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Autore: EleAB98    23/08/2021    4 recensioni
Malcom Stone è un pretenzioso caporedattore, nonché affascinante quarantenne con una fissa smodata per le belle donne. Ma arriverà il giorno in cui tutto cambierà e l'incallito casanova sarà costretto a fare i conti con i propri demoni interiori, e non solo quelli... Riuscirà mai a guardare oltre l'orizzonte? Ma soprattutto, chi lo aiuterà nell'ardua impresa?
[...]
Gilberto Monti è un giornalista affermato. Oltre a ricoprire una posizione lavorativa più che soddisfacente, ha appena esaudito uno dei suoi più grandi sogni: sposare la donna che più ama. Ma è davvero tutto oro quello che luccica?
[...]
Alex Valenza, un reporter piuttosto famoso, è alle prese con una drammatica scoperta che lo porterà a chiudersi, a poco a poco, in se stesso. A nulla sembra valere il supporto della moglie. Riuscirà a ritrovare la serenità perduta?
*Opera Registrata su Patamù*
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo X – Amici Mai? – Parte Prima

Martedì

 

Allo scoccare dell'alba, mi ritrovai a constatare di non averla nemmeno sfiorata. Avevo trascorso l'intera nottata su di un confortevole letto matrimoniale con accanto una donna da paura senza aver concluso una beata mazza. Aggrottai le sopracciglia. Se qualcuno me lo avesse detto soltanto una settimana fa, non ci avrei mai creduto. Io, Malcom Stone, condannato alla pura castità come un monaco tibetano, avevo incarnato la parte del bambino innocente che, però, non si era affatto premurato di cercare anche una sola briciola d'affetto da parte di quella donna – come avrebbe invece fatto un ragazzino tutelato da una madre tanto generosa quanto apprensiva e, per certi versi, iperprotettiva.
Io, incredibile a dirsi, non avevo cercato un contatto con quella Megan. Nemmeno il più subdolo, nemmeno il più insignificante. Mi ero limitato a rigirarmi sul fianco opposto a dove lei dormiva avendo cura di tenere le mani a posto – di tanto in tanto, però, non avevo resistito e mi ero voltato verso di lei, scrutando di sottecchi il suo viso, seminascosto da qualche ricciolo ribelle che lo ricopriva – , mi ero limitato a sognare di baciare quelle stupende labbra a cuore, ma fondamentalmente... non avevo mosso un dito per dimostrare a me stesso che niente fosse cambiato.
Dopotutto, ero o no un insensibile casanova? Per un momento, mi soffermai sul significato letterale del termine.

Casanova. Novacasa.

Scossi la testa. Che si stesse verificando sul serio un qualcosa di nuovo, all'interno di quelle quattro mura attorniate da una lussuosa carta da parati che faceva da sfondo alla stanza d'hotel? Quella gran bella camera, per qualche giorno, sarebbe stata la mia casa. Anzi, la nostra.
Rabbrividii al solo pensiero. Io e Megan condividevamo lo stesso tetto. Lo stesso letto.
Ma non gli stessi ideali.

Negli ultimi giorni, ci eravamo spesso ritrovati a discutere dei nostri rispettivi stili di vita, del nostro modo di gestire le varie inchieste e i sottoposti, cui dovevamo insegnare tutti i trucchi del mestiere. Sul fronte lavorativo, condividevamo gli stessi metodi – investigativi e non. O quasi.
Cercare il pelo nell'uovo o, se preferite, il famigerato ago nel pagliaio, era una condizione di vitale importanza per dei giornalisti come noi.
No, non tutti i giornalisti sono uguali; effettivamente, nel corso della mia carriera mi era capitato di confrontarmi con individui che spacciavano per lavoro quello che io e Megan avremmo semplicemente definito lo squallore più assoluto. D'altro canto, non avevamo le stesse vedute in fatto di principi morali e non. Avevo sempre sostenuto che privarsi di una qualsiasi opportunità significava non essersi sprecati a sufficienza per arraffare ciò per cui valeva la pena lottare, malgrado potesse, ai più, apparire come effimero o poco appetibile. Megan arguiva, invece, un qualcosa di terribilmente immorale – almeno in base alle mie asserzioni. A detta sua, si doveva anzitutto valutare preliminarmente se valesse o meno lo sforzo di sacrificarsi per raggiungere un dato obiettivo, accertarsi che lo stesso non si rivelasse una vera e propria futilità.

