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Autore: The Custodian ofthe Doors    13/08/2021    2 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo XIV- Return.
 
 
 
Sobbalzò d’improvviso, la strada dissestata doveva esser peggiorata per colpa della pioggia che c’era stata nei giorni precedenti. Di fianco a lui, seduta sul lungo sedile del passeggero, Amore guardava con tranquillità e senza il minimo interesse il panorama di campagna che scorreva fuori dai finestrini della vecchia corriera.
La gonna liscia non aveva alcuna piega, le scarpette erano lucide come se qualcuno vi avesse appena passato la cera e la camicetta bianca pareva più immacolata del giorno in cui si erano conosciuti. Non sembrava minimamente che la ragazza avesse passato gli ultimi giorni dentro quei vestiti, che vi avesse dormito dentro, che vi avesse sofferto il caldo umido e asfissiante che dominava la piana in cui stavano passando. Giordano sudava come un peccatore in chiesa e lei pareva fresca come un fiore appena sbocciato, se non avesse intuito fin da subito che la giovane appartenesse alla stirpe divina si sarebbe domandato se forse il sole non gli avesse dato alla testa e se tutta quella situazione non fosse altro che uno strano scherzo della sua mente affaticata.
Cercò di mettersi più comodo sul sedile, aveva piegato con cura alcune coperte da usare come rialzi per poter arrivare al volante con più facilità, ma queste erano di lana grossa ed un po’ infeltrita, ottime per le nottate invernali. Peccato fossero in piena estate. 
Si sentiva letteralmente le chiappe andare a fuoco, ma dubitava quello fosse un buon argomento di conversazione con una signorina.
Una signorina che girava sola per le campagne Emiliane e saltava a bordo di una vecchia carretta rimessa in piedi da un ragazzino – sconosciuto – che sarebbe stato pronto a prenderla a legnate in faccia se solo non fosse stata una femmina.
Il fatto che a “legnate” l’avrebbe dovuta prendere con quei due rametti secchi che aveva trovato e che era rimasto paralizzato dalla paura quando l’aveva sentita parlare, maledicendosi per non essersi reso conto che qualcuno si fosse avvicinato a lui, era argomentazione inutile.
Concentrato a forza sulla strada, vuoi per le sue pessime condizioni, vuoi per l’imbarazzo che ancora aleggiava tra i due, non si rese conto del sorriso divertito della giovane, che lo guardò di sottecchi leccandosi le labbra.
 
«Non mi hai ancora detto perché vuoi raggiungere Venezia.» disse lei d’improvviso, strappandolo dai suoi pensieri pieni d’imbarazzo.
La giovane aveva l’acquolina in bocca, i tumulti che s’aggitavano nel petto del ragazzino erano quanto di più delizioso potesse percepire in miglia e miglia.
Lui deglutì, tenendo ostinatamente lo sguardo sulla strada.
 
«Devo- c’ho da fa na cosa. Ho promesso a un amico mio che, passando pe la Serenissima, per andare verso Triste, c’hai presente? Ecco, sarei passato per la laguna e avrei buttato n’occhio a-» si bloccò, guardò la ragazza di sottecchi e arricciò le labbra. «Mica lo so se te lo posso di’, sai?»
Amore rise piano. Oh, ma lei già lo sapeva, lo sapeva benissimo cosa il suo “amico” gli aveva chiesto di controllare, ma voleva sentirglielo dire ad alta voce. In lei, lentamente, stava montando il desiderio d’esser graziata dalla fiducia cieca e immacolata del giovinetto seduto al suo fianco. Voleva che si fidasse di lei come faceva con il suo amico. Più di quanto non facesse con lui.
 
Con Ade.
 
«Perché mai non potresti? È forse un segreto reale?» domandò giocosa.
Giordano storse il naso. «Potrei di’ de sì, in effetti.» gracchiò con la sua vocetta acuta ma pensierosa.
«Si parla d’intrighi, allora!» salò su battendo le mani.
«Na specie, sì…»
«Di corte?»
«No.»
«Di lotte politiche?»
«Te pare a te che me lo dicevano a me?»
«Allora di complotti di guerra.» continuò sempre più divertita.
«Noneee*» sbuffò allora lui innervosito da quel continuo chiedere. La guardò ancora con la coda dell’occhio e si domandò se potesse fidarsi. Le donne parlavano sempre tanto, magari le diceva qualcosa ora e poi lei lo spifferava alla comare alla prima occasione. Però- arricciò le labbra, forse poteva fidarsi di lei? In fondo era una cosa piccola, da niente.
«Dimo che c’entra col nome tuo?» provò in modo vago.
La giovane lo guardò deliziata. «Un problema di cuore allora. Ed il tuo amico ha una tale stima di te da mandarti da solo per questo lungo viaggio, per accertarsi che la sua donzella stia bene? Avrebbe dovuto mandare qualcuno di più adulto, non credi? Che come minimo avesse la barba.»
Giordano incassò la testa tra le spalle e s’incupì di botto: capiva di non esser certo il prototipo di perfetto e grande uomo d’avventura, non era certo Sandokan, ma neanche a prenderlo in giro in modo così palese.
Storcendo di nuovo il naso in un’espressione infastidita più della precedente, Giordano scalò la marcia gracchiante della vecchia corriera e si accostò al ciglio della strada, tirando il freno a mano un po’ duro, che ancora si muoveva a scatti, voltandosi poi per fronteggiare la ragazza.
 
«Senti un po’, mi dovrà ancora crescere la barba ma ti ricordo che sono arrivato fin qui da solo, sulla corriera che io ho riparato, da Roma fino a oltre Bologna, dritto verso Venezia e poi fuori dal Regno d’Italia. Godrò di certo di un minimo di stima da parte del mio amico, ma so anche il fatto mio.» disse risoluto, guardandola dritta negli occhi.
Le sue iridi sembravano rosee come pietre preziose, liquido e lucide come l’ambra e Giordano per un attimo dimenticò tutto il fastidio che le parole dell’altra avevano suscitato in lui.
Amore gli sorrise in modo dolce, affascinante, ipnotizzante, ed allungò lentamente la mano candida per carezzargli la guancia, la mascella, il collo.

«Sei senza ombra di dubbio alcuna meritevole della fiducia del tuo amico, ne sono certa. Ma sei ancora un fanciulletto, non hai ancora aperto gli occhi sul mondo degli adulti.» rispose soave.
Giordano deglutì. «Beh, c’ho quattrodic’anni, damme un attimo de te-»
«Non ne hai di tempo, Giordano. Sei in viaggio da solo, con più di una missione da portare a compimento con le tue sole forze. Forse non potrò aiutarti a farti crescere la barba- disse giocosa – ma posso aiutarti a crescere in tutt’altro modo.»
Le ultime parole le pronunciò ad un soffio dal volto del ragazzino che, stordito, si domandò quando la giovane si fosse avvicinata così tanto. Aveva un profumo così buono… sapeva di rose fresche e cera di candela, legna di citronella bruciata nelle buie notti d’estate, quando nella calura soffocante soffiava piano un fil di vento che portava ristoro e brividi sulla pelle accaldata, una carezza leggera come una piuma.
«Fu la tua bella Roma a darmi questo nome, a chiamarmi Amore, dolce come la frutta matura e morbida. Ma nella mia terra, il nome che mi diede mia madre, è ben diverso.» strusciò piano il naso contro quello del ragazzino, un lieve tocco che spanse il suo profumo. «Simboleggia l’amore in tutte le sue forme e se il tuo più caro amico ti ha affidato il compito di trovare la sua amata, allora avrai bisogno dei miei insegnamenti. Devi imparare cos’è l’amore, piccolo Gio, per poterlo riconoscere negli occhi della gente, per poterlo proteggere come il tuo amico ti ha chiesto di fare.»
Giordano balbettò parole confuso, gli occhi semichiusi, soffocato da un marasma di sensazioni, di odori, di suoni, che mai aveva sentito prima in vita sua.
«Chi sei?» domandò piano, timoroso di distruggere la magia che lo circondava.
La ragazza, la dea, stese le labbra carnose in un sorriso quasi predatorio, che ebbe il potere di scuotere Giordano in ogni sua più piccola particella.
«Mi chiamarono Eros e se accetterai, ti svelerò tutti i segreti di uno dei poteri più grandi dell’intero cosmo.»



 
*
 


Aveva mentito, ma questa non era poi una grande novità.
Cicno non apprezzava l’altezza, o per meglio dire, non l’apprezzava troppo quando non era lui a decidere quanto andare in alto, quando planare, quando chiudere le ali o aprirle per seguire una corrente.
La sua vita da cigno era stata dolorosa e piena di rabbia. Poteva ancora sentirlo ribollire nelle vene tutto il rancore che aveva provato in quel momento, tutto il disprezzo per quel padre che l’aveva messo al mondo, l’aveva abbandonato ventisei lunghi anni, facendogli grazia di un dono così pericoloso e crudele come la bellezza, per poi ricomparire nell’attimo in cui tutte le sue sofferenze stavano per giungere a conclusione.
Le ali bianche, candide, il collo lungo ed elegante, gli occhi dolci e lucidi, nulla di tutto quello aveva reso meno amara la sua trasformazione. La sua bellezza apparente non aveva impedito alla sua voce di starnazzare come un oca, d’emettere quel verso così orrendo e agghiacciante, quando aveva visto sua madre cadere dalla stessa roccia da cui lui si era gettato in cerca del conforto della morte.
Apollo aveva salvato il suo bel volto ma non quello della donna che aveva messo lui al mondo.
 
Senza rendersene conto strinse la presa al collo di Cade. Il ragazzo lo guardò di sfuggita, tutta l’emozione e l’adrenalina che aveva accumulato in corpo nel realizzare che finalmente aveva ritrovato i suoi compagni si quietò per un attimo, improvvisamente preoccupato per quel bell’angelo senza ali che sembrava sprofondato in un mare oscuro da cui solo lui stesso poteva riemergere.
Cade, ancora una volta, non era stupido. Cicno non aveva fatto mistero d’esser un dannato, così come non aveva negato di esserselo sostanzialmente meritato, vantandosi con ironia delle gesta che l’aveva portato ad aver una terrazza tutta sua.
Anche se Cade dubitava che quella fosse tutta ironia.
Ma era anche ovvio che per quanto il giovane portasse la sua croce a testa alta, con orgoglio quasi, ci fossero ombre del suo passato che pesavano sulla sua testa come una spada.
Forse era stata la luce, forse era stato il salto, anche se gli aveva detto che l’altezza per lui non era un problema visto che suo padre l’aveva trasformato in un cigno.
L’aveva trasformato in un cigno-
 
Per salvarlo dal volo giù dalla scogliera che aveva deciso di fare- cazzo!
 
Okay, forse il problema era la storia del “non ho alcun problema con le altezze”, forse era una cazzata e volare gli ricordava il giorno della sua quasi morte.
Aveva già detto “cazzo”? Beh, nel dubbio, cazzo.
 
«Stringi i denti, angioletto, un altro paio di salti e siamo arrivati, va bene?» cercò di confortarlo stringendolo di più a sé, anche se si sentiva stupido, abbastanza in imbarazzo e persino fuori posto nel tenere così saldamente tra le braccia un ragazzo, un maschio, che lo superava di una buona decina di centimetri.
Con Jonas non aveva provato lo stesso vago senso d’imbarazzo, di inadeguatezza. Il ragazzino gli ricordava i più piccoli dei suoi Liberty, e forse era anche per questo che lo chiamava uccellino, qualcuno di cui prendersi cura, un fratellino, una versione maschile e cresciuta della sua Annie. Chissà come stava ora i biondino, chissà se era preoccupato per lui, se lo stava cercando, se stava assillando il biondastro perché lo cercassero tutti assieme, magari sfruttando i poteri di qualcuno di loro.
Guardò ancora Cicno con la coda dell’occhio e poi si riconcentrò sul volo, la mente che già saltava ad un altro pensiero.
Avrebbe dovuto trovare un altro sinonimo di biondo, ora che anche il greco era entrato a far parte della combriccola. Biondino, biondastro, bionda per Lea… ma perché erano tutti biondi? Non potevano essere castani o mori? C’era solo Elza mora e – di che diamine di colore erano i capelli della ragazza delle Praterie? Erano marroni forse? Cavolo, se lo stava già dimenticando.

«Stai andando fuori rotta.» lo richiamò al presente Cicno, la presa attorno al suo collo ancora ben salda e forse un po’ fastidiosa.
Erano “vivi” in un qualche modo: respiravano, sudavano, si affaticavano, sanguinavano, non era poi così strano che una stretta troppo forte lo infastidisse come un cappio.
Cade annuì, unendo i piedi e riprecipitando verso il basso. Non appena toccò terra, ancora stupito di quanto fosse capace l’altro di non intralciarlo, girò di poco il busto e si diede un’altra spinta verso la direzione giusta.
«Ora va bene, vedetta?»
«Non ho mai avuto questo compito, di solito era svolto da ragazzini o giovani guerrieri.» mormorò l’altro sovrappensiero, concentrato sul fastidio che gli stringeva lo stomaco che, a conti fatti, non avrebbe dovuto avere.
«E tu non sei stato un ragazzino? Che facevi da piccolo?» continuò Cade, un po’ solo per parlare, un po’ per distrarlo, se quella stretta al suo collo doveva significare qualcosa.
Cicno si lasciò sfuggire un verso sarcastico. «Correvo. Per le vie di Tebe. Ero più minuto e delicato, avevo già tratti dolci e ammirati. Star fermi, alle volte, è l’errore più grande che si possa fare.»
Le parole del greco suonarono criptiche e cupe. Cade intuì al volo che qualcosa nel passato, nella gioventù del compagno doveva esser stato poco piacevole, e per sua esperienza sapeva quanto gli adulti potessero esser crudeli con i bambini. Non aveva la minima intenzione di impelagarsi in discorsi del genere, a riportare a galla ricordi sopiti e che tali dovevano rimanere.
Però poteva capire, poteva farlo sia grazie alle sue esperienze che a quelle dei suoi amici.
Fu spontaneo, a quei pensieri, stringere un paio di volte la mano che teneva contro il fianco di Cicno, come a volerlo rassicurare, a dirgli che lo capiva.
Il giovane lo guardò senza dirgli nulla e poi riportò la sua attenzione sull’orizzonte, lontano, verso la loro meta.
«Presumo tu possa capire.»
Cade annuì. «Bisogna sempre star in movimento, come gli uccelli. Puoi decidere di volare o di lasciarti trasportare dalle correnti, ma star fermo per più tempo del dovuto, in un luogo che non sia il tuo nido, è rischioso. Specie per quelli come noi, giusto?» gli sorrise tirando indietro la testa per poterlo guardare meglio.
«Una giusta metafora, sono colpito.»
«Sono un tipo poetico io!» ridacchiò il rosso togliendo una mano dal fianco del giovane per potersela al cuore con fare teatrale.
Cicno strinse un po’ di più le sue, come se non avesse apprezzato quell’improvviso mancato appoggio e Cade si sbrigò a riportare il braccio al posto giusto.
«Sono convinto che se continuerai a ripetertelo alla fine potrai credere alla tua stessa menzogna, ma per ora, gradirei ti limitassi ad esser veloce.» lo riprese il figlio d’Apollo cercando di mantenere la sua voce più amichevole possibile. Non vedeva l’ora di rimettere i piedi a terra e se doveva anche pensare che l’avrebbe fatto davanti ad altri, senza neanche un momento di solitudine per riprendersi e ricomporsi, gli saliva la nausea.
 
Quella che già ho.
 
Cade ridacchiò come un moccioso e annuì. «Ai suoi ordini, capitano!»
Discesero ancora verso il terreno scuro, pronti ad un nuovo salto. Sotto di loro le anime cominciavano a comparire come timide corolle sparse tra gli steli alti di un giardino incolto. Si stavano avvicinando sempre di più alle grandi masse e questo poteva significare solo una cosa: erano vicini al traguardo della quarta prova.


 
*
 

 
Lea si guardò attorno avvicinandosi inconsciamente ad Eliza e Jane.
Lentamente le Praterie si stavano popolando di anime di ogni epoca e ogni tipo, anime senzienti e guardinghe, concentrate e pronte ad ogni evenienza.
Erano giunti a mala pena alla fine della quarta sfida e Lea non riusciva a capire in quanti si fossero persi ed in quanti fossero ancora in gara.
Si era domandata più di una volta cosa fosse successo a coloro che avevano portato a termine le loro prove con più lentezza rispetto al gruppo principale, se poi fosse stata data loro ugualmente la possibilità di continuare, se qualcuno gli avesse spiegato cosa fare e non fare nella sfida successiva. Non le sembrava che ci fossero molte persone in meno, eppure aveva visto con i suoi stessi occhi corpi inanimati nel labirinto, dilaniati dagli artigli dei Mastini Infernali nell’Area Cani e sfere infrante assieme alle speranze di un’anima ignota. Ad ogni prova che passava Lea vedeva milioni di persone e non capiva, il suo cervello non riusciva a quantificare quante esse fossero, quante fossero perdute, quante fossero scomparse e quante ancora si fossero ritirate.
Era sciocco ed era sempre lo stesso pensiero. Se ne era accorta ovviamente: si domandava sempre più spesso in quanti fossero in realtà e in quanti perdessero ad ogni gara.
La risposta le era ancora ignota.
 
