca» le confessò.
Sua madre sedette sul letto e lo attirò tra le sue braccia. «Ti prometto che non ti lascerò mai».
Pio sentì un fiotto di calore nel petto e appoggiò la testa sulla sua spalla.
 
 
*
 
 
Fissò l’acqua con odio. Anzi odiava ancora di più la Rumeno. E i suoi compagni. Come era venuto loro in mente di andare in piscina? Durante la settimana dello studente! Le persone normali si guardavano i film. No, i suoi compagni dovevano provare a giocare a pallanuoto.
«Nemmeno oggi ci degni della tua presenza?».
Stronza. Certo che non avrebbe partecipato: non si sarebbe mai messo in costume davanti a tutti. Faceva tutto molto schifo. Senza aggiungere anche quello.
«Credo che la Rumeno ti butterebbe in acqua, se non rischiasse una denuncia» gli sussurrò Sarah.
Pio sorrise senza poterne fare a meno. «Non riuscirebbe a sollevarmi».
«Tu dici?» replicò Sarah scrutando la loro insegnante. «Se non sapessi che si occupa di ginnastica artistica, la vedrei bene come lanciatrice del peso… come la Trinciabue, hai presente?».
«Chi?».
«Lascia perdere… Senti…» disse Sarah.
Pio percepì un brivido lungo la schiena: la compagna indossava un costume a pezzo unico, la Rumeno aveva raccomandato alle ragazze di non venirsene in tanga – inutile dire che Marica e le sue amiche erano comunque in bikini. Probabilmente non era stato mai così vicino a una ragazza mezza nuda. E gli faceva un certo effetto. Tentò di non guardarla.
«Il tuo costume è piaciuto alla Rumeno» la interruppe. Ma come gli era saltato in mente?
«É fatto apposta per la piscina» replicò Sarah, stringendosi nelle spalle. «Senti, ma perché ultimamente stai in compagnia di Isaac e di Paolo?».
«Così» borbottò.
«Ho visto le cose che ti scrivono sul profilo. Lasciali perdere».
Sì stava preoccupando per lui? «Ma no, Isaac scherza».
«Alcuni commenti sono pesanti» insisté Sarah. «Hai sentito cosa ha detto la Diaconi sul cyberbullismo».
«Cavolate» borbottò.
«Non sono cavolate. Hai sentito che qualcuno è entrato nel profilo di Samuele?».
Il suo cuore cominciò a battere. «Sì, ho sentito».
«Beh, quello è un reato. Samu ne ha finalmente parlato con i suoi e ha denunciato l’accaduto».
«Denunciato a chi?».
«Alla polizia postale, naturalmente. Risaliranno al colpevole. Io sono convinta che ci sia Isaac dietro. Che schifo».
«Ma che vuoi che gli rubino a Vettori sul profilo? Per quello che pubblica!».
«È un reato, Pio».
«Marchetti, ti vuoi muovere?» gridò la Rumeno.
«Devo andare» sospirò Sarah.
Pio fissò le sue gambe che si allontanavano. Li divideva solo una piscina, ma era infinita. Lui non avrebbe mai nuotato per raggiungerla e lei, se avesse scoperto la verità, non gli avrebbe più rivolto la parola.
 
