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Autore: Adeia Di Elferas    07/08/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ottobre stava volgendo al termine e il cielo si faceva di giorno in giorno più grigio e scorbutico, tuttavia Caterina trovava che il clima fiorentino fosse decisamente più mite e cordiale di quello forlivese, per tacere di quello di Milano.

Anche se pure quella mattina era sceso qualche leggero fiocco di neve, per il momento non si prevedevano gelate e anche di notte il freddo non era paragonabile a quello patito a volte in Romagna o in Lombardia nello stesso periodo dell'anno.

Quel pomeriggio stava raggiungendo le Murate, con discrezione, come sempre, e con la testa tanto affollata di pensieri da non vedere nemmeno le strade della città che si dipanavano oltre la finestrella della carrozza.

A parte il pensiero abbastanza costante di sua figlia Bianca, la cui apertura aveva portato la Tigre a interrogarsi sempre più spesso sul suo futuro e sulle sue eventuali prospettive, e la fremente attesa per riabbracciare Giovannino – che avrebbe rivisto solo la notte seguente – c'erano altri interrogativi e altri spettri a tormentarla.

In buona parte era Fortunati la causa di tanto rimuginare. Quella mattina, quando si era presentato alla villa per farle sapere che aveva finalmente il permesso di recarsi quel giorno stesso alle Murate, le aveva fatto presente che, non sapeva nemmeno lui bene quando, avrebbe ricevuto una visita importante, da parte niente meno che di Lucrezia Medici, mogli di Jacopo Salviati, quel Jacopo Salviati a cui il piovano aveva chiesto di perorare la causa del Marchese di Mantova presso la Signoria.

Per la Sforza quella donna non era solo un prezioso tassello della trama che stava cercando di ordire per mettere il più possibile al sicuro se stessa e i suoi figli, ma anche una parente abbastanza stretta del suo terzo marito, Giovanni. Convinta che non tutti i Medici le fossero ostili come il cognato Lorenzo, voleva far bella impressione su Lucrezia, ma voleva anche mostrarsi per quella che era... Per vari motivi temeva che le due cose fossero inconciliabili, e ciò la portava a tormentarsi più del dovuto.

Infine Francesco aveva detto una mezza frase, appena prima che si salutassero, che l'aveva precipitata per qualche minuto in un doloroso passato.

“Questa notte non immagini cosa io abbia sognato...” le aveva detto, con un'espressione strana, zittendosi poi.

“Che cosa?” l'aveva incalzato lei, accigliandosi, un po' curiosa e un po' preoccupata.

“Ho rivissuto in sogno il giorno in cui è morto Ottaviano Manfredi.” le aveva confidato, con espressione greve: “Quando l'ho assolto, mentre...”

Aveva a quel punto scosso il capo, probabilmente per non dover dire proprio a lei 'mentre moriva annegato nel suo sangue', e poi l'aveva salutata con un cenno del capo e se n'era andato.

Caterina non aveva capito l'utilità di quella rivelazione, ma ne stava percependo tutta la pesantezza a livello emotivo. Era da parecchio che non ripensava al giovane Manfredi e alla sua tragica fine.

Non poteva dimenticare che lei, tra Giovanni da Casale e il faentino, aveva scelto il secondo. Se non fosse morto in quel maledetto giorno di aprile, probabilmente ci sarebbe stato lui al suo fianco, durante l'assedio del Borja, a Ravaldino, e non Pirovano, e, a quel punto, molte cose sarebbero state diverse...

Deglutendo per trattenere una lacrima di rabbia, la Leonessa si accorse di essere arrivata a destinazione. Ringraziò il suo accompagnatore e poi, con passo svelto e senza guardarsi attorno, andò al portone del convento, aspettando che qualcuno andasse ad aprirle.

 

“Credi davvero che andarci adesso sia una buona idea?” chiese Jacopo, guardando la moglie che gli dava le spalle.

La donna, finendo di controllarsi osservando critica il proprio riflesso nel piccolo specchio, annuì e poi, voltandosi verso il marito, riconfermò: “Lo credo. Meglio adesso che più avanti. Voglio incontrarla e voglio capire che donna sia.”

