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Autore: wanderingheath    14/08/2021    0 recensioni
Gli incubi di Luca, barista notturno in un pub, si ripresentano, vanificando gli anni trascorsi in cura nelle migliori cliniche svizzere. E qualche volta si avverano.
Emilia invece, che non sogna mai, gli incubi degli altri li vive, volente o nolente: nella sua anonimità quotidiana viene risucchiata in un attimo negli errori ed orrori altrui.
I due sembrerebbero non avere nulla in comune, se non il ricordo della classe di cui un tempo hanno fatto parte, ma dopo anni di silenzio una notte le loro vite si incrociano nuovamente e mentre vengono circondati da strani eventi, le fantasie di Emilia cominciano ad assumere una consistenza sinistramente reale. Ad unirli c'è un segreto, sepolto nelle loro memorie, che saranno chiamati a svelare.
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
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Prologo
 

 
Era successo di nuovo.
Si era risvegliato in un bagno di sudore, con le palpebre tremolanti, pesanti, e il battito cardiaco schizzato a mille. Aveva la sensazione che perfino i polsi gli tremassero, scosso com’era da un misto di brividi e convulsioni.
Lo spazio attorno a sé era un acquario di sagome deformi: nel buio si erano raggomitolati cespugli di pantaloni e calzini, il roccioso promontorio dell’armadio che delimitava la parete di fronte, alghe fatte di tende ondulate. I contorni dell’incubo si confondevano ancora con sprazzi di lucidità, aprendo al suo sguardo crepe di luce, strane geometrie di vari colori. Era come se i fotogrammi del suo sogno si stessero sovrapponendo alla realtà e potesse ancora vedere le ruote delle gomme premere sull’asfalto.
Non appena le pulsazioni rallentarono e il suo cervello fu in grado di registrare ciò che accadeva attorno a lui, la prima preoccupazione fu quella di scostare le coperte – le gettò in fondo al letto in maniera brutale, scalciandole con i piedi – e di verificare che lì sotto fosse tutto asciutto.
Per fortuna il materasso sembrava intatto, così come il tessuto del pigiama.
Luca esplose in un sospiro che conteneva strati di scontento, timore e sollievo, senza sapere quale emozione fosse predominante.
Forse provava vergogna. Si vergognava di se stesso, di doversi controllare i pantaloni al mattino, come un incontinente o un bambino di tre anni, e di essersi fatto suggestionare per l’ennesima volta da un gioco dell’orrore. Sapeva già che le esperienze adrenaliniche poco prima di coricarsi fossero sconsigliate per un sonno ristoratore, ma Henry gli aveva scritto che qualche giorno prima era uscito il seguito di Blooded Footprints e il fatto che l’amico lo avesse già provato gli bruciava.
Henry aveva conosciuto il gioco solo grazie a lui, che lo aveva convinto a provare a casa sua, una notte che avevano fatto le ore piccole, ed era ancora merito suo se era riuscito a conseguire un record nella risoluzione della trama, avendolo ricevuto in regalo in occasione del quindicesimo compleanno.
I fans attendevano il seguito da più di sei anni e, proprio quando avevano gettato la spugna, ecco annunciata l’uscita del numero due. Henry lo aveva – di nuovo – battuto sul tempo ed era riuscito ad accaparrarselo subito, assicurando che fosse il miglior videogame sul mercato, con generosi spoiler.
Luca non avrebbe potuto attendere una settimana intera per provarlo. Ci aveva giocato rigorosamente a luci spente – o si optava per un’esperienza immersiva o niente –  con la musica di sottofondo, degna di entrare a pieno titolo nella colonna sonora di un film di Dario Argento, sparata al massimo nelle cuffie.
Inutile dire che Henry aveva ragione: Blooded Footprints II – The Cursed Hospital aveva persino superato l’originale.
Luca non faceva fatica a credere che fosse stata quella la causa dei suoi incubi. Cercò a tentoni il bicchiere d’acqua che teneva sempre sul comodino. Al buio, però, la sua mano trovò la base della lampada; le nocche cozzarono contro il rivestimento metallico, strappandogli un gemito.
Non si era ancora abituato alla nuova stanza, che nuova, poi, non era affatto: ci aveva passato tutta l’infanzia e una piccola sezione della vita adolescenziale. Tuttavia, per qualche inspiegabile motivo, sentiva che non gli apparteneva.
