Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: wanderingheath    19/08/2021    0 recensioni
Gli incubi di Luca, barista notturno in un pub, si ripresentano, vanificando gli anni trascorsi in cura nelle migliori cliniche svizzere. E qualche volta si avverano.
Emilia invece, che non sogna mai, gli incubi degli altri li vive, volente o nolente: nella sua anonimità quotidiana viene risucchiata in un attimo negli errori ed orrori altrui.
I due sembrerebbero non avere nulla in comune, se non il ricordo della classe di cui un tempo hanno fatto parte, ma dopo anni di silenzio una notte le loro vite si incrociano nuovamente e mentre vengono circondati da strani eventi, le fantasie di Emilia cominciano ad assumere una consistenza sinistramente reale. Ad unirli c'è un segreto, sepolto nelle loro memorie, che saranno chiamati a svelare.
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 1. – Parte II
 
L’occhio del ciclone

 
 
Il suo cuore era un rubinetto aperto.
Dopo la folle corsa per entrare nell’atrio della metro, adesso gocciolava a singhiozzi. L’effetto acustico di quel gocciolio era una serie di percussioni: i suoi timpani, ovattati, venivano scossi dai battiti fragorosi e irregolari. Ne saltò tre o quattro.
Sforzandosi di ignorare le contrazioni, Emilia passò la tessera sul lettore automatico e, varcate le porte, si piazzò sul primo gradino libero delle scale mobili.
Un’anonima canzone jazz – di quelle che invadono ascensori e sale d’attesa – proveniente dagli altoparlanti, faceva da sottofondo al disordine accumulato in testa. I grandi poster pubblicitari le sfilavano accanto senza che se ne accorgesse: immagini del prossimo spettacolo del circo itinerante, file di locandine cinematografiche tutte identiche, di un verde acido, l’ennesimo slogan a caratteri cubitali del nuovo dentifricio sul mercato.
Lei era ripiegata su se stessa, tutta concentrata nella propria mente. Quei fanali luminosi le fendevano ancora lo sguardo, impressi a fuoco sulla retina.
Aveva rischiato di morire.
Qualcuno la sorpassò sulla corsia di sinistra, urtandole la spalla. Il busto roteò appena, senza alcuna intenzione o reazione da parte della diretta interessata.
Sarebbe potuta morire, in un soffio, senza che nessuno se ne accorgesse. I passanti si sarebbero voltati al rumore dell’impatto, scioccati alla vista di un cadavere così giovane, di una vita troppo precocemente tranciata in quel modo brutale, ma poi avrebbero proseguito con le loro, di vite.
Riusciva a immaginare la telefonata a casa – il brutto, vecchio telefono giallastro con filo che riposava sul mobile in noce dell’ingresso – la notizia che forse avrebbe occupato qualche piccola rubrica del telegiornale regionale o sui social i post del cinquantenne indignato di turno. I ragazzi d’oggi che si sbomballano il cervello con la musica e non guardano nemmeno dove mettono i piedi.
In realtà si era trattato di un incidente, di un camion passato con il rosso, ma poco cambiava i fatti.
Aveva rischiato la vita e la prima reazione era stata la totale immobilità, come se inconsciamente avesse già accettato il proprio destino. Quelle considerazioni la turbavano e intimorivano.
Sapeva di non avere i riflessi più pronti del mondo, ma un minimo istinto di sopravvivenza?
A riscuoterla dall’intorpidimento fu la folla di viaggiatori che scendevano le scale mobili due gradini alla volta, saltando come caprioli al termine della corsa. Una simile agitazione poteva voler dire solo una cosa: il prossimo treno era in arrivo.
Emilia affrettò il passo, rimanendo tuttavia intasata nell’ingorgo di gente che premeva, spintonava, si dimenava, aggrappata al corrimano. Qualche metro più avanti, un oggetto minuscolo di forma circolare cadde a terra, rimbalzando di gradino in gradino fino ad atterrare sul pavimento.
L’uomo che l’aveva perso era sulla cinquantina, in parte calvo, con un impermeabile che lo infagottava fino alle ginocchia. Le rammentava un ispettore della polizia di serie B, un detective in pensione dal passato tragico. Ai piedi portava delle scarpe lucidate, ma visibilmente consunte.
