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Autore: _Eclipse    03/08/2021    1 recensioni
Dal capitolo 8:
-Ci sono venti di tempesta che si avvicinano, ormai salpo molto più di frequente, le esercitazioni sono più durature e in maggior numero. Questo addestramento vuol dire solo una cosa, il conflitto si estenderà, dove non lo so, ma ci sarà qualcuno di potente- Hiroto sospirò.
-Se vi è tempesta, all’orizzonte, non importa quanto forte soffierà il vento, quanta pioggia cadrà a terra, quanta sofferenza e distruzione causerà. Alla fine tornerà a splendere il sole e sarà allora il momento di ricostruire ciò che è caduto e preservare ciò che è rimasto. Imparare dai nostri errori e prevenire un nuovo disastro- rispose Shirou.
****
-Possiamo agire come una piovra e allungare i nostri tentacoli sul continente e sulle isole del Pacifico. Per i primi sei o dodici mesi di guerra potremo conseguire una vittoria dopo l'altra, ma se il conflitto dovesse prolungarsi, non ho fiducia nel successo- parole dure, pronunciate davanti al governo, ai generali, ammiragli e all'imperatore in persona, come se fosse un ultimo tentativo per rigettare un conflitto.
-Allora sarà vostro compito assicurarvi la vittoria assoluta il prima possibile- replicò il primo ministro.
Genere: Guerra, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hayden Frost/Atsuya Fubuki, Jordan/Ryuuji, Shawn/Shirou, Xavier/Hiroto
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 15: Dovere

 

20 gennaio 1942

Mar Cinese Meridionale

 

L'invasione giapponese della Malesia britannica, si stava rivelando un brillante successo.

Uomini e carri armati avanzavano lungo la penisola con l'obiettivo di raggiungere la fortezza di Singapore.

L'offensiva nipponica poteva continuare solo grazie ai convogli di rifornimento provenienti dall'arcipelago o dall'Indocina, questo lo sapeva bene il capitano Valtinas. Aveva prestato servizio per breve tempo nella Mediterrean Fleet, il ramo operante nell’omonimo mare della Royal Navy, che guerreggiava ormai da anni con la Regia Marina italiana per la supremazia del mare e tutelare i carichi di rifornimenti diretti alle forze in Africa, senza che nessuna delle due fosse riuscita a infliggere all'altra una sconfitta decisiva in modo da poter ribaltare la situazione.

Il capitano aveva preso l'iniziativa: poiché la East Indies Fleet era priva di sommergibili, chiese e ottenne il permesso di formare una piccola squadra di cacciatorpedinieri per attaccare i navigli giapponesi facendo perdere loro quanto più materiale possibile.

Tre navi in totale, che navigavano in fila una dietro l’altra, tutte piuttosto obsolete. La stessa classe Tribal condotta da Hong Kong a Singapore era stata ceduta alla marina australiana come previsto dagli accordi.

Gli scafi erano completamente tinti di bianco, come anche le sovrastrutture, i cannoni e i loro scudi, solo i fumaioli erano di colore più scuro.

Lord Valtinas stava in piedi sulla plancia all’aperto della sua nave.

Indossava la divisa estiva della Royal Navy a causa del caldo tropicale, nonostante fosse gennaio, un candido completo formato da una giacca a maniche corte, pantaloncini e calzettoni al ginocchio. Il vento scompigliava i suoi lunghi capelli e l’odore della salsedine riempiva la sue narici. 

Con un binocolo scrutava l’orizzonte, a prua non vi era alcuna traccia di traffico navale, solo un mare blu increspato dalle onde.

Il cielo era limpido e il sole splendeva più che mai, la rotta che stava seguendo era la più probabile per intercettare un convoglio, stando ai rapporti aerei.

Erano giorni che i tre battelli navigavano in quel settore, senza alcun avvistamento.

Il sole stava iniziando a tramontare, quando uno dei tanti osservatori in plancia chiamò a sé l'azzurro.

-Capitano Valtinas, sir, navi avvistate a babordo!-

Il giovane comandante si spostò verso il parapetto di sinistra e si affiancò al marinaio, un ragazzotto vestito di bianco con un cappello di tela sul capo.

-Siete riuscito a identificare la loro bandiera?-

-Nossignore, la bonaccia non le permette di sventolare- rispose l'altro.

Il capitano alzò il binocolo che teneva al collo e osservò il naviglio all'orizzonte.

Vedeva delle piccole sagome di color grigio scuro, lunghe e abbastanza larghe, con delle sovrastrutture imponenti e regolari.

-Senza dubbio mercantili, ma saranno amici o nemici?- commentò.

-Sir, i vostri comandi?- chiese il primo ufficiale che aveva lasciato la sua postazione per controllare i bastimenti in lontananza.

-Per quanto ne sappiamo potrebbero essere rifornimenti americani dalle Filippine. Avviciniamoci senza destare troppi sospetti, noi non vediamo la bandiera loro non vedono la nostra, dobbiamo capire chi sono-

-Subito signore!- esclamò l'uomo.