Scostai di nuovo lo sguardo da lei. L'attrazione fisica che provavo nei suoi riguardi poteva essere forse paragonata alle circostanze precedenti e, nello specifico, a quelle cui riversavo soltanto fino a pochi giorni prima?
Tornai a guardarla. I miei occhi, che percepivo come stanchi e arrossati – avevo perso sin troppo sonno –, si persero ancora nel catturare quanti più dettagli riuscissero a scovare nelle porzioni di pelle scoperta – che erano ben poche, ovviamente.
Il suo collo liscio e invitante, le sue mani affusolate, il suo volto rilassato. Sembrava proprio che Megan non temesse alcun agguato da parte mia. D'altra parte, le avevo promesso di fare il bravo, no?
Sospirai leggermente. Con tutto quel ben di Dio davanti, avrei potuto starmene buono buono fino a venerdì? Allungai la mano destra verso di lei. Con estrema leggerezza, sfiorai la manica lunga del pigiamone che teneva addosso. Quel morbido tessuto aizzò, dentro di me, l'impellente desiderio di scoprire che la sua pelle non fosse da meno.
Scostai le dita, di scatto. Non dovevo fare passi falsi, altrimenti sarebbe stata la fine. Avrei senz'altro potuto trovare un'altra donna che corrispondesse ai miei canoni estetici. Peccato che, quando ero in missione speciale, non potessi flirtare con nessuna. Per farla breve, potevo giocare in casa, ma non in trasferta.

Chiusi gli occhi, deciso a pensare ad altro. Come avremmo fatto a incastrare quel Richie Rich da quattro soldi? Megan si era esposta sin troppo. Cos'altro avremmo potuto inventarci? Mi alzai piano dal letto, perciò presi a massaggiarmi convulsamente le tempie. Avevo bisogno di escogitare un nuovo piano per cavarci fuori dall'impaccio il prima possibile.
Mi lasciai ricadere a peso morto sul cuscino, quindi mi voltai, di nuovo, verso Megan. Mi sistemai meglio e poggiai la testa sul pugno sinistro.
Ero di nuovo caduto nella sua trappola. La stavo fissando senza alcun ritegno.

«Cos'è, cerchi forse di leggermi nel pensiero?»

Sussultai a quelle parole. «Tu eri—»

«Ero sveglia, esatto.» Megan aprì gli occhi. «Da un bel po', se ci tieni a saperlo. Va tutto bene?»

Esaminai la sua espressione come fossi uno scienziato in procinto di esaminare microscopici batteri. «E me lo chiedi? Ieri sera abbiamo bruciato l'unica opportunità che avevamo per incastrare quell'individuo. Come vuoi che mi senta?!»

L'altra mi scoccò un sorriso malizioso, apparentemente ingiustificato. Questa volta, non avevo detto alcunché di sconveniente. Cosa aleggiava nell'aria? «A proposito di ieri sera, io... penso di doverti dare un premio.»

Deglutii, a fatica. «Un premio?» ripetei, assai confuso dalla sua attitudine. Il suo sorriso malandrino non accennava a scomparire. E io conoscevo molto bene quel tipo di sguardo. Ero lo sguardo di una mangiauomini.

«Esatto.»

«Megan, ascolta, io—»

«Shh...» Si avvicinò a me tralasciando ogni remora. Decisamente spiazzato dal suo comportamento, decisi di alzarmi in fretta e furia da quel letto. Megan, però, fu ben più rapida del sottoscritto e mi fece ripiombare sul materasso. Quel gentile e affusolato palmo, spiaccicato sulla mia camicia bianca, fu come fuoco sulla mia pelle. Un marchio indelebile. Il marchio del diavolo.

