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Autore: Ombrone    04/08/2021    0 recensioni
I crimini più orribili si commettono pensando di essere nel giusto.
Combattendo gli usurpatori che minacciano il regno di sua sorella, la Regina, Barid dovrà decidere se uccidere una persona innocente.
Una storia light fantasy ambientata in un Universo dove spero di poter scrivere altre storie. La prima della serie della Lacrima Nera.
Ci sono delle scene e immagini forti che possono disturbare.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
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Come finisce la storia di Barid e Yaranno, la storia che sto per raccontarvi, è risaputo:
“Al suo ritorno a corte, la Regina non accolse il Primo Giudice, suo fratello, con i sorrisi e gli abbracci riservati a un condottiero vittorioso, ma con freddezza e silenzio e per giorni non gli concesse di vedere il suo volto.”
Così finisce nella sua versione più famosa, certo le parole sono diverse a seconda di chi la racconta, la canta o la recita, ma la fine è sempre questa, il problema è come farla cominciare, questa storia, questo è più complicato.
Potremmo iniziare a narrarla partendo tre mesi prima, quando il Granduca di Nevrel decise di rompere gli indugi e, alla morte dell’ultimo figlio dell’Autocrate suo cugino (una morte non naturale e alquanto violenta), proclamò i suoi legittimi diritti sul trono e chiamò a raccolta i suoi vassalli e i suoi alleati per deporre Ranja, l’infame usurpatrice: “Quella puttanella, figlia di una gran puttana” come l’aveva definita, in maniera molto poco aristocratica.
Oppure potremmo tornare indietro di 4 o 5 anni, spiegando come e perché il vecchio Autocrate, iniziò a favorire in modo ignobile e illogico la sua figlia più piccola, Ranja’no, mettendo in subbuglio la linea di successione e gettando il paese nella guerra civile.
Volendo potremmo addirittura scorrere lo svolgersi dei secoli e cantare di come le genti dell’ovest arrivarono nel Malvearna, con i loro cavalli, i loro archi e i loro Demoni, saccheggiando città e distruggendo nazioni e fondandone di nuove.
Per finire potrebbe avere anche senso persino risalire nel tempo di milioni di anni e raccontare di come la deriva dei continenti creò la grande massa del Mondo Centrale, con le sue fertili propaggini, bagnate dal mare, fertilizzate dai fiumi e dalle piogge e le grandi steppe e i deserti del suo interno, un mare d’erba e sassi quasi infinito. Un luogo sperduto che forgia popoli nomadi, fieri e feroci, che prosperano nei periodi fertili e che al sopraggiungere della siccità e della carestia cercano immancabilmente nuovi spazi verso il mare, verso ovest e verso sud. Un ciclo climatico millenario, una pompa di genti, popoli e razze che è il vero motore della storia del nostro mondo.
Ma non siamo qui a scrivere libri e volumi, per i nostri scopi è sufficiente tornare indietro di appena tre giorni, spostandoci di poche miglia fino alla piana di Manehald.

Facciamo quindi cominciare tutto all’alba di una luminosa giornata di inizio inverno, fa freddo, ma non troppo, e, molto più importante, il terreno è asciutto e sodo, aperto, ottimo per i cavalli.
A nord ha preso posizione il Granduca di Nevrel con gli uomini che ha potuto radunare con chi così poco preavviso: non si aspettava certo di dar battaglia così presto, contava di passare l’inverno a radunar uomini e rinsaldar alleanze e lanciare una campagna estiva, ma quando un esercito dell’usurpatrice è entrato nelle sue terre ha accolto la notizia con la soddisfazione di un uomo di azione.
Ha ai suoi ordini circa ottomila uomini, metà fanteria, per lo più fanti leggeri, appoggiati da balestrieri e qualche archibugiere, il resto cavalleria, in quello stile che domina i campi di battaglia da secoli. Armatura pesante e cavalli massicci, ma veloci, arco composito per attaccare a distanza e lancia e mazza per caricare e travolgere le linee di fanteria scompaginate dalle frecce ed eventualmente scontrarsi a testa bassa con altra cavalleria di pari livello.
