Baker Street, dolce
casa
Capitolo 11
John doveva ammettere che andare al museo con Sherlock era
stata un'idea un po' istintiva, ma una che aveva dato i suoi frutti. Il viso
del suo amico si era illuminato al suggerimento ed era rimasto così durante la loro
intera gita. Non aveva visto Sherlock così felice e spensierato da... beh, da
prima che lui morisse.
Avevano cercato tra gli insetti nomi altrettanto divertenti e
ne avevano trovati diversi, ma niente poteva competere con la suprema ilarità di Sherlock Holmes che gli mostrava una roccia chiamata 'Cummingtonite'. Non era affatto il solito tipo di umorismo di Sherlock, il che
lo rendeva ancora più divertente agli occhi di John.
E nel frattempo, Sherlock aveva riso, parlato e sorriso più
di quanto John lo avesse mai visto. Gli aveva ricordato il loro primo caso
insieme e il suo post sul blog sulla sua prima impressione di Sherlock. ‘Era affascinante.’
Lo era ancora,
illuminato dall'interno dalla gioia per la loro
uscita, fornendo ulteriori informazioni sulla maggior parte dei pezzi esposti e
ridendo così forte che dovette sedersi quando John gli raccontò di una gita
scolastica al museo che si era conclusa con lui che aveva fatto scattare
per errore l'allarme antincendio e provocato l’evacuazione dell'intero
edificio.
Solo guardarlo in quel modo rendeva John automaticamente felice e non riusciva a ricordare quando fosse stata l'ultima volta che aveva
trascorso una giornata così piacevole.
Cenarono fuori dopo il museo, in un piccolo ristorante vietnamita
che avevano scoperto durante uno dei loro casi e in cui non erano andati da un
po'. Il cibo era delizioso come John ricordava ed era contento di vedere
Sherlock mangiare davvero dando prova di godersi il pasto.
Prima che se ne rendesse conto, il sole era tramontato e si
stava facendo tardi. Tornarono a Baker Street e si fermarono davanti alla porta
di casa, non ancora del tutto disposti a mettere fine alla giornata. John si
sentiva in modo ridicolo come un adolescente ad un appuntamento con la sua
prima cotta.
Sherlock si morse il labbro e la mossa lo fece sembrare come
se non avesse più di quindici anni: "Vuoi venire su? Prendiamo una tazza
di tè, guardiamo un po' di tv spazzatura?”
John esitò. Dio, lo voleva. Lo voleva sul serio.
Amava guardare la tv spazzatura con Sherlock. Ma erano già quasi le
nove di sera.
"Non posso – disse con rammarico – Si sta facendo tardi
e devo tornare a casa. Domani devo lavorare. – E poi si ricordò della sua
fidanzata – E Mary sarà preoccupata, naturalmente."
"Certo," ribatté Sherlock, in un tono un po' più
freddo. All'improvviso, l'atmosfera amichevole tra di loro sembrava essersi trasformata
in qualcosa di imbarazzante e scomodo.
"Bene, allora è meglio che tu vada – ribadí Sherlock,
voltandosi verso la porta – Mi mandi un messaggio quando arrivi a casa?"
"Sì, certo, – mormorò John, colto alla sprovvista dal
brusco cambiamento di umore di Sherlock – Ehi, sono stato benissimo oggi, va
bene? E spero che potremo farlo di nuovo, presto."
Sherlock si ammorbidì visibilmente: "Ogni volta che
vuoi, John. Basta solo che lo dici. Buona notte."
"Buonanotte," mormorò John e guardò Sherlock
scomparire all'interno. Sospirando, si voltò e iniziò a camminare verso la
metropolitana.
Non poté fare a meno di fermarsi di nuovo, però, e voltarsi
ancora una volta verso quella casa familiare. Nel profondo, non voleva
andarsene. Questa era casa, era sempre stata casa, e ogni parte di lui gridava
contro la decisione di allontanarsi da lì.
Le finestre al piano di sopra erano ancora buie: Sherlock non
si era preso la briga di accendere una luce? Forse John avrebbe dovuto tornare
indietro, controllare se stava bene, assicurarsi che quel pazzo bastardo non fosse
caduto dalle scale al buio.
‘Non essere sciocco,
Watson.’ Scosse la testa e si voltò risolutamente verso la stazione di
Baker Street. Sherlock sarebbe stato bene.
Una volta che fu sulla metropolitana e diretto verso
casa, John si concesse di rilassarsi e ripensare alla giornata. Tutto sommato
era andata abbastanza bene. Si erano divertiti molto e avevano condiviso un
buon pasto e fino a quando erano arrivati davanti alla porta, tutto era stato
perfetto. ‘Almeno finché non ci siamo
ricordati che non vivo più lì,’ pensò John e poi si sentì immediatamente
in colpa per questo.
‘Mary – ricordò in
modo severo a se stesso – Vado a casa da
Mary, il posto a cui appartengo.’
Ma il dolore profondo nel petto non si attenuò nemmeno un po’.