Con la mano che aveva lasciato cadere l’anello impugnava un ombrellaccio scuro e dal manico lungo, arcuato, che ricordava un bastone da passeggio.
Sembrava non essersi accorto della perdita.
Emilia scivolò in mezzo alla schiera di studenti, pendolari, famiglie e turisti stranieri, sfruttando la propria figura minuta ma corpulenta. Riuscì a ritagliarsi un piccolo corridoio e a sgusciare fuori, per poi chinarsi a raccogliere l’anellino.
Rimase sorpresa. Era una classica fede nuziale, dorata con incise, nella parte interna, due iniziali avvoltolate: EL. Ciò che la scioccava era che fosse potuta cadere così facilmente. Suo padre, che ne portava una quasi identica, la teneva all’anulare persino mentre lavava i piatti. Ci dormiva, mangiava, ci faceva la doccia ogni mattina e ogni sera; mai gli era capitato di perderla in giro per casa – ed era un vero disastro sul fronte sbadataggine – o di dimenticarla. Stentava a immaginarselo senza fede al dito, era parte integrante della sua mano, né lo credeva veramente in grado di togliersela. L’ultima volta che l’aveva sfilata doveva essere stata una decina di anni prima.
Emilia cercò nella folla la nuca che aveva perso d’occhio. Per fortuna, riuscì ad individuarla subito: c’erano pochi uomini calvi e altrettanto alti in attesa.
Quando anche lei sbucò sulla banchina, la voce registrata stava annunciando che il treno sarebbe arrivato in un minuto. La musica da ascensore era sfumata nella canzone degli ABBA, Dancing Queen, mentre sullo schermo appeso al soffitto si susseguivano oroscopi, previsioni meteo e notizie dell’ultima ora.
Emilia notò che l’uomo calvo si era distaccato dal resto della massa; un passo più avanti rispetto agli altri, faceva dondolare la ventiquattrore che teneva nella mano destra. Di profilo, sembrava un normale impiegato dalla pelle chiarissima e con un naso pronunciato.
Emilia aggrottò la fronte. Qualcosa – non avrebbe saputo dire con esattezza cosa – stonava nell’immagine che le si parava davanti. Forse era il colore spento dell’impermeabile sgualcito, la ventiquattrore gonfia che a malapena restava chiusa, lasciando intravedere l’angolo di un foglio.
Forse era la scia lasciata dall’ombrello, gonfio anch’esso, ma di acqua piovana.
Abbassò lo sguardo a rileggere le lettere incise e saldate l’una all’altra: erano corredate da alcuni svolazzi, dei ghirigori che davano alla fede un aspetto più formale, quasi barocco. EL
Di nuovo la voce metallica della metro. Il treno era in arrivo.
«Allontanarsi dalla linea gialla.»
Emilia ruppe la propria immobilità.
«Mi scusi!» iniziò a gridare. La sua voce venne soffocata dal resto dei presenti. «Ehi! Ehi, ha dimenticato...»
Incassò un’altra spallata, accompagnata da un’imprecazione e ad un: «Ao, guarda dove vai».
Lo ignorò del tutto, stringendo la presa sulla fede. Mentre il suo pollice scorreva sull’interno, ricalcando le iniziali, Emilia si bloccò sul posto.
E accadde di nuovo.
Era nel suo ufficio.
Stava raccattando le ultime cose, incapace di stabilire cosa valesse davvero la pena tenere e cosa lasciare. Non c’era un manuale da seguire, in quelle occasioni. Di oggetti affettivi, certo, ne aveva, come il portachiavi che aveva attaccato alla lampada da tavolo oppure la fotografia del 2003 che li ritraeva tutti insieme – lui, sua moglie, Bianca e Ludovica che non dovevano avere più di cinque anni – e un paio di penne stilo eleganti.
Era sugli oggetti più comuni che si inceppava. La spillatrice, ad esempio, avrebbe dovuto prenderla oppure no? L’aveva comprata lui, i soldi li aveva cacciati lui come per molte altre spese, ma alla fine lì in ufficio la usavano praticamente tutti; anzi, era stata una casualità ritrovarla nel proprio cassetto. Decise di lasciarla, perché tanto a lui non sarebbe servita più.