L'ordine venne recepito e inviato al timoniere che virò di qualche grado a babordo e in contemporanea, con un riflettore venne ripetuto, in codice morse, ai cacciatorpedinieri che seguivano.

-Comunicate alle artiglierie di armare i cannoni- il capitano non perdeva d'occhio l'orizzonte, voleva essere pronto ad ogni evenienza.

Il primo ufficiale si portò ad uno dei numerosi tubi portavoce e avvertì gli artiglieri che si misero al lavoro a caricare le armi.

Il vento non soffiava, era troppo calmo.

Il convoglio procedeva lungo la sua rotta senza curarsi della squadra di cacciatorpedinieri.

Edgar Valtinas era nervoso, ma non lo dimostrava, gli serviva solo una folata d'aria che alzasse la bandiera di quei dannati mercantili.

Cercava comunque di apparire freddo e impassibile.

-Voglio una stima continua della distanza di quelle navi- per la terza volta venne inviato un imperativo del comandante.

Dietro la plancia scoperta, in posizione più rialzata, vi era una torretta sovrastata da un lungo cilindro che ruotò verso la squadra di navi ignote.

Il telemetro, era l'unico strumento in grado di misurare una distanza con un buon grado di accuratezza.

Un insieme di prismi, lenti e specchi permetteva di stimare la lontananza di un qualsiasi oggetto.

Il funzionamento era relativamente semplice e il risultato abbastanza preciso; l’operatore non doveva far altro che cercare di ricostruire l’immagine sfalsata della nave identificata girando una semplice rotella e confrontare il numero di giri con una scala graduta.

Gli osservatori fecero il possibile pevalutare la distanza del convoglio; sette miglia.

Le armi avevano una gittata tale che, potenzialmente, avrebbero potuto colpire quei bersagli, ma le granate sarebbero cadute con molta probabilità in acqua.

-Alla sala macchine, passare da motori a due terzi, a motori avanti tutta. Avviciniamoci a loro-

Dopo pochi attimi il cacciatorpediniere prese velocità sbuffando una grande quantità di fumo nero.

Nel frattempo i telemetristi stimavano la nuova distanza ad ogni miglio percorso.

A circa cinque miglia di distanza, una piccola brezza incominciò a spirare.

Il capitano, che non aveva perso di vista le navi per un singolo secondo, potè vedere attraverso il binocolo la bandiera che sventolava, bianca con un sole a sedici raggi di colore rosso.

Il cuore gli batteva a mille, li aveva trovati, era riuscito a scovare un dannato convoglio di rifornimento giapponese.

-Comunicare alla scorta di prepararsi ad aprire il fuoco-

In men che non si dica i riflettori passarono il messaggio in codice.

A quattro miglia di distanza, il capitano diede l'ordine tanto atteso:

-Bersagli a quattro miglia, sparare un colpo di prova!-

Uno dei cannoni da quattro pollici a prua sparò un singolo colpo.

Il proiettile si schiantò nel mare alzando una colonna d'acqua dopo aver eseguita una traiettoria a parabola.

Aveva mancato il bersaglio, ma le vedette e i telemetristi giudicarono il colpo buono.

-Signori, fuoco a volontà!- 

Con il secondo comando, tutti i cannoni dei tre cacciatorpedinieri presero a sparare verso i mercantili con scarsi risultati.

Le salve si dispersero senza raggiungere gli obiettivi, ma Edgar Valtinas non era preoccupato, le due flottiglie provenivano da direzioni opposte e si stavano avvicinando.

Due scintille provenienti dalle imbarcazioni nemiche affondarono nei pressi delle navi inglesi.

I giapponesi avevano armato i loro convogli con qualche cannone di piccolo calibro.

La forza britannica superava grandemente i nipponici per volume di fuoco anche se poteva sparare solo con i cannoni prodieri dato che le tre navi erano in una fila sfalsata.

Dalle torrette scudate dell’ammiraglia, continuavano a esplodere colpi a grande velocità. I marinai faticavano, dovevano mantenere alto il ritmo per garantire un elevato rateo di fuoco.

Per caricare un singolo proiettile, serviva un uomo piuttosto forte, dato che potevano pesare più di venti chili. 

Una volta inserito, si seguivano le indicazioni degli osservatori che comunicavano la stima della distanza, l’elevazione del cannone e l’angolazione della torretta, poi si sparava e si ripeteva la procedura.

Il rombo dell’arma era accompagnato da una vampa di fuoco e fumo. Le granate esplose lasciavano dietro di sé una scia lucente, che segnavano il cielo, in modo da poter seguire la traiettoria.

L’artiglieria britannica non era particolarmente precisa, ma quella giapponese non era da meno.

A circa tre miglia e mezzo, il capitano Valtinas potè vedere i primi colpi a segno: un esplosione sulla sovrastruttura della nave di testa del convoglio, seguita pochi secondi dopo da una seconda sul ponte.

Diede l’ordine di virare a tribordo in modo da permettere il tiro alle due torrette posteriori e massimizzare i danni.