La sua strategia è semplice (con le leve feudali e tribali non si può certo puntare sul complicato), ma solida ed efficace, la fanteria concentrata sul suo lato destro funzionerà da cardine della manovra, il perno su cui la cavalleria alla sinistra ruoterà per colpire sul lato gli avversari e avvolgerne lo schieramento. È sicuro del fatto suo, la superiorità numerica e qualitativa è della sua.
Di fronte a lui ci sono poco più di cinquemila avversari, per lo più fanteria, la cavalleria sembra poca, dei distaccamenti leggeri sui lati, forse cinquecento/seicento cavalieri pesanti.
In inferiorità numerica, i realisti non hanno nemmeno provato a estendere la propria linea per pareggiare quella del Granduca, si sono schierati in maniera compatta: cinque grandi quadrati di fanteria separati da vasti spazi aperti, alla “Nuova Moda”, come si dice. Hanno letto bene lo schieramento avversario e sono sbilanciati proprio sul lato in cui il Granduca vuole far avanzare la cavalleria, uno dei quadrati spostato in posizione più arretrata a coprire il fianco destro.
Accanto all’usurpato stendardo reale, sul quadrato nell’angolo destro dello schieramento (quello dove arriverà con più forza l’urto avversario) sventola un altro vessillo: bianco, contornato da foglie di edera dorate, al centro una sola goccia di colore nero.
Basta questo per riempire il Gran Duca di sdegno: è il blasone del “Gran Bastardo”, il “Principe Demone”, la “Lacrima Nera” l’infame fratellastro dell’usurpatrice, il suo braccio armato. Un mezzo plebeo indegno dei suoi titoli e degli onori che gli vengono resi, degno compare della tiranna che infanga il trono.
I toni del suo discorso alle truppe sono degni dello scontro definitivo tra il bene il male, le acclamazioni e le grida di battaglia si alzano al cielo.
Ma se il prologo sembrava epico la battaglia invece è in sé stessa decisamente deludente: non dura non più di qualche ora, per pranzo è tutto finito. I quadrati dell’esercito reale irti di alabarde e archibugi respingono la carica della cavalleria granducale senza scomporsi, gli spazi aperti tra di quadrati si sono trasformati in trappole sottoposte a un mortale fuoco incrociato.
Il successivo contrattacco è quasi una formalità, colto nel tentativo di riorganizzarsi l’esercito del Granduca ondeggia e si sfalda definitivamente appena si sparge la voce che lo stesso Granduca sia caduto nella mischia. Non ci si disturba nemmeno a inseguire i fanti e cavalieri che sciamano via, abbandonando, lance e scudi, ognuno per sé stesso, in cerca di salvezza.
Prima del calar sole le truppe reali arrivano senza altra opposizione sotto le mura del castello di Nevrel. Il castello una volta era stato pensato di certo come una fortezza, la posizione, stupenda, lo testimonia, ma sono almeno un paio di secoli che non ha una funzione militare, è più un palazzo, i bastioni sono bassi, trasformati in giardini e terrazze, circondati dalle case e dalle piazze di un ricco borgo.
Il comandante della guarnigione e i due Prefetti della cittadina che si estende ai suoi piedi vanno incontro ai Realisti, scortati da preti e sacerdoti, a chiedere condizioni, coscienti che ogni resistenza sarebbe futile.
Le condizioni di resa, cinque talenti in oro e argento e l’apertura delle porte in cambio dell’assicurazione che non ci sarebbero stati saccheggi e violenze, sono quasi troppo belle per essere vere, ma i Realisti hanno fretta di chiudere la campagna e pacificare la zona, e sono disposti ad essere generosi.
Le porte si aprono, gli stendardi granducali vengono ammainati, e le truppe reali entrano da padrone, sfilando per le strade, non ci sono festeggiamenti o acclamazioni, ma non ci sono nemmeno violenze o spargimento di sangue, i cittadini osservano tutto al sicuro dietro le serrande serrate. In cima alla colonna delle truppe reali le teste del Granduca e dei suoi due figli aprono la marcia, infilate su delle picche.
