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Autore: Adeia Di Elferas    14/08/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bianca, su una delle panchette del salone, stava rammendando una vecchia camicia di Sforzino, ma più per tenersi impegnata che non perché il fratello avesse davvero bisogno di quel vecchio capo d'abbigliamento. Voleva tenere le mani occupate in qualcosa di meccanico, per lasciare la sua mente libera di vagare dove più preferiva.

Quel giorno, come le capitava quasi sempre, da che Troilo era ripartito, non riusciva a smettere di pensare a lui e ai momenti che avevano trascorso insieme ogni notte e ogni giorno nel corso della sua ultima visita. Ripensava alle chiacchiere, spesso leggere, altre volte più serie, ma sempre contraddistinte dal profondissimo interesse che mostravano l'uno per l'altra, e che rendeva ogni cosa, anche la frase più banale, la più sorprendente possibile.

E poi ricordava le ore di passione che l'avevano consumata togliendole il fiato. Era stato come bruciare e poi, ogni volta, rinascere dalle proprie ceneri come una fenice...

“Bianca...” la voce di Galeazzo, del tutto inattesa, la fece voltare così di scatto che la giovane di punse con l'ago con cui stava lavorando.

Portandosi la mano alle labbra, per succhiare il sangue – poco, per fortuna – che rischiava di macchiare il camiciotto bianco di Sforzino, la Riario guardò interrogativa il fratello.

Questi, ancora scosso per la discussione avuta con Ottaviano e per la propria reazione avuta in privato, si schiarì la voce e chiese: “Per caso hai qualche intruglio che possa usare per lavarmi e far durare un po' il profumo di pulito? Ogni volta che tiro di spada, poi...” cominciò a dire lui, lasciando cadere la voce, già abbastanza imbarazzato per la richiesta fatta, senza bisogno di dover aggiungere altri dettagli.

Bianca aggrottò un momento la fronte, pensando, mentre controllava che la piccola ferita non sanguinasse più: “Nostra madre ha messo a punto degli ottimi saponi al limone, ma al momento non abbiamo limoni per produrli... Dice che costano troppo, per noi.”

“Qualcosa di alternativo..?” la incalzò il fratello.

“Da quando ti interessa così tanto profumare come un cesto di rose?” chiese a quel punto lei, divertita, guardandolo di sottecchi: “Ti piace qualche ragazza? Una delle serve, immagino...”

Galeazzo era sempre stato attento all'igiene, seguendo scrupolosamente gli insegnamenti della madre, anzi, lo si poteva definire un ragazzo molto più pulito della maggior parte dei suoi coetanei, ma, come tutti, non aveva mai dato importanza al profumarsi con olii o essenze.

Siccome il Riario era arrossito senza dire nulla, anzi, facendo mezzo passo indietro, quasi volesse andarsene, Bianca decise di non infierire su di lui, che, lo sapeva bene, era forse il più timido e riservato dei suoi fratelli.

Prima che potesse davvero andarsene, lo trattenne, alzandosi e lasciando momentaneamente il suo lavoro di rammendo sulla panca: “Vieni in camera mia, ti faccio vedere cos'ho, poi decidi tu...”

Il ragazzo annuì e, sempre silenzioso, le filò dietro fino alla sua stanza. Qui, la giovane prese da uno dei cassetti dei pezzi di sapone e, di ognuno, spiegò i pregi.

“E quelli..?” domandò il Riario, indicane un paio di rimasti nel cassetto assieme a una boccettina trasparente quasi vuota.

“I due saponi sono usciti male... Li ho tenuti perché, quando ne avrò modo, chiederò a nostra madre di controllarli e spiegarmi dove ho sbagliato...” spiegò e poi, dato che il fratello continuava a occhieggiare anche verso il bottiglino, anticipò la sua ovvia domanda: “Quell'altra invece, è una pozione che aiuta a evitare gravidanze indesiderate.”