Tentò di chiudere la serratura a scatto della valigetta per la sesta o settima volta. Qualche collega, qualche faccia amica, gli passò accanto, rivolgendogli un saluto con la mano. Si tenevano a distanza, come se fosse stato un appestato; la scrivania era il loro scudo. Tutti con quel sorriso circostanziale, terribile, agghiacciante, umiliante. Per quanto erano in imbarazzo, si sarebbe detto che fossero loro, e non lui, a dover raccattare tutto e lasciare quel posto per sempre. Invece era lui.
Era toccato proprio a lui.
Taglio del personale, sai c’è la crisi, sai dobbiamo rinnovare e snellire un po’ l’azienda. Quelli come te non ci possono più aiutare e, davvero, vorrei non dover scegliere, ma devo scegliere.
E la scelta era caduta su di lui, l’accetta sul suo collo.

Lui, tra i più anziani, ma apparentemente non tra i più competenti e redditizi in servizio.
Lui a cui capitava ogni tanto di fare tardi per via di un treno in ritardo o della navetta intasata che non prendeva più passeggeri all’ora di punta.
Lui a cui capitavano sempre i turni in corrispondenza delle festività, perché tutti gli altri si erano già accaparrati i migliori periodi per le ferie. Lui, costretto a mangiare in disparte perché il resto dei colleghi andava puntualmente fuori per pranzo o si portava dei cheeseburger pieni di colesterolo e calorie.
Aveva attraversato la soglia d’ingresso della sua azienda – l’azienda in cui aveva lavorato per oltre vent’anni – per l’ultima volta. Forse sarebbe dovuto tornare per questioni burocratiche o perché gli volevano restituire la spillatrice, ma sapeva che quella in realtà era l’ultima volta.
Sul tragitto verso la metro aveva avuto molto tempo per pensare, ma tutto il tempo del mondo non gli sarebbe bastato a formulare un discorso coerente e positivo con cui giustificare un licenziamento alla moglie. Non sospettavano nulla, né lei, né le bambine – che ormai bambine avevano smesso di esserlo da un bel po’- né sua madre, né i suoceri. E quando avesse fatto un primo round, gliene sarebbero toccati altri ancora: gli amici più stretti, i cugini, gli zii, gli amici più superficiali, i genitori delle amiche di Bianca e di Ludovica, i condomini che lo avrebbero visto bazzicare più spesso in casa. Magari persino il macellaio, da cui avrebbe ridotto le spese drasticamente, e qualche vecchio conoscente rincontrato per caso: come stai, che fai, come sta tua moglie, e il lavoro?
Aveva chiuso l’ombrello. Una doccia di pioggia non lo innervosiva più.
Lasciò che l’acqua s’infrangesse sulla nuca, scorresse lungo l’impermeabile, s’infiltrasse nei risvolti di maniche e colletto, gli infradiciasse pantaloni e valigetta.
E dove avrebbe trovato il coraggio – la dignità – di spiegare alle figlie che non potevano comprare un altro paio di scarpe o i biglietti per il concerto di Ultimo a cui tenevano tanto, né un biglietto per una vacanza all’estero, o in Italia, o da nessun’altra parte?
La vergogna gli bruciava come un fuoco sempiterno e gli inondava le guance. Se fosse riuscito a piangere, nessuno se ne sarebbe accorto sotto quell’acquazzone.
Scese le scale mobili senza fretta, picchiettando la punta dell’ombrello contro il rivestimento metallico, poi si sfilò lentamente la fede dal dito e lasciò che cadesse altrove. Qualsiasi posto sarebbe stato meglio della sua mano. Aveva mani che non trattenevano più nulla.
Tornare in sé fu come uscire da un tunnel. Le era parsa un’eternità, ma non le lancette dell’orologio si erano mosse solo di qualche secondo.
Si accorse di avere gli occhi lucidi solo quando abbassò lo sguardo sulla propria mano. L’incredulità lasciava il posto ad una morsa dolorosa priva di nome.
Emilia sentì lo sferragliare del treno che rallentava la propria corsa. Sbucò dalla curva della galleria.
