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Autore: wutheringwendy    13/08/2021    0 recensioni
“Amore.”, sussurrò, nascondendo subito dopo il viso tra la sua schiena e il materasso.
Si sentì scottare di febbre. Lo chiamò di nuovo.
“Hm.”
“Sei sveglio?”
“No.”
“Andiamo in spiaggia?”
“Inizia tu, però prima vai un po’ a fare in culo.”
“Come sei turpe.”
“Hai messo su il caffè?”
“Sei bello.”
“Tu sei adorabile, ma lo saresti ancora di più se mettessi su il caffè.”
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Stava davanti alla finestra aperta; le tende si gonfiavano e sgonfiavano come polmoni, e doveva combattere contro la tentazione di balzellare indietro per non farsi toccare, come quando era bambina.
Strano, però. Non sentiva l’aria sfiorarle la pelle. Le tende si muovevano, eppure non sembrava muoversi un filo di vento, fuori. Gli alberi erano ombre scure e frastagliate, immobili come giganti profondamente addormentati che aspettano lo squillo di una tromba per alzarsi. La sigaretta si consumava tra le sue dita senza che avesse toccato le sue labbra neanche una volta: iniziò a sentire il calore della brace sulle dita, ma non fece nulla.
C’erano dei vuoti che non sapeva come riempire. Le sembrava solo di forzarvi dentro oggetti di forme sbagliate, o troppo piccoli. Non aveva più neanche voglia di fumare.
Riusciva a ignorarli parzialmente, durante il giorno. Ma a quell’ora della notte in cui sapeva che non poteva succedere nulla di buono, e in cui le tende si muovevano come polmoni e gli alberi restavano impassibili e eterni fuori dalla sua finestra, e lui dormiva a pancia sotto nel suo letto, in un groviglio di lenzuola bianche, si era concessa di guardarvi dentro.

 

“Che cosa ci fai lì?”
“Che ci faccio? Nulla. Guardo il fiume. Mi godo le vertigini.”
“Viene da piovere.”
“Strano. Non piove mai qui.”
“Non essere sarcastica. E non sbuffare. Non guardarmi così.”
“Così come?”
“Con quegli occhi da folletto rompipalle.”
“E come sarebbero gli occhi da folletto rompipalle?”
“Così.”
“Come faccio a vedere, secondo te?”
“...”
“...”
“Immagino che dovrai fidarti di me, allora.”
“Sì, ciao.”
“Ehi.”
“Eh.”
“Sono una persona di cui ci si può fidare, io.”
“L'esperienza mi ha insegnato che sono proprio quelli come te, che dicono puoi fidarti di me con quegli occhi, che poi ti fottono.”
“E io non so cosa dirti, allora.”
“Non devi dirla la fiducia. Devi farmela capire.”
“E non è la stessa cosa?”
“Ha. Proprio no, davvero.”
“Senti, possiamo almeno andare al coperto? Ho sentito una goccia.”
“No.”
“Perché no? Ti prenderai un malanno.”
“Non importa. E' da tanto che non sento la pioggia addosso. Cosa stai facendo?”
“Mi siedo qui con te.”
“Scusa, non avevi fretta di andare al coperto?”
“Non ho alcuna intenzione di lasciarti qui da sola, qui fuori, in una notte come questa.”
“Guarda che non mi butterò di sotto.”
“...”
“Non volevo...”
“Lo so che non volevi. Per questo sono qui. Mettiti la mia giacca.”
“Non fare il cavaliere.”
“Non faccio il cavaliere. Faccio l'adulto responsabile.”
“Ti ammalerai.”
“Mi prenderò delle ferie.”
“E il lavoro?”
“Si fotta il lavoro.”
“… Ti ho mai detto che mi piace un sacco quando dici le parolacce?”