In città qualcuno, sottovoce, al nome del Granduca già aggiunge già l’aggettivo “ribelle”. Il vento sta cambiando veloce.
Tutto sembra concludersi, in definitiva, con un numero pietosamente basso di vittime.

La sala del trono del Castello di Nevrel è ritenuta unanimemente una delle più imponenti della regione: enorme e splendente di marmi, ori e arazzi e opere d’arte accumulate nei secoli, può contenere svariate centinaia di persone e adesso, quasi vuota, rimbomba e riecheggia di risate.
Sul trono ducale, circondato da sei dei compagni più fidati, è seduto il vincitore della battaglia. È lui il braccio armato, lo stratega che vince le battaglie, per la sua sorellastra, per l’Usurpatrice, che ben presto diverrà anche qui la legittima beneamata Sovrana, Regina e Autocrate.
Il suo nome, è Barid Mae Aksim, ma in tutto il Malvearna è conosciuto con svariati soprannomi, il più noto è quello di “Gran Bastardo” (a memoria della sua origine illegittima). Pochi lo chiamano apertamente così, ovviamente, ma a lui come soprannome non dispiace, quasi lo inorgoglisce. È il nome con cui passerà alla storia.
È giovane e dall’aspetto vigoroso: i capelli neri che gli arrivano alle spalle, naso aquilino, e quei curiosi occhi di un castano chiarissimo, quasi giallo, che spiccano sulla carnagione scura sono tutte prove delle sue nobili ascendenze reali, almeno da parte di padre.
Su di lui non c’è da dilungarsi, impossibile non aver letto di lui, o non aver dovuto studiare a scuola. Lo stesso per i suoi compagni, tutti nel bene o nel male passati sui libri di storia, se non per i meriti personali, almeno per essere stati al suo fianco. Un poeta, uno storico e filosofo, un grande politico, un esploratore, almeno due famosi condottieri. C’è il futuro del paese in quella sala.
E c’è allegria: hanno appena finito di esaminare i numeri dei morti e dei feriti della battaglia, e sono fortunatamente piuttosto pochi. Si è già scorsa pure la lista degli uomini meritevoli di promozioni, premi e citazioni per il valore mostrato, o le iniziative prese.
Infine, uno dei Compagni afferra da un tavolo un enorme libro contabile:
“Ed ecco qua il contenuto del tesoro granducale.” Mostra un numero. C’è qualche fischio di ammirazione.
“Non un grande stratega il Granduca, ma un gran risparmiatore.” Fa qualcuno.
“Su, su lo schieramento non era male, cinquant’anni fa ci avrebbe anche potuto vincere qualcosa.” Risponde un altro.
Sua Grazia, il Gran Bastardo, Barid, esamina il libro mastro, li ignora, sorridendo leggermente alle battute che sente. Gli basta alzare gli occhi per farli smettere.
“Una bella cifra davvero.” Commenta. “Il cinquanta per cento va al tesoro reale. Il resto spartiamolo tra le truppe secondo le solite proporzioni e i soliti usi.”
Uno dei compagni riprende il libro mastro, con un piccolo inchino. “Agli ordini.”
Non fa in tempo ad allontanarsi che Barid lo ferma e lo fa riavvicinare con un gesto della mano. Si sporge in avanti attirando, se ce ne fosse stato bisogno, l’attenzione di tutti.
“Sentitemi, e fate attenzione a quello che vi chiedo.” Li fissa uno a uno. “Il mio non è un rimprovero, ma voglio essere chiaro: non voglio sentir parlare di oro che vi rimane appiccicato alle dita. Mi capite, vero? Non voglio sentir altre voci. Ce  ne sono troppe e spiacevoli.”
Cala un attimo di silenzio, imbarazzato. È perfettamente vero, e c’è poco di strano, nessuno di loro è ricco e la fortuna va colta quando c’è l’occasione. Alla fine, uno dei sei, non importa chi, parla per tutti, risponde.
“Lo sapete che quello che è nostro è vostro. Mio Signore.”
Il Gran Bastardo, sorride, allunga una mano afferrando chi ha parlato per la spalla.