Il muso argenteo si avvicinava. I suoi fanali le ferirono gli occhi e per un attimo ebbe l’impressione di trovarsi di nuovo in mezzo alla strada, in superficie.
Poi, sentì il bisogno disperato di trovarsi in superficie, di poter emergere da quella scatola chiusa, dalle viscere della metropolitana, di tornare subito su a respirare l’aria fresca e carica di smog.
Il battito riprese il galoppo affannoso di prima e un telo di bianco parve posarsi sopra ogni cosa. Non respirava più bene, adesso.
Emilia vide se stessa slanciarsi in avanti, distendere una mano e gridare: «No! Si fermi!»
Invece rimase ferma lì, al suo posto, incapace di spostarsi anche solo di un millimetro. La folla si disponeva irregolarmente sulla banchina, cercando di prevedere quale vagone fosse il più sgombro.
L’uomo calvo superò la linea gialla, due passi lenti ma decisi. La punta della scarpa arrivò sul bordo. Poi scomparve.
Emilia non udì alcun suono. C’era solo il ritornello degli ABBA, a ricordarle di essere dolce e ancora giovane. Il flash luminoso finì per occupare tutto il suo campo visivo.
La fede cadde con un tintinnio a terra e finì sotto il vagone in movimento.
 
 
*   *   *
 
 
«Sì, ma, Lù, non puoi capire.»
Scrollava talmente tanto il capo da far credere di essere in preda a delle convulsioni.
«Ci devi venì, una sera di queste. È una figata pazzesca. Ti fanno dei cocktails, hai presente i cocktails più famosi?»
«Beh, sì. Non è che conosca proprio tutta la gamma di cocktails esistenti, ma i più famosi...»
«Lascia perde. Loro li hanno tutti. Sai che vuol dire tutti? Tu gli puoi chiedere quello che ti pare, quello che ti pare veramente, e loro te lo fanno sul momento, manco c’avessero un supermercato sotto il bancone.»
Iniziava a infastidirlo il modo in cui esaltava quel pub. D’accordo, era un posto di fiducia, in zona universitaria, strapieno di ragazze – aveva assicurato Lorenzo – e dai prezzi accessibili, ma detestava la concorrenza. Ne stava parlando ininterrottamente da più di dieci minuti, un lasso di tempo troppo lungo per fargli credere che si fosse dimenticato del suo nuovo lavoro da barista.
«E non costano un cazzo, ti giuro», continuò imperterrito. «Uno Spritz starà sui tre, quattro euro.»
«Okay, ho capito.»
«E guarda che non fanno schifo, eh.» Si ritrovò un indice ammonitore contro. «Tu magari pensi: chissà che ciofeca ‘sta roba che mi versano. Per tre euro sarà tipo piscio, no? E invece!»
«E invece!»
«No!» terminò trionfante.
Lo aveva raggiunto in città universitaria. Ad uno dei due cancelli principali, Luca si era sentito un intruso. Li aveva attraversati ugualmente e non aveva incontrato difficoltà nel raggiungere la Facoltà di Scienze Politiche. Dal momento che era in anticipo, ne aveva approfittato per vagare nel piazzale, sbirciando con sospetto il profilo della Minerva. Chissà se era vera la leggenda; vera o meno, gli studenti sembravano prenderla sul serio e circumnavigavano la statua, evitando accuratamente di incrociarne lo sguardo, pena la bocciatura.
Mentre si avvicinava di nuovo all’aula in cui Lorenzo faceva lezione, aveva incrociato gruppetti di studenti e studentesse che chiacchieravano distesi sul prato, alcuni decisamente sballati, altri raccolti in una sessione di studio. Lo affascinava quell’ambiente, ma preferiva tenersene a distanza.
Si era accordato con Lorenzo per vedersi alla fine delle lezioni, così da prendere la metro insieme e spostarsi verso il centro. Voleva portarlo ad abbuffarsi di carbonara in una trattoria storica, a Trastevere, di cui Lorenzo conosceva i proprietari, vecchi amici di famiglia.
«Allora,» gli aveva detto appena uscito, «ti piace la nostra università?»