 
*
 
 
«Che stai facendo?».
Pio sobbalzò: non aveva nemmeno sentito rientrare la madre. Giocava con la PSP di Isaac con le cuffie e il volume al massimo. La madre furiosa lo trascinò fuori dalla stanza, dove dormivano Andrea e Roberto.
«Non te l’avevo sequestrato quel coso?».
«Non è un coso» sbottò arrabbiato. «È una PSP. Quella che ti ho chiesto per anni!». Gli bruciavano gli occhi per il troppo tempo che aveva trascorso davanti allo schermo. «Non sai nemmeno quanto mi è costata!».
«Che vuol dire? Il tuo amico non te l’ha ragalata?».
Amico. Deglutì. Isaac Alani non era suo amico. Sarah lo era, lo aiutava con i compiti ed era sempre cortese. «Sì, sì».
«Dimmi che cos’è questa storia!».
«Non c’è nessuna storia» urlò Pio. «Lasciami giocare in pace!».
Si fissarono per un attimo: non l’aveva mai sentita tanto lontana.
«Tu sei fissato con questi videogiochi. Sono quasi le due di notte!».
«E perché sei tornata a quest’ora? Eh? Con chi eri?». Sua madre sembrò presa in contropiede e deglutì. «Non mi dire che c’è un altro uomo».
Osservò sua madre per la prima volta da giorni: era molto pallida e smagrita.
«Non c’è nessun uomo, Pio».
«Non mi dire che eri al supermercato, perché non ci credo».
«Non hai mai sentito parlare di orario no stop?». Avrebbe voluto essere sarcastica, ma ne uscì solo un tono flebile e affaticato. Per un attimo, Pio si preoccupò ma scacciò subito i brutti pensieri.
«L’orario no stop non lo fa chi ha fatto il turno diurno. Siamo nel XXI secolo, non si sfrutta più la gente!».
«Da uno che ha tre in storia, non mi aspetto lezioni». Quella era una considerazione degna di Roberto, ma sentirla dalla voce della madre lo ferì profondamente. «Questa la prendo io. E stavolta chiudo il cassetto a chiave».
«No» urlò il ragazzo fuori di sé. Cercò di strapparle la PSP dalle mani, ma lei lo allontanò spaventata.
«Vai a letto, Pio».
Perché allontanava tutti? Sarah, sua madre, anche Andrea lo avrebbe odiato.
 
 
*
 
 
Nei giorni successivi evitò la madre, ma non fu difficile: usciva prima che loro tre si alzassero e tornava tardi la sera. Molto tardi. Preso dai videogiochi non se ne era mai accorto. Chiese a Roberto se ne sapesse qualcosa, ma lui non solo negò, ma non gli credette.
Non avendo la PSP e temendo che la polizia postale sarebbe presto risalito a lui, aveva cominciato a saltare la scuola. Cercava di tranquillizzarsi affermando che era impossibile che lo scoprissero, perché aveva usato uno dei computer della scuola; ma non ci credeva veramente. Avrebbe perso l’anno, tanto valeva mollare tutto subito.
Trascorse le mattine in una vecchia sala giochi, frequentata soprattutto da ragazzi più grandi, che scommettevano sulle partite di calcio. Pio non aveva soldi, ma il responsabile in cambio di qualche lavoretto gli dava degli spiccioli per spenderli in vecchi giochi, tipo quelli delle moto o qualche sparatutto, che i clienti non usavano più.
Aveva anche provato a fumare, ma non gli era piaciuto molto. A volte, quando i grandi gli offrivano la sigaretta, si metteva con loro quanto meno per sentirsi parte del gruppo.
Il pomeriggio non poteva raggiungerli, perché Roberto a casa lo sorvegliava costantemente. Per lo più Pio fingeva di studiare, così che il fratello non rompesse.
 