«Ci stiamo avvicinando, vero?»
La voce bassa e titubante di Jonas la fece voltare verso la sua sinistra.
Il ragazzino camminava come scortato da Nathan e Úranus, rispettivamente uno davanti e l’altro dietro. Sembrava a dir poco sulle spine, si guardava attorno esattamente come stava facendo lei ma con una luce diversa nello sguardo.
 
Non si preoccupa di tutte le anime, ma solo di una.
 
Cade.
Chissà dov’era il loro piccolo rosso irlandese, e non le importava nulla, lei era morta prima quindi poteva pensare a Cade chiamandolo “piccolo”. Nathan poteva battere i piedi quanto voleva, l’anzianità la decideva la data di nascita, non l’età di morte.
«Sì, stiamo raggiungendo il punto di ritrovo della prossima gara.» annuì Eliza.
«Non mi sono mai avvicinata troppo da questa parte. Sempre che sia davvero la direzione che credo sia.» borbottò Jane invece storcendo il naso. «Biondastro? La tua bussola è ancora impazzita o ci sa dire in che direzione stiamo andando?» chiamò il soldato a voce più altra.
Nathan girò la testa solo per fulminarla. «In che direzione rispetto a cosa? Ma quando parlo, voi che fate? È vero che noi semidei soffriamo di disturbo dell’attenzione ma voi non ci provate neanche a seguirmi.» rispose piccato.
Lea fischiò, prendendo tutti di sprovvista e facendo girare le anime attorno.
«Non ci credo! Sei riuscito a fare un’intera frase di senso compiuto senza infilarci un’imprecazione o una parolaccia! Ma quanto stai diventando bravo?» lo provocò sogghignando.
Per buona misura, Nathan bestemmiò a pieni polmoni e la mandò al diavolo.
«Come non detto.» sorrise Jonas sporgendosi verso Lea che ancora ridacchiava.
Jane fece una smorfia infastidita. «Lo prenderò come un “no, non posso dirti in che direzione stiamo andando”. Aggiungerei anche un “perché le mie capacità sono così scarse da non permettermi di comprendere uno strumento che utilizzavo costantemente in vita”.»
«Ma è una mia impressione o vi state prendendo tutte un po’ troppa libertà? Da quand’è che siete così stronze apertamente? Senza neanche provare a nasconderlo?» ringhiò indietro il soldato.
Eliza alzò gli occhi al cielo e sospirò. «Puoi dirci in che direzione stiamo andando? Rispetto alla fonte di magia più vicina.» si sbrigò a precisare.
A lei Nathan non poteva certo dire nulla, perciò annuì. «La fonte più vicina dovrebbe essere o il parco per cani o la Casa di Ade.» ragionò prendendo in mano la bussola.
«O i Campi Elisi.» s’intromise Úranus. «Le Praterie degli Asfodeli non sono dei luoghi fissi, ma lande che si muovono su loro stesse.»
Un grugnito d’approvazione e Nathan si girò di nuovo a guardarli. «Allora probabilmente stiamo andando lì.»
«Scusate la domanda sciocca.» disse piano Jonas, «Ma la Casa di Ade, non dovrebbe essere il punto con più forza magica di tutti? È come se fosse il suo castello, no? Il centro del suo potere.»
«Sì, ma anche i Campi Elisi, quelli di Pena e i fiumi sono intrisi di magia divina. Vuoi per tenere al sicuro le anime che vi sono dentro e mantenere tutte le strutture in piedi – noi negli Elisi – vuoi per proteggere tutte le anime che stanno fuori e mantenere attive tutte le torture – voi dannati.»
«Il luogo che mantiene più magia e potere rimane comunque la dimora del divino Ade.» proseguì Úranus, «Ma la presenza ravvicinata di altri punti di potere sposta l’ago della bussola, lo infastidisce.»
«Nonostante ciò, tende sempre un po’ verso nord.» finì Nathan alzando la bussola oltre la spalla per mostrarla agli altri.
«Molto interessante. Quindi stiamo andando verso i Campi Elisi?»
Il grugnito infastidito di Jane catalizzò tutta l’attenzione su di lei, o meglio, sulle sue parole.
Lea aggrottò le sopracciglia. «Perché dovremmo andare verso i Campi Elisi? Non ha senso, no? Solo un ristretto numero di anime potrebbe-»
La figlia di Apollo si bloccò sul posto e così fecero tutti gli alti dopo pochi passi.
L’implicazione della frase lasciata in sospeso li colse come una mina, potente ed inaspettata ed il silenzio che si andò a creare fu interrotto solo dal ridacchiare senza gioia di Jane.
«Quindi è questo? Ci hanno fatti massacrare per quattro gare per poi negarci la possibilità di vincere solo perché non possiamo entrare nei dannati Campi Elisi?» domandò retorica, allargando le braccia e arricciando il naso, un’espressione quasi folle ad illuminargli il viso. «È stato tutto un inganno?»
 
Jonas deglutì. Batté le palpebre e poi lo fece ancora.
Cosa?
Le parole di Lea si ripeterono a loop nella sua testa, cercando i assumere un senso che non sembravano avere per lui ma che ne avevano uno piuttosto ovvio nella realtà.
Se stavano andando verso i Campi Elisi, se lo stavano facendo sul serio, se la prossima gara si fosse dovuta svolgere lì allora-
 
Ho perso.
 
Jonas non sarebbe mai potuto entrare tra i beati, i tre giudici infernali l’avevano guardato dritto negli occhi e l’avevano chiamato codardo, bugiardo, l’avevano accusato d’aver rinnegato i valori della sua famiglia, della sua patria, senza neanche provare a combattere per questo, senza neanche provare a fare qualcosa per giustificare le sue azioni.
Era finito nell’ottava terrazza per un motivo e malgrado fosse tra i più vicini alla superficie, nessun’anima guardiana gli avrebbe permesso di varcare i cancelli dorati.
Se era davvero questa la prossima prova…
 
«Cazzo.»

Il ragazzino alzò lo sguardo verso Eliza e batté ancora le palpebre.
La figlia di Nike però non lo stava guardando, teneva invece gli occhi puntati dritti in quelli di Nathan che, a sua volta, la fissava serio in volto annuendo.
«Non avrei potuto dirlo meglio.»
«Che sono degli stronzi sadici? Questo posso dirlo meglio io.» ringhiò Jane. «Non mi sono fatta mezzo inferno a piedi per sentirmi dire che ho perso sin dall’inizio.» affermò con rabbia.
Jonas non riusciva a far altro che battere le palpebre, senza aprir bocca, senza prender fiato o respirare. Solo immobilità e uno stupido sbatter di ciglia.

Cazzo. Cazzo, cazzo, cazzo!
 
«Vuol dire che non passeremo mai.» una strana calma gli calò sulle spalle, come una coperta pesante, come la giacca imbottita che sua madre gli sistemava prima di lasciarlo uscire per andare a scuola. Era- rassicurante?
Con grande orrore Jonas si rese conto che quella notizia, quel semplice e puro dato di fatto, l’aveva appena sollevato da una paura enorme che si portava dietro da quando Ipno gli aveva dato quel papavero e l’aveva spronato ad unirsi alla gara. Fin dall’inizio Jonas aveva avuto paura di non essere abbastanza, d’esser solo un ragazzino smilzo e debole, con un potere inquietante e stupido e che non sarebbe riuscito a superare neanche la prima prova. Dopo l’incontro con il dio dei sogni tutta l’adrenalina e la positività che era riuscito ad incamerare si era sopita velocemente, lasciandogli solo un nugolo di ansia e paura nel petto vuoto. Se non fosse stato per Cicno, per tutta quell’inquietante e spaventosa combriccola in cui si era ritrovato, non sarebbe arrivato al labirinto.
Se non fosse stato per Cade, non ne sarebbe uscito. Se non fosse stato per Lea non avrebbe preso la sua medaglia, non avrebbe trovato la sua sfera, non sarebbe riuscito a riprendersi dallo shock d’aver perso Cade.
Jonas era destinato fin dall’inizio a non farcela, eppure aveva avuto una fortuna sfacciata ed era arrivato addirittura alla quarta prova.

Era ovvio che la mia fortuna non sarebbe durata per sempre.
 
La sua paura di fallire si ripresentò prepotente ma con altrettanta prepotenza il sollievo gli tolse quel peso di dosso. Non era colpa sua, non era completamente colpa sua. Jonas si sarebbe potuto impegnare quanto voleva per vincere ma questa volta non c’entravano le sue capacità o il suo intelletto: aveva perso in partenza.
Quanto era stupido, quanto era meschino anche, provare piacere in una consapevolezza del genere?
Chiuso nel suo mondo Jonas non stava più ascoltando una singola sillaba di quello che dicevano i suoi compagni, di come argomentassero le loro opinioni, come stessero valutando le opzioni, ancora una volta fermi in mezzo al nulla. No, l’unica cosa che Jonas riusciva a pensare in quel momento era che “non è tutta colpa mia”. Era già deciso in partenza quindi lui non poteva farci nulla, no? Era stato tutto solo un crudele gioco del destino, anzi, di un individuo divino e-
 
«-QUELLO CHE STO CERCANDO DI DIRE!» urlò improvvisamente Lea «È CHE NON SAPPIAMO NULLA! CI STIAMO SOLO I-P-O-T-E-T-I-C-A-M-E-N-T-E DIRIGENDO VERSO I CAMPI ELISI!»
Con il volto rosso per lo sforzo ed i pugni stretti lungo i fianchi, la figlia di Apollo fissava i suoi compagni con sguardo assassino, tipico di chi ha provato per molto tempo a dire la sua per esser ogni volta interrotto.
 
E io che credevo che succedesse solo ai miei tempi!
 
Prese un respiro per calmarsi e, imbarazzata, si rese conto che anche molte altre anime la stavano fissando curiose.
Si schiarì la voce, afferrò per una manica Eliza e Jane e fece cenno a tutti gli altri di spostarsi verso un punto più libero.
«Quello che sto cercando di dire,» ripeté ancora, «è che non possiamo saperlo. Ci stiamo dirigendo verso i Campi Elisi dite, ne abbiamo la certezza?» domandò guardando Úranus e poi Nathan.
Il più grande scosse la testa. «Solo buone possibilità.»
«E abbiamo la certezza che dovremmo entrare dentro le mura?» chiese ancora retorica.
Gli altri la fissarono in silenzio, la risposta ovvia per tutti.
Jonas li guardò allucinato e desiderò tantissimo potersi prendere a schiaffi da solo senza che nessuno se ne accorgesse.
Okay, potevano anche accorgersene, tanto ormai aveva fatto le peggio figure davanti a tutti quanti.
 
«Se stia per darti uno schiaffo da solo sappi che non sei l’unico a volerlo fare.» borbottò Nathan vicino a lui.
A quelle parole Lea sorrise radiosa. «Perché sapete che ho ragione.» annuì convinta.
«Ragione o meno sto casino l’hai montato su tu, perché sei un’allarmista di merda!»
«Bene!» continuò l’italiana ignorandolo, «Credo che abbiamo appena scoperto il potere straordinario che ci lega e che ci ha portati ad essere una squadra.»
«La voglia di autoinfliggerci percosse per soppesare la nostra stupidità?» chiese Jane caustica.
La bionda neanche le prestò attenzione. «Pensiamo troppo!» concluse battendo le mani.
Jonas abbassò la testa. «Voglio vomitare.»
«Siamo in due.» fece Nathan.
«Anche tre…» soffiò piano Eliza.
«Io voglio prendere a calci qualcuno.» chiuse la fila Jane. «Perciò, non ci hanno ingannato fin dal principio?»
Úranus scosse la testa, pronto a rispondere che sì, probabilmente un qualche inganno doveva esserci visto che il crescente numero di gruppi di semidei che si potevano scorgere nei dintorni a discapito dei gruppi di soli umani, ma un vago luccichio attirò la sua attenzione.
Era freddo, chiaro e metallico, come un raggio di sole che si riflette su di un gioiello prezioso. Peccato che attorno a loro non ci fosse alcuna fonte di luce e che l’unico gioiello…
 
«Jonas?» mormorò piano l’islandese.
Il ragazzino, che teneva il capo basso ed una mano a coprirsi gli occhi, aprì le dita per spiarvici attraverso, guardandolo quasi scoraggiato e ancora abbastanza imbarazzato dai suoi stessi pensieri. Mugugnò.
«Il tuo monile.» disse solo l’altro.
«Il mio cosa?» chiese lui senza capire.
Nathan lo afferrò per una spalla e lo costrinse a girarsi verso di lui ed alzare la testa.
«Ehi! Ma che modi-»
«La tua cazzo di collana brilla.»
«Cosa?» scioccamente il ragazzino abbassò la testa, cercando di scorgere lo stretto girocollo che riposava tiepido sulle sue clavicole, ma tutto ciò che riuscì ad intravedere fu una lieve e debole luce, di gran lunga meno intensa di quella diffusa che seguiva ogni anima nell’Ade, illuminandone il percorso.
«Che diamine succede? Perché brilla?»
«Sei tu la figlia della dea della magia, perché secondo te una fottuta collana regalata da un dio dovrebbe brillare?» ringhiò Nathan.
«Per l’ultima volta, non so nulla di magia se non qualche incantesimo e tra questi non ce n’è neanche uno per incantare gioielli!»
«Che vuole dire che te gliel’ha regalato un dio? Ce l’avevi già detta questa cosa? Me la sono persa solo io?» domandò Lea fissando allarmata la collana.
«Si che ve l’ho detto!»
«Quando? Io non me lo ricordo!»
«State solo andando nel panico, non è nulla di pericoloso e Jonas ce ne aveva parlato.» intervenne Úranus cercando di calmare quell’ennesima ondata di panico che si era generata, di nuovo, da un nonnulla.
«Come fai a sapere che non è pericoloso? Eh, Golia? Ne hai uno anche tu? Sai cosa sta per succedere?»
«Di certo non gli si staccherà la testa dal collo. Credo.»
«NATHAN! Non sei d’aiuto!»
«Perché brilla allora?! Io non ho fatto nulla! Perché brilla?»
«Devi aver fatto qualcosa per forza! O tu o il dio che te l’ha regalato!»
«Ci mancava solo Ipno porco id-»
«Puoi non bestemmiare gli dèi proprio quando c’è un oggetto creato da un dio che brilla come una lampada?!»
«Più come una bomba direi…»
«Mi si staccherà la testa dal collo?!»
«Se è lui che l’ha fatta e che sta facendo tutto questo casino allora se le merita le mie bestemmie!»
«Che vuol dire che è lui “che sta facendo tutto questo casino”? Che sta facendo? Nathan, perché brilla?»
«E CHE NE SO IO? TI SEMBRO UN ENCICLOPEDIA SULLA PRODUZIONE E FUNZIONE DEI GIOIELLI DIVINI?»
«Ma tu non eri quello che sapeva tutto sul nostro mondo?»
«Io so un botto di cose, un botto! ma non TUTTO! Quello è Úranus!»
«Puoi non ripetere “botto”? Dimmi che non esploderà!»
«Sono morto seicento anni prima di te, direi che le tue informazioni sono più recenti delle mie.»
«Se esplodi sappi che ti lancio via da qui, una delle poche magie che conosco serve proprio ad allontanare le persone.»
«Sì, ma a me le hanno insegnate al Campo, non me l’ha passate un dio di prima mano!»
«So che nel futuro esistono cose del genere in superficie, ma non c’è un corso d’aggiornamento divino negli Elisi o anche voi avreste potuto avere le stesse informazioni che ho io.»
«Da quando sei così veloce a rispondere a tono?»
«Oh, ora mi credi quando dico che ha un caratteraccio?»
«Jane, non ti ci mettere anche tu.»
«Perché? A me il soldatino può dirmi che scarico le mie incompetenze sugli altri e io non posso mettermi in mezzo quando è lui a fare la stessa cosa?»
«Lo sai che stai attaccando Úranus e quindi ti stai schierando dalla parte di Nathan, vero?»
«Perché siamo finiti a parlare di schieramenti? Quel coso continua a brillare e diventa sempre più forte!»
«LA SMETTETE DI LITIGARE E MI DITE SE STA PER SALTARMI LA TESTA O MENO?!»
 