“Pensi che ti basterà parlarle pochi minuti, per riuscirci?” domandò il Salviati, non volendo dubitare a voce alta dell'intuito della Medici, ma trovando, comunque, molto ottimista la sua prospettiva.

Lucrezia sollevò un po' un sopracciglio e poi, con un mezzo sospiro convenne: “Lo so che non sarà semplice... Ma non voglio riporre speranze in qualcuno senza averci mai nemmeno parlato.”

“Lo sai, comunque, che quella donna potrebbe non essere un grande appoggio, per noi, vero?” si sentì in dovere di indagare lui.

Negli anni, aveva imparato che quando sua moglie riceveva una delusione, specie in campo politico o diplomatico, da qualcuno di cui aveva iniziato a fidarsi, alla fine stava a lui pagare lo scotto. Gli bastava ripensare a quando, anni addietro, la Medici aveva quasi rischiato di finire sulla forca, benché donna e benché incinta...

“Caterina Sforza non è un nome qualunque...” provò a ricordarle, colto da un'improvviso desiderio di non lasciarla andare alle Murate a incontrarla: “Pensaci bene: è questo di cui abbiamo bisogno? O per noi si rivelerà solo un problema, o addirittura un pericolo?”

Lucrezia schiuse le labbra, abbassando lo sguardo, fingendo di sistemarsi il vestito.

“Lo so che è la madre di un Medici, ma...” continuò il Salviati, ma a quel punto la donna lo interruppe.

Sollevando solo l'indice, con fare ammonente, lo indusse a tacere e poi, allargando le braccia, per farsi vedere meglio, domandò: “Allora... Sembro una pia donna che va ad assolvere i suoi pii doveri di devota cristiana?”

Lo sguardo di Jacopo la stava indagando via via in modo sempre meno casto, e la consapevolezza di aver instillato nel marito certi pensieri, malgrado l'abito accollato e la pettinatura castigata, compiacque molto la Medici.

“Attento a pensare troppo a certe cose...” gli disse, dandogli un rapido bacio sulle labbra: “O dovrò fermarmi alle Murate molto più del previsto.”

“Perché..?” domandò lui, confuso, dopo aver ricambiato il gesto della moglie con un altro bacio, più caldo del primo.

“Perché dovrei fermarmi a pregare per la tua anima.” scherzò lei, mostrando la lingua e poi emettendo una breve risata: “Non ho tutto quel tempo... Non oggi.”

Il Salviati, facendo eco al sorriso della moglie, concluse in modo più serio di quanto avrebbe voluto: “Mi raccomando, stai attenta.”

Lucrezia lo rassicurò, dicendo che lo sarebbe stata e poi, accarezzandogli per un lungo istante la guancia, gli ricordò: “Se Piero si lamenta ancora per il dente – e si indicò istintivamente l'incisivo superiore, in memoria di quello perso il giorno prima dal figlio di quasi sei anni – la pasta per la gengiva arrossata è nel mio mobiletto. Fagliela mettere dalla balia, ma stai a guardare, perché ho sempre paura che gliene metta troppa e non va bene, perché se ne manda giù più del dovuto gli fa male...”

“Lo so, lo so.” la rassicurò il marito, per poi scherzare: “Inizio a credere che dovresti stipendiarmi come balia aggiuntiva. Credo di essere l'unico uomo, a Firenze, a sapere come si cambi un neonato e come si consoli un bambino che ha perso un dente da latte...”

“Te ne lamenti, ma so che sei contento di curarli.” ribatté, soddisfatta, la donna.

Il Salviati non trovò altro da dire, e, mentre la moglie andava alla porta della stanza, pronta a uscire e raggiungere il convento, le disse solo un'ultima cosa: “Ricordati, comunque, che quella donna ha ucciso.”

La Medici si fermò un solo istante e poi, guardandolo, fece un cenno col capo e assicurò: “Non lo dimentico, stai tranquillo.”