Galeazzo puntò allora gli occhi su di lei, confuso, ma solo fino a un certo punto: “È quasi vuota.” le fece notare.

“E visto che non sono incinta, direi anche che funziona.” ribatté lei, non riuscendo, però, a non prendere colore sul collo e sulle guance.

Il Riario, che non si era aspettato una simile franchezza da parte della sorella, benché fossero molto legati, si schiarì la voce e borbottò: “Non sono affari miei...”

“Prendi questo...” fece all'improvviso la ragazza, porgendogli il sapone alla lavanda più concentrato che aveva: “Dovrebbe risolvere in parte il problema di cui mi parlavi...”

Il fratello la ringraziò e prese il pezzo di sapone che, in effetti, emanava già così un profumo buonissimo, ma poi non si trattenne dal dire: “Bianca... Il... L'uomo con cui... Si tratta di quell'emiliano? Del De Rossi?”

La sorella immaginava che Galeazzo avrebbe fatto in fretta a fare due calcoli e, infatti, ci aveva preso all'istante: “Sì, è lui.” ammise subito.

Il Riario, preso alla sprovvista, non sapeva come comportarsi. Da un lato avrebbe voluto fare il 'fratello', o, meglio, recitare la parte che la società si sarebbe aspettata da lui, quindi riprendere Bianca per la sua condotta sconsiderata e peccaminosa. Dall'altro lato, invece, voleva solo sapere se era felice della sua scelta, una scelta che, per una donna, specie del loro ceto, era quasi una condanna, nel caso qualcosa fosse andato storto.

Alla fine, ciò che uscì dalla sue labbra fu solo un semplice: “Sei molto più coraggiosa di me.”

La giovane, gli occhi blu che cercavano quelli verdi e limpidi del fratello minore, fece un sorriso stentato e commentò: “Non si tratta di coraggio... Solo... Ho capito di non saper resistere troppo a certe cose.”

Galeazzo si grattò il collo, nervoso. Anche lui, a volte, sentiva la prepotenza con cui il suo istinto cercava di prevalere sulla ragione e su tutto il resto, ma poi non riusciva mai a predominare. Si morse un labbro e ringraziò di nuovo per il sapone, voltandosi per andare alla porta.

“Galeazzo...” lo richiamò Bianca, prendendolo per un braccio.

In quel momento suo fratello, più piccolo di lei, ma ormai a sua volta grande, le parve molto più spaurito e confuso di quanto non le fosse apparso mai. Era abituata a considerarlo come una sorta di roccia immutabile e impassibile, ma ora lo vedeva più simile a un panetto di burro pronto a squagliarsi al calore dei propri dubbi.

“A dicembre farai sedici anni.” gli ricordò: “Non ci sarebbe nulla di male, se ti lasciassi andare un po'... Alla tua età, molti ragazzi hanno già...”

“Lo so.” la interruppe, con una certa asprezza, lui: “Cosa credi... Lo so benissimo...”

Capendo all'improvviso di aver travisato il tormento del fratello – il Riario non si rimproverava per la natura dei propri desideri, ma il non avere il coraggio di soddisfarli, perché frenato dal suo stesso carattere – Bianca cercò di raddrizzare un po' il tiro del discorso.

“Non c'è nulla di male nemmeno se non te la senti ancora.” gli fece presente.

“Tu hai un amante.” le ricordò lui, non con l'intento di ferirla in qualche modo, ma solo per farle comprendere l'ansia in cui viveva: “Ottaviano ha avuto... Lasciamolo perdere, lui. E scommetto che Bernardino, appena non avrà più la faccia da bambino che ha, non ci metterà un minuto a trovare una donna che...”

“Con calma.” lo frenò la Riario, posandogli, protettiva, una mano sulla spalla: “Non è una gara, ricordatelo sempre. Non forzare le cose, non sarebbe giusto.”

Le iridi verde chiaro di Galeazzo cercavano quelle scure della sorella come un assetato l'acqua. Le sue parole stavano andando in parte a spegnere i piccoli incendi che si erano accesi nel suo petto, uno dopo l'altro.