Un filo di nostalgia lo riconduceva direttamente all’altra camera da letto, quella che aveva lasciato a Zurigo. Certo, era meno spaziosa di questa, ma ben tenuta, dallo stile minimale e molto luminosa. Aveva il suo angolo adibito allo studio – per le poche volte che l’aveva utilizzato – la sedia ergonomica acquistata dai suoi, il mobilio bianco e nero che dava all’osservatore l’impressione di una grande scacchiera. Di quella stanza gli mancavano persino le minuscole macchie di unto che aveva disseminato sulla carta da parati dietro allo schermo del pc.
Questa, invece, ampia il doppio, era ingombrata ancora dagli scatoloni ammassati alla poltrona e all’ampia libreria a muro, dove custodiva i suoi videogiochi preferiti.
Luca si raggomitolò su di un lato, sprimacciando il cuscino.
Sapeva che non avrebbe più chiuso occhio, ma l’alternativa era poco allettante: prendere l’ennesima pastiglia che teneva nell’armadietto del bagno e rimettersi sotto le coperte finché l’intorpidimento non si fosse impossessato dei suoi arti, sprofondandolo in un sonno buio e desertico.
Si rimise in piedi e si acciambellò sul tappeto, controller della Play in mano.
Alcuni frammenti dell’incubo erano rimasti impigliati alla retina e si contendevano lo spazio con i flash luminosi rimandati dallo schermo del televisore.
Ricordava di essere in strada, le suole delle scarpe da tennis aderivano bene all’asfalto umidiccio. Pioveva lievemente, il tanto che bastava a imperlargli il viso senza costringerlo ad aprire un ombrello. Faceva jogging, cuffiette nelle orecchie e parole di una canzone straniera a rimbombargli in testa. La cosa strana era che era certo di non aver mai sentito quella canzone prima di allora.
Non avrebbe saputo darle un nome, né canticchiarne la melodia o inquadrarla in un genere preciso.
Ricordava solo la sensazione di essere investito, riempito, dalle note, quasi il suo corpo traboccasse di musica e dovesse rimanere in moto per evitare di soccomberle. Correndo riusciva a controllare quell’energia, a trasformarla in movimento e ad espellerla quando espirava, quando il quadricipite si decontraeva e il suo piede schiacciava l’asfalto.
Mentre continuava a correre, degli ingombranti fasci di luce avevano fagocitato la sua ombra, paralizzandolo. Con il fiato ancora spezzato, il suo sguardo era saettato da una parte all’altra, appena in tempo per riconoscere un gigantesco camion qualche istante prima che lo asfaltasse.
Per fortuna era solo un sogno, si ripeteva.
Gli incubi, però, sarebbero dovuti sparire definitivamente. Di fatto erano spariti: si erano dissolti in corrispondenza dell’ultima prescrizione farmacologica.
Da quando assumeva le sue medicine, aveva dormito sonni abbastanza tranquilli. Non si era più risvegliato nel bel mezzo della notte, fradicio di sudore e tachicardico, ed era così da alcuni anni.
Quella notte costituiva l’eccezione.
Un lampo dallo schermo del cellulare richiamò la sua attenzione.
L’unica persona che poteva scrivergli a quell’ora della notte era Berto, il suo collega di turno al Blue Dragon. Subito sotto quella notifica, un’altra recante il messaggio di Lorenzo.
Diamine, se n’era dimenticato. L’aveva aperto e poi si era scordato di rispondere, come al solito.
Ma cosa avrebbe dovuto rispondergli?
Accettare un normalissimo invito ad uscire o inventare una scusa circostanziale che Lorenzo non avrebbe faticato a smascherare?
Luca sospirò, gettando la testa all’indietro. Sentiva un accenno di emicrania bussare sommessamente nell’anticamera del cervello. Era come il più piccolo anello in una lunga serie di cerchi concentrici.
Non un buon segno. No, decisamente non un buon segno.
Incubi, sudori, risvegli notturni ed emicranie: tutto quello sarebbe dovuto finire con la terapia.
Era rimasto ben sigillato in una bianca saletta dall’aspetto asettico, in Svizzera, e non dimorava più nella sua scatola cranica, del tutto libera ormai, ripulita e funzionante.
Doveva trattarsi di un errore, di un piccolo inceppo nel perfetto meccanismo del suo cervello. Non poteva essere altrimenti.
Ricontrollato l’orario, sbloccò lo schermo e si decise a comporre una risposta.
   
 
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