 

 

La mattina la trovò seduta a gambe incrociate davanti alla finestra. Le tende non si gonfiavano più; anzi, erano quasi impietrite da quell’afa vischiosa che aveva invaso tutta la casa. Ora sembravano gocciolare di umidità, tirate verso il basso da quel caldo imbecille che ti si appiccica addosso come uno strato di grasso, refrattario all’acqua, al sollievo.
Lui dormiva ancora. Dormiva sempre almeno fino alle nove, quando erano in vacanza.
Sospirava nel sonno.
Chissà a cosa stava pensando.
Sul cuscino, riccioli che sconfiggevano una ad una tutte le leggi della fisica e che gli davano quell’aria da eterno bambino inetto a crescere. Quando aveva gli occhi chiusi sembrava dimostrare almeno venti anni in meno, pensò lei, voltandosi verso il letto. Appoggiò il mento sul ginocchio. La stanza odorava dei costumi che avevano messo a stendere nella doccia e di sesso, anche se ancora lui non l’aveva sfiorata con un dito. Impregnava l’aria come una minaccia imminente.
Ma lui era così, incapace fisiologicamente di forzare qualsiasi cosa. In realtà non ne aveva mai bisogno; tutto gli si schiudeva naturalmente, sempre, come una vongola remissiva. Inclusa lei. Specialmente lei. Di tutti gli uomini che si erano invaghiti di lei nessuno era riuscito ad averla in maniera così assoluta, deliberata e quasi gratuita. Forse la verità stava proprio nel fatto che lui non era invaghito di lei. Forse non ne era nemmeno innamorato.
Lei non lo sapeva. E forse, a conti fatti, non sapeva nemmeno se avrebbero voluto saperlo.
Si stropicciò gli occhi, drenata improvvisamente dell’energia per compiere la più banale azione, come alzarsi, mettere su il caffè, infilarsi nell’incastro delle sue braccia
addormentate.
Non si sarebbe mossa. Quel peso che la trascinava verso il basso da giorni sembrava invincibile, e lei era una a cui non piaceva combattere.
Si domandò se fosse possibile sentirsi sempre così stanchi senza fare mai niente. Si domandò se non fosse piuttosto una sua peculiarità ontologica, sostanziale. Magari c’è chi nasce bravo in matematica, e chi invece nasce stanco.
Chissà.
Intanto, il caffè nella moka aveva preso a gorgogliare.

 

 

 

“Sai il mio più grande problema qual è?”
“No, dimmi.”
“Il mio più grande problema è che odio sentirmi vulnerabile con gli uomini. Odio che mi si guardi come un passerotto con l’ala spezzata o una bambina che è capitolata giù dallo scivolo e si è sbucciata un ginocchio.”
“Ma tu hai quell’aria lì. Tu sembri così. Sembri una bambolina di porcellana in bilico su una mensola, e sei così graziosa che uno molla qualsiasi cosa abbia in mano, un piatto di trenette, un libro, che ne so, e si precipita a tenerti in equilibrio per non farti cadere.”
“Ecco. Cristo.”
“Ma perché dici così?”
“Perché non voglio. Perché voi uomini cercate solo qualcuno da aggiustare, quando spesso, per non dire sempre, dovreste pensare ad aggiustare in primo luogo voi stessi.”
“Ah, beh, su questo non posso darti torto. Però permettimi un’osservazione.”
“Dai.”
“E' proprio questo che tu cerchi da un uomo. Vuoi sentirti accudita, contenuta. Arginata, anzi. Vuoi qualcuno che sembri più a posto di te per essere tu quella che può attaccarsi a lui, per una volta. Hai avuto la sfortuna di trovare gente poco sicura di sé stessa, che non significa avere strette le redini della propria vita, ma essere pienamente consapevoli dei propri limiti, dei propri guai e difetti. Ti sei fatta carico di molto, bambina, e ora qualcosa dentro di te ti sta chiedendo di farti dare il cambio. Ecco tutto.”