“Un po' lo so, come ti senti.” gli assicurò lei: “Abbi solo pazienza.”

Il ragazzo deglutì e poi, accorgendosi che il sapone nella sua mano si stava un po' deformando a causa del calore, disse: “Adesso... Adesso è meglio che vada.”

“Va bene.” annuì la sorella.

“Comunque...” sussurrò lui, ormai sulla porta: “Sono contento, se hai trovato un uomo che... Che ti piace. Qualsiasi cosa succeda, se per te è quello giusto, sarò dalla vostra parte.”

Bianca gli si avvicinò, sorrise e lo ringraziò con un cenno, prima di dargli una veloce carezza dicendo: “Sono felice di averti come fratello.” gli assicurò e poi, notando solo in quel momento la sua guancia, più ruvida del solito, aggiunse: “Dovresti farti la barba...”

Il ragazzo sapeva, in effetti, che negli ultimi giorni la sua barba, stentata e ancora acerba, si era fatta più lunga e disordinata. Si vergognava, però, ad ammettere di non essere capace di rasarsi da solo.

“Se ti serve aiuto, posso darti una mano.” si propose la Riario.

“Ti sai come si rasa un uomo?” chiese Galeazzo, un po' interdetto.

“Mi ha insegnato una delle serve, a Ravaldino.” ammise lei: “A volte abbiamo sbarbato qualcuno dei servi di cucina...”

Il Riario sospirò. Non aveva avuto nessuno che gli spiegasse come usare un rasoio... Né un padre, né un fratello – non avrebbe mai chiesto a Ottaviano nulla del genere – né un altro uomo che glielo insegnasse. Forse Giovanni Medici glielo avrebbe insegnato, ma era morto ben prima che a lui servisse imparare a radersi...

“Va bene.” accettò quindi: “Ma non dirlo a nessuno.”

“Non preoccuparti.” sorrise lei, chiedendosi a chi avrebbe potuto domandare in prestito una lama senza suscitare troppe domande: “E ti spiegherò come fare, così la prossima volta potrai essere indipendente.”

“Bianca...” soffiò Galeazzo, guardando la sorella che, inconsciamente, aveva considerato spesso quasi una seconda madre: “Grazie, di tutto.”

“Avanti, una cosa puoi farla, intanto – gli disse lei, cercando di smorzare un po' il clima malinconico che si stava creando – chiedi a uno dei servi un rasoio... A te lo presteranno più facilmente che non a me.”

 

Caterina aveva ascoltato con attenzione Lucrezia, che le aveva parlato in modo circostanziato, ma esaustivo, di quello che lei e, soprattutto, suo marito Jacopo avrebbero potuto fare per la questione del Gonzaga.

Le era sembrata una donna dalle idee estremamente chiare e anche molto sicura di sé. Durante tutto il discorso, il viso della Medici era stato quasi sempre disteso, tradendo solo di rado un certo nervosismo.

Alla Tigre le proposte di Lucrezia sembravano sensate e ben ponderate. Ovviamente i Salviati non potevano fare miracoli, né la Sforza pretendeva tanto da loro. Ciò che veniva messo sul piatto era né più e né meno che una volontà dichiarata di aiutarla in qualche modo, senza, per ovvie ragioni, rischiare tanto da arrivare a compromettersi.

Era tutto molto logico e calcolato, la Leonessa non poteva negarlo. Per certi versi, non si era aspettata di vedere una simile organizzazione. La sua richiesta, lo sapeva, non era facile da gestire, eppure la Medici doveva averci ragionato sopra parecchio, dimostrando di saper trovare le soluzioni più lineari anche davanti a problemi complessi.