*****
Sherlock chiuse la porta d'ingresso dietro di sé e vi si
accasciò contro. Sollevò una mano tremante al viso e non fu affatto sorpreso
quando lo trovò leggermente sudato. Un respiro tremante e un altro e un altro.
‘Respira – ricordò
a se stesso – Respira.'
Ma non ci riusciva. Il petto era troppo stretto e sembrava che
tutta l'aria fosse stata risucchiata fuori dal corridoio e che non ci fosse
abbastanza ossigeno e prima che se ne rendesse conto il mondo gli stava girando
intorno, macchie nere gli danzavano davanti agli occhi e le gambe si
rifiutavano di sostenere il suo peso.
Ormai conosceva i segnali e così si lasciò scivolare sul
pavimento e abbassò la testa tra le ginocchia, sperando che l'attacco di
panico passasse.
Si permise di passarci attraverso, tremante, cercando di rimuovere la
propria mente cosciente da ciò che accadeva e concentrandosi solo sul
respiro, nel tentativo di ottenere abbastanza ossigeno nei polmoni.
Ci vollero dieci minuti interi prima che sentisse di poter
sollevare la testa e altri sette prima di riuscire a rialzarsi con l'aiuto del
pomello della porta.
Fu proprio in quel momento che notò la signora Hudson in
piedi sulla porta del suo appartamento.
"Oh, povero caro, – proferì – Un altro?"
Lui scrollò le spalle:
"Sembra così, signora Hudson."
"Che cosa lo ha causato questa volta? Oh, no, non
rispondere. Dimentica persino che lo abbia chiesto. Che stupida."
Fece un passo in avanti e gli prese il viso tra le mani:
"Oh, mio caro ragazzo. Dai, ti faccio una tazza di tè. Non osare
discutere."
Sherlock non aveva né l'energia né la volontà per fare una
cosa del genere, quindi si limitò a seguire la padrona di casa nel suo
appartamento e le permise di guidarlo verso una sedia al tavolo della cucina.
Bastò una leggera spinta per farlo sedere in modo pesante e
appoggiò i gomiti sul tavolo e si nascose il viso tra le mani, ascoltando i
suoni rassicuranti della signora Hudson che preparava una decente tazza di tè
mentre lui aspettava che il suo corpo smettesse di tremare.
Non era la prima volta che la signora Hudson lo coglieva nel
bel mezzo di un attacco di panico e lei aveva avuto solo bisogno di essere avvisata
un'unica volta che toccarlo mentre era nel mezzo di un attacco non era una
buona idea. I suoi riflessi, affinati da due anni di fuga da varie organizzazioni
criminali, non erano adatti per un tocco casuale mentre la sua mente era spenta. Si sentiva ancora in colpa ogni volta che pensava a quanto fosse
livido il polso di lei nel punto in cui l'aveva afferrata.
Il leggero tintinnio della porcellana sul legno lo distolse
dai suoi pensieri mentre la signora Hudson gli metteva davanti una tazza di tè
fumante: "Ecco qua, mio caro. Due cucchiaini di zucchero, proprio come
piace a te."
Riuscì ad alzare la testa e a farle un debole sorriso:
"Grazie, signora Hudson. A volte davvero non so che cosa farei senza di lei."
Lei sorrise e gli accarezzò la mano: "Bazzecole. Adesso
bevi il tuo tè e calmati un po'. E poi puoi raccontarmi che cosa è successo.
Non pensare che io non abbia notato che John è passato di qua prima e che voi
due siete saliti su un taxi."
Sherlock sorrise di nuovo: "Non avrei mai pensato una
cosa del genere. Se lei non l'avesse visto di persona, sono sicuro che la
signora Turner le avrebbe raccontato tutto. Ha preso un nuovo cuscino per il davanzale?
Senza di quello le farebbero male le braccia."
"È per il suo gatto, quante volte te lo devo dire?" protestò
la signora Hudson senza troppa convinzione.
Sherlock la guardò: "Oh, per favore. Non ho mai visto il
suo gatto sedersi su quel cuscino da quando lei lo ha messo lì. È lì solo perché
così può appoggiarci le braccia mentre guarda che cosa succeda in strada. E
inoltre, il suo gatto è morto due mesi fa."
La signora Hudson non poteva ribattere su questo. Invece, si
limitò a spingere un piatto di biscotti verso di lui e bevve un sorso di tè. I
suoi occhi erano gentili e pazienti mentre lo osservava e Sherlock si rilassò
sotto il suo sguardo fermo.
Alla fine, quando la tazza fu mezza vuota, lui riuscì a
raccontarle tutto del viaggio suo e di John al museo e della cena.
"Oh, che bello! – batté le mani deliziata lei – Sono così
felice che andiate di nuovo d'accordo, è stato terribile non averlo qui e
vederti così giù."