 
*
 


«Quindi, sei riuscito a sopravvivere per tre prove, portandole perfettamente a compimento, con quel gruppo?»
«Se- ecco- insomma… è che non ci sto io… però ti assicuro che non siamo sempre così, è solo un brutto momento. Ecco, ci hai presi in un brutto momento. Poi magari la rifacciamo.»
«“La rifacciamo”? Cosa significa? Sembra quasi tu stia parlando della scena di una tragedia.»
«Esatto! Lo dicevano anche ai tuoi tempi? Che se una cosa non va bene si rifà?»
«Una cosa o una scena? Perché a teatro non puoi “rifare” una scena, sei davanti ad una platea, ogni errore rimane inciso.»
«Vabbè, però le facevate pure voi le prove, no?»
«Ovviamente.»
«Allora vedila così: questa è una prova fatta male, dopo te li presento per bene e faranno la loro parte come si deve.»
«Se ne sei convinto.»
 
Davanti a loro, più precisamente davanti-sotto di loro, si presentava uno spettacolo che aveva quasi del comico.
I sei semidei si affannavano urlandosi contro l’un l’altro per una motivazione ignorata, (botto?), chi più alterato, chi più palesemente impaurito.
Cade non riuscì a far a meno di puntare subito lo sguardo su Jonas, da quell’altezza sembrava ancora più piccolo e indifeso del solito, e lui sapeva che in realtà il ragazzino non era proprio uno sprovveduto, ma non aveva neanche mai affrontato i veri pericoli della vita e ancora una volta si sentì stringere il cuore, come succedeva quando tornando alla casa base rivedeva i più piccoli, tutti sani e salvi per un altro giorno. Il ricordo lo fece emozionare.
Diede una stretta sul fianco a Cicno, improvvisamente euforico.
«Ne sono convinto, ne sono convintissimo! Ti piaceranno tutti! Devono piacerti! Anche la ragazza delle Praterie ti piacerà! Tu probabilmente non piacerai a lei, ma va bene lo stesso, te lo assicuro!» strepitò inclinandosi in avanti, nel tentativo d’andar più veloce. Aveva voglia di planare, toccar terra e mettersi a correre come un matto, ma non sapeva quanto potesse esser una scelta intelligente.
Il greco, da parte sua, si ritrovò suo malgrado a sogghignare. «Per quale motivo vuoi così disperatamente che siano tutti di mio gradimento?» domandò invece, adocchiando la terra che s’avvicinava sempre più velocemente. Stavano perdendo quota.
«Perché tu mi hai salvato la vita! Quindi mi stai a genio e voglio che anche a te loro stiano a genio. Non faranno troppe lagne per una nuova aggiunta. Oddio, forse il biondastro sì, ma sono dettagli, però sono amici miei e voglio che ti piacciano.»
«Apprezzo l’entusiasmo – bugia – ma sappi che ti stai ripetendo senza darmi una risposta sensata. E stiamo perdendo quota.»  decise d’aggiungere visto l’impatto imminente con il terreno. Si preparò già a tirar su i piedi e lasciar al rosso campo libero per prendere un altro slancio, ma il ragazzo invece allentò la presa sulla sua vita e strinse quella alla sua mano.
«Corriamo! Arriveremo prima e così non li spaventeremo a piombargli sulla testa!» rise felice senza riuscire a distogliere lo sguardo da quel gruppo rumoroso e confusionario.
Com’era possibile che gli fosse bastato così poco per affezionarsi ad una nuova squadra? Era davvero così patetico da aver sofferto talmente tanto la sua separazione dai Liberty, da essersi immediatamente attaccato con così tanta forza a loro?
Cade non lo sapeva, o forse sì, ma non voleva darsi una risposta in quel momento. Invece poggiò con forza il piede sulla terra nera e luccicante e si tirò Cicno dietro, costringendolo a correre al suo fianco.
Non che facesse molta fatica, notò divertito e quasi invidioso, quel ragazzo aveva delle gambe così lunghe che un solo passo bastava a coprirne due dei suoi.
Ma non gli importava, non in quel momento, non mentre le voci dei ragazzi diventavano sempre più chiare, i volti più definiti, i colori più vividi e-
 
Brilla? Cos’è che brilla? È Jonas? Perché Jonas brilla come un lampadario di cristallo?
 
Tenne lo sguardo fisso sul ragazzino ma girò leggermente la testa verso Cicno, aggrottando le sopracciglia.
«Ehi? Sai mica perché-» la sua frase però si bloccò a metà: al limitare del suo campo visivo, lì dove la sua mano si stringeva a quella più grande e fine di Cicno, brillava fiocamente un bracciale di metallo.
Non era la prima volta che Cade vedeva brillare un metallo in quel modo, i suoi guantoni da combattimento avevano riflessi celestini sotto il sole e quando li indossava per combattere contro qualche strana creatura iniziavano a brillare d’azzurro sempre più intenso.

Bronzo Celeste, così lo chiamò la guardia quando li vide.
 
Il bracciale di Cicno, anzi, i bracciali di Cicno non erano certamente di bronzo, tanto meno celeste, ma brillavano come le spade tirate a lucido degli ufficiali, come le canne nuove di zecca dei fucili.
Perché, però, si erano illuminati solo ora?
 
«Cosa?» domandò il greco allungando il passo e cercando di resistere con tutto sé stesso alla voglia di scostarsi in malo modo dalla presa dell’altro.
«La collana di Jonas brilla. I tuoi bracciali…» ammiccò al suo polso guardandolo per un momento, poi si riconcentrò sui suoi compagni. «Ve li regalavano all’uscita dai Campi di Pena?» chiese ironico.
Cicno fece una smorfia, non che Cade potesse davvero vederla, e si rese conto di non aver chiesto al suo padrone se poteva o meno parlare dei gioielli che portavano sia lui che il giovinetto. Era inutile cercare di negare, le prove di un possibile legame erano evidenti anche solo dall’intensità che acquisiva la luce che emanavano ad ogni passo che facevano. Ma non c’era bisogno di mentire completamente, bastava omettere.
 
«Vi spiegherò ciò che so quando saremo assieme, così non dovrò ripetermi.» si decise a dire per chiudere il discorso.
Cade gli sorride raggiante, come se quelle parole, quel “assieme”, l’avessero riempito di nuova energia.
«Allora corriamo!»
 
 
 
Jane alzò gli occhi al cielo e fissò il buio della volta rocciosa.
La testa stava scoppiando a lei, altro che al ragazzino.
Si allontanò da lui di qualche passo e fissò la collana il cui bagliore aumentava d’intensità ad ogni secondo che passava, come se stesse acquistando energia, come un fuoco a cui veniva aggiunta altra legna da ardere.
Il monile era palesemente magico, vuoi per la sua lucentezza, vuoi per il fatto che rappresentasse un rovo pieno di spine ma non vi fosse alcun segno di fusione tra queste, e soprattutto per la mancanza di un gancio: sembrava quasi che la collana gli fosse stata forgiata addosso, strettissima ma delicata. Com’era possibile che non si fosse mai resa conto della magia che emanava? Certo, lei non era una grande strega, su questo non c’erano dubbi, ma percepiva il magico, l’aveva sempre fatto, fin da bambina. Se un tempo però queste strane sensazioni, quelle immagini vacue al limitare del suo campo visivo, esseri mostruosi che divenivano umani nell’attimo in cui vi posava sopra lo sguardo, erano stati accantonati come “sogni ad occhi aperti”, “la presenza delle streghe nel villaggio”, “il malocchio su tua cugina”, ora sapeva dar loro un nome e sapeva visualizzarle, individuarle, percepirle.
Non era certo in grado di trovarne la locazione specifica, o avrebbe trovato da sé la sua sfera dei ricordi di Ermes, ma la bussola di Nathan, i guanti di Jonas… tutti quegli oggetti emanavano una sottile brezza, come un soffio, qualcosa che parlava direttamente al sangue divino presente in lei e l’avvertiva che c’era qualcosa che apparteneva all’altro suo mondo proprio nelle vicinanze.
La collana di Jonas, però, non le aveva mai trasmesso nulla.
 
Se è opera di un Dio è probabile che abbia fatto in modo che nessuno potesse percepirlo prima del tempo.
 
Chiuse gli occhi e si massaggiò la sella del naso. Se non avessero smesso di litigare come infanti nei prossimi cinque minuti si sarebbe premurata di utilizzare quel poco di magia che aveva per ucciderli tutti – di nuovo – all’sitante.
Aprì gli occhi e storse il naso, fissando con astio Nathan che imprecava a voce alta, attirando l’attenzione di tutte le anime nei paraggi, malgrado si fossero spostati da parte, quel deficiente li avrebbe fatti fulminare tutti, ne era certa. Zeus, o chi per lui, avrebbe tirato un fulmine proprio sulla testa vuota di quel soldato da due soldi e sarebbe stato così potente da colpire anche tutto ciò che lo circondava.
Era già morta male una volta, perché doveva farlo di nuovo?
Osservò per un attimo Eliza che cercava di far star zitto l’altro, di ricordargli che bestemmiare gli Dei in una competizione fatta proprio per loro non era il massimo; poi Jonas che si teneva le mani strette alla gola e mormorava qualcosa di incomprensibile in una lingua a lei sconosciuta, di fianco a Lea che malediceva una serie di oggetti di cui ignorava l’esistenza e Úranus che si divideva tra il cercare di calmare Jonas, - So che siamo già morti, ma finirai per strozzarti da solo così. –, ed il chiedere alla figlia di Apollo di far smettere di litigare i due soldati, - Lea, non so cosa sia uno stetoscopio e neanche cosa sia un lattaio, ma per favore, potresti cercare di metter pace tra Eliza e Nathan? –.
Ci mancava giusto quel fenomeno da baraccone rosso e poi lo spettacolo degli zingari sarebbe stato completo.
Proprio mentre pensava a come far esplodere tutti, non solo la testa del ragazzino, un leggero pizzicorio le solleticò il naso. La brezza di magia che avrebbe dovuto avvertire nei confronti della collana di Jonas ora l’avvertiva nell’aria, più debole di quella emanata dal girocollo ma comunque intensa, sempre più vicina e-
 
Duplice?
 
Strizzando gli occhi spinse lo sguardo oltre i suoi compagni, aguzzando la vista per scorgere attraverso la leggera polvere nera e luccicante che si era alzata in lontananza. Le ricordava terribilmente la carica dei Mastini Infernali e per un attimo ebbe l’impulso di tirarsi indietro, girarsi e darsela a gambe levate. Dannati cani dell’Ade, i loro stupidi salti e le loro stupide fiamme.
Ma non era fuoco la macchia rossa che scorgeva tra i frammenti polverizzati delle sfere dei ricordi, sembrava più solida, più unita ma al contempo fluida, come le fronde di un albero d’autunno. E vicino alla macchia rossa e stropicciate brillava una figura bianca, candida, quasi eterea.
Jane rimase a fissare scioccata la cosa più vicina ad un angelo che avesse mai visto prendere forma lentamente dalla nube di sogni infranti, di rimpianti, di ricordi di morte. Fosse stato possibile l’avrebbe fissato per tutto il tempo che la morte le avrebbe concesso, ammaliata da come un essere del genere potesse muoversi su quelle terre scure, in quel posto maledetto dagli Dei per il loro solo divertimento.
Ma ben presto l’incantesimo s’infranse, quando la macchia rossa fece un balzo verso l’alto, lanciando un grido di gioia, uno strepitio fin troppo famigliare e decisamente inconfondibile.
 
Gli altri si voltarono di scatto, dimentichi immediatamente di ogni problema, di ogni disputa, mentre l’anima incrementava la sua velocità per arrivare il prima possibile tra di loro, i piedi che sfioravano a mala pena il terreno, quasi come fossero alati, quasi come volasse.
Il ghignetto fastidioso e luminoso di Cade apparve chiaro a tutti loro, i contorni del suo corpo si definirono sempre di più, i dettagli dei vestiti malconci, le macchie scure di terriccio ed erba sui pantaloni, sul volto, le crepe della pittura sulla sua giacca, la sacca che rimbalzava sulla schiena e gli occhi verdi come i prati sconfinati da cui proveniva, come sarebbero dovute essere quelle praterie altresì nere, cupe, vive nella loro morte.
Cade sorrise loro ed il mondo del sottosuolo parve illuminarsi per un momento, cancellando ogni preoccupazione e portando tutti i suoi compagni a sorridergli di rimando.
Jane osservò il modo in cui gli occhi di Lea si fecero lucidi dalla gioia, come il volto di Eliza si rilassò per poi contrarsi in un’espressione felice, rincuorata, come Úranus tirò un sospiro di sollievo e persino Nathan si lasciò scappare un sorrisetto, lo stesso che piegò le sue labbra e la portò a scuotere la testa rassegnata: diamine, erano davvero riusciti a farsi ritrovare da quel pazzo rosso.
Chi non poteva ben vedere invece era Jonas, che le dava le spalle. Le mani avevano abbandonato la presa sul girocollo ed erano crollate deboli e vuote lungo i fianchi. Le spalle si erano abbassate, la testa sporta leggermente in avanti. Sembrava un burattino a cui avessero tagliato tutti i fili se non quello che lo reggeva in piedi.
 
Un impiccato ancora appeso alla corda.
 
Il flash di una vita passata le passò davanti, l’immagine di un uomo appeso alla gogna si sovrappose velocemente con quella di un ragazzino biondo e pallido, il corpo freddo ed inerme depositato a terra, il corpo carbonizzato di un condannato tolto dal rogo, quello ancora caldo e irrigidito di chi non riesce a credere di star per morire, quello immobile e rassegnato di chi ha capito di non aver più sabbia nella sua clessidra.
Jane batté le palpebre in fretta, sconcertata da ciò che aveva visto, che credeva di aver visto, e si ritrovò a cercare con lo sguardo qualcosa che potesse calmarla, che potesse darle fiducia, sicurezza, speranza.
Inevitabilmente alzò gli occhi davanti a sé per puntarli in quelli azzurri e limpidi dell’angelo.
Proprio come dicevano le suore ed il prete, una creatura eterea dagli occhi chiari e puri come i cieli del Signore ed il capo illuminato dall’aureola dei beati.
Poi quegli occhi azzurri si fissarono proprio nei suoi e Jane si rese conto d’aver spento completamente il suo udito, di non aver sentito nulla, non aver visto nulla di quello che le stava accadendo attorno.
Che diamine era stata quella visione?
 

 
*
 

 
Nelle profondità dell’Olimpo, tra le radici rocciose divenute ormai pietra, la Sala del Delta riposava silenziosa. Le alte porte tenevano lontano qualunque suono e inaspettato visitatore in un momento di quiete prima della tempesta.
La grande stanza circolare che faceva d’anticamera alla Sala del Delta era buia, tutte le torce erano state spente, il fuoco greco aveva smesso magicamente di ardere e preannunciava un monito cristallino a chiunque avesse osato giungere per quei luoghi. Chiunque ci fosse ora nella sala controllo dell’Olimpo non voleva esser disturbato e nessuno con un briciolo d’amor proprio l’avrebbe mai fatto, non quando dentro quell’immenso laboratorio poteva esserci chiunque tra i Grandi Dodici.
Era quasi ironico però che servitori di ogni genere si facessero meno scrupoli a batter forte alle monolitiche porte se avevano la certezza che proprio uno di quei grandi Dei si trovava all’interno della dimora di Efesto, mentre rimanevano pietrificati sulle strette scale che conducevano alle alte terrazze dell’Olimpo se avevano anche solo il sospetto che lì dentro vi fossero i “minori”. Il terrore dei Dodici era minore rispetto a quello per gli Dei secondari, meno importanti.
Era una logica che Giordano comprendeva da un lato e trovava ridicola dall’altro: i Dodici erano più indulgenti verso i loro servitori, perché capitava di continuo che dovessero disturbarli per un qualunque problema, c’erano per così dire abituati; ma quando si trattava di altri Dei, come Eros, come Ipno, come Thanatos, allora non vi era possibilità che andassero a disturbarli a meno che non fosse urgente.
Seduto sulla sua poltroncina Giordano guardò le divinità riunite davanti a lui, i volti seri e attenti concentrati sulla mappa stesa sul tavolo, sulle pedine che si muovevano lente nella landa disegnata.
Forse gli spiriti avevano tanta paura perché la presenza di un dio “di seconda categoria” nella Sala del Delta poteva significare solo rogne.
Un rumore tintinnante attirò il suo sguardo verso la postazione di Efesto, grande e magnifica e piena di diavolerie che facevano cose al posto suo di cui Gio voleva scoprire ogni segreto e tenersi alla larga il più possibile. Un piccolo oggetto di metallo rotolò sino a fermarsi contro il bordo della mappa, piccoli simboli luminescenti pulsavano quieti sulla sua superficie.
Ipno fissava l’oggetto con gli occhi sgranati, trattenendo il respiro e stringendo il cappello al petto, la lunga piuma gli solleticava il naso e lui lo muoveva come un gatto. Di fianco a lui Thanatos teneva gli occhi sui fogli davanti a sé, ricontrollando appunti di ogni sorta e lunghe schede.
L’unico che pareva divertirsi, il sorrisetto già stampato sul volto angelico, era Eros, che seduto a gambe accavallate sulla sua poltroncina sembrava solo aspettare il momento propizio per dire la sua.
Giordano sospirò, la stavano mandando troppo per le lunghe, tra poco sarebbe iniziata la gara successiva e loro erano ancora bloccati lì, con nulla di fatto e solo tanto tempo sprecato.
Efesto assottigliò lo sguardo, l’occhio metallico girò in ogni direzione come una trottola impazzita e dietro di lui, sui grandi schermi che monitoravano le Praterie, si aprirono e richiusero velocemente finestre di calcolo e stringhe di codici. Annuì.
 