“Lo so amico io, lo so bene.” Lo guarda. “Ma questo però è anche peggio, perché fa sembrare che le mani siano le vostre, ma la borsa sia la mia. Mi capite?” Le teste annuiscono. “Basta. Penserò io a voi. Come al solito. O vi faccio mancare qualcosa?”
A rispondere è quello con in mano il libro mastro. Con un sorriso ribaldo.
“E così sia… vorrà dire, amici, che torneremo a corte, da questa campagna, molto più poveri di quando siamo partiti.” Il tono di dolore è talmente esagerato che scoppia qualche risata trattenuta.
“Su su un piatto di zuppa a corte lo troveremo sempre.” Si prende in giro qualcuno. “E i più belli di noi pure qualche servetta generosa.”
“Il problema è di chi è brutto come me, e gli tocca sborsare.” Fa un altro, oggettivamente il meno attraente col naso storto, gli occhi piccoli e la faccia butterata.
“Ne terrò conto, tranquillo, e avrai di più” fa il principe appoggiandosi allo schienale ridendo. Potrebbero seguire altre battute, come vi dicevo, l’atmosfera è più che allegra.
Il silenzio torna, all’entrata di uno degli ufficiali, che raggiunge il gruppo e parla concitatamente all’orecchio di Sua Grazia. Il Principe rimane un attimo pensieroso prima di dare un cenno di assenso.
Poi si rivolge agli altri: “Amici miei, ora seri e formali, vi prego. Abbiamo visite.” Si gode un attimo le facce perplesse e poi spiega. “A quanto pare Yaranno, la figlia del nostro amico Granduca, che si è fatto così gentilmente massacrare stamattina, per darci gloria e fama, mi chiede udienza.”
I commenti si sprecano, malgrado la richiesta di serietà:
“Coraggiosa la dama a sfidare il leone nella sua tana.”
“O forse solo stupida, fossi in lei, io cavalcherei a briglia sciolta per scappare il più lontano possibile.”
“Beh magari è pure graziosa e a qualcuno dirà fortuna stanotte.”
Vengono tutti zittiti da un gesto brusco. Mentre le porte della sala vengono aperte. Il principe stesso si raddrizza, sistemando meglio il semplice corsetto imbottito che indossava sotto l’armatura. Afferra la faretra e il suo arco composito, che aveva appoggiato accanto al trono, e se li sistema in grembo. Il segno universalmente riconosciuto del potere temporale ed è lui ora a comandare qui.
Dal fondo della sala scortata da due suoi ufficiali entra una piccola processione.
Alla testa è una dama slanciata che avanza imperiosa, vestita di un lungo abito di seta con decori floreali in trama dorata, il capo coperto da un velo tenuto fermo da un diadema. Le braccia nude.
Alle sue spalle due ancelle vestite più semplicemente e un paggio con lo scudo di famiglia del granduca ricamato sul corsetto di velluto nero.
Una delle due ancelle tiene in braccio un cane. Minuscolo, bianco e nero dal pelo lungo e setoso.
Barid, schiena dritta, il visto immobile e congelato, come si conviene nelle udienze formali, li osserva e, mentre si avvicinano lentamente navigando il pavimento di marmi intarsiati, si accorge di quanto si stesse sbagliando con la prima impressione.
La dama, evidentemente la figlia del Granduca, è tutt’altro che una dama, malgrado l’abito da corte che indossa, malgrado il diadema in cui spicca un rubino grosso come il pollice di un uomo: è una ragazzina, appena adolescente, forse, magra e sottile come un giunco. Ha un viso ovale, e grandi occhi blu scuro dall’aria severa. È graziosa e potrebbe persino diventare una donna attraente malgrado la pelle pallida e i lunghi capelli di un biondo chiaro molto plebeo.
Le due ancelle alle sue spalle sono invece due giovani donne dai capelli corvini, una in particolare dalla carnagione più scura e dagli occhi neri e brillanti attira piacevolmente gli sguardi.
Il paggio è anche lui solo un ragazzo, dall’aria serissima e preoccupata, si guarda in giro, come a tentare di soppesare chi ha di fronte con la limitata esperienza della sua età. Alla cintura ha un kajar, un coltello a doppio filo dalla lama larga e robusta tipico della zona.