Circa due settimane dopo il litigio, una sera molto fredda di febbraio, la madre rincasò prima. Era molto pallida e sempre più magra.
«Sei sicura di stare bene?» chiese Roberto alzando gli occhi da uno stupido manuale di fisica.
La donna annuì. Andrea corse ad abbracciarla. A Pio sembrò così delicata che sarebbe potuta volare via all’improvviso. Lei scostò leggermente il piccolo, che tentava di attirare la sua attenzione.
«Pio, dobbiamo parlare».
Con la scusa di non avere compiti si era piazzato davanti alla tv, guardandosi qualche telefilm senza particolare entusiasmo.
«Mi ha chiamato il professore Aristano oggi».
Non replicò e continuò a guardare la tv.  
«Mi ha detto che non vai a scuola da quasi due settimane e se continui così rischi di perdere l’anno».
Ah, forte Aristano, prima lo minacciava di lasciargli sia italiano sia latino se non si fosse messo a studiare e ora per le assenze. Che si decidesse. E poi quale sarebbe stata la differenza alla fine?
«Pio» il grido di sua madre fu quasi gutturale. Per un attimo pensò che gli avrebbe tirato uno schiaffo, ma lei gli strappò di mano il telecomando, spense la tv e lo lanciò lontano. In cucina calò il silenzio. «Mi vuoi ascoltare?».
«Mamma, forse è meglio che ti siedi» intervenne Roberto preoccupato.
Effettivamente tremava violentemente.
«Sto bene» mormorò lei. «Pio, che stai facendo?». La sua voce era flebile, sembrava che con quell’urlo l’avesse consumata.
«Mamma, dai, sistemiamo tutto. Quindici giorni non sono tanti» riprese Roberto. Da quand’è che prendeva le sue difese?  «Mamma».
Pio non avrebbe mai scordato quella scena: la madre non rispose e si accasciò. Roberto la fermò e l’appoggiò delicatamente sul tappeto. Pio era immobile, non riusciva a muoversi. Sentì Andrea scoppiare in lacrime e Roberto chiamarlo. Non si mosse. Rimase gli fermò sul divano con gli occhi fissi sulla tv spenta, finché Roberto non lo scosse e gli intimò: «Andiamo».
Quella notte, nel corridoio del pronto soccorso, si sentì solo. Ancora una volta.  
 
«Papà, andiamo allo stadio?».
«Magari fra qualche settimana».
«Pomeriggio vieni al campo con me?».
«Pomeriggio non posso».
«Vieni a prendermi a scuola almeno?».
Pio amava quando il padre andava a prenderlo a scuola: i suoi compagni lo ammiravano, perché aveva giocato a calcio ,e se non si fosse infortunato, sarebbe arrivato in serie A!
«Sì, va bene» borbottò l’uomo intento a scorrere dei messaggi.
«Ti aspetto all’angolo, come sempre».
«Va bene».
«Promesso?».
«Promesso» replicò suo padre con gli occhi fissi sullo schermo.
Alla fine delle lezioni, Pio corse all’angolo della strada, dove attendeva sempre il padre, insieme a Roberto e Andrea. Quel giorno la madre lavorava e sicuramente il padre li avrebbe portati al McDonald’s.
«Ho fame» si lamentò Andrea.
«Abbi pazienza, papà ora arriva».
Roberto sembrava inquieto, ma, appoggiato al muro, non diceva nulla. Pio guardava da una parte all’altra della strada.
«Sicuramente, avrà un impegno a lavoro» tentò Pio.
Andrea scalciava i sassolini. Passarono almeno due autobus. Roberto era sempre silenzioso e questo era strano: non perdeva occasione per manifestare la sua saggezza.
«Qualche cliente l’avrà trattenuto». Anche se non sapeva bene che lavoro facesse il padre. «Vero, Roberto?». Andrea cominciava a fare i capricci e una parola del fratello maggiore l’avrebbe calmato.
«Può darsi» rispose lui vagamente.
Quella risposta non era soddisfacente. Pio cominciava a preoccuparsi.
Alle due e venti, finalmente, Roberto si spostò dal muro. «Prendiamo questo autobus».
«Cosa? No. Quando papà viene, si arrabbia perché non ci trova».
«Se viene. Nel frattempo noi andiamo a casa, questo è l’ultimo autobus prima delle quattro». Andrea gli diede subito la mano e i due si mossero verso il veicolo, che si stava fermando poco più avanti.
«Non abbiamo i biglietti».
«Ce li ho io».
Perché aveva sempre la risposta pronta?
Li seguì a malincuore. «Sono sicuro che papà ci sta aspettando a casa» cercò di rincuorarsi.
Roberto si accigliò, ma non disse nulla.
Appena arrivarono a casa corse lungo le scale e all’interno dell’appartamento.
«Papà, papà». La sua voce risuonò vanamente.
«Non c’è nessuno».
Pio ignorò il fratello e andò a cercare il padre nella camera da letto, ma non era nemmeno lì. I cassetti erano aperti e anche le ante dell’armadio. «Robi, sono entrati i ladri!».
Il fratello accorse e si guardò intorno.
«Chiamiamo papà al telefono o il 113?».
Roberto scosse la testa. «Nessuno dei due. Andiamo a fare una frittata. Ho fame, tu no?».
«Ma sei impazzito? Hanno rubato le cose di papà!».
«Pio, ma quale ladro entra in un appartamento e ruba solo i vestiti da uomo? Le cose di mamma sono tutte al loro posto».
«Magari è un barbone».
«I barboni non si mettono a rubare».
«Che ne sai?».
Roberto sospirò: «Siamo al terzo piano e la serratura non aveva segni di scasso».
«E quindi?» chiese senza capire.
«Papà si è preso le sue cose e se ne è andato».
Quelle parole lo colpirono. «Che dici? Ha promesso di venirci a prendere… un cliente…».
«Vedi che papà era disoccupato… da un pezzo…».
«Non è vero».
«Come vuoi, vado a preparare da mangiare».
Pio rimase solo in quella stanza. Alla fine si asciugò gli occhi, convinto che Roberto fosse solo un cretino, bravo solo a fare il secchione.
 