Gli era parso strano che, dopo circa sette anni di quasi totale silenzio, la prima cosa che Lorenzo gli avesse detto fosse stata proprio quella.
«Bella. Molto bella.»
«Bella, ma non balla?» aveva chiesto, aggiustandosi lo zaino in spalla. Infilava solo uno dei due spallacci, lasciando che il borsone rosso gli pendesse da un lato; un’abitudine, questa, che conservava dai primi anni delle scuole medie.
A parte questo dettaglio, lo trovava decisamente cambiato rispetto all’ultima volta che si erano visti di persona. Intanto, si era arreso alla necessità di un paio di occhiali, proprio lui che chiamava tutti i secchioni della scuola quattrocchi; non solo, ma ne aveva scelto anche un paio spesso, di quelli con le lenti squadrate e la montatura scura, che gli rimpiccioliva gli occhi castani e pesava sul naso a patata. Le lentiggini erano decisamente diminuite e anche l’estrema esilità che lo contraddistingueva da bambino era stata stemperata con delle braccia un po’ più muscolose e spalle larghe. Se lo ricordava preadolescente che sgambettava in campo dietro al pallone, con una voce un po’ nasale e stridula, decisamente fastidiosa; t-shirt larghe, dai colori accesi e qualche stampa divertente o frase irriverente sopra – proprio come sui diari che portava in classe.
Adesso girava con delle polo piuttosto aderenti, monocrome. Il piccolo ragazzino di un tempo lo aveva raggiunto in altezza e cercava di darsi un tono. Perfino il taglio di capelli era stato rivoluzionato e dalla spazzola che si faceva spesso d’estate era passato ad una capigliatura più folta e lunga, con un gran ciuffo castano a tagliargli la fronte ampia.
«Bella, ma non fa per me» aveva decretato Luca. «Non è il mio ambiente. Odiavo studiare, non tornerei sui libri nemmeno pagato.»
Erano arrivati sulla banchina della metro, che pian piano iniziava a riempirsi di gente.
«Questo è uno degli orari di punta», spiegò Lorenzo. «Speriamo di trovare qualche posto libero.»
Luca iniziò a sentirsi a disagio. C’era qualcosa, in quell’ambiente che odorava vagamente di muffa, a renderlo irrequieto. Cosa fosse, non avrebbe saputo esprimerlo a parole, ma era la sensazione che stesse per verificarsi uno spiacevole avvenimento.
Si rimproverò da solo per il modo in cui si autosuggestionava: prima con il videogioco, adesso con questo. Doveva davvero imparare a stare calmo e presente nella situazione attuale.
Calò il silenzio, riempito solo da una musichetta jazz in sottofondo e dalle news date dal monitor di fronte a loro. Una perturbazione aveva colpito il Nord Italia, provocando delle alluvioni e ulteriori danni. Il giornalista di turno mostrava agli spettatori il terreno fangoso alle proprie spalle, poi intervistava un agricoltore trentino che si dichiarava preoccupato sul prossimo raccolto, rovinato dalla grandine.
A Luca sembrava strano che due come loro non avessero niente da dirsi, dopo sette anni.
C’era un mondo inesplorato, anzi ben tre mondi da approfondire: il suo, quello di Lorenzo e quello che si ritrovavano a condividere adesso. Quello che spettava a loro ricostruire.
Con sua sorpresa, Lorenzo spezzò quella pausa. La parlantina era rimasta un tratto caratteriale.
«Che schifo di musica mettono. Non sopporto la roba che trasmettono alla radio. Si salva giusto qualche stazione», commentò. «Se riesci a prendere la frequenza, ce ne sono un paio che trasmettono musica rock. Ma rock vero, quello delle origini, capito? Non questa roba moscia.»
Luca replicò con un’alzata di sopracciglia: «Sei diventato un esperto di musica?»
«No, figurati», Lorenzo scacciò l’ipotesi come fosse stato un insetto irritante. «Mi piace ascoltare il rock, ma non sono un elitista del cazzo. Poi, non tutto tutto il rock. Diciamo alcune fette. La musica italiana la mastico poco. Tutti fissati con l’indie, adesso. O con il grunge. Si sentono Kurt Cobain reincarnato.»