La ragazza arriva ai piedi del trono. Gli occhi sono decisi, la bocca, piccola e graziosa, è serrata in una linea sottile. Non bada ai compagni che fanno ala intorno al trono. I suoi occhi sono fissi su Barid, il volto immobile, ieratico: conosce bene anche lei come comportarsi formalmente.
Gli sguardi del principe mezzosangue e della figlia del Granduca si incrociano quasi a sfidarsi, quasi a contestare il suo diritto a sedersi su quel trono, ma c’è poco da fare, è lui ad avere cinquemila armati dentro le mura, è lui ad essere circondato da uomini fidati.
È lei a fare la riverenza, elegantemente, con la schiena dritta, senza piegare il capo. Ancelle e paggio la imitano, piegando, loro sì, la testa.
“Cugino Barid, sono lieta di vederti.” La voce è giovane e sottile.
Che fare di ciò? Come mossa di apertura non è male: reclamare la loro parentela e la protezione e il rispetto dovuto al sangue reale che scorre anche nelle sue vene. Barid, nell’osservarla, sente uno strano disagio, una sensazione quasi di dejà vu.
“Ti do il benvenuto Cugina Yaranno, ti ringrazio di essere venuta a salutarmi.”
“Come potevo non venire a salutarti, quando sei venuto tu a trovarci. Non è solo un piacere, ma un dovere per me come Signora di questo castello e figlia di mio padre, il Granduca di queste terre.”
La sensazione di dejà vu si risolve in un attimo: gli ricorda la Regina. Fisicamente non potrebbero essere più diverse, ma l’estraniante sensazione di incongruità tra il formalismo delle situazioni e dei modi, la rigidità dei portamenti, dei vestiti e il viso giovane e aperto è esattamente la stessa.
La Regina sa come incantare gli astanti, a malapena ventenne, il viso velato, coperta dai broccati dei sacri paramenti reali. Lo scricciolo di fronte a lui fa lo stesso, e basta uno sguardo ai suoi amici per capire che funziona: non ci sono atteggiamenti strafottenti o sorrisetti ironici come al loro solito: sono seri, silenziosi e incantati.
Nemmeno lui rimane indifferente, ma sa come rompere l’incantesimo. Lo aiuta la sicurezza, quasi arroganza della ragazzina, che lo disturba e lo irrita.
“Ringrazio la tua personale gentilezza, Cugina.” La voce si indurisce nello sferrare il colpo. “Ma devo purtroppo ricordarti che non sei più Signora di questi luoghi che ora, per diritto di conquista, spettano alla nostra Sovrana, e non a te. Allo stesso modo tuo padre ha rinunciato ai suoi titoli e ai titoli della vostra famiglia nel momento stesso in cui ha compiuto il sacrilegio di ribellarsi.”
I toni sono taglienti, dimostrano la sua irritazione di fronte a quella specie di imitazione, forse troppo.
La ragazza di fronte a lui accusa il colpo, ma non si scompone. Non cambia espressione.
“Se così è, spero di poter almeno essere Tua ospite, Cugino.”
Stupida, stupida arrogante. Si sporge in avanti.
“Ti sbagli anche su questo Cugina. Non puoi essere nostra ospite, in quanto figlia di un traditore, morto nel tentativo di ribellarsi, sei piuttosto sotto la nostra custodia in attesa del giudizio reale.”
L’incantesimo si rompe. La schiena e le spalle si piegano e si rattrappiscono, la testa si china. Gli occhi si abbassano sul pavimento. Adesso non ricorda più la Regina, ma una ragazzina che per giocare si è messa gli abiti troppo grandi della madre ed è stata rimproverata.
Il cagnetto, in braccio all’ancella, capendo i toni se non le parole, lo guarda fisso, le labbra arricciate in un ringhio. Il paggio capisce anche le parole e lo fissa anche lui, nei suoi occhi c’è rabbia, la mano è scesa alla cintura vicina all’impugnatura del coltello. Chissà chi dei due è più pericoloso: il cagnolino o il ragazzino. Basta lanciare uno sguardo, comunque, per piegare entrambi.