«Iniziativa.» disse solo, con tono definitivo.
Ipno lasciò andare un verso di pura frustrazione, un piagnucolio che si risolse con un lagnoso: «Ma daaaai! Davvero?»
Thanatos storse il naso come aveva fatto prima il fratello. «Eros dimmi che ti è rimasto del-»
«Vado in Ira e carico.»
Tutti e tre si girarono verso il Dio dell’Amore che sorrise loro amabilmente. «Punto al sospetto. È l’uomo seduto al bancone, non è vero? Ci ha tenuti sott’occhio da quanto siamo entrati alla locanda e ha mandato il suo compagno a chiamare rinforzi. Non negare, ci stava seguendo da quando abbiamo superato le porte della muraglia.» continuò sicuro.
Efesto lo guardò senza proferir parola per un lungo momento, le labbra strette in una linea rigida e mezzo coperta dalla barba, l’occhio meccanico ora puntato sul nipote.
«Ho detto “iniziativa”, non “cosa volete fare”. E che mi rappresenta che vai in Ira? Non sai neanche quanti nemici ci sono e se sono nemici.»
«Hai chiamato iniziativa, è ovvio che ci siano nemici.» borbottò Ipno cercando tra le carte ciò che gli serviva.
«E non hai negato quello che ha detto Eros, quindi il tipo al bancone ci pedinava da un po’ e ci vuole attaccare. Avevo puntato sul compagno, bella mossa.» si congratulò Thanatos aprendo un sacchettino di velluto nero e riversandone il contenuto sulla mano.
Efesto sbuffò una nuvola di fumo dalle narici dilatate e alzò lo sguardo su Giordano.
L’uomo lo guardò sorridendo e lanciò svogliatamente il suo dado. Sorrise ancora: «Venti.»
«Naturale?»
«Yep.»
«Io ho fatto ventitré!»
«Non mi fido di te, ritira!»
«Cosa? Ma ho fatto diciotto, quando mi ricapita?»
«Lo sai che devo vedere quando lanciate il dado!»
«Io ho fatto sette, che schifo…»
«Ipno! Ho appena detto che devo vedere
«Ventidue, quindi sono dopo Eros e Giordano. La faccio io individuazione del magico o ci pensi tu?»
«Nope, io mi nascondo.»
«E io vado in Ira e carico il nemico più vicino alla mia destra.»
«Olimpo in fiamme! Sei identico a tuo padre! Non ti ho neanche detto cosa sta succedendo!»
«Magari ci hanno avvelenato?»
«Io ce l’ho resistenza ai veleni, anche tu, vero Gio?»
«Sì, qualcosa del genere, mi sa che ce l’ho come tratto raziale.»
«Quindi? Posso lanciare per la carica?»
«Basta! È impossibile giocare con voi!»
Efesto batté la mani sul tavolo e tutto ciò che vi era sopra, compreso Ipno che vi si era sporto per riprendere il proprio dado a venti facce finito dal lato di Eros, saltò di una decisa di centimetri dalla superficie.
Giordano sbuffò e ripescò un sigaro dalla tasca della giacca appesa alla sedia, allungandolo verso Thanatos. Il dio non lo guardò nemmeno, un gesto secco del dito e la punta del sigaro volò via.
L’uomo gli fece un cenno con la testa per ringraziarlo, «Lo dici tutte le volte ma poi continuiamo a giocare.»
«Certo, ci manca mezzo party fisso e tutti i nuovi giocatori durano poco…» fece notare Ipno raggomitolandosi sulla sua poltrona.
Eros fece una smorfia degna di suo zio. «Con Shakespeare non giocherò mai più. È permaloso, infantile e mette su dei drammi infiniti ogni volta che gli vengono fatti troppi danni.»
«Ha ragione Eros, è una palla la piede. Come c’è finito a fare il Giudice Infernale?»
«Esattamente come ci sono finiti gli altri due.» disse Gio stringendosi nelle spalle, «Dico io, uno un po’ meno vendicativo di lui o di Minosse non ce l’avevamo? Ti credo poi che Ade sta tutto il giorno a lamentarsi dei Dannati, ha scelto due sadici e un moralista per dividere le anime.»
«Ogni volta che uccidevi il pg a William c’era una nuova ondata di morti nei Campi di Pena.» concordò Thanatos rimettendo tutti i dadi a posto.
«Questo perché si ostina a fare il bardo invece di scegliere una classe d’attacco. Non puoi pretendere di avere cinquanta punti ferita ed essere al centro dell’azione.»
«Eros, anche tu hai fatto il bardo.» gli fece notare Ipno inclinando la testa come un gufo.
Il dio lo imitò sorridendogli. «Ma a differenza sua io lo so giocare.»
Giordano si alzò dalla poltrona stiracchiandosi e sbadigliò sonoramente. «In ogni caso credo che la sessione sia andata a farsi benedire per oggi, ti sta lampeggiando lo schermo amico.»
Efesto voltò l’occhio metallico verso l’interno del suo cranio per poi iniziare a borbottare fra sé e sé qualcosa in incomprensibile.
«Sì, la maggior parte delle anime ha ritrovato la sua sfera, ce ne sono qualche miliardo che si è perso per le Praterie e altri la cui sfera è stata distrutta durante la gara. Alcuni di loro se ne stanno rendendo conto e stanno andando ad arrendersi.» puntò di nuovo lo sguardo su Giordano, le folte sopracciglia gli scurivano lo sguardo rossastro e rovente come quello del fratello. «Hai giocato davvero un bel tiro con questa gara, in moltissimi si sono persi o lo faranno in seguito, la Foschia raggiungerà livelli tali che mai nessuno di noi ha visto.»
Giordano si strinse nelle spalle e recuperò la sua giacca. «Beh, non è affar nostro, no? Della foschia se ne occupano le divinità dell’aldilà e quelle della magia. E poi, non credo che ad Ecate farà schifo un po’ di Foschia extra.» terminò facendogli l’occhiolino.
Thanatos imprecò, «Te lo ricordi che sono anche io un dio dell’aldilà?»
«Sì, ma non ti occupi comunque dell’incremento della Foschia, né tanto meno delle anime giudicate. A te il compito di mietere ogni vita dal suo corpo terreno e di scortarla alle porte dell’Ade, dopodiché il tuo lavoro è finito, giusto?» chiese retorico.
Con un ultimo cenno del capo rivolto a tutti e a nessuno si avviò lentamente verso uno dei tanti varchi presenti nel laboratorio, camminando ad agio con il sigaro spento tra i denti ed un ghignò ferino a squarciargli il volto.
Probabilmente, se non fosse stato per il sigaro, sarebbe già scoppiato a ridere.
Era mai successo che le cose filassero così lisce?


 
*
 


Gli ci volle un momento per capire cosa stava succedendo, per capire che tutto fosse vero.
Lo strepitio stonato che aveva sentito apparteneva ad un giovane di media statura che si stava avvicinando a loro ad una velocità incredibile.
 
Quasi volasse.
 
Jonas batté le palpebre, le mani che lentamente scivolavano via dal girocollo di metallo che stava inutilmente cercando di strapparsi di dosso. Caddero deboli lungo i fianchi, le mani gli formicolavano come quando era estate, sembrava quasi che gli si stessero gonfiando a ritmo del battito potente, profondo ed incessante del suo inesistente cuore morto.
Il ragazzo batté le palpebre di nuovo e poi ancora una volta, senza riuscire a fermarsi, senza riuscire a credere ai suoi occhi, al sorriso luminoso che inghiottiva tutto il volto pallido e macchiato di Cade. Le sue guance erano chiazzate di rosso, come se la corsa l’avesse sfiancato, come se la gioia di rivederli l’avesse fatto emozionare.
 
Abbiamo il sangue, forse non come lo avevamo in vita, ma possiamo sanguinare ed arrossire. A quanto pare non è un’esclusiva solo mia.
 
Improvvisamente si ritrovò a sorridere sollevato ed euforico: era tornato. Cade era riuscito a ritrovarli, a tornare indietro da loro.
Non li aveva abbandonati.
 
Non come hai fatto tu fin troppe volte, con fin troppe persone.
 
Quel pensiero lo rallentò all’istante, gli pareva di essersi infilato in una vasca piena di miele e persino i movimenti di Cade gli sembrarono d’improvviso più lenti.
Cade che non li aveva abbandonati, che non era in giro a cercare la sua sfera ma che era volato dritto da loro, dai suoi compagni, come sicuramente aveva fatto milioni di volte in vita.
Cade che l’aveva salvato, rassicurato, aiutato. A cui lui aveva urlato in faccia e da cui era scappato senza neanche curarsi di vedere se lo stesse seguendo.
 
Perché la mia sfera era più importante, il mio ricordo era più importante di ogni altra cosa e Lea non doveva vederlo. Era più importante che il mio segreto restasse tale, più importante di un amico.
 
Si era chiesto più volte cosa avrebbe fatto una volta ritrovato il compagno, cose gli avrebbe detto, cosa avrebbe detto loro Cade. Dov’era stato? Come aveva fatto a trovarli? Era stato un caso? Si era messo a cercarli? Ed ora tutte quelle domande si annullarono davanti ad un unico quesito: mi ha perdonato?
Le sue parole, le ultime che si erano scambiati prima che lui si mettesse a correre nel nulla, erano state di consolazione, di incoraggiamento, ma Jonas sentiva che non erano bastate, che non potevano essere abbastanza. Dovevano discuterne, doveva chiedergli scusa per quella sfuriata e spiegargli com’erano andate davvero le cose. L’aveva fatto con tutti gli altri, in un qualche modo, poteva sforzarsi di dire un po’ di più al suo amico. E lo sapeva, Jonas lo sapeva che se in quel momento si fosse messo a correre incontro all’altro Cade l’avrebbe preso al volo e l’avrebbe abbracciato, ma c’era quel senso di pesantezza, di imbarazzo, di vergogna che gli si era posato sulle spalle come un mantello spesso ed opprimente, che non gli permetteva di fare un solo passo.
Si sarebbe offeso? Cade sarebbe stato ferito dalla sua reazione, dal non andarlo immediatamente a salutare? O si sarebbe ricordato del fatto che era solo un vile codardo che aveva abbandonato tutte le persone che amava solo per paura di dover combattere per loro? O magari l’avrebbe capito, ormai lo conosceva, sapeva come ragionava, come si comportava, come reagiva.
Come l’adolescente che era Jonas si ritrovò bloccato dal peso dei suoi pensieri, dei suoi inesistenti e concretissimi dubbi, delle sue paure, e fu con sguardo smarrito, preoccupato, timoroso, che guardò senza vederla davvero Lea staccarsi dal gruppo con un saltello di felicità e avanzare veloce verso l’irlandese a braccia aperte.
Almeno uno di loro si era mosso, almeno uno di loro era andato ad accogliere il loro amico.
 
Anche se è una delle persone con cui ha passato meno tempo, anche se non sono i suoi compagni di inizio gare e nemmeno io.
 
Ma Lea era pur sempre la ragazza a cui aveva confessato la sua ferita ed i suoi dubbi sulla loro “vita”. Forse si fidava di più di lei, perché era un’adulta, perché era un’infermiera, era una beata, era morta per far del bene, per salvare delle vite e invece lui-
Lui non era degno della fiducia di nessuno, né della sua famiglia, che aveva tradito, né dei suoi amici, a cui nascondeva la verità.
Le mani gli tremarono, gonfie e sudaticce, risalirono lentamente i suoi fianchi ed il torace magro, quasi scheletrico sotto la camicia bianca sporca e malconcia. Le dita sfiorarono il rovo metallico ed improvvisamente quelle spine smussate punsero come aghi.
Che stava succedendo? Perché si riduceva sempre in quello stato? Perché non poteva comportarsi come una persona normale, come una persona decente? Si era detto che sarebbe stato forte, che avrebbe affrontato tutto a testa alta, che non si sarebbe più fatto metter soggezione da nessuno dei suoi compagni ed ora… ora invece era lì con lo sguardo basso a domandarsi se il suo amico l’avrebbe ancora accolto, l’avrebbe ancora protetto, avrebbe ancora scherzato con lui, se gli sarebbe ancora stato vicino, se-
 
Mi vorrà ancora bene?
 
Con gli occhi improvvisamente lucidi Jonas mise a fuoco Cade stringere Lea in un abbraccio spacca ossa, tirarla su da terra e poi rimetterla immediatamente giù lamentandosi del fatto che una donna così alta lo sbilanciava e rischiava di far cadere a terra entrambi. Vide Lea ridere e stringerlo di nuovo prima di stampargli due baci sulle guance e uno sulla fronte. Vide Eliza avvicinarsi di gran passo, il sorriso aperto sul volto stanco. Vide Úranus sorridere sollevato sotto tutta quella barba e Nathan imprecare pesantemente prima di rifilargli un pungo su una spalla e mandarlo quasi lungo a terra. Sentì a mala pena il fruscio del vestito di Jane, che lo superava alzando gli occhi al cielo e lamentandosi di come l’altro c’avesse messo troppe per trovarli  e poi, quando li vide lì tutti assieme, quegli sconosciuti di cui sapeva poco e niente, che l’avevano accolto, protetto, spalleggiato e consolato ognuno a modo loro, quando li vide ridere e bisticciare, Jonas si rese conto che quella che aveva provato sino a quel momento non era semplicemente la paura di aver lasciato Cade senza spiegazioni, senza un vero confronto, di essere odiato per sempre, di aver abbandonato un amico per puro egoismo, per codardia: quella doveva essere la stessa paura che aveva provato sua madre quando non l’aveva trovato in camera, la paura d’aver perso per sempre una persona cara, amata.
 
Famiglia, eh?
 
Ma a differenza di sua madre, a lui sarebbe stato permesso abbracciare di nuovo l’amico, sarebbe stato concesso un altro po’ di tempo assieme.
Con un sorriso mesto abbassò la testa e chiuse gli occhi, pregando chiunque fosse in ascolto di portare le sue parole a sua madre, ovunque ella fosse.
 
«Perdonami mamma, perdonami per favore. Non farò lo stesso errore due volte. Perdonami.»
 
«Gli Dei ascoltano sempre le preghiere dei giovani puri di cuore, la vostra voce è più cristallina e limpida, rimbomba come le parole della sfortunata Eco, si riflette su ogni superficie come il volto di Narciso. Non sarà ignorata, specie dalla divina Ebe e dalla somma Era. La preghiera di un bambino per la propria madre non resta inattesa, ella udirà presto le tue suppliche.»
 
Jonas alzò di scatto la testa, gli occhi ora sgranati al suono di quella voce così famigliare che aveva messo da parte nei meandri della sua anima.
Deglutì sonoramente e seppe che ne aveva decisamente bisogno, morto o meno che fosse.
Davanti a lui, illuminato dalla luce crepuscolare che seguiva ogni anima nell’Ade e da una luce più chiara che pareva emanata dalla sua stessa pelle, il giovane più bello che avesse mai conosciuto gli sorrise con la magnanimità di una Madonna rinascimentale, di un Cristo sulla croce con una scintillante aureola fatta di spine e rovi.
Le parole quasi rimasero incagliate sulla lingua secca.
 
«Cicno?»
 
 
 
Non era più riuscito a trattenersi ed aveva esultato con gioia, a voce alta, saltando in avanti a portando con sé una nube di polvere ancora più grande di quella che stava alzando con la sua corsa a sfioro del terreno.
Li aveva visti, li aveva visti tutti quanti, uno per uno, distinguendoli alla perfezione e la gioia era tale che non si rese quasi conto di quando Cicno si sottrasse alla sua presa mormorando un tenue “va da loro”, come se gli servisse un ulteriore incitamento per farlo.
Anche i suoi compagni l’avevano visto, lo capì dal movimento repentino delle loro teste, tutte rivolte verso di lui, e poi dal salto emozionato di Lea, che come una bambina aveva battuto le mani e gli era corsa incontro. Se non fosse stato per i capelli biondi e per quegli occhi verde salvia, a Cade avrebbe tanto ricordato tutte le volte che tornato a casa, sua sorella arrivava di gran carriera per farsi prendere in braccio e “volare in aria” come gli uccellini. Era abbastanza sicuro che non sarebbe riuscito a far volare Lea come faceva con la sua Annie, non senza l’aiuto di un po’ dei suoi poteri divini, ma in quel momento non gli interessava minimamente.
La ragazza gli piombò addosso stringendolo forte in un abbraccio soffocante che Cade ricambiò con felicità, sollevandola comunque un po’ nella foga prima di rimetterla giù ridendo.
 