Dalla prima nave si potevano vedere delle fiamme a livello della plancia.

Pochi istanti dopo anche un secondo e un terzo mercantile vennero danneggiati, 

Le tre navi non davano alcuna tregua e continuavano a riversare una pioggia di fuoco contro i bersagli.

I giapponesi smisero di sparare consapevoli che le armi di piccolo calibro sarebbero servite a ben poco.

Tutto andava bene, fino a quando un sibilo iniziò a infastidire gli osservatori sulla plancia dell’ammiraglia.

Una specie di ronzio che si poteva percepire a malapena quando i cannoni ricarivano, ma che si stava avvicinando e diventava sempre più forte.

Alcuni uomini portarono lo sguardo verso l’alto e dai binocoli distinsero tre piccole sagome nere nel cielo.

-Aerei in arrivo sir!-

-Continuate a mettere pressione alle navi e armate la contraerea- 

I tre velivoli si stavano abbassando a tutta velocità.

L’ammiraglia non era indifesa e a mezza nave possedeva un letale impianto di cannoni “pom-pom” da due pollici.

Un gruppo di uomini lo raggiunse e lo puntò verso i tre aerei per poi sparare.

Quell’insieme di cannoncini, per quanto goffo e tozzo all’apparenza, era in grado di dissuadere qualsiasi assalto da parte del nemico.

Il cielo si riempì degli sbuffi neri dei colpi dell’antiaerea.

Il capitano osservò i tre aguzzini dal cielo, aerei bianchi, della marina.

Disposti a triangolo si gettarono sulla fila di navi britanniche sparando con le mitragliatrici.

-State giù!- gridò l’azzurro gettandosi a terra. La raffica rimbalzò sugli scudi e le sovrastrutture blindate causando solo qualche scintilla e ammaccatura, dopodiché la squadriglia riprese quota sotto il fuoco nemico.

In plancia non parevano esserci feriti.

-Ordini al timoniere, invertire la rotta, torniamo alla base- ordinò il capitano amareggiato.

-Con tutto il rispetto, sir, vorrei chiederle per quale motivo- lo seguì il primo ufficiale.

-Forse non li ha visti, ma quelli sono aerei della marina. Questo era un colpo di avvertimento. Per quanto improbabile, quei mercantili sembravano privi di scorta, ma a quanto pare nelle vicinanze vi è una portaerei e quindi una flotta nemica. Se restiamo c’è la possibilità di trovarsi davanti ad un avversario che non possiamo fronteggiare. Quindi, a tutte le navi: lanciare i propri siluri a ventaglio e invertire la rotta- spiegò.

Il primo ufficiale annuì e ripetè l’ordine.

Ogni vascello lanciò dai quattro ai sei siluri verso il convoglio nella speranza di colpire qualcosa, anche se a circa cinque chilometri di distanza era difficile prevedere dove sarebbe andata la torpedine, poi come ordinato virarono per tornare a Singapore.

In lontananza Edgar vide due alte colonne d’acqua distanti tra loro. Almeno un mercantile era stato colpiti dai siluri e forse, con un po’ di fortuna, qualcun altro sarebbe affondato per le fiamme.

Era stato un successo limitato. Il sole stava tramontando del tutto, il cielo era di colore rosso-arancio e la flottiglia stava tornando in base.

Ormai era chiaro che qualsiasi tentativo di intercettare un convoglio sarebbe stato un rischio enorme con la flotta giapponese in quelle acque.

Con le linee di rifornimento protette dalle portaerei, Singapore aveva le ore contate.

 

****

 

23 gennaio 1942

Harbin, Impero del Manchukuo

 

Quando a Suzuno venne comunicato che sarebbe tornato in patria, non si sarebbe mai aspettato di venir dislocato in Manciuria.

L’Impero del Manchukuo, era nato per mano del Giappone circa una decina di anni prima. Sfruttando un presunto attacco terroristico cinese alla Ferrovia della Manciuria del sud gestita dai giapponesi, l’armata nipponica del Kwantung si mise in marcia dalla Corea senza un’autorizzazione da parte del governo.

L’offensiva si placò in pochi mesi, il governo centrale del Kuomintang di Chiang Kai-shek era più interessato a combattere la fazione comunista capeggiata da Mao Zedong o le numerose cricche di  signori della guerra locali, i quali si erano spartiti la Cina come un branco di iene fa con le carcasse, che pensare a come respingere l’invasione.

A capo della Manciuria venne messo l’imperatore Kangde, già conosciuto in Cina per essere stato, da bambino, l’ultimo regnante della dinastia Qing con il nome di cortesia Xuantong.

Kangde, in realtà non era che una facciata, una figura fragile, scheletrica la cui salute era aggravata da una grave forma di miopia che lo costringeva ad indossare occhiali con lenti spesse quanto fondi di bottiglia e la cui più grande passione, fin da quando era “il sovrano della Città Proibita”, era picchiare personalmente gli eunuchi di corte e far fustigare i giovani paggi che rifiutavano i suoi corteggiamenti. La stessa moglie l’imperatrice Gobulo Wanrong, secondo i pettegolezzi, aveva iniziato a fumare oppio a causa delle perversioni del marito.