 

Galeazzo aveva finito da poco di esercitarsi con Bernardino. Come il fratello, teneva ancora in mano la spada, ma le sue attenzioni erano rivolte a tutt'altro.

Lui e il Feo, che si erano allenati quasi di nascosto, usando, in modo poco ortodosso, la biblioteca come arena, stanchi, avevano deciso di andare a riposarsi, ma, già arrivati al piano superiore, qualcosa li aveva distratti.

C'era più di una serva, alla villa, ma quella che aveva attratto i loro occhi era una delle più giovani e, a giudizio di entrambi, la più bella in assoluto. Era appena arrivata e si era messa a pulire uno dei mobili al piano di sotto, canticchiando tra sé. Era stato per via della sua voce che si erano accorti della sua presenza. Senza bisogno di dirsi nulla l'un l'altro, Galeazzo e Bernardino si erano fermati e si erano messi a occhieggiare di sotto, verso di lei.

“Avete usato quelle spade per tirare di scherma?” la voce di Ottaviano, strascicata e pesante come sempre, fece voltare entrambi i fratelli.

Bernardino non smosse minimamente, mentre Galeazzo, in un riflesso involontario, provò a nascondere l'arma dietro di sé. In effetti la loro madre aveva vietato loro di usare quelle spade ritrovate nella villa al loro arrivo, e l'aveva fatto per due buoni motivi. In primis, anche se un po' spuntate e senza filo, si trattava di armi vere e proprie e non da addestramento, quindi il rischio, per loro, di farsi male, era notevole. In secondo luogo, era bene, secondo la Tigre, che nessuno fosse troppo cosciente del fatto che in casa c'erano due spade, se non volevano che la notizia arrivasse alle orecchie di Lorenzo, che le avrebbe subito requisite, temendo che, in qualche modo, potessero tornare utili alla cognata.

Non a caso, il Feo e il Riario, avevano atteso che la Leonessa partisse per le Murate, per recuperare le armi e mettersi a fare esercizio.

“Non sono affari tuoi, cosa abbiamo usato per fare cosa.” disse Bernardino, sollevando il mento e cercando di far valere la sua statura, discreta, ma pur sempre degna di un ragazzino di quasi undici anni.

Ottaviano, che a quell'ora del pomeriggio indossava già – o, forse, ancora – gli abiti da camera, guardò il Feo con aria schifata e poi, rivolgendosi a Galeazzo, disse: “Ma lo senti, che lingua che ha? È proprio vero che ai pezzenti non si dovrebbe dare il permesso di fare figli, visti i risultati...”

Bernardino, che stringeva in pugno la spada, ebbe un moto di rabbia incontrollato e sollevò l'arma, avanzando un passo verso il fratellastro. Toccò a Galeazzo, svelto e attento come sempre, fermarlo appena in tempo.

“Non ne vale la pena.” disse, rigido, guardando il Feo dritto negli occhi: “Vai in camera, a lui ci penso io.” sussurrò poi, scorgendo nelle iridi infiammate del fratello più piccolo un'ombra di pianto, come se la collera fosse tanto grande da non potersi manifestare in altro modo, alla sue età, se non con le lacrime.

Bernardino, avendo cura di tenere sempre con sé la spada, corse via, senza voltarsi indietro, grato, nel profondo, a Galeazzo per avergli dato modo di sottrarsi a quell'ulteriore scontro con Ottaviano.

“Avresti potuto evitare.” disse il Riario più giovane all'altro.

Questi, che in realtà si era spaventato molto allo scatto del piccolo Feo, deglutì e ribatté, con tutta l'acidità di cui era capace: “Anche nostra madre avrebbe potuto evitare di fare un figlio con uno stalliere.”

Galeazzo non disse nulla. Guardava il fratello e, come sempre, stentava a credere di avere il suo stesso sangue. Ottaviano era molle, sfatto, con gli occhi pesti e l'espressione sempre annoiata. Era trasandato, eppure non rinunciava a cose superflue, come acconciarsi i capelli nello stesso modo in cui li portava il loro defunto padre, benché non fosse più una pettinatura di uso comune.