 

 

Inspirava il suo odore con la punta del naso schiacciata contro la pelle della sua schiena, mentre il sole avanzava verso lo zenit e lui non ancora non si svegliava.
Nemmeno coi petardi, pensava, mentre le sue dita tracciavano stelle e pentacoli sulla pelle di lui, calda e rilassata. Aveva un odore selvatico. Come se quei primi giorni di mare avessero sortito l’effetto di far assorbire alla sua pelle il profumo delle pinete, dei banchi di pesce, della lycra, dei cespugli di alloro.
Gli stava a peso morto da un po’; iniziò a sentire piccole gocce di sudore emergere dalla propria pelle - era pur sempre luglio, era pur sempre quasi mezzogiorno, era pur sempre attaccata come una cozza patella alla sua schiena.
Lui non si svegliava, e lei aveva fame e voglia di essere assaggiata.
Ma lui non si svegliava.
Sbuffò.
“Amore.”, sussurrò, nascondendo subito dopo il viso tra la sua schiena e il materasso.
Si sentì scottare di febbre. Lo chiamò di nuovo.
“Hm.”
“Sei sveglio?”
“No.”
“Andiamo in spiaggia?”
“Inizia tu, però prima vai un po’ a fare in culo.”
“Come sei turpe.”
“Hai messo su il caffè?”
“Sei bello.”
“Tu sei adorabile, ma lo saresti ancora di più se mettessi su il caffè.”
Lei scosse la testa e lo morse forte sulla spalla.

 

La tentazione di guardarsi era forte, ma per qualche ragione entrambi si evitavano.
Un vento fresco si infiltrò nei capelli di lei, scuri e spessi, e li mosse per qualche istante.
Lui la guardava colmo di cose che avrebbe voluto dire, ma che non poteva, perché non conosceva le parole. Quanti capelli che hai, non si riesce a contare, sposta la bottiglia e lasciami guardare se di tanti capelli ci si può fidare.
“Sembri stanco.”, gli disse con dolcezza, piegando la testa di lato.
“Sono stanco. Tu invece sembri felice.”
Lei sospirò. “Sono tranquilla. Forse è la stessa cosa.”
Si accese una sigaretta e prese un sorso dalla tazzina di caffè che le aveva messo davanti un cameriere reso profondamente misantropo dal caldo. Era agosto.
Le aveva sbattuto il caffè davanti con un clangore cacofonico e a lei era parso che le avesse bestemmiato sottovoce, come se ordinare un macchiato in quel bar sul mare fosse stato sconveniente quanto entrare in convento e domandare una maledizione.
Pensò che in quella particolare striscia di terra che dalle montagne si gettava direttamente nel mare, senza diradare in spiagge morbide e accoglienti, fosse quasi necessario sviluppare un atteggiamento scorbutico. Come si può pretendere della tenerezza da un mondo così tagliente e senza mezze misure, dopotutto? Chi vive lì è gente che cresce in pendenza, imparando ad arrampicarsi su rocce inospitali per poi buttarsi direttamente in un mare profondo e freddo. Lei sorrise, mordendosi un labbro, trovando finalmente una logica dietro la sua ostinazione di andare sempre lì, in vacanza, con lui. Niente mezze misure. Nessuna dolcezza tra gli scogli scoscesi e aguzzi: solo limoni.
Voltò il viso verso il viale costeggiato di oleandri bianchi che si muovevano mollemente al vento; poi, piantò gli occhi scuri su di lui, che era invecchiato dall’ultima volta che lo aveva visto e sembrava uno che dormiva troppo e non riposava abbastanza. Un ricciolo si muoveva allo stesso ritmo del vento contro la sua fronte corrugata.
“Sei bella.”, le disse. “Non te l’ho mai detto abbastanza.”
Lei sorrise, lusingata. Gliel’avevano detto in tanti; glielo aveva detto anche suo marito, più e più volte, ma non credeva mai a niente che non venisse dalla sua voce.
“Cosa abbiamo sbagliato?”, chiese lui, appoggiandosi coi gomiti sul tavolo. Non c’era ombra di rimpianto nella sua voce, perché era un concetto che proprio non concepiva; questa era la più grande lezione che lei, ragazzina e impaurita, aveva imparato da lui. Le aveva insegnato a fare tutto quello che le andasse di fare, citandole più e più volte uno dei suoi film preferiti e soffiandole sul collo, di notte, che non aveva le ossa di vetro, e poteva permettersi di scontrarsi con la vita quanto voleva.
Nessun rimpianto, dunque. Solo una profonda, lacerante nostalgia, amara come un limone acerbo, e con la stessa scorza durissima.
Lei scrollò le spalle e aspirò dalla sigaretta. “Tutto, forse.”
“Lo sapevi quello che avresti avuto da me.”, disse lui, e suonò più saccente di quanto avrebbe voluto. Quel tono da divinità scorbutica che sa tutto, e deve comunque vedere come la vita porti lontano dal filo di quel che avrebbe dovuto essere, era una seria sfida alla pazienza dei più.
Lei lo odiava con una certa solarità, quando usava quel tono: poi lo baciava mentre ancora non aveva finito di ridere, e allora lui si sentiva allentare come un pugno stretto da troppo tempo.
“E tu da me. Eppure.”
Rimasero un secondo in silenzio. Lui ebbe come l’impressione che qualcosa dentro la sua testa stesse per convincerla ad allungarsi lungo il tavolo e baciarlo; magari facendo anche uno di quei gesti plateali come sbattere tutto per terra - il posacenere, il centrotavola, il caffè.
Invece si limitò a guardarlo con un’apocalisse di non detti tra le ciglia.
“Hai finito il caffè?”, chiese lui, scuotendo lievemente la testa, come se una zanzara gli stesse volando nell’orecchio.
Lei annuì. Schiacciò la sigaretta nel posacenere e raccolse la borsetta.
Lui si alzò, e con la mollezza galante che l’aveva fatta infatuare di lui fin dal principio le porse una mano per aiutarla ad alzarsi dalla sedia.