Sherlock fissò la tazza, gli angoli della bocca si
abbassarono: "Sì. È venuto qui più spesso e ci stiamo scambiando dei
messaggi, quindi suppongo che sia qualcosa. È solo che... non è abbastanza,
signora Hudson. Eravamo proprio fuori da questa porta e gli ho chiesto se volesse
venire a prendere un tè e a guardare un po' di tv spazzatura, non mi
guardi così, non lo intendevo come un eufemismo, potevo dire che lo voleva.
E tutto quello che lui ha detto è stato che gli sarebbe piaciuto, ma che doveva
tornare a casa da Mary."
La voce si spezzò su quel nome e lo detestò.
La signora Hudson sospirò e gli prese la mano: "Oh,
Sherlock. Non gliel'hai ancora detto?"
Il detective rise e fu inorridito nel rendersi conto che suonava un po'
umido: "E dire che cosa, esattamente? Lui non vuole sapere nulla di tutto
ciò. L'altro giorno mi ha persino chiesto del nostro matrimonio . Voleva sapere
perché ci siamo sposati e quando gli ho detto che era perché l'aveva voluto lui,
ha annuito e se ne è andato e da allora non ne ha più parlato. È come se stesse
evitando di proposito il problema e non so dire se lo faccia perché sa e non
vuole che io lo dica ad alta voce, o perché non lo sa e ha paura di scoprire
qualcosa che potrebbe mettere in crisi la sua idea ben precisa di chi siamo."
La signora Hudson gli strinse la mano: "Beh, è sempre
stato davvero molto testardo, il nostro John. Ma io penso che dovresti
dirglielo comunque."
"E poi cosa? – chiese Sherlock – Nel peggiore dei casi se
ne andrà di nuovo e io non avrò nemmeno questo relitto di amicizia che è rimasto. Nella
migliore delle ipotesi cercherà di deludermi in modo gentile e superfluo,
e vederlo sarà assolutamente insopportabile. Dovrò firmare quei maledetti
documenti e probabilmente anche partecipare al suo matrimonio perché se non lo
facessi, tutti chiederebbero perché il suo presunto migliore amico non ha potuto
farlo. Non che dovrebbero domandarselo, perché il numero di persone in questa
città che potrebbero essere rimaste con un dubbio di alcun genere al riguardo si riduce esattamente ad uno. E quello è John stesso."
Fece un respiro tremante: "Non posso farlo, signora
Hudson. Non posso dirglielo. Tutto quello che posso fare è prolungare il più
possibile ciò che ho, fino a quando alla fine lui perderà la pazienza e mi
costringerà a firmare i documenti. Poi si girerà subito e... e la sposerà come se questo
non avesse importanza, perché non ne ha, per lui. E lui si aspetterà che io sia lì e
io ci sarò. Ci sarò, al suo matrimonio, perché non posso dirgli che preferirei buttarmi giù dal St. Bart, questa volta sul serio, senza dirgli il
perché."
Abbassò la testa e chiuse gli occhi. Dio, quanto faceva male.
Solo il pensiero faceva male e lui non riusciva nemmeno a decidere quale di tutti
questi scenari fosse il peggiore.
La signora Hudson si alzò, girò intorno al tavolo e lo
abbracciò forte: "Oh, Sherlock. Mio povero, caro ragazzo. Non meriti di
farti spezzare il cuore in questo modo."
Sherlock cercò di trarre un respiro, ma a metà si trasformò in
un singhiozzo soffocato e rabbrividì tra le sue braccia, avvolgendole le
proprie intorno alla vita e premendo il viso contro il suo stomaco, tentando in
modo vano di nascondere le lacrime. Era così stanco di fingere che non gli
facesse male.
"Non tornerà mai più indietro, – sussurrò una volta che riuscì a
ritrovare la voce – Se n'è andato e non posso riportarlo a casa, qualunque cosa
faccia."
"Shhh, – mormorò la signora Hudson, cullandolo come se
fosse un ragazzino – Lo so che fa male, mio caro. Ma ti prometto che supererai
tutto questo. E lui tornerà in sé. Potrà essere testardo come un mulo, ma non è
un completo idiota. Non potresti mai amare un deficiente."
Sherlock ridacchiò e tirò su con il naso: "Sto
cominciando a dubitarne, in realtà."
Tuttavia, si sentiva meglio; anche solo
parlarne e sfogarsi un po’ e avere il conforto della signora Hudson l'aveva aiutato.
"Vedrai, – disse la signora Hudson, premendogli un bacio sulla
sommità della testa – il nostro John tornerà a casa. Sa a quale luogo
appartenga, anche se non lo ammetterà ancora, nemmeno a se stesso. Alla fine
ci arriverà. E una volta che sarà a casa, avrai tutto il tempo del mondo."
NdT
E anche in questo capitolo, Sherlock dimostra tutta la propria disperazione alla persona sbagliata. La signora Hudson dà pure il consiglio giusto, ma i nostri sono due salami incorreggibili.
Spero di non avere fatti errori. Mi ero dimenticata che fosse mercoledì.
Grazie a chi stia leggendo e commentando.
A mercoledì prossimo.
Ciao ciao.