C'era solo una cosa che non le tornava. Capiva l'eventuale interesse che Lucrezia doveva provare verso di lei, poteva anche accettare una certa benevolenza spontanea, legata al cognome che portava il suo ultimo figlio, poteva addirittura credere che Fortunati fosse così influente presso i Salviati da avere avuto un peso notevole in quella propensione ad aiutarla... Però non si era mai fidata di chi, senza avere con lei legami particolari e solidi, si offriva tanto facilmente.

“In cambio cosa volete, da me?” domandò Caterina incrociando le braccia sul petto e appoggiandosi appena contro la credenza di legno scuro che occupava buona parte della parete.

Lucrezia, anch'ella in piedi, ma vicino alla scrivania di Suor Elena, abbassò per un istante lo sguardo. Quello, in fondo, era uno dei motivi per cui aveva voluto incontrare di persona la Sforza.

Non voleva essere fraintesa, nella sua richiesta, perciò le ci volle un po', prima di formulare al meglio i suoi pensieri e tradurli in parole: “In cambio di quello che ci chiedete, non vogliamo da voi né denaro, né nulla di materiale.”

La Medici osservò le reazioni della Tigre, ma non erano facili da interpretare. La donna che aveva dinnanzi era statuaria, malgrado tutti dicessero che fosse molto cambiata rispetto a come fosse prima di finire tra le grinfie dei Borja. La milanese aveva in sé la forza di qualcuno abituato a comandare e a ottenere il rispetto che sentiva di meritare. Anche il modo in cui la guardava, per quanto moderatamente amichevole, era perentorio. Le sue iridi verdi non la lasciavano un istante, quasi a farla sentire sotto esame.

“Non mi avete risposto.” fece notare la Leonessa, quando il silenzio di Lucrezia si protrasse oltre le attese.

Quella, abbozzando un sorriso, si scusò: “Perdonatemi, è che avere davanti a me una donna come voi...”

“Che tipo di donna sarei?” si informò la Sforza, stringendo ancor di più le braccia sul petto.

“Una donna leggendaria, se me lo permettete.” rispose l'altra, scorgendo un breve tremolio nelle sopracciglia della sua interlocutrice, come se si stesse trattenendo a stento dal sollevarle: “Per anni qui a Firenze abbiamo sentito parlare delle vostre imprese...”

“Che belle imprese... Ho finito la mia epopea in una cella buia a Castel Sant'Angelo.” le fece presente la Sforza: “Non mi sembra l'epilogo degno di una leggenda.”

La Medici schiuse per un istante le labbra, messa in difficoltà dal tono pieno di astio della Tigre.

“Lasciamo stare...” riprese la milanese: “Parlate in modo chiaro: cosa volete da me, in cambio della vostra amicizia?”

Non le piaceva suonare così indifesa. Perché era proprio così che si sentiva: indifesa, alla mercé di persone che nemmeno conosceva, ma da cui poteva dipendere la sua sicurezza e quella dei suoi figli.

“Voi siete la vedova di mio cugino.” spiegò Lucrezia, riferendosi, ovviamente a Giovanni Medici.

“Anche Lorenzo è vostro cugino.” ribatté allora Caterina, accigliandosi: “Se la parentela è il vostro metro per valutare i rapporti di amicizia, vedo inconciliabile la nostra, di amicizia, con quella tra voi e un uomo che sta facendo di tutto per portarmi via mio figlio.”

La Medici avrebbe voluto chiedere immediatamente se il Popolano stesse già istruendo un nuovo processo contro la cognata, ma si trattenne, rendendosi conto che quello era il momento di guadagnarsi la fiducia della donna che aveva davanti e non di indagare. In quell'istante capiva chi, parlando della Tigre, aveva parlato di un animale selvatico. Esattamente come quando, avvicinandosi a una fiera, si doveva stare attenti a non fare movimenti troppo bruschi per non spaventarla e farla scappare, così allo stesso modo era necessario dosare parole e argomentazioni anche con lei.

“Lorenzo è uno dei responsabili dell'esilio che è stato imposto a mio fratello Piero.” le ricordò Lucrezia, sporgendo in fuori il mento e assumendo un'aura di autorevolezza che un po' stupì la Sforza, che, fino a quel momento, aveva visto in lei solo una donna molto distinta, ma anche molto pacata e quasi remissiva.