«Dovrei perlomeno farti capire quanto io abbia apprezzato il tuo intervento...»
Megan sussurrò quelle parole a pochi centimetri dal mio viso. Non riuscii minimamente a sottrarmi da quello sguardo rapace. Sembrava proprio che io fossi un serpente a sonagli e che lei stesse suonando il flauto incantato per ipnotizzarmi con i suoi occhi. Mi sentivo impotente, la cieca attrazione che provavo per Megan si era risvegliata tutta d'un tratto.
Ma c'era una cosa con cui lei non aveva ancora fatto i conti. Ero uno degli uomini più orgogliosi che esistessero sulla faccia della Terra. E la vita me lo aveva spesso dimostrato. Ringhiai.
Non volevo cedere. Non dovevo cedere. D'altronde, il subitaneo rifiuto di una donna non poteva trasformarsi in un palpabile e animato interesse così, da un giorno all'altro.

«Mi basterebbe un tuo grazie spontaneo», esalai, avevo la gola terribilmente secca. «Non devi fare altro», dissi ancora, sforzandomi di sembrare convincente.

«Ne sei sicuro?» Il suo indice cominciò a tracciare una leggera e indefinita scia; dai pettorali finì sul fianco destro, per poi risalire verso il collo. Avevo il fiato corto. Il cuore stava cominciando a palpitare, il mio corpo a pulsare. Se non mi fossi tolto Megan di dosso, avrei fatto la cazzata più grossa della mia vita. L'avrei presa per i fianchi, e poi... chiusi gli occhi di nuovo, al fine di non immaginare altri, impudichi scenari.

«Megan... spostati. Ti prego», le dissi, anche perché io non avevo proprio le forze per farlo. Quella tortura alla Megan mi piaceva da matti. Dio, se mi piaceva!

«È davvero quello che vuoi?» soffiò, suadente, sul mio orecchio.
Diavolo, tra non molto avrei iniziato a sudare sette camicie.

«E tu? Cos'è che vuoi, eh?» mi ritrovai a risponderle, con una certa stizza. Mi stava mettendo seriamente alla prova e io odiavo a morte sostenere degli esami, soprattutto in casi come quello. «Vuoi forse farmi impazzire?»

«Sei tu che stai facendo impazzire me, Malcom. Da ieri sera, non sono riuscita a pensare ad altro che non fossi tu.»

La fissai, basito. Quella voce suadente suonò più ammaliante che mai. Quasi fece vibrare la mia anima. «Non dire stronzate», la sua sfrontata manina si stava avventurando sulla giugulare, solleticandola. Diamine, l'avrei presa all'istante, se avesse continuato così. «Tu vuoi incastrarmi», continuai, senza mezzi termini.

«Come tu volevi incastrare me, non ti pare? Adesso siamo pari. O meglio, potremmo esserlo tra poco. Creare quel perfetto incastro che sempre hai anelato, sin dal primo momento in cui mi hai vista.»

In quell'istante, tentai di elaborare una spassionata arringa che potesse addurre al fatto che, ormai, la mia profonda attrazione per lei si era non poco affievolita. Ma come avrebbe potuto credermi? Il mio sguardo, di sicuro sconvolto e non meno accaldato, suggeriva tutt'altro. Sì, il mio viso era in fiamme, potevo davvero sentirlo bruciare.