Se Kangde era un mero fantoccio, il burattinaio che ne tirava i fili era il Giappone o meglio il braccio armato nipponico in Manciuria: l’armata del Kwantung stessa.

Il regime militare era una vera e propria cleptocrazia e aveva portato ad una corruzione dilagante, brigantaggio diffuso e uno dei comandanti dell’armata; il generale Kenji Doihara puntava a trasformare la regione in una immensa piantagione di papaveri per arricchirsi con il traffico di oppio.

In quel calderone caotico della Manciuria, brillava tuttavia la gemma di Harbin.

Situata nel nord del paese, quasi al confine con l'Unione Sovietica e di fatto fondata dai russi negli ultimi anni del diciannovesimo secolo e da lì a poco diventò una colonia vera e propria dell'impero dello zar Nikolay II.

La città era molto più simile ad un omologa europea che asiatica, la via centrale si distingueva per gli edifici dalle facciate bianche e padiglioni dorati in stile barocco e neo-bizantinto, tipico delle grandi città russe come Mosca e Leningrado. L'impronta zarista era messa in evidenza dal numero di chiese ortodosse come la Cattedrale di Santa Sofia la cui cupola verde scuro svettava alta nel cielo.

Oltre a luoghi di culto cristiani e santuari cinesi, e giapponesi, vi erano anche alcune sinagoghe.

Harbin ospitava una florida comunità ebraica, immigrata dall'Europa. Fino alla conquista da parte del Giappone, gli ebrei erano più di trentamila, per poi diminuire costantemente a causa del supporto nipponico all'antisemita partito fascista russo, che messo al bando nella madrepatria, si era rifugiato in Manciuria.

Nonostante la popolazione più che dimezzata era una delle comunità più grandi dell'estremo oriente insieme a quella di Shangai, anch'essa formata da immigrati dal Vecchio continente alle quali si poteva aggiungere anche la curiosa comunità di Kaifeng(1), nella Cina centrale, ormai quasi del tutto scomparsa, ma presente da secoli e integrata perfettamente nella cultura cinese.

Suzuno era arrivato da poco, aveva viaggiato via nave fino a Dalian, territorio sotto controllo diretto del Giappone, e poi via treno in un vagone militare.

L'alto comando lo aveva premiato per i suoi successi al fronte ed era quindi stato trasferito in un territorio meno ostile ma che necessitava di una sorveglianza continua e spietata.

Tuttavia la sorveglianza e l'eliminazione del dissenso non erano che i compiti più semplici e comuni da svolgere, da quando era giunto appena un paio di giorni prima, gli era stato accennato dai superiori che la kempeitai collaborava con la "Divisione per la prevenzione epidemica dell'armata del Kwantung" situata a Pingfan, circa una ventina di chilometri a sud di Harbin.

Il grigio venne inviato a visitare gli impianti della "Divisione", il suo superiore aveva messo a sua disposizione un'auto con tanto di autista per condurlo a destinazione.

Pingfan non era che l'insieme di una decina di villaggi, in parte abbandonati dopo l'occupazione e laciata la città, Suzuno non vide altro che campagne e boschi, risaie e campi di papavero, fino a quando dopo poco tempo giunse al complesso della "Divisione": un edificio dalle pareti giallastre su due piani, e dalle tegole del tetto rosse, circondato dai boschi privi di foglie.

Al di sopra dell'ingresso vi era anche una piccola terrazza.

Scese dal mezzo, il proprio autista comunicò che sarebbe rimasto ad attenderlo.

Il grigio si strinse nel cappotto colore kaki e indossò i pesanti guanti in pelle; in Manciuria il freddo era tale da poter consumare le carni fino all'osso.

Attraversò il viale fino all'ingresso ancora imbiancato dalle nevicate dei giorni precedenti. 

Dovette suonare un campanello per annunciare la sua presenza.

Dopo qualche istante il portone si aprì e fece capolino la figura di quello che pareva essere un medico: vestito con un lungo camice bianco, capelli neri ben pettinati e in ordine, un paio di occhiali dalla montatura fine che incorniciavano un volto rasato dall'espressione fredda, gelida quanto l'inverno mancese.

-Sottotenente Suzuno Fuusuke immagino-

-Sissignore, a voi il mio identificativo- passò al medico i propri documenti che confermavano l'identità e l'appartenenza alla Kempeitai.

L'uomo lesse alla veloce e poi fece cenno di entrare.

-Prego mi segua. Le verranno fornite le debite informazioni in un luogo più consono- la voce del medico era apatica, distaccata.

Il kempei non potè fare altro che seguirlo.

I corridoi parevano tutti uguali: anonimi, tinti di bianco e dal pavimento grigio, le porte che conducevano a chissà quali locali erano chiuse e non si sentiva il minimo rumore, solo i passi dei due uomini.