«Wooo! Piano donna! Sei alta quanto l’albero di una nave, se ci metti troppa forza ci sbilanciamo e finiamo tutti e due con le chiappe a terra!»
«Sei vivo! Sei vivo! Dio sanissimo, Cade! Ci hai trovati! Pensavamo il peggio! Ti stavamo cercando anche noi!» strepitò felice stampandogli un bacio in faccia ad ogni interruzione per riprendere fiato.
Cade rise ancora e strinse le mani della semidea prima di spostare lo sguardo su Eliza che, veloce, l’aveva raggiunto sorridendo sollevata.
«Ci hai fatto prendere un colpo, rosso, abbiamo anche temuto il peggio.»
«Naaa! Ma ti pare? E chi mi ammazza a me?»
Nathan imprecò a voce alta, avvicinandosi poi con un sorriso beffardo. «Io un paio di idee ce le avrei, stronzetto.» disse rifilandogli un pugno sulla spalla.
Cade ondeggiò drammaticamente, cercando di non far vedere quanto quella semplice azione l’avesse davvero scosso. A quanto parva, malgrado i voli perfettamente riusciti, ancora non aveva ripreso a pieno le sue forze.
«Ouch! Andiamo soldatino, lo so che il vecchio compagno Cade ti è mancato! Non c’è bisogno di nascondere il tuo affetto con questi modi rozzi!»
«Il “compagno Cade” ha comunque impiegato troppo tempo a tornare all’ovile, avremmo fatto tutti in tempo a rinascere e morire alla fine della nostra seconda vita. Ti abbiamo persino ritrovato il ricordo nel mentre!» sbuffò Jane alzando gli occhi al cielo.
Cade invece sgranò i suoi, quasi estasiato da quelle parole: poteva esser più felice di così in quel momento?
«Oh, ma anche io ho fatto il mio, nel mentre! Ehi là, Golia? Mica ti sei perso un discorso motivazionale da parte di mamma? Che per altro, se permetti, gran bella donna, dico sul serio.» sorrise ammiccando all’islandese.
L’uomo aggrottò un attimo le sopracciglia, cercando di capire il senso di quelle parole, di convincersi d’averle interpretate bene. Non voleva riporre troppe speranze in quell’insinuazione non poi così sibillina, ma le sue remore parvero del tutto sciocche quando Cade si tolse la sacca dalla spalla e ne estrasse un globo grigiastro, da cui si alzavano parole flebili ma nessun altro tipo di rumore.
Úranus riconobbe la sua vecchia casa, la stanza in cui era nato e cresciuto, il tavolo, il pavimento fatto di terra e paglia, la figura quasi nebulosa di sua madre.
Con mani tremanti afferrò la sfera e se la portò al petto, stringendosela contro sino ad incrinarla. Un leggero crack ed il fumo scolorito gli si insinuò nel torace mentre lui, ad occhi chiusi, ricordava finalmente alcune delle parole più dolci che sua madre gli avesse mai rivolto.
 
Quando mi disse d’aspettare un bambino, mio fratello. Quando scoprii che non sarei più stato solo e che avevo un motivo in più per lottare contro il destino tristo.
 
Allo stesso tempo Eliza tirò fuori dall’interno della sua giubba la sfera nera di Cade, che profumava di pioggia e di sangue, che suonava come acqua su tetti di tegole e zoccoli di cavallo nelle pozzanghere sulle strade mattonate.
Cade quasi non se ne accorse, troppo rapito, quasi ipnotizzato, dalla nube di ricordo e dal volto rilassato di Úranus. Quando la figlia di Nike gli spinse con gentilezza la sua sfera dei ricordi tra le mani, Cade esitò. L’ultima volta che aveva trovato una sfera assieme a loro era stata presumibilmente quella di Jonas.
Fu puro istinto quello che lo portò ad alzare lo sguardo e cercare gli occhi chiari de ragazzino, a cercare il suo volto pallido ed i suoi capelli di quel biondo slavato che nella morte pareva quasi bianco.
Jonas non gli si era fatto vicino, non si era mosso, pietrificato sul suo stesso posto lo scrutava da lontano e Cade sapeva perché, ne era perfettamente consapevole. Ma per quella volta decise di non agire di testa sua, di non fare come avrebbe atto in altre situazioni: non si sbracciò per attirare la sua attenzione e scioglierlo dalla trance in cui sembrava esser caduto, non lo chiamò a gran voce e non corse da lui per abbracciarlo malgrado avesse avuto paura di non rivederlo più. Di non rivedere più nessuno di loro.
 
Di perdere il mio stormo ancora una volta, senza possibilità di scelta.
 
Si sentiva così patetico, così sciocco. Gli ci era voluto pochissimo per affezionarsi a quei sei folli sfortunati, tanta era la sua fame d’affetto, tanto era il suo bisogno di una famiglia, di un gruppo con cui affrontare il mondo, con cui volare, a cui appartenere.
Essere parte di qualcosa e condividere un sogno, era davvero stupido eh?
Poi una macchia di luce.
Con la lentezza di chi ha tutto il tempo del mondo, una figura eterea, angelica s’avvicinava piano a Jonas, un passo delicato e calibrato dopo l’altro, come un animale curioso che approccia qualcosa che aveva conosciuto in passato ma di cui aveva perso le tracce per anni.
 
 
Come un predatore che si avvicina sinuoso alla sua preda.
 
 
Cade se ne sentì allo stesso tempo sollevato e preoccupato, per poi ricordarsi che Cicno l’aveva salvato da scomparsa certa, che per quanto avesse già dimostrato di avere un caratterino non proprio facile era pur sempre il bell’angioletto che gli aveva prestato soccorso, che aveva preso a suo tempo Jonas sotto la sua ala.
 
Che possiede dei gioielli simili alla collana di Jonas.
 
I pensieri gli si accumularono nella mente, accavallandosi come le onde che si infrangevano sulle sponde di Dublino ogni qual volta una nave rientrasse in porto.
Le dita di Eliza si avvolsero con delicatezza alle sue, facendogli stringere la sfera scura.
 
«Devi romperla, così potrai riavere il tuo ricordo.» gli ricordò dolcemente.
Cade annuì, passando lo sguardo dalla donna al globo di vetro. Sospirò pesantemente, se lo avvicinò al petto proprio come aveva fatto Úranus, per poi colpirlo con la mano libera mandandolo in frantumi.
Tutti i suoi compagni fecero un passo indietro, non volendo immischiarsi nel ricordo ora libero, memori di quelli che avevano già visto.
La sensazione fu come quella che aveva provato centinaia di volte osservando l’orizzonte, cercando di scorgere le bandiere dei pescherecci e delle navi mercantili, le figure ondeggianti delle barche e quelle magre e malmesse dei suoi compagni alla fine della via, quando finalmente tutti potevano tornare a casa, ognuno con il proprio gruzzoletto.
Fu come riuscire finalmente a visualizzare con chiarezza, a ricordare, qualcosa che già sapeva, che aveva sempre saputo, che era suo, suo e di nessun altro e che gli era stato strappato per troppo tempo.
I rumori e gli odori tornarono prepotenti ad invaderli le membra, a riportarlo in quella casa, in quel pomeriggio piovigginoso, in quell’attimo di quiete.
Gli altri non potevano saperlo, non avrebbero mai potuto intuire la portata di ciò che forse avevano udito, sentito, assaporato, ma quello era stato l’ultimo giorno della sua vita. Cade sapeva con certezza, con la certezza assoluta dei sogni e della conoscenza data dal vissuto, che sarebbe morto la mattina dopo, tra le braccia di un amico, di un fratello di cui non ricordava più il nome.
Avrebbe quasi voluto che il Labirinto gli avesse rubato lui, gli avesse rubato il suo migliore amico e non quell’illusoria calma traditrice che nascondeva la morte dietro le spesse tende del suo sipario.
 
Ora non gli rimaneva che attendere un altro fratello.
 


 
*
 
 


Jonas si voltò lentamente verso la sua sinistra. Ad una rispettosa seppur breve distanza se ne stava tranquillo il giovane con cui aveva condiviso la fuga dai Campi di Pena, a cui doveva l’anima e anche la prima prova.
Cicno lo fissava con gentilezza, con quello stesso sguardo quasi magnanimo con cui l’aveva osservato durante il loro primo incontro, lo sguardo di un adulto che cerca di mettere a suo agio un giovane ma anche quello di un conoscente che si rincontra dopo tempo.
Il giovane uomo era persino più bello di come lo ricordasse: le sue veti pulite e rammendate, i calzari lucidi, i capelli vaporosi ed il volto pulito, le cicatrici scomparse dalla sua pelle levigata. Sembrava che qualcuno l’avesse aiutato e malgrado Jonas non lo conoscesse così bene, non avesse stretto chissà quale rapporto con lui, si ritrovò quasi felice di ciò. Ma più di ogni altra cosa, ora che pareva nuovo di zecca, sembrava risplendere di luce propria, scintillante come l’oro del sole nel mezzo della mattinata, come i suoi riflessi sul mare appena increspato dal vento.
 
«È un vero sollievo rivederti, Jonas. Nel Labirinto ho temuto il peggio, quando girandomi non ti ho più visto e a nulla sono serviti i miei richiami, mi sono rassegnato all’idea che l’edera della divina Persefone doveva averti fatto vittima dei suoi rami. Ma che gioia saperti sano e salvo e soprattutto in compagnia di viandanti certo più nobili di quelli tra cui ti portai.»
La sua voce era proprio come la ricordava, vellutata e gentile, decisa e lenta, calma nella sua sicurezza, nel suo modo affabile di pronunciare ogni parola, ogni intonazione, ogni flessione. Le labbra carnose si erano mosse piano, la lingua appena apparsa tra i denti avorio. Qualunque cosa fosse successa a Cicno l’aveva reso solo più affascinante e attraente di quanto già non fosse.
 
Lo stesso irresistibile fascino della luce, la stessa fatale attrazione del fuoco.
 
Non sapeva se poteva fidarsi al cento per cento di Cicno, con lui era sempre stato buono e non aveva mai avuto comportamenti strani, ma ritrovarselo davanti in quel momento, in quella situazione… Jonas aveva altro di cui preoccuparsi, aveva qualcun altro di cui preoccuparsi e Cicno-
 
«Suvvia, non rimaner fermo a fissarmi senza proferir parola. Cosa stai facendo ancora qui? Va ad abbracciare il tuo compagno perduto. È sempre un’emozione indescrivibile quando chi amiamo torna da noi. Magnifico, contro l’oblio che si prova alla loro scomparsa, sai?»
 
Quelle parole gli gelarono il sangue nelle vene. Il sangue che non avrebbe dovuto avere ma che invece scorreva a suo piacimento per il suo corpo inesistente.
Aveva davvero detto ciò che aveva detto? Aveva davvero sott’inteso ciò che credeva?
No, era impossibile, Cicno non poteva sapere cosa gli fosse successo in vita, perché era morto-
 
Quando chi amiamo torna da noi.
L’oblio della loro scomparsa.

 
Cicno non lo sapeva. L’aveva appena detto agli altri e Cade- Cade non l’avrebbe mai detto a nessuno, non avrebbe tradito un segreto così importante, così pesante.
Una coincidenza, doveva esser solo una coincidenza. Magari parlava per esperienza, magari le parole di Cicno si riferivano alla paura che loro tutti dovevano aver provato alla scomparsa del compagno. Sì, doveva esser per forza così, non c’era altra soluzione.
Cicno non poteva sapere, non poteva sapere che lui aveva abbandonato per sempre i suoi amati, che non era tornato da loro. Non poteva aver insinuato quanto la sua famiglia dovesse aver sofferto, lui non- non lo-
 
«Ssh. Calmati, fai respiri profondi.»

Le aveva già sentite quelle parole, Lea gliele aveva ripetute fino alla sfinimento, eppure, pronunciate da Cicno, ebbero tutto un altro effetto su di lui.
Un’ondata di calore si disperse per il suo corpo, tenue come i raggi del meriggio, quando il sole inizia a tramontare, gentili come l’ultimo sguardo che la stella getta sulla terra prima di lasciar spazio alla pallida compagna.
Jonas alzò lo sguardo sull’uomo, dalla mano che teneva delicatamente poggiata sul suo polso, risalendo lungo il braccio fine, il torace asciutto, il collo elegante ed il volto gentile, mite come i volti degli angeli negli affreschi delle basiliche.
La calma lo pervase come non gli succedeva più da anni, da quando il suo cuore ancora pompava vero sangue, vera vita.
 
«Come-?» balbettò appena.
Cicno sorrise. «Siamo legati, mio giovane amico. I doni di due fratelli creano una connessione forte, ma mai salda come quella tra anime pregne d’affetto l’una per l’altra. Cade era molto preoccupato per te, non farlo attendere oltre.»
Con una leggera spinta lo indirizzò verso il resto dei suoi compagni, che ora fissavano sia lui che la nuova figura guardinghi e stupiti.
Jonas però non guardò nessuno se non Cade, non si concentrò sul volto indagatore di Eliza, su quello sorpreso di Lea, quello giudicante di Jane o quello palesemente incazzato di Nathan. Fissò gli occhi azzurri in quelli verdi e vibranti di Cade e deglutì.
 
«Un respiro profondo, prendi coraggio e va da lui. Riabbraccia tuo fratello.»
 
Annuì, quelle parole parevano maledettamente giuste, perfette per quella situazione.
Non era la prima volta che qualcuno si rivolgeva a loro due con quell’appellativo: “fratello”.
Jonas non ne aveva mai avuto uno, la cosa più vicina ad un fratello era stato Ludwig ma poi era andata com’era andata. Eppure calzava bene ora, sorvolando l’imbarazzo, l’intimità che una parola del genere comportava, sembrava proprio qualcosa che avrebbe potuto apprezzare, a cui si sarebbe potuto abituare.
Avere un fratello maggiore che si prende cura di te. Dopotutto non era ciò che Cade aveva fatto fino a quel momento? Non era ciò che l’irlandese aveva rimarcato in continuazione con tutti i suoi “istinti da fratello maggiore”, tutti i suoi nomignoli, la fastidiosa invasione dello spazio personale, quel continuo contatto fisico non richiesto che ormai aveva già imparato ad accettare, a riconoscere quando era Cade a farlo.
L’ansia che aveva avuto fino a quel momento si sbriciolò come i cocci calpestati delle sfere dei ricordi, polvere e scintille di un peso ormai leggero.
Avanzò di un passo, poi di un altro, senza correre, cercando di mantenere quel minimo di dignità che gli era rimasta, in parte ancora titubante rispetto al loro ultimo incontro.
Ma come sempre ci pensò Cade a toglierlo d’impaccio, a farsi spazio tra i loro compagni, andandogli incontro con un sorriso luminoso – come se non stesse aspettando altro che una sua mossa – ed uno sguardo preoccupato, lo stesso sguardo che aveva sua madre ogni volta che lo vedeva saltare verso l’alto durante le gare d’atletica. Era lo sguardo di qualcuno felice, fiero, di poterti abbracciare e acclamare, ma che al contempo non poteva esimersi dalla preoccupazione d’averti visto sfidare la gravità solo con l’ausilio di un’asta ed una buona rincorsa.
Cade prese un paio di respiri profondi e allungò le mani verso di lui, pur continuando a camminare. Non appena fu in grado anche solo di sfiorarlo con le dita, si sporse in avanti per afferrarlo saldamente per i polsi e tirarselo contro.
L’aveva già fatto, Cade l’aveva già obbligato a nascondersi contro i suo petto, proteggendolo da tutto e tutti, ma questa volta Jonas era lucido, era vigile, era presente ed era-
 
Felice.
 
Strinse forte gli occhi, storcendo il naso e respirando a pieno, seguendo il ritmo del compagno. Serrò le braccia attorno alla vita di Cade e spinse con la fronte contro il suo sterno.

Era lì, era tornato da loro. Non l’aveva abbandonato, li aveva cercati. L’aveva cercato.
 
Dio, era possibile che una persona che conosceva da così poco tempo, gli fosse mancata così tanto?
 