“Giovanni era il fratello di Lorenzo.” obiettò la milanese, volendo arrivare a fondo di quella che stava quasi diventando una discussione filosofica sul peso diverso che potessero avere le parentele e le colpe dei singoli.

“Giovanni era un uomo buono.” chiuse la questione la Medici, sicura fino all'osso di quello che stava dicendo.

Caterina rimase senza dire nulla per qualche istante. Quella definizione, ai suoi occhi, era la migliore e la più fedele che si potesse fare del suo terzo marito.

Alla fine, schiarendosi la voce e guardando altrove, ammise: “È vero. Lo era.”

“Lo era.” fece eco l'altra: “E se vi ha scelta, se vi ha amata, anzi, se vi ha amata così tanto come si è detto qui a Firenze, allora significa che siete una donna di valore, una donna che, da parte mia, merita tutto il rispetto e l'affetto che portavo a lui.”

Vinta da quella costatazione, la Leonessa si avvicinò a una delle sedie di legno scuro che stavano vicino al muro e vi si sedette. Era come se, ancora una volta, nel momento di maggior bisogno Giovanni fosse riuscito a tenderle una mano e ad aiutarla.

Dovette combattere contro se stessa per non cedere a un moto di commozione davanti a quell'evidenza e, quando riuscì a di nuovo a parlare senza che le si serrasse la gola, disse: “Non so se io meriti tutto quello che dite... Posso dirvi che è vero, Giovanni mi amava moltissimo, più di quanto meritassi, e io amavo lui.”

“Per l'amore che voi gli avete portato, e per l'affetto che io nutrivo per lui – si insinuò allora Lucrezia, volendo battere il ferro ancora caldo – vi prego, permettetemi di aiutarvi e di esservi amica. Lasciatemelo fare anche per il bene del vostro figlio più piccolo, nelle cui vene scorre anche il sangue della mia famiglia.”

Caterina sollevò lentamente lo sguardo, arrivando a guardare gli occhi accesi della Medici. In tutta onestà, faceva molto fatica a decifrare le reali intenzioni di quella fiorentina. Per anni, anzi, praticamente per tutta la sua vita, aveva sempre avuto a che fare con uomini di ogni tipo, ma, quando si era trovata ad avere a che fare con delle donne, o aveva sbagliato appieno il suo giudizio, o, come con Alessandra Scali o Suor Elena, si era trovata in gran difficoltà a fidarsi fino in fondo, a discapito di tutte le evidenze a loro favore.

“Vostro figlio Giovanni – riprese Lucrezia – è la sintesi di due grandi famiglie, la vostra e la mia. I Medici e gli Sforza. Vi rendete conto di cosa questo significhi?”

“Da quando Milano è caduta in mano ai francesi – commentò la Tigre, volendo volutamente ridimensionare la cosa, a scopo cautelativo, non sapendo dove l'altra volesse andare a parare – il nome degli Sforza vale ben poco, e da quando sono caduta anche io, è più facile trovarlo in qualche frase scurrile che nel mezzo di qualche sperticato elogio...”

“Voi non vi rendete conto...” provò a fermarla la Medici, ma la Sforza riprese subito.

“E anche il vostro, di cognome, non vale come ai tempi di vostro padre...” provò a dire, ma l'altra stava scuotendo con forza il capo e, quando parlò di nuovo, lo fece a voce abbastanza alta da zittirla.

“I Medici, a Firenze, non sono finiti. Così come non lo sono gli Sforza a Milano. Sta a noi farli tornare grandi.” decretò.

“Non vi capisco.” mentì la Leonessa, che aveva intuito anche troppo bene quale fosse l'oggetto delle mire della fiorentina.

“Vostro figlio Giovanni è la nostra speranza.” disse infatti lei: “Io ho il dovere di proteggerlo e di aiutarvi a tenerlo al sicuro, perché è anche nel mio interesse che viva e che sia in salute.”