Svoltando sulla destra, trovò delle finestre che davano sull'interno del complesso.

Suzuno si fermò un istante a osservare: era immenso, riusciva a vedere solo una minima parte degli edifici, tra cui un enorme blocco cubico di colore grigio cemento, ben più alto rispetto al primo piano su cui si trovava, a prima vista pareva quasi una fortezza o un carcere.

-Prego non si fermi, siamo quasi giunti al mio ufficio- lo rincalzò il medico con quell'insopportabile tono distaccato.

Proseguirono lungo il corridoio.

Dai vetri delle finestre Suzuno cercava di farsi un idea di dove fosse: riusciva a vedere dei grandi capannoni dal tetto spiovente, e alcune grosse ciminiere che fumavano, probabilmente il locale caldaie di quella piccola città.

Una cosa in particolare lo incuriosì: un piccolo gruppo di persone, quattro o cinque, una affianco all'altra distese nella neve, con un singolo uomo avvolto in un lungo cappotto che passava tra loro.

-Per favore non faccia caso a ciò che vede, il mio ufficio è questa porta sulla destra, dopo di lei-

Il kempei entrò seguito poi dal dottore che richiuse la stanza.

Anche l'ufficio aveva un'atmosfera asettica, le pareti erano dei medesimi colori che caratterizzavano il complesso: grigio scuro fino a metà altezza e poi bianco. L'ambiente era spoglio, vi era solo una scrivania con qualche sedia, alcuni archivi in alluminio e qualche scaffale con dei libri. Nessuna finestra, le uniche luci erano erano due plafoniere, una opposta all'altra.

-Si accomodi sottotenente- lo invitò il medico mentre si apprestava a sedersi dal suo lato della scrivania.

-Sottotenente Suzuno… per noi è un piacere che la Kempeitai locale abbia uomini come lei, ligi al dovere, fedeli all'imperatore e feroci con il nemico. Mi è giunta voce che è stato promosso per la sua capacità nel reprimere la resistenza a Hong Kong, è vero?- domandò con finto interesse il medico.

-Inizialmente sergente a Nanchino e successivamente, a Hong Kong, mi hanno promosso a sottotenente, un ufficiale di basso rango ma pur sempre ufficiale- rispose l'altro rimarcando i suoi successi anche a Nanchino.

-Perdoni la mia sbadataggine, non mi sono presentato, sono il dottor Saitou Juro, ma potete chiamarmi dottor Saitou, mi occupo dei collegamenti con la Kempeitai di  Harbin oltre che gestire un mio laboratorio di ricerca-

-L'onore è mio dottor Saitou, il mio nome e occupazione già la conoscete- replicò secco l'altro.

-Ovviamente, ma credo che voi non sappiate il perché vi troviate qui-

-Nossignore-

-In questo caso le dò il benvenuto alla sede centrale dell'Unità 731 del Kwantung-

-Unità 731? Questa non è la Divisione per la prevenzione epidemica? Pensavo che sarei dovuto venir qui per non so quale tipo di visita medica o profilassi…-chiese confuso 

-Quello era il vecchio nome del complesso e lei non è qui per una visita medica. Questo è un grande centro di ricerca diretto dal dottor Shiro Ishii, già a capo di un precedente istituto a Zhongma, non troppo lontano da qui- spiegò il dottor Saitou.

-Quindi se questo è un centro di ricerca, io a cosa vi servo?-

-A questo ci arriveremo più avanti sottotenente. Qui nella sede di Pingfan, svolgiamo ricerca in ambito sanitario e biologico. Non posso dirle esattamente che tipo di ricerche, ma sono di estrema utilità per il nostro esercito-

-Fin qui ho capito… quindi?-

-Formalmente, per i villaggi vicini, questa struttura non esiste, o meglio non esiste un centro di ricerca, ma una grossa segheria… ciò di cui noi abbiamo bisogno in quanto segheria sono dei "maruta", tronchi. E' qui che entra in gioco la Kempeitai, ci fornisce i nostri "tronchi" indispensabili ai fini della ricerca-

-E cosa sarebbero di precisi questi "tronchi"?- domandò sempre più confuso e perplesso Suzuno.

-Dipende, ci sono molti tipi di alberi e quindi molti tipi di tronchi… di norma sono prigionieri cinesi, manciù, dissidenti, criminali, briganti, sono certo che qui ci siano anche dei prigionieri russi catturati durante le schermaglie di confine, ma se è necessario la Kempeitai fornisce anche cittadini comuni senza che abbiano commesso un vero crimine: uomini, donne, bambini o vecchi, non importa, a noi basta ricevere questi "tronchi"- il medico pronunciò quel lungo elenco con una freddezza inquietante e Suzuno aveva intuito a cosa sarebbero servite probabilmente quei "tronchi"

-Quindi quello che volete sono persone, mi sta dicendo forse che le usate in qualche… esperimento? E' legale?- 