“Ora ritirati nelle tue stanze.” È un ordine. “Ti convocherò io.”
Gli occhi blu non sono più duri, le labbra non sono serrate, c’è smarrimento nello sguardo. Si guardano, non dice nulla. Sente il disagio che corre nella sala, è una magia diversa, ma pur sempre una magia pericolosa. Quella della fanciulla in difficoltà, ci sarebbe quasi da aspettarsi che uno dei suoi compagni provi a difenderla.
Meglio chiudere questo incontro. Barid le concede solo una voce marginalmente più gentilmente.
“Vai ora, Cugina, verro io da te.”
La riverenza è comunque perfetta, si gira e lascia la sala nel silenzio.
Alla chiusura delle porte si sente come un sospiro. Prima che qualcuno apra bocca, prima che qualcuno dei suoi amici possa esprimere un dubbio, è lui a parlare.
“Sorvegliatela. Visto che non è scappata, evitiamo che lo faccia ora.” Sceglie uno dei suoi compagni con uno sguardo. “Metti di guardia qualcuno che non si lasci incantare dagli occhioni di una duchessina… o da qualcosa di più sostanziale, le ancelle mi sembrano sveglie e pratiche.” Una pausa. “Tenete d’occhio il ragazzino è così giovane da essere di sicuro pronto a qualsiasi cretinata.” Un cenno di assenso. Riprende “Poi.. dove eravamo rimasti?... sì.” Fissa il compagno che ancora tiene sottobraccio il libro mastro. “Fai subito distribuire i premi e le paghe, almeno un anticipo. Che i soldati abbiano i soldi per pagarsi pasti, vino e donne, senza creare problemi. Fai pubblicare il solito editto che tutto deve essere pagato e che le punizioni sia note.”
“Come uso?”
“Sì, l’uso: frustate per i furti, decapitazione per l’assassinio, impiccagione se stuprano la moglie o la figlia di un borghigiano. E, ultima cosa, poi la finiamo qui: altro editto. A nome della Regina. Che sia distribuito in città e in provincia: da.. diciamo dopodomani, per 7 giorni terrò udienza in questa sala e chiunque sia colpevole di tradimento potrà venire qui a rendere omaggio alle insegne reali e tornare nella pace dell’Autocrate, il perdono completo. Solite formule, solite clausole. Provvedete sia presente qualche sacerdote per benedire il tutto.”
Si stiracchia e riappoggia faretra e arco a terra.
“E ora? Doverosa ispezione di cucine, dispense e soprattutto cantina?”
Nessuno sembra contrario.


È la ragazza districandosi da lui a svegliarlo. Ancora prima di aprire gli occhi, la riafferra per un fianco abbondante e se la ritrascina addosso senza resistenza, viene ricompensato con la vista ravvicinata di un seno generoso, ci schiocca un bacio e solo poi chiede, la voce ancora impastata dal sonno.
“E dove vai? Gioia mia.”
La ragazza lo guarda dall’alto in basso a cavalcioni sulle sue gambe. Una massa enorme di riccioli scuri e un sorriso allettante.
“C’è qualcuno alla porta, Signore.”
Solo adesso si accorge del bussare.
Voce roca, ha bevuto decisamente troppo: “Avanti.”
La porta si apre, la ragazza questa volta si libera, a forza, con un urletto indignato e si copre avvolgendosi nella coperta, lasciando lui nudo.
Per fortuna è uno dei suo i compagni e non si scompone. Sorride ironico inarcando un sopracciglio. Visto che non è solo si mantiene circa sul formale.
“I miei omaggi a Vostra Grazia. Mi scuso di dovervi disturbare.”
“Già, a quest’ora.” In effetti non ha idea di che ore siano, ma gli sembra fin troppo presto. “Che succede, un esercito nemico è su di noi? È apparso qualche demone che pretende obbedienza e sacrifici?...”
L’altro lo interrompe.
“La Vostra ospite ha fatto i capricci…”
“Capricci?”
“Ha chiesto di lasciare i suoi appartamenti per recarsi alla cappella del castello per una orazione mattutina, Vostra Grazia.”