Megan si avvicinò maggiormente. Le sue iridi azzurre mi folgorarono. In un momento, ci ritrovammo avvinghiati l'uno all'altra.
Le sfiorai le labbra con il pollice. E poi capitolai. Preso in contropiede, cominciai a baciarla come se non ci fosse un domani. Lei, dal canto proprio, stava partecipando con un entusiasmo inaspettato.
Aveva vinto lei. Stava vincendo lei. Io, che per quarantotto ore avevo resistito dall'inchiodarla su quel letto con il solo scopo di farla mia, stavo comportandomi come un adolescente con gli ormoni a palla. E mi stavo accontentando di un semplice bacio, tra l'altro. Per un altro, indefinibile attimo, assecondai il suo impeto di pura pazzia – perché soltanto di quella poteva trattarsi.
Poi, con uno scatto deciso, la adagiai sull'altro lato del letto e mi risollevai, rompendo quel tanto bramato contatto. Mi allontanai da lei, come scottato.
Non ero disposto a farmi prendere in giro. Ed ero più che certo che avrei perso la scommessa con me stesso, se fossi andato oltre. E io non l'avrei mai persa, per nessuna ragione al mondo. «Contenta, adesso? Hai ottenuto quello che volevi. Qualunque cosa fosse. Si può sapere cosa diavolo ti è preso?» Stavo ansimando di brutto, ero sconcertato. Squadrai il mio riflesso sullo specchio da parete. Sembrava fossi stato assaltato da un branco di vampire assetate di sangue. I capelli scompigliati, gli occhi fuori dalle orbite, la camicia stropicciata. In poche parole, mi aveva conciato davvero male. «Non giocare col fuoco, Megan. O ti brucerai. E te lo dice un casanova di tutto rispetto», esalai quelle parole con uno cipiglio che non ammetteva repliche.

Megan incrociò le braccia, tentando di rimanere seria. Quell'espressione stava per cedere all'ilarità, me lo sentivo. «Io volevo soltanto—»

«Volevi cosa? Mettermi alla prova, forse? Be', mi dispiace, ma con me non attacca. Tanto per citare qualcuno in particolare.»

D'improvviso, Megan si mise a ridere; mi rise letteralmente in faccia. Come se non l'avessi previsto! «Caspita, non pensavo di sconvolgere a tal punto un casanova spregiudicato come te! Nella mia vita, non avevo ancora raggiunto un risultato simile.»

«Molto divertente!» la canzonai, offeso. «Ringrazia che, pur essendo un casanova senza speranza, non ti abbia rispedito al mittente.»

«Devo ammettere che sei stato davvero bravo. Hai superato la prova, i miei complimenti. Ma nonostante questo... temo che l'etichetta di amici non ci si addica poi così tanto. Che ne dici di considerarci dei semplici colleghi, da oggi in poi?»

«Cosicché tu possa fare i tuoi strambi comodi senza che io possa recriminarti nulla? Okay, ci sto! Ma te lo ripeto... non giocare con me, Megan. Perché il mio fascino non ha eguali. E tu lo sai.» Tornai a sorriderle, inarcando un sopracciglio. Il mio sorriso non aveva alcunché di genuino. Sapeva di sfida. Sapeva di stizza. Non sopportavo il fatto che specifiche zone del mio corpo non concordassero con quanto le avevo detto poco prima. Con me attaccava eccome.
Il mio corpo, ormai lo conoscevo fin troppo bene, reagiva entusiastico agli stimoli esterni – e Megan, di stimoli, me ne dava parecchi –, ma la mia mente si opponeva strenuamente a quella reazione tanto imprevedibile quanto, per certi versi, incontrollabile. Attrazione e repulsione; questi erano i sentimenti che albergavano dentro di me. E questo eterno conflitto mi dilaniava.
Che intenzioni aveva Megan? C'era qualcosa sotto, era più che evidente. Ma non riuscivo proprio a comprendere cosa. Che soffrisse di un disturbo bipolare della personalità? Che avesse davvero voluto tentare di sedurmi per vedere se l'avrei portata a letto?

Lei mi sorrise, sfrontata. «Me ne ricorderò. Ma adesso, se non ti spiace... avrei bisogno del mio bagno.»

«Quel bagno, per tua informazione, è pure il mio! E io non sono disposto ad aspettarti qui fuori per trenta minuti. Perciò, se non dispiace a te—»

«Caspita, per essere un dongiovanni conosci sin troppo bene le nostre scomode abitudini.»

«Anni e anni di studi condotti in prima persona», le risposi, tagliando corto. Per un istante, mi rabbuiai. «Avanti, sbrigati! Anche se non te lo meriteresti, a dire il vero.»