-Legale o non legale non fa differenza, i cinesi sono un popolo inferiore, non trovo una grande diversità tra l'uso di un topo e un cinese o un russo, anzi vi è il vantaggio che loro essendo umani, rendono la ricerca molto più rapida e accurata. Sono certo che prima lei abbia visto da una finestra, alcuni "tronchi" distesi nella neve, potrei dirle che sono in quella posizione da circa sei ore. I miei colleghi stanno valutando quanto tempo sia necessario affinché il corpo vada in ipotermia, l'effetto del congelamento degli arti e, nel caso in cui sopraggiunga la necrosi, si sta cercando un modo per rivitalizzare la parte interessata. Ad oggi non lo abbiamo ancora trovato e probabilmente a quelle persone verrà rimossa l'appendice morente, ma gli esperimenti continuano ed è per questo che necessitiamo di cavie. Questo è il suo compito: formare una squadra e fornirci il materiale di cui abbiamo bisogno, è per questo che l'ho convocata qui, non tutti i kempei sono in grado di svolgere un compito di questo tipo. Sono certo che lei non ci deluderà- sul volto del medico si disegnò un ghigno appena accennato.

Suzuno non era estraneo alla violenza aveva massacrato decine di civili giusto per il piacere di uccidere, ma quell'esperimento era un qualcosa di molto più sadico e feroce.

-Dottor Saitou, mi permetta di dire che… è un incarico molto forte, soprattutto dal punto di vista del carico emotivo, come lei ha affermato: non tutti sono tagliati per questi genere di lavoro-

-Lei sta rifiutando?- la voce del dottore si era fatta più bassa e severa.

-Non è ciò che ho detto, è solo che non sarà semplice creare una squadra-

-Se non sarà possibile, mi aspetto che lei faccia il suo dovere da solo. In fondo sono cinesi… non mi stupirei se scoprissi che alcuni colleghi tedeschi stanno eseguendo i medesimi esperimenti con chi loro ritengono inferiore: ebrei, slavi… l'elenco è lungo. E' la legge della vita, il più forte sopravvive il debole viene annientato. In questo caso il debole viene reso utile in quanto il suo sfruttamento da un punto di vista scientifico garantirà la sopravvivenza del più forte, la sua vita non è di alcuna importanza, verrebbe comunque spazzato dalla natura, tanto vale metterla al servizio di chi è superiore. Queste ricerche cambieranno la medicina e aiuteranno lo sforzo bellico. Lei potrà contribuire al progresso della scienza e della società, le assicuro che sarà ben ricompensato e poi ci pensi, lei non ha fatto di certo meglio di noi, ho letto i rapporti su di lei… a quanto pare a Nanchino si dilettava con un suo compagno d'armi a gareggiare armati di spada a chi eliminava più locali. Converrà con me che questo è un vero spreco di vite. Chi viene portato qui non muore, o meglio la morte è dovuta alle complicazioni durante l'esperimento o perché ormai sono ridotti ad uno stato di totale inefficienza e inutilità da un punto di vista scientifico e quindi come per tutte le cavie da laboratorio i soggetti devono essere soppressi. Io anzi noi, l'Unità 731, abbiamo grande fiducia in lei, confidiamo che faccia il suo dovere verso l'impero e il progresso. Non ci deluda, riceverà istruzioni su come consegnare i "tronchi" dai suoi superiori. La riaccompagno all'auto se non le dispiace, ho molto lavoro da svolgere- concluse il medico per poi alzarsi, aprire la porte e fare cenno di seguirlo.

Tra tutti gli incarichi che gli erano stati affidati, quello era di gran lunga quello più strano e inquietante. 

Sì soffermò davanti alla finestra di prima. 

Ora distese nella neve vi erano solo due persone, le altre erano scomparse, forse morte o in alternativa sarebbero andate incontro ad atroci sofferenze continuando ad essere usate come cavie.

Una volta fuori dalla struttura, dottor Saitou lo trattenne qualche secondo per salutarlo:

-Le auguro una buona giornata sottotenente, so bene che accetterà l'incarico, mi auguro di rivederla presto-

-Lo stesso per me dottore, faccia attenzione con le sue ricerche-

Il kempei si congedò con un inchino, poi salì a bordo dell'auto e fece ritorno al comando di Harbin con sulle spalle un grosso carico di dubbi riguardo l'essere all'altezza di tali ordini.

 

****

 

25 gennaio 1942

Periferia di Tokyo

 

Era sera e il cielo era limpido, risplendevano le stelle e la luna.

Le strade e i tetti erano imbiancati dalla neve, gli ultimi fiocchi erano caduti nel pomeriggio.

Ad una ad una si spegnevano le luci e le lanterne della via.

Shirou si avvicinò alla propria, appesa all'esterno affianco all'uscio.

Con un lieve soffio la fiamma si estinse lasciando al suo posto un filo di fumo.

Rientrò nella sua dimora. 

Non si sentiva stanco, non tentò nemmeno di assonarsi. 