Era un uomo, aveva ventidue anni, e il suo aspetto lo confermava in pieno, con la sua barba sfatta e la sua voce profonda, eppure aveva qualcosa che lo faceva considerare da tutti un eterno ragazzino viziato e vizioso.

“Che stavate facendo?” chiese il Riario più vecchio, guardando oltre il parapetto delle scale, cercando di capire cosa Galeazzo e Bernardino stessero guardando fino a poco prima.

Al piano di sotto si poteva scorgere senza troppa fatica il profilo di una delle serve. Ottaviano la conosceva abbastanza bene, almeno in un determinato senso.

“Ho capito...” soffiò, mentre il fratello, accanto a lui, restava ancora fermo al suo posto, la spada lungo il fianco e un'espressione grave in volto, che lo faceva sembrare più vecchio: “Farai sedici anni a dicembre, ma ancora ti limiti a guardare, come fanno i bambini...”

“Non ho tempo di stare ad ascoltarti...” provò a sganciarsi il più giovane, sentendosi punto sul vivo.

Ottaviano, senza sapere nemmeno lui perché, forse per punirlo del fatto che Galeazzo era sempre stato il preferito della loro madre, non voleva chiudere la questione, ma voleva rivalersi sul fratello in qualche modo, finse di annusare l'aria e commentò, insinuante: “Fai bene, in fondo, a limitarti a guardare... Sei sudato come un animale... Puzzi più di un caprone. Anche se ti facessi avanti, lei non ti vorrebbe mai, nemmeno se anche tu la pagassi.”

“Su questo ho qualche dubbio – riuscì a contrattaccare Galeazzo, malgrado avesse la bocca secca e le mani gli tremassero di rabbia, nel rendersi conto di una verità che andava a togliere ogni poesia a ciò che si era permesso di immaginare fino a poco prima – se per due soldi ha accettato te, significa che accetterebbe chiunque.”

Ottaviano fece una mezza risata e poi, mentre il fratello si allontanava in fretta, gli gridò dietro, con rancore: “Sì, bravo! Crediti migliore di me solo perché sei il preferito di nostra madre! Intanto non sei in grado nemmeno di portarti a letto una serva che è qui al tuo servizio! Sei patetico!”

Non volendo ascoltare nemmeno una delle parole che uscivano dalle labbra del fratello, Galeazzo si mise a correre e poi, arrivato in stanza, lanciò la spada in terra, ignorando il clangore che ne arrivò, e si buttò sul letto, prendendo a pugni il cuscino per la frustrazione. Odiava il modo di ragionare di Ottaviano, eppure, nel profondo di sé, si trovava a dargli quasi ragione, e tanto gli bastava per sentirsi nauseato e deluso da se stesso.

Anche quell'esplosione di collera, che l'aveva portato ad accanirsi sul guanciale, lo faceva vergognare di sé. Cercava sempre di controllarsi, di essere misurato... Da qualche tempo faticava a riconoscersi. Si faceva mille domande su se stesso, sulla propria vita, sul proprio futuro, e più lo faceva, più si sentiva inadeguato e confuso.

Abbandonandosi supino, chiuse gli occhi, posandosi una mano sul petto. Sentiva il cuore correre e il respiro accelerare. Cercò di dirsi che forse stava solo attraversando un momento difficile. Forse era colpa del suo corpo, che cambiava in fretta, facendosi via via sempre più adulto, la sua voce che non era più quella di prima... Si sfiorò la guancia, trovandola ispida di barba, in alcuni punti. Ancora non si radeva, ma presto avrebbe dovuto iniziare...

Con un sospiro pesante, si tirò su a sedere. Stava diventando un uomo e rendersene conto lo spaventava. Avrebbe voluto qualcuno con cui confrontarsi, qualcuno che potesse essergli da esempio, che lo capisse. Ottaviano, come età, avrebbe potuto essere il suo punto di riferimento, ma non ne era in grado.

E questo gli metteva ancora più ansia, perché senza un esempio da seguire, nemmeno come fratello maggiore, come poteva lui sperare di esserlo per Bernardino, che sembrava averlo eletto a sua Stella Polare?