Un po' spaventata da tutto quel fervore, Caterina si mise sulla difensiva: “Al momento mio figlio è solo un bambino piccolo. Se volete davvero aiutarmi, fatemi sapere come posso evitare che suo zio Lorenzo avanzi di nuovo pretese su di lui.”

Siccome quello che le era stato chiesto non era facile, Lucrezia fece una breve smorfia e poi sospirò: “Io farò tutto quello che è in mio potere. Mi basta sapere che anche voi avete interesse nell'essermi amica.”

La Tigre, raccomandandosi silenziosamente di approfondire la questione anche con Fortunati, fece un cenno del capo che poteva significare tutto e il contrario di tutto, ma all'altra sembrò bastare come una conferma.

“Vostro figlio è qui? Posso vederlo?” chiese Lucrezia, senza ragionarci a sufficienza.

La Sforza, chiudendosi immediatamente a riccio, ribatté, secca: “Perché?”

Capendo il proprio errore grossolano, che rischiava quasi di vanificare tutto il lavoro di avvicinamento fatto fino a quel momento, la Medici fece un sorriso che voleva essere rassicurante e poi rispose: “Perdonate la mia curiosità... Ho figli piccoli anche io... Volevo solo vedere se si somigliavano.”

“Giovannino ha gli stessi capelli di suo padre, e il medesimo taglio degli occhi – riassunse la Leonessa – ma temo abbia preso il mio naso.”

“Il vostro naso – fece Lucrezia, osservandolo davvero per la prima volta – è solo un segno in più di quanto in lui scorra anche il sangue degli Sforza.”

Siccome l'argomento sembrava essersi spento, Caterina provò a dire: “Non voglio trattenervi più del dovuto... Credo che quello che dovevamo dirci, riguardo il Gonzaga e tutto il resto, ce lo siamo dette...”

“Com'è stato essere prigioniera a Roma?” chiese, senza preavviso, la Medici.

Pur se colta alla sprovvista, la milanese rispose subito: “Se non erro anche voi siete stata catturata una volta.”

L'accenno all'arresto con l'accusa di congiura di qualche anno prima rabbuiò per un istante il viso della moglie di Jacopo Salviati, ma, quando parlò, lo fece con una certa leggerezza: “Io ho rischiato la vita, quella volta, non lo nego, ma non ho subito una prigionia lunga e dura come la vostra.”

“Volete sapere cosa si prova a essere prigioniera di un uomo come il Valentino, dopo aver perso tutto quello che si ha?” chiese, retorica, la Tigre, facendosi molto più aggressiva del voluto: “Ecco così si prova.”

Sollevò la sottana e le mostrò la coscia attraversata dalla cicatrice che le era costata la sconfitta.

Mentre la Medici osservava, senza capire davvero, quel segno indelebile scavato nella sua carne, la Leonessa sputò: “Questo è quello che mi resta della guerra contro il Valentino. Sono stata assediata, ferita e, proprio per colpa di questa ferita, venduta, ancora una volta, da un uomo che credevo meritevole della mia fiducia.” non si premurò di fare il nome di Giovanni da Casale, pensando che, forse, informata di tutto come sembrava essere, la Medici lo conoscesse già: “Il Valentino mi ha fatta sua prigioniera, mi ha legata al suo letto e, quando non ha più potuto usarmi, mi ha chiusa in una cella buia e dimenticata da Dio. Tutt'ora mi sveglio nel cuore della notte chiedendomi come abbia fatto a non morire a Castel Sant'Angelo.”

Quel riassunto, sommario, ma fin troppo vivido, diede un brivido a Lucrezia, che, convinta di non poter osare altre domande, almeno per il momento, soffiò: “Per quello che può contare, io sono felice che siate riuscita a sopravvivere.”

“Se mi conosceste davvero – la contraddisse la Sforza, risistemandosi le sottane – forse non direste così.”