«Non farlo mai più.»
La voce di Cade gli giunse bassa e tranquilla, ma non gli servì guardarlo in volto per capire che si stesse trattenendo. Il tremolio delle sue braccia, del suo intero corpo era più che esaustivo.
«Non ti azzardare mai più a scappare da me in quel modo. Sono stato chiaro? Non mi interessa se abbiamo litigato, se ti è presa una crisi adolescenziale o che so io. Non-scappare-mai-più-da-me.» Lo disse con durezza, con una punta di rabbia che nessuno dei due si sarebbe aspettato.
E chi l’avrebbe mai detto che Cade l’avrebbe odiato per essersene andato e non per quello che gli aveva detto?
No, si disse subito Jonas, spostando il capo per potersi poggiare alla spalla del compagno, non lo odiava di certo, Cade era solo stato terribilmente preoccupato per lui.
 
Dio, mi sono trovato una madre anche all’inferno.
 
Il pensiero lo fece sorridere e stringendo un po’ di più l’abbraccio annuì in silenzio.
 
«Che poi, parliamone, sei morto cazzo, non puoi avere crisi adolescenziali, non ce li hai gli ormoni in giro e tutte quelle cose strane che dicono i medici.»
Quel tentativo palese di alleggerire la situazione fece sorridere Jonas ancora di più.
«Possiamo sanguinare, vuoi che non possa avere gli ormoni “in giro”?» gli domandò retorico ed un po’ provocatorio.
Cade imprecò.
«LEAAAAA! Ti avevo detto di non dirlo a nessuno!» si lamentò voltando la testa verso gli altri.
La figlia di Apollo si strinse nelle spalle, sorridendo imbarazzata. «Mi spiace, non ho potuto farne a meno!»
«A proposito di questo.» s’intromise subito Eliza, lo sguardo improvvisamente serio.
«Grandissima testa di cazzo.» aggiunse per buona misura Nathan.
«Quando pensavi di dircelo?» continuò la mora assottigliando lo sguardo.
Cade sbuffò. «Scusate, sono appena tornato dalle infinite ed incredibilmente nebbiose Praterie degli Asfodeli, ci siamo appena rincontrati, ho appena recuperato il mio ricordo e sto condividendo un momento importante con Binneas, che dite? Me lo date un attimo di respiro prima di attaccarmi tutti insieme? Dannati mastini della malora.» aggiunse poi a bassa voce, solo per le orecchie di Jonas, che ridacchiò divertito.
Non stava piangendo e addirittura riusciva a ridere, quello sì che era un traguardo.
«Siamo ancora nelle “nebbiose Praterie”, se ti interessa. Ci siamo sempre stati. Tutti, non hai l’esclusiva.» gracchiò infastidita Jane.
«E smettila di importunare Jonas.» aggiunse per buona misura Eliza.
Ma Cade invece gli sorrise, ruotando su sé stesso e trascinando Jonas con sé. «Non fare così, Elza! Se vuoi abbraccio anche te! Ora che ho insegnato al passerotto come fare possiamo addirittura darti lezione in due!»

«Temo questo non sia il momento più adatto.»
 
La voce che parlò catalizzò immediatamente tutti gli sguardi su di sé.
Cade girò ancora, portando sempre Jonas appresso, per sorridere a trentadue denti al giovane uomo dalla voce di miele.

«Vero! Ora dobbiamo andare alla prossima prova! Abbiamo tutti i nostri ricordi, sì? Bene, mettiamoci in marcia allora! Oh, ma che testa che ho, le presentazioni!»
Strinse più saldamente le braccia attorno a Jonas e saltò in avanti, trascinandolo con sé lontano dal suolo in un balzo da coniglio.
«Angioletto bello, questa è la truppa. Biondino piccolo, qui, già lo conosci. Biondastro laggiù, con i vestiti come l’erba, ma del colore sbagliato in questo caso, è Nathan, il piccino di casa.»
«Che cazzo hai detto?»
«Bionda alta quando te, oddio, no non quanto te… mi sa che sei pure più alto di soldatino! Sì, soldatino è sempre biondastro, sono due nomi, ma entrambi lo fanno incazzare in egual modo, a te la scelta per quello che ti pare provochi la reazione peggiore. Dicevo. Bionda alta e gentile, è madama Lea. Il gigante rosso è Úranus, di lui sono sicuro non sei più alto. La mora in divisa è Elza-»
«Ma per l’amor- è Eliza. ELIZA!»
«- aspetta, ma tu sai cos’è una divisa?»
«Purtroppo mi sfugge.» ammise candidamente il giovane,
Cade annuì. «In ogni caso, è quella che si è lamentata. E poi c’è la ragazza delle Praterie, una rompi palle di prima categoria. Sta sul cazzo a tutti, quindi non sentirti in dovere di comportarti in modo gentile con lei solo perché è una ragazza.»
«Lo sa che lo sentiamo anche se parla con un tono di voce normale?»
«Perché a te deve dire che sei bionda e gentile e a me deve sempre insultarmi?»
«Perché ispiri insulti di vario genere e varia portata ogni volta che dai aria alla bocca, piccino.»
«Non ti azzardare a chiamarmi in quel modo, cazzo!»
«Almeno di voi non ha detto solo che siete alti.»
«No, ci ha detto che siamo antipatici!»
«E sbaglia di proposito i nostri nomi presentandoci.»
«Sì, ma a parte questo, lui, chi è?»
 
La domanda di Lea portò immediatamente il silenzio tra i cinque compagni, che curiosi si trovarono tutti di nuovo ad osservare il nuovo arrivato.
Cicno sorrise loro in modo gentile, portando una mano al petto in un leggero inchino.
 
«Il mio nome è Cicno di Tebe e malgrado le mie vesti siano ora candide, fui un dannato.»

Nessuno osò parlare dopo quell’affermazione, tutti troppo intenti a fissarlo sorpresi, cercando di capire quanto quelle parole potessero esser vere, che senso avrebbe avuto mentire su una cosa del genere, come poteva un dannato esser così ben messo pur provenendo palesemente da un’epoca remota e soprattutto per quale diavolo di motivo Cade riuscisse ad incontrare solo dannati.
 
«Ma è un angioletto e mi ha salvato la vita. L’anima. Quel che è.
Oh! E ha salvato anche Jonas all’inizio della gara, vero?» chiese rivolto al ragazzino che ancora abbracciava, senza aspettare neanche una risposta verbale oltre un vago annuire del capo. «Ha trovato la sfera di Úranus!» continuò.
«Questo non è vero, l’ho rivenuta al tuo fianco quando ti ho soccorso.» disse placito l’altro.
«Quindi, visto che ha il brutto vizio di salvarci le chiappe, in un modo o nell’altro, verrà con noi.»

«COSA?!»
«Come sarebbe a dire “verrà con noi”?»
«In che senso?»
«Lui farà che?»
«E chi l’ha deciso?»
 
«Ma aspettare, adesso arriva il meglio: è un semidio come noi! Come Lea per la precisione! E concordiamo entrambi nel dire che due medici- guaritori, chiedo scusa- siano meglio di uno!» concluse Cade orgoglioso, portando una sola mano sul fianco e gonfiando il petto felice.
Cicno, dal canto suo, continuò a sorridere in quel modo così pittoricamente gentile e fece un cenno del capo a Lea.
«Anche voi condividete il mio triste destino a quanto pare, me ne dolgo.»
L’italiana batté le palpebre confusa: non era certo la prima volta che incontrava un altro figlio di Apollo, era stata letteralmente cresciuta da un suo fratello, ma dalle vesti del nuovo arrivato, dal suo modo di parlare, dalle sue movenze, Lea poté dire con certezza che quel ragazzo doveva essere uno dei suoi primi fratelli.
Cicno di Tebe era definitivamente un figlio dell’antica Grecia.
«Triste destino?»
«La nostra parentela.» spiegò semplicemente l’altro.
Cade annuì. «Anche a lui sta sul cazzo paparino come me e come alla ragazza delle Praterie. O forse per lei è meglio dire mammina, giusto?»
Jane sbuffò. «Anche papà, tranquillo.»
«Credevo amassi i tuoi genitori.» Disse Úranus guardandola accigliato.
«Sono adottata.» rispose lei lapidaria. Il discorso parve chiudersi così.
 
Nathan però guardava ancora con sospetto il nuovo arrivato. Non era raro che i semidei odiassero i loro genitori divini, ne aveva visti a bizzeffe, ne aveva studiati ancora di più, eppure chi veniva dalle epoche più antiche, quelle in cui gli Dei erano ancora venerati pubblicamente, tendevano ad aver rapporti migliori con i loro genitori, a rispettarli, ad adorarli, ad esserne quanto meno fieri. Il giovane uomo davanti a lui non rientrava certo in questa categoria, malgrado il nome fosse perfettamente identificativo della sua epoca, quasi quanto le sue vesti. Eppure, eppure c’era qualcosa che non quadrava. Più Nathan lo osservava più gli sembrava che qualcosa gli stesse sfuggendo.
Cicno di Tebe.
Cicno di Tebe.
Il nome non era giusto, mancava qualcosa. Lo conosceva. Nathan sapeva di conoscerlo ma ugualmente mancava qualcosa.
Di Tebe. Perché “di Tebe”? Cosa c’era stato a Tebe di così importante?
Era ovviamente una domanda retorica, ce ne erano state a bizzeffe di storie, eventi e personaggi importanti provenienti da Tebe, ma c’era ugualmente qualcosa che stonava con quel nome.
 
Così imparo a saltare le lezioni di miti e leggende quando non parlano di mio padre, di Dei guerrieri o di eroi che combattono e muoiono o ammazzano male la gente. Dei, Lucy aveva ragione.

 
«Nathan?»
Il soldato si voltò di scatto, tirato fuori a forza dai suoi ragionamenti dal richiamo della compagna.
Eliza lo fissò per un attimo, una silenziosa domanda per sapere se andasse tutto bene, e quando lui annuì lei lo imitò.
Il figlio di Ares si schiarì la voce. «Quindi ci dobbiamo portare appresso anche lui ora? E sentiamo un po’, chi l’avrebbe deciso?» chiese con quella sua solita aria strafottente.
Il greco spostò con lentezza lo sguardo su di lui, come se non fosse importante, come se la sua voce l’avesse a mala pena sfiorato senza permettergli di comprendere il significato delle sue parole. Alzò un sopracciglio e poi inclinò la testa verso Cade.
«Chi mi hai detto esser lui?» domandò ignorando completamene la domande del biondo.
Cade sorrise sornione, improvvisamente divertito da quel semplice commento.
«Il biondastro o soldatino. È il più piccolo tra di noi. No, non lasciarti ingannare dall’uccellino qui, Jonas sarà pure morto sedicenne-»
«Erano quasi diciassette!»
«- ma quando lui è passato a miglior vita il nostro bel bambino non era neanche nei sogni di mammina e papino.» spiegò come se Nathan non fosse lì di fronte a loro.
«Che cazzo vuol dire! Ho comunque vissuto più anni di lui, quindi sono più grande io!»
«Che scurrilità.» notò Cicno storcendo il naso. «Fa sempre così? Proprio come i monelli di strada, che si riempivano la bocca di parole a loro sconosciute solo per imitare gli adulti.» disse scuotendo la testa con disapprovazione.
«Ma vaffanculo! Mondello di strada a chi? Ho fatto la guerra io, cazzo! Non sono l’ultimo arrivato!»
«Esatto! Sembra un bambino che vuole farsi grande. Un po’ come il nostro Jonas, solo che lui non ha ancora sviluppato bene la sua personalità-»
«Ma che cavolo! Non è vero! La mia personalità è formatissima!»
«- quindi tante cose gli si perdonano. Ma biondastro se l’è fatta qualche primavera in più, quindi è un imitatore di adulti formato, ormai è così e così ce lo teniamo.» continuò Cade scuotendo anche lui la testa, come a dar ragione a Cicno.
«Senti, testa di cazzo rossa.» iniziò Nathan rimboccandosi le maniche, «Adesso ti faccio vedere io quanto sono formato.» disse già furente.
Evidentemente però, la scelta delle parole non fu delle più felici, perché Cade ghignò incredibilmente compiaciuto da quell’uscita e il nuovo arrivato- beh, lui anche. All’incirca.
Cicno lo squadrò da capo a piedi, soffermandosi sulle spalle, sulle braccia mezze scoperte, per poi scendere al torso, ai fianchi nascosti nella mimetica e ai fianchi stretti dal cinturone.
Fece una smorfia.
«Non credo tu sia già formato abbastanza, giovane soldato, hai ancora molto da sviluppare.»
Quella frase ebbe il potere di bloccare tutti.
Jane sgranò gli occhi, sul volto pallido e sporco l’espressione di qualcuno che si stava palesemente trattenendo dal ridere, presa di sorpresa da un sott’inteso che non si aspettava.
Lea portò invece le mani alla bocca, scioccata quasi quanto Eliza che si ritrovò a far un passo verso Nathan, neanche si stesse preparando a difenderne la virtù.
Úranus invece rimase solo immobile, stringendosi inconsciamente nelle spalle quando Cicno spostò lo sguardo indagatore su di lui.
«Il tuo compagno fulvo è molto più formato di te, ma si può leggere nei suoi occhi limpidi l’inesperienza nell’utilizzare ciò che la natura gli ha concesso.» continuò il figlio di Apollo con calma.
Poi, quasi si fosse ricordato di qualcosa, voltò il capo verso Cade e, con l’espressione più neutra del suo repertorio, chiese con tranquillità:
«Perdonami Cade, non dovevo parlare di sessualità e genitali solo davanti alle donne o davanti a tutti quanti? »
A quella domanda il rosso non si trattenne più, scoppiando a ridere gettando la testa indietro, scuotendo Jonas che nel mentre si era fatto chiazzato in volto come i capelli del compagno, pregando tutte le divinità che conosceva, di tutte le religioni che conosceva, che Cicno non scandagliasse anche lui da capo a piedi per trarne le dovute conclusioni.
«No angioletto, ti avevo detto di non usare determinate parole davanti alle signorine.» disse con le lacrime agli occhi.
Cicno annuì. «Malgrado le tue premure, sono certo che quanto meno mia sorella non proverebbe vergogna nell’udire l’utilizzo di termini precisi per indicare il corpo umano.»
«Tipo quali?» domandò allora Jane, ormai incapace di trattenersi ancora.
«Come pene.» rispose tranquillo l’altro.
Jonas ringraziò sempre tutte le divinità che conosceva d’aver ancora il volto premuto contro la spalla di Cade, scorgendo con la coda dell’occhio Lea arrossire in modo velato, Eliza drizzare la schiena e guardare altrove, Jane scoppiare a ridere e Nathan imprecare ad alta voce, così forte da attirare l’attenzione delle anime più distanti.
Il figlio di Apollo però alzò un sopracciglio fissando il soldato. «Cosa significa “puttana”?»
Le risate di Jane divennero ancora più acute, tanto che la ragazza fletté le gambe per potersi sedere a terra e ridere di cuore, le mani premute sul petto. Di fianco a lei, Úranus non sapeva più da che parte guardare.
«Solo un modo per dire prostituta.» spiegò divertito Cade.
«Oh, una meretrice quindi? Non bastava già questo di nome?»
«Così suona di più come un insulto, non credi?»
«Posso dirti che certezza che qualunque donna, se venisse apostrofata “meretrice” nel mezzo di una piazza, o anche nel privato, se ne risentirebbe allo stesso modo. A chi dava della prostituta quindi?»
«A tutto e a niente, è solo un’imprecazione. Ora si usa moltissimo dirne anche a nulla di preciso, così, in generale.»
«Continuo a non comprendere come possiate esser diventati così sensibili nell’esporre e parlare del vostro corpo ma così lesti ad utilizzare insulti di ogni tipo.»
«Te l’ho detto che il mondo è peggiorato, tu non mi credi.»
«Ti credo, invero, ma continua a sorprendermi.»


«Dio, ditemi che non è vero.» ringhiò Nathan tra i denti, assistendo quasi inerme al piccolo siparietto montato su dai due: a quanto pareva Cade era già entrato più che in sintonia con il dannato.
Dannato che non solo appariva meglio di tutti loro beati messi insieme, ma che aveva anche avuto le palle di fare un commento palesemente a sfondo sessuale su di lui.


E no cazzo.
 