Megan mi rifilò uno sguardo da cucciolo spaurito, a metà tra lo scherzoso e il divertito. «Grazie di cuore per la sua indulgenza, mister Quattrocchi!» Così dicendo, mi si avvicinò di nuovo e, di sfuggita, mi diede un dolce bacio sulla guancia. Quando sparì dietro la porta, mi passai una mano tra i capelli.
Quella donna era una pazza. Tra l'altro, non apprezzavo molto quei bacetti insulsi. Eppure, il suo gesto spontaneo non mi infastidì.

Cazzo, mormorai, tra me e me. Se non avessi esplorato per benino il corpo di quella donna, non sarei mai riuscito a togliermela dalla testa. Peccato che avessi fatto un patto con me stesso. Non l'avrei toccata, non avrei gettato alle ortiche la mia dignità. Non di nuovo.

Mezz'ora passò e, come di consueto, ammirai Megan da capo a piedi una volta uscita dal bagno.
Una sfolgorante illuminazione mi colse. Avrei giocato al suo stesso gioco. «Cavoli... vuoi forse farmi morire di crepacuore? Sei uno schianto», dichiarai, per nulla intimidito. Le avrei fatto capire chi comandava.

«Vedo che sei tornato di nuovo in te», commentò Megan sfilando, con garbo, davanti a me. Aveva indossato un vestitino bianco a balze davvero elegante – condito da qualche decorazione floreale –, per nulla consono alla giornata lavorativa che ci attendeva.

Ignorai il suo commento. «Peccato che non dobbiamo andare a una festa, altrimenti... saresti capace di stendere tutto il genere maschile. Non che a te interessi, non è così?»

«Esattamente. Non ho bisogno di nessuno, io

Annuii, falsamente ammirato. «Allora, cos'avresti intenzione di fare? Il caso Thompson è tuttora insoluto, e io non ho certo intenzione di tornarmene a Los Angeles a mani vuote. Sarebbe un gran brutto colpo per la mia carriera, che ne risentirebbe immediatamente.»

«Credi che per me non sarebbe lo stesso?» sospirò Megan, tornando seria. «Io avevo pensato di entrare di nascosto nella sua stanza, e magari—»

«Andiamo, non siamo mica all'asilo! E poi, come faresti a metterci piede?»

«Ti facevo più intelligente, sai? Ho i miei metodi, te l'ho già detto!»

«Ho visto come hanno dato i loro frutti, questi tuoi metodi», ironizzai, scuotendo il capo. «In tutta franchezza, non credo sia la soluzione migliore.»

«Ti fidi di me?»

Quella domanda mi spiazzò. Sulle prime, non le risposi. Mi voltai verso la finestra, intento a nascondere quanto albergava nei miei occhi. Della sua professionalità mi fidavo, ma, orgoglioso com'ero, rimasi sul vago. «Se proprio devo...»

«Benissimo, allora!» dichiarò lei, con fervido entusiasmo. «Questa sera, verso l'ora di cena, attueremo il piano. Ci stai?»

«D'accordo. Ma nel frattempo... cosa facciamo?»

Megan sorrise appena. «Mi ero ripromessa, non appena fossi capitata a Firenze, di andare a visitare la Galleria degli Uffizi. Mi faresti da accompagnatore?»

Le rifilai un sorriso sghembo. «Credevo volessi andarci da sola.»

«Credo sia meglio che l'uno si abitui alla presenza dell'altro», ribatté Megan, perfettamente tranquilla. «Dovremmo pur tentare di andare d'accordo, no? Allora? Ci stai?»

Mi ritrovai a sorridere tra me e me, mentre mantenevo una certa compostezza. Di facciata, s'intende. Come avrei potuto dirle di no?

«Avanti, andiamo... prima che io possa cambiare idea», le dissi, dopo essermi sistemato davanti allo specchio per quindici minuti buoni. Anche io, come mio solito, non ero esente dall'assolvere alcune scomode incombenze.