“Per tutti i Santi, dov’è il problema?”
“L’ordine non sembrava questo. E il Decurione non sapendo che fare a chiesto a me.”
Che idiozia.
“Gli ho detto di lasciarla andare. È pur sempre del Sangue. Ho sbagliato, Vostra Grazia?”
“No, hai fatto bene, può girare per il castello, ci mancherebbe. Mica voglio la rinchiudiate nelle secrete. Ho detto solo di non farvela scappare.”
“Ho mandato il Gatto con lei.” Uno dei Decurioni più fidati. Un pendaglio da forca, ma un veterano capace e devoto. Di certo non il tipo da lasciarsi commuovere da una ragazzina, o distrarre dalla tetta di una ancella.
“Bene, così. La raggiungerò nella cappella più tardi. Dopo colazione, tanto tra quartine e cinquine del mattutino il tempo dovrei averlo.”
La porta di richiude. Lui rimane seduto sul letto un attimo per recuperare lucidità e si rigira verso la ragazza.
“Che dolore, mi sa che non avrò altro tempo per te stamattina. Mia bella Aksino.”
Lei distesa, il lenzuolo tirato fino alla gola, una coscia soda che spunta sul lato, lo guarda, con una risata ricca e profonda.
“Hax’ino” gli fa con la pronuncia corretta del suo nome.
Lui sorride, è dalla sera che si prendono in giro a vicenda.
“HA.. HAk… ahhh niente. Non riuscirò mai a pronunciarlo sai? Mi sa che dovrò trovarti un soprannome.”
Lei ride di nuovo. Si vede il bel seno ballare sotto il lenzuolo.
“È bella la vostra pronuncia. Mio Signore.” Chissà perché non aveva dubbi che le andava bene comunque. “Sembra il nome di un gran signora con l’accento che gli date.” Beh forse da gran signora no, per niente anzi. Ma perché deluderla?
Si alza, dalla borsa le prende due Pezze d’argento e gliele stringe nella mano.
“Ora vai via. Magari stasera faremo il bis.” Perché no. la ragazza e piacevole, e ci sono un paio di aspetti da esplorare in maniera più completa.
Lei sguscia via dal letto, sgambettando, gran bella vista. Lo bacia con tutto l’ardore che può dare la ricca, inaspettata, somma di due Pezze, e gli sorride mentre raccoglie le sue cose.


La Cappella Palatina è imponente quanto la Sala del Trono. A pianta ottagonale è grande quasi come il Tempio Maggiore di una città di buone dimensioni. Ha preso il posto di uno dei torrioni laterali durante qualche rimaneggiamento dei secoli precedenti.
La cupola altissima è degna di ammirazione, i finestroni illuminano l’interno, facendo scintillare le cornici dorate delle raffigurazioni dei 64 Spiriti Maggiori che sembrano sorvegliare chiunque entri.
All’entrata trova il Gatto, pantaloni a sbuffo, corsetto di pelle, la solita affidabile faccia spiacevole marcata da una cicatrice sulla guancia (battaglia di Gunna, un colpo di sciabola, se lo ricorda bene, erano nello stesso quadrato). Per rispetto al luogo sacro, con le divinità non si scherza, si è tolto il cappello e lo ha lasciato su una panca accanto a lui.
Sciabola, coltellaccio e una pistola (sicuramente carica) adornano la cintura, quelle non le ha lasciate.
Saluta l’arrivo di Sua Grazia, con un pigro cenno del capo, il massimo che si possa ottenere da lui e ottiene in cambio un ammicco, subito distoglie lo sguardo tornando a puntarlo all’entrata di una delle cappelline laterali.
Il paggio è lì, vestito come la sera prima, senza coltello questa volta. Occhieggia a sua volta il Gatto, disagio e preoccupazione evidenti. Un sorcetto tenuto d’occhio da un gattaccio di strada.
Barid lascia anche lui il cappello entrando, si inchina in direzione dell’altare centrale dell’Uno, per poi accostarsi alla cappella. Il paggio si scosta. La Duchessina è lì inginocchiata con le ancelle a recitare.