Come in un lampo, la mente di Galeazzo tornò alla serva che aveva guardato assieme a Bernardino.

Si innervosì per due motivi. Innanzitutto perché Ottaviano, anche se indirettamente, gli aveva fatto capire che anche lei era stata una delle serve con cui si era divertito in cambio di poche monete. E poi perché pensare a quanto accaduto l'aveva portato a pensare a Bernardino, che, molto più piccolo di lui, sembrava avere la metà delle sue ansie, quando si parlava di donne.

Distrattamente, si passò una mano sulla fronte, trovandola ancora molto sudata. Si annusò il camicione e si rese conto che almeno su una cosa il suo fratello maggiore aveva ragione: aveva bisogno di togliersi di dosso l'odore lasciato dall'addestramento.

Con un sospiro lungo e pesante, lasciò il letto e decise che sarebbe andato a cercare Bianca, l'unica, in quella casa, che fosse in grado di dargli buoni consigli.

 

Caterina detestava quelle ore di attesa. Come la volta prima, dover restare alle Murate aspettando di incontrare suo figlio Giovannino era simile a una tortura.

Suo Ubbidienza, di certo sicura di farle cosa gradita, le aveva subito fatto incontrare di nuovo sua nipote Cornelia, che, meno intimidita, le si era avvicinata e le aveva dato un goffo abbraccio.

Nel suo modo di cercarla, così come nei tratti del suo volto, la Tigre non riusciva a non vedere Ottaviano, ma, malgrado ciò, voleva con tutta se stessa riuscire ad amare in modo sincero quella bambina. Rendersi conto che era più difficile nella pratica che nella teoria la mortificava.

Mentre la osservava, non riusciva a non pensare al suo primogenito e, in particolare, quel giorno, a quando l'aveva sentito, di recente, dileggiare Galeazzo. Non aveva capito il fulcro della questione, quando si era imbattuta in loro, alla villa, ma a spanne avrebbe potuto dire che il Riario maggiore stesse scherzando il più giovane per la sua inesperienza in fatto di donne.

Era stato, in realtà, proprio per riguardo a Cornelia, e pensando a lei, che la Leonessa era riuscita a non intervenire in modo violento. Invece di schiaffeggiare Ottaviano, come avrebbe fatto se avesse seguito l'istinto, e imporgli di scusarsi con Galeazzo che, vergognoso, si era fatto rosso in viso e non riusciva a ribattere, l'aveva solo congelato con un'occhiata. Invece, poi, di ricordargli che era meglio non avere esperienza, come il fratello, piuttosto che essere un prevaricatore, violento e prepotente come era stato lui fin da ragazzino, gli aveva solo intimato di allontanarsi e lasciare in pace Galeazzo, che, in difficoltà, si era dileguato più in fretta del fratello maggiore, quasi che fosse lui, quello in difetto.

Ricordando quell'episodio, stare vicina a Cornelia si era fatto ancor più complicato, perciò dopo poco la Sforza aveva chiesto a Suor Ubbidienza di essere lasciata sola, promettendo, comunque, che avrebbe passato altro tempo con la nipote, ma più avanti.

Aveva allora passato buona parte del pomeriggio nella sua cella, ma era arrivata al punto che, così sola e tra quattro pareti tanto vicine l'una alle altre da sembrarle una gabbia, si era sentita in trappola.

Aveva allora provato a uscire nei giardini del convento, ma era stato quasi peggio. La natura, addormentata in quell'ottobre, sembrava anch'essa un animale in gabbia, nel cortile quadrato delle Murate. Aveva percorso una decina di volte il perimetro sotto al colonnato e poi, intravedendo finalmente un essere umano, si era illusa di trovare una monaca con cui scambiare due parole, invece aveva capito che la figura che stava avanzando era quella di un uomo.

Riconosciuto il giardiniere che aveva già notato durante il suo primo soggiorno alle Murate, si era soffermato a guardarlo per un po', ma poi anche quel diversivo era stato fonte di nervosismo e basta.