«Comunque.» disse con fermezza attirando l’attenzione dei due. «Sono più che formato, grazie.» ci tenne a precisare.
Cicno aggrottò le sopracciglio. «Non volva esser un insulto, solo una costatazione dei fatti. L’esperienza è essenziale in ogni ambito della vita, soprattutto se riguarda il corpo e la mente.»
«Ero sposato, okay? E mia moglie non si è mai lamentata, quindi direi che ne avevo di esperienza.» lo disse quasi con rabbia, quasi l’altro stesse attentando alla sua credibilità, e non si rese neanche conto che quella era la prima volta che ammetteva d’esser stato sposato – di esserlo ancora – davanti ai suoi compagni.
La notizia, per quanto poté scioccare tutti gli altri, che comunque già lo sospettavano da molto, non scalfì minimamente il greco.
«Non credo sai una buona difesa questa, presumo che vostra moglie abbia giaciuto solo con voi. Quindi non aveva alcun mezzo di paragone.»
Detta in modo estremamente gentile, tranquillo e logico, Nathan si ritrovò a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua, mentre Jane e Cade ridevano quasi alle lacrime e persino Jonas cercava in tutti i modi di trattenere una risata.
Lea gli sorrise invece sorniona e gli batté una mano sulla spalla. «Non prendertela a male, sappiamo entrambi per certo che tua moglie ti amava comunque moltissimo.»
Ma malgrado quell’inutile tentativo di consolazione, il figlio di Ares si ritrovò a bollire di rabbia: chi cazzo era quel ragazzetto, che si presentava per la prima volta davanti a lui, davanti alla sua squadra, e lo ridicolizzava in quel modo?

«Ma chi cazzo ti credi di essere?» ringhiò a denti stretti avvicinandosi all’altro.
 
Se tutti i suoi compagni fecero istintivamente un passo indietro, - Jane, Jonas e Cade che si tirò subito il ragazzino dietro di sé -  per non rimanere coinvolti in un possibile scontro, o un passo avanti – Eliza, Lea ed Úranus – per fermarlo in caso avesse deciso di mettere le mani addosso a qualcuno palesemente più debole di lui, Nathan dovette nascondere la sua sorpresa quando il figlio di Apollo avanzò fino a ritrovarsi ad un palmo dal suo naso, scrutandolo dall’altro di quella manciata di centimetri che li dividevano.
Cazzo, era anche più altro di lui lo stronzetto.
«Come ho già detto, il mio nome è Cicno di Tebe e malgrado non ne vada fiero sono progenie di Apollo, dio del Sole, delle arti e dei medici. Tu invece, giovinetto, chi credi d’essere?» domandò con voce profonda e ferma.
Nathan lo scrutò con attenzione, gli occhi blu fissi in quelli altrettanto severi e freddi dell’altro.
Forse poteva sembrare solo un efebo proveniente da un museo d’arte antica, appena scioltosi dalla sua corazza di marmo come un’eterea Galatea, ma ciò che era certo era che non avesse paura di lui, non avesse paura di nessuno di loro.
 
Sembra non aver paura di nulla, neanche della morte e delle sue conseguenze.
 
Come un fulmine a ciel sereno si ricordò che il figlio di Apollo non aveva neanche provato a nasconder loro d’esser un dannato. Forse l’aveva fatto perché Jonas l’avrebbe potuto smascherare senza problemi, da quel che diceva Cade, oppure perché non provava vergogna per il suo destino.

Probabilmente, nei millenni della sua condanna, ha visto e vissuto cose ben peggiori rispetto a quelle che potrei promettergli io a suon di minacce.
 
«Nathan Wright, figlio di Ares, corpo dei Marines, USA. Esercito.» rispose a tono, senza distogliere lo sguardo.
Era una gara, una sfida, come con i cani: il primo che abbassa lo sguardo si sottomette all’altro.
«Grazie per la precisazione, ma era facile intuire che un figlio del sommo Ares fosse legato alla guerra anche secoli dopo la nascita del proprio padre.» disse quello con semplicità. «Così come è facile ipotizzare che, dati i tuoi natali, sia tu a capo di questo gruppo.»
«Come?»
«Aspetta, che?»
«E chi l’avrebbe deciso?»
«Io non sto agli ordini del biondastro!»
«Piuttosto me ne torno nelle Praterie.»
«Nathan?»
L’ultima voce fu quella di Eliza, che lo stava palesemente chiamando all’ordine, gli stava palesemente chiedendo di smentire.
Gli stava chiedendo di guardarla negli occhi e dirle che no, lui non era a capo di nulla, loro non erano suoi sottoposti, erano compagni, erano tutti sullo stesso piano.
 
Perché essere il “capo” implicherebbe che potrei chieder loro, in qualunque momento, di fare un passo indietro e lasciar vincere me. Implica che potrei comandare su di loro e che loro dovrebbero obbedirmi.
Significa che devo guardarla e farle vedere quanto sincere siano le mie parole.
Significa che devo distogliere lo sguardo dal suo.

Piccolo bastardo.
 
Con riluttanza Nathan sciolse quella stupida gara di sguardi e si voltò verso Eliza sbuffando infastidito.
«No cazzo, sono solo il capo spedizione, visto che qui metà di noi non sa cos’è una cazzo di bussola e l’altra metà non ne ha una.» rispose quasi annoiato.
«Io so cos’è una bussola.» rimarcò subito Lea. «E sono più che sicura che anche Jonas, Cade ed Eliza lo sappiano.»
«Se è per questo lo so anche io e scommetto anche Golia, qui.» precisò Jane.
«Pensate che persino io so cosa sia, ma ammetto che mi è stato spiegato nella morte. In vita non credo esistessero strumenti del genere.» sorrise con garbo Cicno, anche se a Nathan non sfuggì il leggero sogghigno che gli increspò le labbra.
Aveva già detto “piccolo bastardo”?
«Certo che no, sei del 1100 avanti Cristo.» borbottò Jonas staccandosi finalmente da Cade. Un vero peccato per altro, stava comodo e anche caldo.
«Oh, la venuta del vostro salvatore, giusto. Credo ciò mi renda il più anziano tra di voi.»
«Si calcola in base a quando sei morto, non a quando sei nato.» replicò per la millesima volta Nathan.
«Dice così solo perché se no è il più piccino, cerca di mandarcela giù da quando siamo partiti.» gli disse Cade in tutta confidenza.
«In questo caso,» sorrise ancora Cicno, «quante primavere avevate alla vostra morte?»
Úranus fu il primo a rispondere. «Ventiquattro, l’anno della mia nascita fu il 1599, provengo dalle terre del nord, Islanda. Úranus Mjöllson, figlio di Fobetone.»
«Jane Parris, figlia di Ecate. Io sono morta a ventiquattro anni, anno del Signore 1692, Salem, America.» continuò la ragazza con un cenno del capo, «E sono l’unica che viene dalle Praterie degli Asfodeli.»
«Una mente forte la vostra.» commentò Cicno restituendole lo stesso cenno.
«Non abbastanza, in vita mia madre credeva fossi pazza, forse aveva ragione un po’.» disse ghignando tetra.
«Elizabeth Reed.» l’interruppe Eliza, «Figlia di Nike. Soldato di fanteria dell’esercito americano. Sono morta nel 1781, avevo ventidue anni.» si presentò porgendogli la mano.
Cicno gliela strinse con forza, qualcosa che fece una buona impressione sulla soldatessa.
«Io invece sono Elena Pozzi, ma preferisco esser chiamata Lea. Sono italiana, di Milano, e sono morta a ventun anni, 1848.» sorrise porgendogli anche lei la mano.
Quando tutti gli altri “sconosciuti” si furono presentati, Nathan incrociò le braccia al petto e lo gonfiò d’aria.
«Nathan Wright,» ripeté per la seconda volta. «Figlio di Ares, corpo della marina militare americana. Sono di Washington D.C. ma sono morto in Vietnam nel 1966. A ventiquattro anni.»
Cicno annuì. «Quindi, se non vado errando, hai la stessa età della figlia della divina Ecate ma sei più giovane di Cade.» riassunse spiccio, sorridendo lieve al grugnito infastidito del biondo. «Mi spiace informarti che qualunque sia il modo in cui si vuol contare l’età, nella morte, non sei il più anziano. Sono nato, secondo il vostro calendario, nel 1176 a Tebe, e lì vi sono perito nel 1150.»
Non appena ebbe finito di pronunciare l’ultima sillaba Lea già strepitò in segno di vittoria.
«Ventisei! Hai ben due persone più grandi di te!» saltellò allegra.
Nathan grugnì ancora. «Vaffanculo. A voi e al calcolo delle morti. Sono comunque più grande di te, dei due medievali e del moccioso!»
«Sono nato vent’anni prima di te! Come puoi essere tu il più grande?»
«Vale l’età a cui sei morto, non l’anno in cui sei nato!»
«Lo dice solo perché non vuole essere il più piccolo pulcino, non litigare con il bambino, che poi piange.» bisbigliò Cade all’orecchio del compagno.
Jonas sorrise a quella confidenza detta a voce fin troppo alta per esser nascosta e sogghignò più apertamente verso Nathan quando questo imprecò di nuovo ad alta voce.
Cicno però non prestò la minima attenzione al figlio di Arese e si concentrò sul più giovane.
«A che anno risale la tua dipartita? Se non è troppo chiedertelo.» domandò rivolto al ragazzino.
Jonas scosse piano il capo, l’ombra di un sorriso ancora sulle labbra. «1936, a Berlino, in Germania.»
«Ed il tuo divino genitore?»
A quello il sorriso sul volto di Jonas scomparve immediatamente.
Il biondo si ritrovò a torcersi le mani, diventate d’improvviso appiccicose e sudaticce.
Tutti lo stavano fissando, aspettando con attenzione la risposta ad una domanda che, forse per educazione o per tacito accordo, nessuno aveva mai fatto ma di cui tutti volevano sapere la risposta. In fondo, il segreto era rimasto solo su di lui e su Cade, ma qualcosa diceva a Jonas che il figlio di Apollo già sapesse chi fosse il padre divino del suo compagno.
«Se ti mette in imbarazzo non devi certo dirmelo.» sorrise gentile Cicno e Cade tirò un sospiro di sollievo: l’angioletto si stava comportando decisamente in modo consono al suo bel faccino. Per lo meno con il piccoletto.
Jonas però non seppe cosa rispondere, non seppe se rispondere.
Era così importante tenere nascosta un’informazione del genere? Gli giovava in qualche modo? Insomma, Úranus era figlio del dio degli incubi a conti fatti, il suo alla fine non era così brutto, non era tanto peggio.
 
È solo stato il mio fardello per tutti questi anni. La mia condanna. La punizione per me e per tutti i codardi della mia terrazza. Una condanna che si specchiava sulla catena che portavo al collo.
 
Una catena che ora era monile e che brillava, gemella, ai bracciali di Cicno.
Il suo sguardò cadde proprio sui gioielli che gli adornavano i polsi ed il figlio di Apollo se ne accorse subito.
«Siamo connessi.» disse piano, gentile, la voce quasi ipnotizzante. «Te lo dissi più volte. Posso percepire come delle onde emanate dal tuo corpo, dal tuo sangue, dal tuo retaggio divino. Il mio dannato padre, dopotutto, ha sempre avuto un rapporto particolare con l’amore, soprattutto quello maledetto.» sibilò come i serpenti che tanto odiava.
Ma ormai l’incantesimo era fatto, Jonas lo guardò come uno di quei rettili ammaliati dal suono di un pifferaio magico, la sua mente rilassata. Perché avrebbe dovuto nasconderlo? Già non ne era troppo convinto prima, ora ancora meno.


«Eros?» domandò Nathan guardando Lea e poi Úranus.
Il figlio di Fobetone però scosse il capo. «Se fosse il divino Eros i nostri poteri non entrerebbero in conflitto e al contempo in accordo nel modo in cui fanno.»
«Non conosco altre divinità legate all’amore.» ammise Lea scuotendo il capo.
«Un fratello di tuo padre?» domandò allora Jane rivolta all’islandese. «O una sorella, magari?»
«No, la madre di Jonas era umana, giusto?» disse Eliza cercando conferma in Cade, che annuì.
«Non sei obbligato a dircelo.» ripeté il rosso.
Jonas però aveva occhi solo per Cicno, che gli aveva servito su un piatto d’argento sia la possibilità di liberarsi di quel peso inutile che si portava sulle spalle, sia quella di fargli domande su ciò che li legava.

I doni dei gemelli della notte.
 
«Pothos.» disse d’impulso, come se passato il momento non avrebbe mai più avuto il coraggio per sputar fuori quel segreto.
Che andassero tutti al diavolo, c’era di peggio! Anche se Jonas era certo che la sua discendenza divina fosse la causa di tutte le sue pene d’amore era anche vero che ormai non aveva più alcuna influenza su di lui: Jonas aveva amato una persona sola nella sua breve vita e per quanto non volesse suonare smielato e malinconico, era più che certo che quell’anima che aveva abbandonato fosse anche la sua gemella, che non avrebbe incontrato più nessun altro da amare in vita, figurarsi nella morte.

Al diavolo, al diavolo tutti e tutto!
 
Con sorpresa però gli unici che reagirono a quelle parole furono Úranus e Cicno. Nathan aggrottò le sopracciglia quasi confuso, cercando lo sguardo di Lea che invece, da parte sua, aspettava solo una spiegazione.
«Ma non era il dio della paura? Che c’entra con l’amore?» domandò allora Eliza.
Cicno scosse piano il capo. «Quello è Phobos, figlia di Nike. Il divin genitore di Jonas è Pothos, il dio della nostalgia d’amore, della mancanza e del desiderio amoroso. Per questo, da quel che ho potuto capire, i suoi poteri si combinano in modo perfetto con quelli del figlio di Fobetone.»
Nathan grugnì. «Bene. Bene è un parolone. Hanno fatto più danni che altro, sia la prima volta che si sono incontrati che quando hanno provato ad utilizzarli assieme.»
Il giovane greco annuì. «Mi pare ovvio. Il fatto che due fazioni siano compatibili e potenzialmente inarrestabili assieme non implica necessariamente che ciò possa accadere al primo tentativo. Tanto meno al secondo. Ma converrai con me nel dire che una delle paure, degli incubi più grandi dell’uomo è rimaner soli, esser emarginati, non trovare l’amore o trovarlo e poi perderlo.»
«E tu l’hai capito perché Apollo ha avuto problemi di cuore?» domandò Jane alzando un sopracciglio scettica.
«”Problemi di cuore” è un po’ riduttivo, figlia di Ecate.» rispose ironico Cicno.
«Jane. Se devi chiamarmi in qualche modo chiamai per nome, non con quello di mia madre.»
«Te l’ho detto che alla ragazza delle Praterie mamma non piace come a noi due non piace papà.» sorrise Cade infilandosi le mani in tasca. Dietro quell’espressione divertita però il suo cervello macinava pensieri come la vecchia ruota del mulino della città. Poco prima di arrivare Cicno aveva promesso di spiegar ogni cosa una volta riunitisi al gruppo, poi la gioia d’aver ritrovato gli altri l’aveva distolto ma ora, specie dopo le parole dell’angioletto, tutte le domande che si era fatto in quella manciata di secondo erano tornate prepotenti.
«Però, da quel che ricordo, ne ha avuti davvero molti di problemi…» si aggiunse Jonas, avvicinandosi un poco agli altri infilandosi anche lui le mani in tasca. Quando Cade gli lanciò un’occhiata ghignante, indicandogli con il mento proprio la posa appena presa, così simile alla sua, il ragazzino storse il naso, muovendosi subito e incrociando le braccia al petto, mettendo palesemente su il broncio. «La studiai la storia di Daphne. E anche quella di Giacinto.»

Cicno annuì. Probabilmente, se non fosse stato tanto bravo a nascondere le sue emozioni, se non fosse stato tanto bravo a mentire, il solo sentir nominare quelle due sfortunate anime avrebbe teso le sue labbra come la corda di un arco, un ghigno ampio e predatorio. Ricordare i tormenti d’amore di suo padre, le perdite, il dolore, i rifiuti, tutto ciò non faceva che provocargli un recondito e viscido piacere. Era strano associare una parola del genere ad una sensazione deliziosa come quella del piacere, della soddisfazione, del compiacimento, ma questo era ciò che sentiva Cicno: un viscido e lungo serpente, una biscia d’acqua che si muoveva nell’acqua melmosa del suo risentimento, dell’odio che provava per suo padre, e che s’apriva una via tra il fango, lasciando che la luce colpisse finalmente il limpido ruscello che ribolliva al di sotto dello strato sporco.
Oh, la sofferenza per amore, l’amore perduto, quello non ricambiato. La nostalgia e la brama, la consapevolezza di non poter ottenere ciò che più si desiderava al mondo.
 
L’amore. Essere amati sopra tutto e sopra tutti, in ogni aspetto del proprio essere.
 
Esattamente come ben due divinità avevano impedito a lui d’essere.
Pothos era stato silente spettatore della tragedia di Daphne, seduto al fianco del fratello che, crudele, fissava soddisfatto i pietosi tentativi di Apollo di raggiungere la sua amata.
Aveva anche assistito alla gelosia cieca di Zefiro, a quell’anima tormentata che prima era stata illusa d’esser amata, d’esser non l’unica, ma certo la più importante, per poi esser dimenticata con facilità.
Pothos era sempre stato lì e sempre ci sarebbe stato.
Pothos era in piedi sulla scogliera, al fianco di Thanatos, quando Cicno aveva deciso che il dolore era troppo e che la perdita di Filio non era più tollerabile.
 