 
 
*
 
 


 
E la felicità di nuovo, di colpo si avvicina
anche se forse niente
niente in fondo è come prima
(Un secondo prima, Michele Bravi)
 
 
 
 
Lo specchio dall’armadio gli rinviò il riflesso di un ragazzo molto in carne, con il volto pallido e gli occhi rossi.
Sospirò e raggiunse i fratelli. Il percorso in macchina fu silenzioso. Pio avrebbe voluto dire a Roberto che era una cattiveria costringerli ad andare a scuola dopo la nottata che avevano trascorso, ma non aveva più voglia di lamentarsi o di litigare con lui. Quando arrivarono, Pio si diresse nella sua classe, sperando di passare inosservato.
Era arrivato in ritardo, nemmeno Roberto si era preoccupato nonostante avesse le lezioni del secondo semestre.
«Canocci, la giustificazione?».
Puntò uno sguardo vago su Aristano. «Non ce l’ho».
«Ti sei assentato per due settimane, se tu fossi stato male…».
«Non sono stato male. Domani la porto».
Il professore accettò la risposta e iniziò a spiegare.
«Rivoglio la mia PSP» gli sussurrò Isaac.
Pio lo fissò stranito. «Va bene, domani».
«Lo spero bene».
«I tuoi si sono arrabbiati molto?».
Pio si voltò verso Paolo interrogativo. «Di che parli?».
«Ma come la denuncia» mormorò Paolo.
«Non c’è nessuna denuncia, idiota» sbottò Isaac.
Il cuore di Pio accelerò. «Di che parlate?».
«Il preside ha convocato i nostri genitori per stamattina, se non vengono ci sospendono e abbiamo chiuso per quest’anno. Non te l’hanno detto i tuoi? Il nostro accordo è saltato» spiegò Isaac.
Sua madre non era arrabbiata solo per le assenze. «Cosa vuole?».
«La polizia postale è risalita a uno dei computer della scuola. Le indagini hanno portato a te e a Isaac» raccontò eccitato Paolo. «Non fare quella faccia, ve la siete cavata. I genitori di Samuele hanno ritirato la denuncia».
«Perché?».
«Non lo so» ammise Isaac.
«La volete smettere là dietro?» li richiamò Aristano.
Pio sentì il respiro accorciarsi e si alzò di scatto. «Posso andare in bagno? Mi sento male».
«Vai».
Corse nel bagno più vicino e vomitò. Il peso allo stomaco, però, non sparì. Scoppiò a piangere.  
«Pio».
Si voltò di scatto e si ritrovò ai piedi dell’ultima persona che si sarebbe mai immaginato. «Ammazzami, avanti. Vendicati, farai un favore a tutti!» gridò.
Samuele Vettori lo fissò spaventato. «Il preside ha assicurato a mio padre che le cose si sistemeranno».
«Ma tu sei pazzo?» gli chiese sconvolto Pio. «Oh, no, forse ti vuoi fare prete come don Lorenzo».
«No, ma… Senti, è stata tua madre a supplicare i miei…».
«Cosa?».
«Ieri pomeriggio, quando è stata convocata in questura…».
Pio si coprì il volto con le mani. Era colpa sua, era tutta colpa sua.
«Ho ritirato la denuncia, ma il preside ritiene che quello che avete fatto è troppo grave e bisogna parlarne… Sarah vuole aiutarti».
Pio deglutì e scosse la testa. «È inutile».
«Perché? Sei capace di hackerare un sistema e non sei capace di impararti a memoria quattro cavolate per raggiungere un sei?».
«Non verrà nessuno stamattina».
«Ma come tua madre ieri…».
Pio si strinse le ginocchia tra le braccia. «È all’ospedale».
Il compagno sgranò gli occhi. «Ah, cos’ha?».
Pio non avrebbe saputo spiegare perché, ma piangendo gli raccontò la paura della sera prima quando l’aveva vista stesa a terra, l’arrivo del 118, il tempo trascorso al pronto soccorso in attesa di notizie; infine i medici avevano detto loro che si era sentita male per la troppa stanchezza, ma l’avrebbero trattenuta per ulteriori controlli.
«Capisci? È colpa mia».
«No, Pio».
«Sì, invece. Sono io la sua fonte di stress».
Samuele mormorò: «Le cose sono più complesse di come le vediamo a volte. Però ora che vuoi fare?».
«La posso far finita. Così faccio un favore a tutti, dovresti essere contento».
«Contento? Non sei tu che mi perseguiti dall’inizio dell’anno. E comunque ho permesso che succedesse, perché avevo paura».
«Di cosa? Alani te ne ha date un sacco l’ultima volta».
Samuele sospirò: «Di dirlo ai miei. Loro speravano di cominciare da zero trasferendosi qui, lasciarsi il passato alle spalle. Ma mio padre non può lavorare per via dell’incidente, lavora solo mia madre, Tommaso probabilmente sarà bocciato un’altra volta… non volevo aggiungermi anch’io alla lista…».
Pio appoggiò la testa alla porta del bagno e chiuse gli occhi. «Che schifo».
«Già, ma abbiamo delle persone che ci vogliono bene».
«Che starebbero meglio senza…».
«Non credo» lo interruppe Samuele. «Soffrirebbero di più. Piuttosto dovresti provare a sistemare le cose».
«E come?».
«Intanto dici ad Aristano che tua madre non può venire per ovvi motivi. E tuo padre sarà con lei, no?».
«Mio padre è a fanculo» replicò Pio, sentendosi quasi sollevato per averlo capito. «E secondo te Aristano ci crede? Dopo tutte le stronzate che ho fatto finora? Piuttosto chiamo mio fratello, tanto è maggiorenne e lo conoscono».
 