Le erano tornate alla mente le parole di sua figlia Bianca, e, parallelamente, aveva ricordato a se stessa quale fosse la reale funzione di quel ragazzo in un convento pieno di donne, molte delle quali giovani, e all'improvviso non era più stata in grado di guardare verso di lui con la stessa noncuranza.

Tornata all'interno, si era arresa all'evidenza che uno dei pochi svaghi che le erano in effetti concessi era la preghiera. Seguendo il silenzio, che in quel posto era qualcosa di tangibile, dotato, quasi, di una propria essenza, arrivò alla cappella dove la maggior parte delle monache era racchiusa in preghiera.

Si era sistemata su una delle panche in fondo da pochi minuti quando Suor Elena in persona le si mise accanto e le bisbigliò, appena udibile per non disturbare le altre suore: “C'è una visita per voi.”

Siccome Caterina la guardò stranita, la Superiora le fece capire che non era una cosa di cui preoccuparsi.

Anzi, le spiegò: “Credo che per voi potrebbe essere una visita molto importante.”

Senza farselo ripetere, mentre finalmente collegava lo cose, e capiva che doveva essere Lucrezia Medici, colei che era giunta a farle visita, la Leonessa si alzò: “Non l'aspettavo tanto presto.” si permise comunque di dire.

“Capirete in fretta – ribatté Suor Elena, mentre erano già nel corridoio – che Madonna Medici preferisce agire che aspettare...”

Da quel momento in poi le due donne rimasero in silenzio, camminando in fretta verso lo studio personale della Superiora.

Prima di aprire la porta, fu proprio quest'ultima ad avere un'esitazione. Caterina si rese conto che stava combattendo con se stessa, probabilmente perché indecisa se restare o meno. In fondo, quello era il suo monastero e aveva sempre detto molto chiaramente di voler essere informata su tutto ciò che accadeva sotto il suo tetto.

Quella volta, però, doveva esserci qualcosa di più importante perfino del suo senso di controllo e comando, perché, seppur con una certa riluttanza, finì per dire: “Vi lascio sole. Fate con calma. Non vi verrò a disturbare finché non sarete voi a venirmi a dire che lo studio è di nuovo libero.”

La Tigre la ringraziò e poi aprì la porta, richiudendosela subito alle spalle.

Seduta davanti alla scrivania c'era una donna, che non si voltò subito. Aveva il capo coperto da uno spesso velo scuro, che la faceva sembrare quasi una vedova, benché, Caterina lo sapeva bene, avesse un marito di nome Jacopo Salviati, lo stesso Jacopo Salviati che Fortunati aveva individuato come loro possibile appiglio presso la Signoria.

La Medici, avvertendo la presenza della Leonessa alle sua spalle, si prese un secondo per mostrarsi in volto. Era tesa, ma non voleva darlo a vedere. Aveva aspettato così tanto quell'incontro che ora faceva fatica a dominare l'espressione del proprio volto.

Solo quando fu certa di essere moderatamente impassibile, si girò, alzandosi dalla sedia.

La Sforza non disse nulla, così come la fiorentina, limitandosi a osservarla. Indagò per qualche istante la sua espressione, più nervosa di quanto si era aspettata da una donna come la Medici, descritta sempre come padrona di sé, ma ciò che la colpì davvero furono i suoi occhi.

Anche se avevano un taglio e un colore diversi, nell'espressione le ricordarono in modo violento quelli di Giovanni.

“Spero che un giorno arriveremo a chiamarci sorelle.” esordì Lucrezia, facendo un passo avanti e provando a sorridere, malgrado la tensione la frenasse anche in quello.

“Spero che un giorno potremo definirci alleate.” la corresse Caterina, suonando più dura di quanto volesse: “Di sorelle ne ho già, ma nessuna di loro, a oggi, la posso chiamare davvero mia alleata.”

La Medici non ribatté, trovando quell'incipit molto indicativo del tipo di donna che aveva davanti.

“Avete voluto incontrarmi per parlarmi.” disse la milanese: “Adesso siamo qui. Ditemi tutto.”

   
 
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