“L'ho già notato prima, ma ora ne ho la conferma: siete troppo inclemente con voi stessa.” la bacchettò bonariamente la Medici.

Caterina, scossa da un moto che non riuscì a dominare, lasciò che la sua rabbia repressa e sempre presente scoppiasse tutta di colpo, alzandosi di scatto e gridando: “Inclemente?! Vi rendete conto di cosa dite? Sapete, anche solo vagamente, cosa ho fatto, io? Sapete di che peccati mi sono macchiata?!”

Lucrezia, che non si era aspettata una simile reazione, si ritrasse istintivamente, ma attese ugualmente che la sua interlocutrice si spiegasse meglio.

La Tigre, incurante del fatto che la sua voce, così alta e ruggente, potesse sentirsi anche da fuori, si mise a elencare, furibonda: “Ho ammazzato un ragazzo a calci e pugni – il primo della lista, per lei, era e restava sempre Ludovico Marcobelli, l'unico che tormentasse ancora i suoi incubi quasi ogni notte – ho ucciso per sfuggire a me stessa, ho fatto a pezzi un uomo prima che fosse morto, ho torturato, ammazzato, umiliato, io ho...”

Con la stessa subitaneità con cui si era accesa, la Leonessa parve spegnersi. Si rimise seduta e poi, le mani serrate l'una nell'altra, deglutì un paio di volte.

“Vi sbagliare, e molto, se mi credete una donna degna di stima e ammirazione.” sussurrò, senza sollevare gli occhi verdi verso quelli scuri della Medici: “Ho molte più ombre, che luci...”

“Non viviamo in un mondo facile.” fece l'altra, senza scomporsi: “Voi siete rimasta a galla, pur nuotando in un mare in tempesta e pieno di pescecani... Dovreste essere fiera di voi stessa.”

Caterina scosse il capo e le dedicò una brevissima occhiata, con espressione spenta, come a dirle che era inutile parlarne ancora, se non voleva capire.

La Medici, invece, capiva, o meglio, cercava di farlo. Ciò che aveva davanti era un animale ferito, che ancora sanguinava, e ne comprendeva il tormento. Non potendo darle nessun sollievo immediato, però, si rese conto che l'unica cosa che poteva fare per lei, in quel mentre, era lasciarla tranquilla.

“Abbiamo un accordo, allora?” chiese dunque la moglie di Jacopo Salviati, vedendo, felice di aver ben interpretato i suoi segnali, che la Sforza accettava quella conclusione del loro incontro con una sorta di sollievo.

La Leonessa annuì in silenzio e poi confermò: “L'abbiamo.”

“Posso incontrarvi di nuovo?” chiese Lucrezia, appena prima di congedarsi in modo definitivo.

C'erano ancora tante cose che voleva domandare alla Tigre, tanti argomenti che voleva discutere con lei, e voleva anche arrivare a conoscerla meglio, perché quell'incontro, per quanto già molto utile, per lei, le aveva aperto nuove curiosità e quesiti che voleva soddisfare.

“Se quelli che mi controllano lo permetteranno, sì.” concesse Caterina.

“Parlerò con messer Fortunati, allora.” disse la Medici: “Passeremo da lui, per avere un nuovo permesso... E poi, magari, un giorno riuscirò a farvi incontrare anche mio marito.”

“Come volete.” sospirò la milanese.

Prima che la Leonessa potesse sottrarlesi, Lucrezia le prese una mano con le sue, e, trattenendola in modo che non riuscisse a farla scivolare via, le assicurò: “Non siete più sola, adesso.”

Quando la fiorentina lasciò finalmente la presa, la Sforza sbatté le palpebre un paio di volte, senza dire nulla. Ricambiò l'ultimo saluto dell'altra con un cenno del capo, e poi rimase immobile per qualche istante.

La presa della Medici era forte e sicura, e, forse, diceva di lei molto più di quello che avevano detto le sue parole...

   
 
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