Dal momento che l’altro era in attesa di una risposta di qualsiasi tipo, Luca si strinse nelle spalle. Teneva lo sguardo fisso sul cartellone indicante gli orari, sulle cifre luminose che avvertivano l’arrivo della prossima corsa. Ancora qualche minuto. La banchina adesso straripava di gente affrettatasi per saltare sul primo vagone disponibile.
«Non ascolto molto la radio, a dire il vero. Preferisco cercare da me la musica che mi piace.»
«Bravo! Ma come diamine fai quando tipo... Quando vai al lavoro ad esempio, come riesci a stare senza lo sfondo della radio?»
«Ho le mie playlist. Come chiunque.»
Lorenzo si accigliò. Sembrava che per lui la radio costituisse una questione di fondamentale rilevanza. «E i podcast», aggiunse Luca, come a volersi discolpare. «Ascolto qualche podcast motivazionale, quando proprio non mi va di scendere dal letto.»
«Ci può stare», concesse l’altro. «Poi, dipende da che stazioni riesci a prendere. Ehi, ma da te, in Svizzera, arrivava qualche stazione? Non mi hai raccontato niente di Ginevra.»
«Zurigo», lo corresse Luca. «Beh, non è che ci sia molto da dire, in realtà...»
«Ah, giusto! Tu eri nella capitale, vero?»
«No, la capitale è Berna.»
«Che cazzo dici? È Zurigo!»
Luca corrugò la fronte, estraendo dai jeans il cellulare nuovo. «Sono abbastanza sicuro che sia Berna, ma diamo un’occhiata.»
«Ma che fai?» Lorenzo gli bloccò un braccio. «Scherzavo, ovviamente. È Berna, certo. Volevo vedere se eri preparato. Allora anche in Svizzera vi insegnano geografia.»
Luca mollò la presa sul telefono, sebbene appena guardingo. L’idea di poter distrarre per un pezzo l’amico con Wikipedia, lo rassicurava. Doveva, invece, star lì a ricercare qualche storiella da raccontare riguardo il suo soggiorno in Svizzera.
L’unica cosa che gli veniva in mente, al momento, era una stanza di mattonelle bianche, un rumore pesante e gracchiante sullo sfondo, la sensazione di avere le gambe e le braccia immobilizzate e il gigantesco collare che portava al collo.
«C’è un mio amico che vive lì...»
Proprio mentre accennava ad Henry, il vocione automatico annunciò l’arrivo del treno. «Allontanarsi dalla linea gialla.» Lorenzo ne aveva rifatto il verso, storpiando le parole e sputacchiando qua e là. «Voglio dire, perché diamine continuano a dirlo, se poi la gente fa come vuole? Se sta arrivando la metro, col cazzo che mi spingo verso il muro e lascio il posto agli altri.»
Stava di nuovo gesticolando con una vivacità ed energia eccessive rispetto alla situazione.
«Insomma, questa è la metropolitana di Roma, mica siamo a... Che ne so, in Svizzera, appunto!»
A Luca sfuggì un mezzo sorriso, mentre con lo sguardo cercava il familiare profilo del treno.
La sensazione di disagio di poco prima, anziché diminuire era aumentata in modo spropositato.
Finalmente la testa del treno sbucò dalla galleria, ma Lorenzo non aveva terminato la propria orazione: «Questa è la giungla! Tutta Roma è così. Vallo a chiedere a un altro romano: scusi, ma che lei si allontana dalla linea per prendere la metro? Quello ti risponde: cor cazzo! E sai che c’è? C’ha ragione». L’ultima parola venne caricata il triplo del necessario, aumentando il numero di “g” in maniera esponenziale.
Quando era piccolo, Lorenzo non presentava alcuna inflessione dialettale; anzi, a scuola e con i genitori dei suoi amici, era sempre sotto i riflettori per la sua parlata perfettamente pulita. Dal momento che entrambi i genitori parlavano un romano appena accennato, era normale che fosse cresciuto così.
Luca sospettava che negli anni quella carenza di definizione, quell’asetticità del linguaggio, troppo puro e anomalo rispetto a quello dei loro coetanei, doveva aver avuto un peso nella vita di Lorenzo. Era sempre stato il tipo di persona che aveva un terribile bisogno di affetto e di accettazione.