Al contrario Yukimura si era già coricato, esausto dall'intenso lavoro della giornata: spalare il vialetto nel cortile, rassettare la casa e lucidarla per renderla presentabile e riparare un piccolo armadietto nella sala da tè, le cui assi di legno erano state spezzate da uno sgarbato cliente palesemente ubriaco che si era lasciato cadere a peso morto su di esso. Ovviamente venne cacciato poco dopo da Shirou con una non discreta dose di rabbia, causando qualche imbarazzo agli altri due clienti presenti.

Come un fantasma inquieto, l'argenteo non faceva altro che andare avanti e indietro da una parte all'altra dell'edificio, passando per la cucina, il corridoio e il soggiorno. 

Si soffermò lì in quell'ultima stanza.

Era buia e la poca luce che entrava era quella pallida della luna e delle stelle che penetrava dalle finestre, oltre alla radio che ascoltava di tanto in tanto con Yukimura, vi era solo un tavolino, una libreria e, appese alla parete, due spade.

Si avvicinò con un pizzico di esitazione e iniziò a fissarle.

Erano una sopra l'altra posate su un supporto in legno.

La prima, quella più in alto, era più lunga e grande della seconda. Il fodero era scuro, l'impugnatura era in pelle di razza color bianco, avvolta da delle bande nere di cuoio.

La seconda, più piccola era molto simile, sia nei colori che nella forma.

Andò alla ricerca di un fiammifero e accese una candela per rischiarare l'ambiente.

La posò sul tavolo e lasciò che l'oscurità venisse cacciata dalla debole fiammella.

Tornò davanti alle due spade, allungò il braccio destro ed afferrò la più grande.

Al contrario di quello che sembrava non era così pesante e la rigirò più volte nelle sue mani.

Sul fodero era inciso un mon, lo stemma dei daimyo e dei loro domini.

Shirou si sentiva un senso di angoscia divorarlo dal profondo a tenere quell'arma.

Non era la prima volta che la maneggiava, di tanto in tanto ne curava la lama per non farla arrugginire in modo irrimediabile, proprio come gli aveva insegnato il suo maestro; Nishioka Hide, la katana era la sua.

Strinse la presa sull'impugnatura e con un rapido gesto, pulito e aggraziato, sguainò la spada.

La lama riluceva anche nella penombra. Era di puro acciaio di un'epoca lontana, di quando il Giappone era diviso in domini e clan in perenne rivalità.

Provò goffamente a sferrare qualche colpo  portando l'arma sopra la propria testa per poi abbassarla davanti a sé con tutta la sua forza.

Il filo della lama tagliava l'aria con un fischio. Non sembrava poi così difficile da usare ed era ben bilanciata.

-Shirou, che stai facendo? Tutto bene?- 

L'argenteo si voltò di scattò sorpreso verso l'origine della voce.

Yukimura se ne stava in piedi avvolto in uno yukata blu scuro e si stropicciava gli occhi assonnati.

-Mi hai fatto prendere un colpo!- esclamò l'altro mentre cercava di rinfoderare la spada.

-Sentivo dei passi, avanti e indietro e poi uno strano rumore… perché hai in mano la katana del maestro Hide?-

L'altro giovane mise l'arma al proprio posto, sull'espositore, dopo qualche secondo di silenzio si girò verso il blu.

-Riflettevo-

-Un modo strano di riflettere-

-Pensavo al maestro Hide… ormai è scomparso da molto tempo, forse non te lo ricordi neanche-

-Ero piccolo, ma certo che me lo ricordo! Per chi mi hai preso?- 

L'altro sorrise, era ovvio che Yukimura si ricordasse di lui, almeno in parte, non era uno stupido.

-E' grazie a lui se oggi siamo ciò che siamo-

-Alle volte ti esprimi in un modo troppo complesso…- commentò il più giovane.

-Il maestro Hide lasciò a noi la sua fortuna. Quando il suo signore morì in seguito alle ferite riportate in battaglia, lo nominò erede dei suoi possedimenti, a patto che si prendesse cura della propria moglie affinché non rimanesse vedova e sola. Il maestro accettò e rimase accanto alla donna per tutta la vita, senza che si sposasse o avesse figli. Un'intera esistenza dedicata al mantenimento dell'ultimo desiderio del suo signore. Quando ci trovò per la strada qui a Tokyo, non eravamo che poco più che bambini. Ci accolse nella sua casa e mi insegnò l'arte dell'intrattenimento, della conversazione, la cerimonia del tè. Mi tramandò le sue conoscenze affinché diventassi un taikomochi come fu lui. E' grazie all'eredità del suo signore se Atsuya ha avuto l'occasione di riprendere gli studi e diventare poi un medico. E' grazie a lui se, in un certo senso, anche tu hai ricevuto un'istruzione superiore ed ora vivi di rendita come mio assistente e tuttofare…- le ultime parole furono pronunciate con un sarcasmo ben poco velato, che fecero arrossire d'imbarazzo Yukimura, poi continuò:

-Tutto questo è accaduto solo perché il maestro Hide ha impugnato quella spada. In passato i taikomochi erano intrattenitori, ma anche consiglieri, strateghi e se necessario soldati e samurai ed il maestro era un samurai. Se il suo signore, per quanto piccolo e insignificante, non avesse abbracciato la causa imperiale e fosse sceso in battaglia, noi non saremmo qui a parlare di ciò, forse non saremmo qui affatto- nuovamente l'argenteo prese la spada, la sguainò e la portò davanti al proprio volto.