 

“Non direi che abbiamo sbagliato, comunque.”, disse lei, stringendosi al braccio che lui le aveva offerto. Lui cercava di mantenere un contegno, ma il vento continuava a violentare le sue narici col profumo fresco dei suoi capelli, e se avesse dovuto dare ascolta all’istinto avrebbe voluto spingerla dentro il primo vicolo deserto e prenderla alzandole il vestito.
Invece, teneva le mani infossate nelle tasche dei pantaloni leggeri, sentendo il proprio ginocchio infortunato scricchiolare ad ogni passo, sentendosi sempre più lontano dall’uomo che l’aveva amata così tanto sopra quegli scogli. Quello che le baciava la schiena dopo averle allacciato i vestiti, che le preparava il caffè e la prendeva in giro per essere così ciecamente romantica e ingenua.
La donna che aveva al braccio, invece, era la stessa che vent’anni prima lo aveva accarezzato nel sonno, pensando che dormisse, ogni notte. Non era invecchiata; semplicemente, il suo corpo aveva iniziato a rivelare la scorza che la gioventù aveva sempre dissimulato con una morbidezza di pesca, una delicatezza bambina che la faceva sembrare molto più inesperta e innocente di quanto non fosse in realtà. Lui, invece, si era ripiegato su sé stesso come un vecchio albero morto. Arido e fragile, aveva smesso di muoversi per paura di spezzarsi.
“Non abbiamo sbagliato?”, chiese lui, sistemandosi una ciocca di capelli che il vento continuava a spettinare.
“No. Abbiamo fatto quello che ci sembrava giusto allora. Io ero molto innamorata di te, sai.”
“E allora cosa è stato?”
“Ma è così importante saperlo?”
“Ti sei sposata, e non è stato con me.”
Lei gli lanciò uno sguardo che non lasciava sottintesi. Uno sguardo da folletto rompipalle. Insopportabile.
“Sei tu che non mi avresti sposata mai.”, ribatté lei. “Non facevi che ripetermi che ero troppo matta.”
Lui rise, amaro.
“Ci voleva uno più matto di me.”, continuò lei, saggiamente.
“O più stupido.”, concluse lui, che voleva a tutti costi che lei fosse al corrente della sua gelosia.
Lei colse e ruotò gli occhi al cielo.
“Mi rincuora che tu non mi abbia sposato.”, esalò lui, sentendo che anche qualcosa all’altezza dello sterno aveva preso a scricchiolare.
“Ah sì?”
“Sì. Non facevi che dire che non avresti mai potuto sposare un uomo di cui eri follemente innamorata.”
Lei gli diede una spallata gentile come quando aveva vent’anni, forse per nascondere un lieve imbarazzo.
Follemente innamorata. Era stato così. Non aveva mai provato una febbre simile per nessun altro, e l’intensità con cui questo l’aveva travolta l’aveva terrorizzata. Si sentiva persa in quella sensazione morbosa che la coglieva allo stomaco quando incontrava i suoi occhi attraverso una stanza, una tavolata di amici o uno specchio poco illuminato. Una vertigine che non aveva mai fine.
“Io invece sì, ti avrei sposata.”
“Perché non eri follemente innamorato di me.”
“Perché ti amavo.”
Lei si fermò di colpo.
“Ma tu non amavi me.”, continuò lui, crudele e senza scrupoli.