Che il suo abbandono fosse intollerabile.
Che ormai il mio cuore fosse spazzato e neanche l’ambrosia divina avrebbe potuto rammendarlo.

Cicno aveva guardato i due Dei in volto, senza timore, senza più alcuna paura, tanto da lì a poco sarebbe sopraggiunto il pietoso bacio della Morte. Non aveva più alcun senso temere gli Dei, in ogni caso per lui si sarebbero aperti solo i Neri Cancelli.
L’unica gioia che gli era rimasta, in tutti quei secoli di torture, era la consapevolezza che la sua maledizione su suo padre non avrebbe fatto altro che rafforzare la terribile sfortuna che pareva evocarsi da sé con il suo carattere vanesio e borioso.
Sotto questo punto di vista, Apollo non era troppo diverso da Ares. Entrambi combattenti agguerriti e spietati, forse il dio della Guerra era addirittura un po’ più magnanimo, premiando l’esercito vincitore, i guerrieri più valorosi e gli eroi degni. Apollo non si era mai fatto di questi problemi: nell’esercito a lui nemico potevano esserci anche grandi eroi, ma se anche uno solo dei soldati più mediocri recava sgarbo al gemello del Sole allora tutti dovevano perire. Le carestie e le pestilenze non graziavano i nobili di cuore, non erano altro che una delle tante falci della morte, che passava e coglieva tutti, senza distinzioni.
Erano entrambi fratelli, erano entrambi gemelli, invero, entrambi amabilmente odiati dai proprio consanguinei, entrambi venerati ed odiati dagli umani, entrambi genitori di una progenie distruttrice, che fosse divina o meno.
Cicno sorrise mesto, le labbra a mala pena tirate, mentre inclinava il capo verso sinistra ed osservava Nathan, il figlio di Ares, spiegare con saccenza ai suoi compagni le origini dei miti, corretto gentilmente dal figlio di Fobetone, Úranus, con dettagli che un mortale avrebbe potuto apprendere solo che da un altro dio.
 
Di fatto il mio Signore ha detto che suo padre lo crebbe.
 
Questa informazione poteva tornargli utile, così come il tenere a mente che sebbene sapesse tutto sugli Dei, più difficilmente sapeva qualcosa sui miti, sugli eroi, sulle missioni dei mortali. Al contrario era più probabile che Nathan e anche sua sorella sapessero qualcosa di più su miti e leggende e qualcosa di meno sulle divinità in sé per sé.
Cercò di tenere un orecchio teso al discorso confusionario che gli altri stavano portando avanti. Qualcosa sulla sfortuna - «Sfiga cieca, altro ché! Come la chiami se no?», «La chiamo che ti stai zitto e mi lasci spiegare, roscio di merda.» - e sul fatto che quindi, qualcosa che tutti loro avevano visto, doveva esser stato prodotto dal potere del bambino.
Davvero savi incompresi, tutti e sette.
 
«Sì, sì, va bene, tutto quello che-»
«Quindi quando vedevo i miei genitori era lui o era Golia?» domandò Jane stroncando sul nascere le proteste di Cade.
Nathan si strinse nelle spalle. «Forse un po’ e un po’.»
«Il tuo incubo peggiore potrebbe esser rivivere la morte dei tuoi genitori, così come l’affetto che provavi nei loro confronti ti porta ad aver nostalgia di loro.» ipotizzò Eliza annuendo.
Dietro di loro Cicno si domandò come fosse possibile che avessero perso così velocemente interesse in lui.
Come diamine erano arrivati a quel punto? Erano scoordinati, si distraevano con troppa facilità, litigavano tra di loro per pretesti stupidi tirati fuori da una battuta o da una parola mal detta. Incontravano uno sconosciuto, che si dichiarava immediatamente dannato, che portava gioielli simili a quelli di un loro compagno, che aveva ritrovato un altro loro compagno e poi aveva aiutato questo a ritrovare il resto della squadra. Un dannato di cui non sapevano nulla e che proveniva da un’epoca così lontana da loro dall’esser posto in un’era diversa.
Dovevano decisamente ringraziare il suo Signore se erano ancora tutti vivi e in gara.
 
Ed ora sarò compito mio tenerli sulla retta via. Avrò anche avuto la soddisfazione di maledire mio padre ma credo proprio che anche lui abbia fatto lo stesso con me.
 
«Sì, dicevo, tutto molto interessante-» cercò per la seconda volta Cade di intromettersi.
«Però, ora che sappiamo qual è il genitore divino di Jonas, un po’ com’è successo con Úranus, potremmo trovare il modo per aiutarlo ad utilizzare i suoi poteri.» ragionò a voce alta Eliza.
«Io non ci provo di nuovo. Fate quello che vi pare, inventatevi quello che volete, ma io non ci riprovo. Due su due è andata male, non me la rischio la terza.» disse Jonas scuotendo la testa con vigore.
Lea storse il naso. «Ma così sono ben tre i poteri che non possiamo usare. Non Úranus che influenza tutti quanti, non te-»
«Che a quanto pare faccio la stessa identica cosa.»
«- e non Jane che non ha ricevuto alcun addestramento.»
«Che non ha fatto un cazzo per tutta la vita.» precisò Nathan.
«Scusa, stai parlando dall’alto dei tuoi incredibili poteri che ci hai mostrato svariate volte e che ci hanno salvato da quando siamo assieme?» domandò provocatoria la figlia di Ecate. «Sempre che tu abbia dei poteri. Li ha?» chiese poi rivolta a Úranus.
Il giovane annuì, seppur con lentezza. «Ha una maggiore destrezza nelle armi, impara ad utilizzarle più velocemente, le sa riconoscere in ogni loro dettaglio e sa anche come sono composte, come si montano e simili. I figli di Ares hanno una forza maggiore, seppur non sproporzionata e sono in grado di apprendere tecniche di combattimento e di attacco in modo repentino.»
«In pratica nulla che ci serva ora.» concluse Jane soddisfatta. Poi guardo Nathan. «Io almeno un paio d’incantesimi li so fare. Tu non hai neanche un’arma.»
«Senti un po’, piccola-»
«Se è per questo io sono anche più forte di lui.» intervenne Eliza, «Ma non ha importanza quali siano i nostri poteri divini.»
«Sì, anche perché la rompi palle ci può solo curare, per esempio.» ringhiò il biondo in direzione della figlia di Ecate.
«Veramente Lea può creare piccole sfere di luce in grado di portarla in luoghi particolare.» disse piano Úranus, pentendosene subito dopo quando Eliza gli lanciò un’occhiataccia.
«La prossima volta ti lascio steso a terra.» gli rispose per le rime lei.
«Quindi quello che il potere più forte ed utile è Cade? Siete seri?» tornò alla carica Jane guardando il rosso scettico.
Ma Cade non li stava più neanche ascoltando, ormai da parecchio ad onor del vero.
Si era voltato verso Cicno e gli aveva lanciato un sorriso tra l’imbarazzato ed il divertito, quasi chiedendogli scusa per tutto il teatrino che i suoi compagni stavano mettendo su in quel momento, decisamente non sembrava star andando bene neanche la seconda prova, invece di pensare alle cose importanti.

Tipo i bracciali, che hanno smesso di brillare una volta incontrato Jonas, ed il collare. Tipo che siamo tutti in possesso del nostro ricordo e che quindi la prova per noi è conclusa. Tipo che dovremmo andare alla prossima partenza invece di star qui a chiacchierare come se stessimo al pub mentre migliaia di anime ci superano come se nulla fosse e vaffanculo così è abbastanza scontato che col cazzo che rinasciamo.

«Ti stanno ignorando, come ti senti a riguardo?» domandò più ironico che altro.
Cicno si strinse nelle spalle. «Quando sei un dannato impari ad apprezzare i momenti in cui vieni ignorato.» disse semplicemente. Poi si fece più serio. «Ma credo tu voglia chiedere qualcosa, posso risponderti io?» chiese gentile, battendo le lunghe ciglia.
Cade gli sorrise più che soddisfatto. «A dirla tutta, sono certo che solo tu, possa rispondermi.»
«Parla quindi.»
«Tu e Jonas, hai detto che siete legati, è per i vostri gioielli, vero? Come-»


Ma la sua domanda fu stroncata in pieno da Jane, che portò l’attenzione generale sul rosso irlandese.
«Come scusa?» chiese di nuovo lui.
«Il tuo potere. A quanto pare è l’unico utile.» gli disse infastidita.
Cicno batté le palpebre incredulo: ma da dove diamine veniva quella gentaglia?
«Beh, mi sembra più che-»
«Veramente no.»
«Oh, e che cazzo, ma la smettete di interrompermi?! Ups, scusa angioletto.» sorrise con quella sua espressione da moccioso quando il biondo lo fulminò.
Mh, quasi potente come le occhiatacce di mamma Elsa e sicuramente neanche era al massimo della sua potenza.
«Come figlia di Ecate i tuoi poteri sono molto utili.»
«Peccato che non sappia fare un cazzo.»
«Almeno io ce l’ho un potere di fondo.»
«I figli di Ares hanno il potere della Guerra.» la corresse subito Cicno, «Forse non è spettacolare e manifesto come la magia, ma esattamente come per ogni semidio è il caso che sceglie cosa dare o non dare ad una progenie divina. Conobbi figli di Ares in grado d’evocare armi, altri di crearne dal palmo delle proprie mani, altri in grado di comandarle a proprio piacimento.» spiegò con calma.
Jane storse il naso. «Lui non ha nulla.»
«Ma vaffanculo!»
«I figli di Fobetone allora, non credi che i loro poteri siano immensi e spaventosi?»
«Immensi sì, spaventosi pure, assolutamente da non utilizzare di nuovo.» borbottò Jonas.
«E quelli di tuo padre? Sei in grado di generare nostalgia e struggimento nelle persone, di far riveder loro ciò che hanno amato e perso. È un potere incredibile quello che hai sulle genti.»
«E che non userà perché, uno: non lo sa fare; due: fa solo danni quando ci prova.» sbuffò Nathan incrociando le braccia al petto. «Non uscirtene con il potere di Nike. Forza momentanea improvvisa e culo non sono veri poteri.»
«Scusa? I miei non sarebbero veri poteri? Fosse per i miei “non veri poteri” Jane sarebbe ancora nel muro d’edera, signorino.»
«L’avrei tirata via anche io!»
«Sì, se prima qualcuno avesse tirato via te dell’edera!»
«In ogni caso. Sono certo che io e mia sorella condividiamo molti poteri incredibili.» tentò ancora Cicno, ormai prossimo al suo livello massimo di sopportazione.
Adesso li avrebbe maledetti tutti, uno per uno, ognuno con una pestilenza diversa da gestire.
«Curare la gente e fare palline di luce, una svolta nella vita!» sbottò il soldato, ricevendo il sostegno inaspettato di Jane.
Ma a quelle parole Cicno si fece improvvisamente serio e freddo, il volto una lastra di marmo pallido come la pelle di Jonas.
«Credete sia poco? Credete siano doti da nulla? Avete idea di cosa sia possibile fare con un canto divino? Cosa siamo in grado di curare? Un vero curatore è in grado di riportarti indietro dal baratro della morte, le note dei suoi canti sono capaci di rallentare il divino Thanatos sino a stordirlo e farlo desistere. E se le mie parole d’ambrosia non saranno utili a curar nessuno, ne avrò di puro veleno in grado di far crollare un corpo o un impero. Carestie, pestilenze, malanni, infortuni, follia. Il Sole dona vita, dona calore. Il Sole semina morte, brucia.
Se ciò non vi bastasse, la mira di un fglio del nostro dannato padre è pressocché perfetta, che siano frecce o pugnali, che sia una spada od una pietra, ogni colpo andrà a segno.
In fine, se “fare palline di luce”, vi sembra banale, sappiate che potrei brillare così intensamente da rendervi tutti ciechi.» 
Le sue parole furono taglienti come i coltelli che portava indosso, gli occhi chiari freddi come il ghiaccio. Cicno forse non amava suo padre, ma non tollerava che qualcuno ne deprezzasse i talenti, perché ciò significava deprezzare anche i suoi.
«Ora, se non vi spiace, sarò lieto di continuare questa gara con voi, ma se al contrario, preferirete rimaner qui a discutere, io vi porgerei i miei saluti e proseguirei per la mia strada.»
Per un attimo vi fu silenzio fra tutti loro ed il primo che si ritrovò ad annuire, guardandosi attorno in cerca di altre anime, di altri ritardatari come loro, fu Úranus.
«Ha ragione, siamo sempre di meno in queste lande.»
Nathan imprecò. «Ci siamo fatti distrarre dall’arrivo del deficiente e del bel faccino, qui.»
«Ohi! Io non ho fatto nulla! Sono tre volte che provo a chiedervi cose e voi ve ne sbattete chiacchierando d’altro!» si difese subito Cade alzando le mani in segno d’innocenza.
«Quindi, Cicno verrò con noi?» domandò più timidamente Jonas.
Malgrado l’espressione distaccata di poco prima, il figlio di Apollo si costrinse a sorridere al ragazzino. «Come ho detto, se avrete piacere ad avermi con voi, sarò lieto di intraprendere questa gara al vostro fianco, ma non posso permettermi di perder altro tempo.»
«Ci sta dicendo che siamo una massa di deficienti che si ferma a discutere di nulla piuttosto che impegnarsi per tornare in vita. In modo gentile, ma questa è la sostanza.» disse Lea, poi sorrise. «Mi piaci.»
«Ne sono lieto, sorella.»
«Chiamami Lea! E anche gli altri, chiamali per nome. Tranne il soldatino, lui chiamalo così.»
«Ma che cazzo! »
«Cade ti ha detto quali sono i nostri accordi?» continuò Eliza affiancandosi loro ed indicandogli con un gesto della mano la direzione in cui dovevano andare.
Si misero in cammino.
«Sì, è stato molto esaustivo.» si ritrovò ad ammettere l’altro.
«Puoi dirlo che non si è stato un attimo zitto che ti ha fatto venire il mal di testa e una voglia incredibile di spaccargliela, la testa. Non necessariamente in questo ordine.» aggiunse per buona misura Jane. Dopodiché, come se nulla fosse, gli chiese fissandolo con quegli occhi sgranati e segnati di nero. «Come ci sei finito all’inferno?»
Cicno alzò un sopracciglio. «Sono morto.» disse retorico.
Jane fece una smorfia alzando gli occhi al cielo. «Giusto, ai tuoi tempi c’era solo l’inferno per i morti, niente purgatorio e paradiso. Come ci sei finito nei Campi di Pena.» tornò alla carica imperterrita.
Úranus storse il naso, la ragazza aveva questo morboso interesse per come la gente fosse morta, quasi godesse nel sapere i tormenti attraverso cui gli altri erano passati per giungere dov’erano, quasi come se ne fosse attratta, come se non ne potesse far a meno. Come un ubriaco che non riesce ad allontanarsi dalla botte, come uno di quei cacciatori che assumevano infusi e involti di erbe e radici in grado di tenerli svegli per giorni e giorni, sulle tracce della loro preda.
Il dannato però, non parve turbato come lo era stato lui e chiese ulteriori delucidazioni.
«Come è soggiunta la morte per me, o in base a cosa i Giudici Infernali hanno emanato la loro sentenza?»
Jane parve quasi pensarci. Si strinse nelle spalle. «La prima.»
«Mi sono suicidato.» disse con semplicità.
Gli altri lo guardarono scioccati, qualcuno già contrariato, qualcuno pallido e tremante al sol nominare un atto così immondo come quello di privarsi della propria stessa vita.
«E perché?» continuò Jane senza il minimo pudore.
E senza altrettante remore Cicno continuò a rispondere. «Avevo perso tutto. L’amore strappatomi dalla superbia di un nuovo dio, la famiglia strappatami dal mio stesso padre. Quando non si ha più nessuno al mondo tutto ciò che si vuole è vendetta e fine. Io ho ottenuto in un qualche modo entrambe, ma solo una mi ha appagato veramente.»
A quello Jane non poté far altro che annuire lentamente, guardando improvvisamente con occhi nuovi il semidio. Forse, tra tutti i suoi compagni, lui era l’unico che potesse in un qualche modo capirla, l’unico a cui il suo stesso genitore divino aveva tolto qualcosa invece che darglielo. L’unico che fino ad ora aveva sentito parlare di vendetta e non di redenzione.
Ghignò. «Lea ha ragione, piaci anche a me.»


Cade si ritrovò improvvisamente a perdere il sorriso.
«Allora siamo fottuti.»
 
 
 







 
*
“None”: modo romanesco per esprimere dissenso molto sentito. Di solito usato quando si è esasperati da qualcosa. Vuol dire “no” ovviamente.
   
 
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