Non si trattava di una carenza, ma di vera e propria carestia.
«Lorè, io credo che a nessuno venga in mente di superare la linea con il treno in corsa.»
«E invece ti sbagli. Tiè, guarda quel coglione lì davanti. Sì, quel pelato. Secondo te che sta a fa? Vuole fregarci il posto, mi ci gioco quello che ti...»
Fu un attimo.
In seguito i presenti si sarebbero spaccati a metà, tra chi sosteneva che fosse arrivato prima l’uomo e chi invece prima il treno. Sembrava il paradosso infantile dell’uomo o della gallina, ma davanti alle tragedie l’umanità pareva regredire a stadi primordiali.
Che fosse l’uno o l’altro, il corpo del signor Vincenzo Donato, cinquantatreenne coniugato e con due ragazze a carico, impiegato per oltre vent’anni in un’azienda che si occupava di telefonia, venne dilaniato dai vagoni della metro.
Luca rimase in uno stato di shock per un minuto intero, prima di riscuotersi e comprendere veramente l’accaduto. Attorno a lui, si era scatenato il delirio. Gente che urlava, gente che imboccava le scale d’uscita, gente che chiedeva ad altra gente di chiamare i soccorsi.
Anche Lorenzo, che aveva sempre la battuta pronta in canna, ora taceva.
Luca lo scosse per una spalla, incoraggiandolo a cercare soccorsi insieme. «S-sì», deglutì a fatica.
In sottofondo ancora si srotolava la canzone degli ABBA, conferendo alla scena un aspetto ancora più surreale. Che fossero le medicine a conferirgli quel sangue freddo, Luca lo sospettava, ma non ci avrebbe giurato. Si erano presentati altri casi in cui, in passato, di fronte allo shock collettivo, lui era stato l’unico a mantenere una straordinaria calma.
Mentre si faceva spazio tra i presenti, sentì qualcuno assicurare di essere un medico. Un altro sosteneva di aver già avvisato un inserviente, che avrebbe mandato al più presto un’ambulanza, i vigili del fuoco e membri della sicurezza. L’aspetto più agghiacciante, lo sottolineò Lorenzo, quasi gli avesse letto nel pensiero: «Pensa alla gente bloccata nei vagoni. Il tipo ormai è morto, ma tutti gli altri? Cosa dovremmo fare adesso?»
«Testimoniare, immagino. È l’unico aiuto che possiamo dare.»
Poco più avanti sulla banchina, in corrispondenza dell’entrata dalle scale mobili, si era formata una sorta di pozza di gente, una specie di cerchio magico raccolto attorno ad una figura distesa a terra.
Luca intravide una felpa grigia, delle gambe robuste e uno zaino abbandonato vicino al corpo.
Doveva trattarsi di una ragazza, in base agli stralci di conversazione che riusciva a carpire.
C’era un paradosso assurdo tra le due situazioni: le urla insopportabili, stridenti, di chi si accalcava nei pressi dei binari e i sussurri cospiratori di chi osservava, impotente, la ragazza svenuta.
«Ehi, Lù.»
«Mh?»
«Ma non è Emilia Scafi quella?»
Luca si sforzò di ricordare. Quel nome non riesumava alcuna immagine.
«Emilia Scafi, la secchiona della prima B. Era tipo amica di Elena, ti ricordi? Ci sei pure finito in punizione una volta.»
La sua mente venne illuminata da un nuovo lampo. Spezzoni di un pomeriggio autunnale, la pioggia e strati di foglie a scivolare sotto le loro scarpe. Ricordava una matassa di capelli castani disordinati, il giorno in cui aveva inforcato un nuovo paio di occhiali, vantandosene. Gli scarabocchi, i fulmini, la festa a casa di Elena. Adesso che gli tornava in mente tutto, si sentiva inondato di informazioni, travolto da uno sciame di sensazioni indistinte e contrapposte al contempo. L’emicrania stavolta non si limitò a bussare, ma squassò la sua parete cerebrale, pretendendo di essere ascoltata.
«Certo. Emilia» sussurrò. «Come ho fatto a dimenticare?»
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: wanderingheath