La curva appena accentuata del dorso della lama stava davanti al suo naso.

-Questa è rimasta appesa a quella parete da quando l'imperatore Meiji impose il bando delle spade, la legge Haitorei(2). Nessuno, neanche un samurai, sarebbe potuto uscire dalla propria abitazione con una katana al proprio fianco. Ironico non credi? Il maestro Hide la dovette abbandonare nonostante l'avesse impugnata più volte nel nome dell'imperatore stesso, spezzando vite a Ueno, Aizu, al passo Bonari, forse era presente anche al leggendario scontro a Toba-Fushimi e alla conquista del castello di Osaka, dove ebbe inizio la guerra.

Sono passati ormai sessant'anni, dall'ultima volta che questa lama e il più piccolo wakizashi fossero sguainati ed io temo che presto o tardi anche noi dovremo impugnare queste armi, proprio come il maestro Hide- Yukimura colse in quelle parole la tristezza, le angosce e i timori di Shirou. Per quanto fosse stato toccante la storia del maestro Hide, il più giovane sentì che l'argenteo aveva in cuor suo paura. Paura di doversi scontrare con la ferocia della guerra, ma allo stesso tempo sentiva un forte senso di inferioritá verso il proprio maestro.

-Sai che non siamo obbligati a combattere…- 

-Forse, almeno per ora. Tuttavia come taikomochi,  sento il dovere di fare qualcosa- per la seconda volta ripose l'arma nel fodero per poi rimetterla al suo posto.

-Dovere? Pensavo che avessimo già fatto questo discorso tempo fa con Haruna. Il maestro Hide seguì il suo signore. Tu non hai alcun daimyo a cui hai giurato fedeltà, al contrario hai dei clienti che ti sono fedeli. Non devi vivere all'ombra del maestro Hide. Sono certo che sarebbe molto dispiaciuto all'idea che uno dei suoi "figli" dovesse partire per una guerra come questo. Mi sentirei lo stesso se tu dovessi "impugnare quella spada" sono certo che anche Atsuya, ovunque lui sa, sarebbe preoccupato.

Shirou sospirò, aveva ascoltato a testa bassa quelle parole, come un cane bastonato. Alzò lo sguardo verso il ragazzino e lo guardò negli occhi.

Sorrise, era felice, si sentiva più leggero dopo essersi sfogato in quel modo e consolato da Yukimura.

-E' un peccato che tu non abbia voluto apprendere le arti di un taikomochi. Come ho sempre detto, sei molto più saggio di quello che sembra, Yukimura- l'argenteo posò una mano sulla spalla del più giovane, poi si avvicinò alla candela, la spense e senza dir nulla si coricò nella propria stanza seguito dal ragazzo.



 

****

 

1) Kaifeng: situata nella Cina centrale, Kaifeng è sede di una minuscola comunità ebraica. Le origini risalgono probabilmente al IX secolo, quando la città era un importante snodo della Via della Seta. Con il passare dei secoli, gli ebrei che si erano stanziati nella città si sono integrati completamente nella società mantenendo la proprie tradizioni e credo religioso. Ad oggi la comunità conta tra le 500 e le 1000 persone (è difficile quantificarne il numero a causa della politica di persecuzione religiosa), che tuttavia cercano di vivere secondo i precetti dell’ebraismo.

 

2) Haitorei: editto del 1876 che sanciva il divieto di portare la spada (eccetto i militari e le forze dell’ordine), pena la confisca dell’arma.

 

Angolo d’autore….

 

Rieccomi reduce da una lunga sessione di esami!

Finalmente ritorna un po’ di azione, con lo scontro navale

nel Mar Cinese Meridionale, erano troppi capitoli che non si 

sparava… beh forse non così troppi, alla fine era solo 

lo scorso capitolo quello tranquillo…

Ad ogni modo il filo conduttore di questo capitolo è il

dovere, declinato in varie forme: il dovere di Edgard di difendere

la colonia di Singapore, Shirou che si sente in dovere di far qualcosa

come il suo maestro e infine Suzuno che ha il dovere in quanto kempei

di obbedire agli ordini, per quanto assurdi o perversi che siano.

Avrei voluto aggiungere un’ultima parte a questo capitolo, ma poi

mi sono accorto che avrei sfiorato le 21 pagine e un totale di 8000

parole e quindi sarebbe stato tutt’altro che leggero.

Spero come sempre che anche questo capitolo sia di vostro gradimento,

anche perché noto con piacere che di tanto in tanto nuove persone

inseriscono la storia tra le preferite o le seguite anche se non si 

fanno sentire e tutto ciò mi fa comunque piacere.

Con questo io concludo, 

un saluto

 

_Eclipse

 
   
 
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