 

Avevo sempre adorato la Galleria degli Uffizi. Da bambino, assieme agli zii, c'ero stato molte volte. I miei genitori erano quasi sempre fuori per lavoro, e io ne sentivo spesso la mancanza. Ciononostante, passare del tempo con i miei cari, carissimi zii era sempre una festa. Tra l'altro, scrissi il mio primo articolo di giornale all'età di diciannove anni, e l'oggetto dello stesso fu proprio quel La Galleria degli Uffizi, che sostava, imponente, dinanzi a noi.
Non appena pagammo il biglietto, cominciammo ad addentrarci all'interno di un mondo che, in un attimo, suscitò in me una caterva di ricordi. Ricordi reali e, nel contempo, fantastici.
Avevo scritto una miriade di racconti sulla Galleria magica, quel polo museale dedicato all'arte fiorentina, e non solo. Da piccolo, mi piaceva immaginare che ogni singolo quadro, nel corso della nottata, potesse prendere vita; in sostanza, immaginavo che tutti i personaggi raffigurati in quelle inestimabili opere potessero davvero parlare. Creare di nuovo quel mondo fantastico e perfetto dal quale erano venute alla luce.
Scossi la testa a quei ricordi. In un baleno, io e Megan ci ritrovammo nella sala adibita a Leonardo da Vinci. Le sue opere colpirono molto la mia collega – eh sì, avrei dovuto abituarmi a chiamarla così, almeno di tanto in tanto –, sembrava davvero entusiasta. «Ma davvero non ci hai mai messo piede?» le chiesi, notando con quanta sorpresa stesse ammirando l'ambiente circostante.

«Purtroppo mai», ammise lei, con sommo rammarico. «Sono nata a Venezia, non sono di Firenze.»

«Ma allora come—»

«Ho dei lontani parenti che abitano a Massa Carrara, ma non sono mai riuscita a fargli visita. Purtroppo, non sono poi troppo in buoni rapporti con la mia famiglia. E così, ho sempre dovuto rimandare la mia visita in Toscana e, in special modo, a Firenze. Comunque sia, mi sono allenata al fine di parlare un perfetto accento fiorentino. Adoravo troppo la c aspirata e la t marcata. Volevo impararlo a tutti i costi.»

«E ci sei riuscita alla perfezione, vedo. Sembra davvero che tu sia nata a Firenze.»

«Sai, volevo scrollarmi di dosso l'etichetta. Ho vissuto un'infanzia piuttosto infelice. Non mi sono mai sentita a casa, in quel di Venezia. Ma ora... posso dichiararmi soddisfatta della presa che sta prendendo la mia vita.»

Rimasi molto colpito da quel discorso, ma feci modo e maniera di non darlo a vedere. Quella donna mi incuriosiva oltre ogni dire, ma non mi sarei affatto piegato al volere della mente. Avrei ascoltato soltanto il mio corpo; d'altronde, lo avevo fatto per anni. Senza contare che, quella futile attrazione, mi stava conducendo a riflettere su me stesso. E questo non andava affatto bene.

«Oh, ma guarda chi c'è! La mia opera preferita!» esclamai cambiando discorso non appena varcammo la soglia di un'altra stanza, un consistente luccichio invase i miei occhi. Quel quadro si stagliava dinanzi a me in tutto il suo avvenente splendore, un'esplosione di colori testimoniava quanta vita vi regnasse. La mescolanza di colori primari e secondari la rendeva spettacolare ai miei occhi.

«E quale sarebbe?» chiese Megan, sinceramente interessata.

«Ma la Venere di Botticelli, che domande!» sputai, ammirandola da capo a piedi.

Megan mi rifilò una gomitata in pieno petto. «Sei proprio un coglione!» sputò, alzando gli occhi al cielo.

«Lo so!» le risposi, ridacchiando come un matto. «Se è per questo, c'è anche la Venere di Urbino...» Sollevai un sopracciglio, sorridendo furbescamente. «Anche Tiziano Vecellio la sapeva lunga, a quanto pare.»

«Ma piantala! Riesci o no a pensare a qualcos'altro, almeno per una volta?»

«Temo proprio di no, cara Puffetta», risposi, sfacciatamente, mentre sentivo Megan ridacchiare in sottofondo. Forse, dopotutto, non le ero poi così antipatico.

 

*Amici Mai: brano del cantautore Antonello Venditti (1991)

   
 
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