Quel pomeriggio si chiuse in camera e raccolse la vecchia playstation che gli aveva comprato il padre anni prima, i suoi pochi giochi e li buttò nel cestino. Ripose la PSP riavuta da Roberto, nello zaino, così il giorno dopo l’avrebbe restituita al legittimo proprietario. Raccolse i suoi vestiti sporchi e dopo sedette alla scrivania, ma non sapeva nemmeno da dove iniziare. Sarah gli aveva scritto tutti i compiti della settimana sul diario, ma che differenza faceva se lui non sapeva nulla di quello che avevano fatto fino a quel momento? Appoggiò la testa sulla scrivania. Non era sicuro che ce l’avrebbe fatta.
La madre rientrò a casa solo il giorno dopo. Pio si mantenne in disparte, lasciando che Andrea per una volta si godesse la sua presenza. Roberto fece altrettanto. Fortunatamente la madre non aveva nulla, ma aveva solo esagerato parecchio: gli straordinari non li faceva al supermercato, ma in un locale come cameriera, questo perché i soldi sembravano non bastare più. Sia Pio che Roberto si sentivano profondamente in colpa.
«Mi dispiace» le disse quando finalmente rimasero soli. E non solo per gli ultimi avvenimenti, ma per tutto.
Lei lo abbracciò stretto. «Anche a me».
«Andrà meglio».
«Ne sono sicura» rispose lei baciandolo sulla testa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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