La cappella, era in effetti prevedibile, è quella della Dama Asa delle Quattro Vite, a chi dovrebbe rivolgere le sue preghiere una ragazza della sua età?
L’interno profuma di cera e incenso. Dietro il piccolo altare ci sono le cinque immagini di pragmatica della Dama: sono evidentemente dello stesso autore, uno stile piacevolmente antiquato.
Ci sono le quattro vite: la Giovane Vergine, la Madre del Demone, la Monaca Penitente e la Santa alla Corte dei Santi. Al livello superiore il Martirio. È abbastanza stilizzato, il sangue non abbonda: il corpo nella rozza tunica monacale giace decapitato sul suolo della foresta, la testa è poggiata su un tronco in secondo piano, il capo rasato, gli occhi aperti fissano gli astanti, la bocca è atteggiata a un sorriso dolce e malinconico.
Molto bello.
Le recitazioni e le preghiere non durano ancora a lungo, i tempi li ha calcolati bene.
Le tre donne finiscono, compiono l’ultimo inchino, a cui lui si unisce, e si alzano.
“Cugino, Buongiorno.” Riverenza. È vestita più semplicemente questa mattina, la gonna lunga e il corsetto stretto accentuano la sua altezza e il suo fisico minuto. I capelli sono intrecciati e nascosti sotto un velo bordato di un brillante colore rosso reale.
“Cugina, ti saluto. Sono venuto a scusarmi con te, per l’incomprensione di questa mattina.” Una pausa poi si arrende. “E per essere stato troppo duro e scortese ieri sera.” Lei accetta nobilmente con un cenno e un sorriso. “Ti prego di farmi sapere qualunque altra cosa ti possa servire.”
Si avviano uno a fianco dell’altro verso l’uscita della Cappella. Lei ringrazia, banali scambi di cortesie formali. A un certo punto però sembra fare un gran respiro, si irrigidisce, le piccole mani si stringono a formare piccoli pugni.
“Due cose in verità vorrei chiederti, Cugino, spero che tu voglia concedermele.”
“Sono in mio potere?”
“Sì, penso di sì.”
“Dimmi allora.” Barid, si guarda bene dallo sbilanciarsi, o fare promesse al buio. Le promesse nel suo ruolo sono sempre pericolose. È l’amato fratello della Regina Autocrate, può tutto, ma tutto viene con un costo, anche per lui.
La ragazza parla senza guardarlo.
“Posso dare sepoltura a mio padre e ai miei fratelli? Ti sarei grata, se potessi farmi riavere i loro corpi.”
Si fermano sotto una delle grandi arcate, ancelle e paggio, rispettosamente, un paio di metri indietro. Lei continua evitare di guardarlo, i 64 spiriti li fissano. Dei, Spiriti, Demoni e Santi ascoltano. Sa come e dove porre le sue domande la ragazza. Cosa mai può dire in questo luogo di fronte a loro?
“Te li farò riavere e avranno sepoltura.”
“Completi. Anche le loro teste?”
Questo era molto, per quanto volesse essere pio e rispettoso, almeno qui dentro. Ordini e tradizioni andavano rispettati, le teste dei traditori andavano esposte.
“Le farò tornare qui, e saranno sepolte con i corpi, appena sarà in mio potere, la cosa può soddisfarti?”
La ragazza alza il viso e lo scruta
“Immagino di non poter chiedere di più, vero?”
“No, Cugina, scusatemi.”
All’improvviso, lei annuisce e sorride:
“Grazie, Cugino, mi levi un grande peso dal cuore. Mi fai felice. Lo sapevo che non eri né cattivo, né malvagio.”
“Bene sono contento.” Non si può far a meno di ricambiare il sorriso di fronte a un complimento così particolare. “Cos’altro posso fare per te?”
“Una sola altra cosa, ma sono sicura è molto più facile. Gradiresti pranzare con me, se puoi? Apprezzerei la tua compagnia.” Sorride, occhi pudicamente abbassati la perfetta rappresentazione della giovane dama.
“Sarà un piacere per me, Signora. Oggi stesso? Bene. Allora è deciso. Immagino che in cucina conoscano bene i tuoi gusti.”
   
 
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