Lei si voltò a guardarlo e si sentì cadere sulle ginocchia pur senza muovere un muscolo.
Lui la guardava senza rancore. 
“Non so come abbia fatto a convincerti, lui.”
Lei non sapeva cosa dire, quindi lo guardava. Lui aveva le mani sepolte nelle tasche e si stringeva nelle spalle.
“Adesso, ad esempio, se fossi minimamente normale dovresti dirmi che lui non ti ha convinto a fare proprio niente. Che volevi sposarlo, passare il resto della tua vita nel suo letto, dargli dei figli. Che sono fuori posto, uno stronzo e un presuntuoso, e che non mi vedi da almeno vent’anni e dovrei starmene fuori dai cazzi tuoi. Che sei finalmente felice, e che non hai bisogno che un vecchio idiota come me venga a farti la morale sulla vita, sull'amore.”
Le si riempirono gli occhi di lacrime e strinse i pugni contro il vestito.
Lui immaginò che stesse digrignando i denti dietro le labbra rosa: una tagliola nascosta da un bocciolo. Le venne da dirle poi ti viene male alla mascella, smettila. Ma tacque.
“Sai perché non mi stai dicendo di farmi i cazzi miei?”
Silenzio.
“Perché sono un fantasma del passato. Perché tu, qui, nel tuo presente da donna serenamente sposata, non mi vuoi più. Perché sei una bambina così determinata e sicura, e preferiresti farti spellare che tornare indietro sui tuoi passi. Perché stai morendo dalla voglia di dirmi che ho ragione, che non mi hai mai amato ma che sei stata pazzamente innamorata di me; che per te l’amore era la serenità, e con me la serenità non l'hai mai avuta. Perché mi hai dato troppe responsabilità, piccola, mi hai chiesto di crescerti e mi hai chiesto di innamorarti di te. Ma non ci si può prendere cura di qualcuno se sei pazzamente innamorato di lui. Se bruci di febbre rischi solo di contagiarlo.”
“Sei un coglione.”, disse lei, semplicemente. “Un pomposo, enorme, endemico coglione.”
Ma sorrideva.

 

 

“Puoi dirmi chi sono?”
“Io?”
“Sì. Dimmi chi sono, secondo te. Non mi fido più di me.”
“Sei un folletto rompipalle.”
Cuscinata in pieno volto che gli fece cadere gli occhiali.
Li raccolse ridendo e godendosi l’espressione di finta offesa che le arricciò le labbra. Gliele accarezzò con il pollice, risvegliandole un certo appetito alla base della schiena.
“Sei una bambolina di pepe. Un fuoco d’artificio al gusto di zucchero filato.”
“Quante stronzate dici.”
“Sei il mio angioletto. Il mio angioletto follemente innamorato di me.”

 

 

 

 

 

Qui delle divertite passioni

per miracolo tace la guerra,

qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza

ed è l'odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose

s'abbandonano e sembrano vicine

a tradire il loro ultimo segreto,

talora ci si aspetta

di scoprire uno sbaglio di Natura,

il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,

il filo da disbrogliare che finalmente ci metta

nel mezzo di una verità.

(I limoni, Eugenio Montale)

   
 
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