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Autore: Rodelinda    31/08/2009    4 recensioni
Corpo e mente. Mente e corpo. Mente o corpo? Queste le domande che, inconsciamente, si è posta Haruhi molto tempo fa. E a cui si è già data una risposta: ma qualcuno, all’Host Club, presume di saperne più di lei.
Storia classificatasi prima al contest Host Club ft. Woody Allen bandito dal forum Writers Arena
Genere: Generale, Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mente e corpo
  Mente e corpo  

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« E staccati da quel libro, Haruhi! », la voce di Kaoru è scherzosa, mentre cerca di sfuggire alle palle di neve con cui lo bersaglia Hikaru; io sorrido loro, e non ribatto.
Emetto solo un «… Ehi!» carico di disappunto, quando un ridente Honey mi strappa di mano la copia annotata del Genji Monogatari. Lo sforzo di riappropriarmene è del tutto vanificato da Mori, che prende in braccio Honey ponendo il minuto erede degli Haninozuka, il mio libro ancora in mano, del tutto al di fuori della mia portata.
Stancamente, mi siedo sulla morbida poltrona del porticato riscaldato: fuori, nel giardino innevato, i membri dell’Host Club intrattengono le clienti con sfide a palle di neve, servendo loro cioccolata calda sui bassi tavolini. Sbuffando di disappunto per il fatto che sono stata interrotta nello svolgimento dei compiti di Giapponese Moderno per il giorno dopo, non mi resta che dedicarmi anch’io all’intrattenimento delle clienti, che prontamente – vedendo il loro beniamino, lo studente borsista, libero dai suoi doveri – mi vengono incontro, sedendosi anche loro attorno a me.
« Non vieni fuori con gli altri, Haruhi? » mi domanda, in tono gentile, la più bassa e minuta di loro, quella che risponde al soprannome di Lady Osamuhi.
Faccio un cortese cenno di diniego col capo, sorridendo – il mio sorriso “da sfinge”, quello che riservo alle clienti e, occasionalmente, a Tamaki: gentile, dolce, ma qualunquista, privo di qualsiasi significato – e versando con garbo la cioccolata a Lady Takashima, seduta di fronte a me in una comoda poltroncina gemella alla mia.
« No, perdonatemi tutte… » dico, garbata, « ma gli esami si avvicinano e, come sapete, i miei risultati devono mantenersi alti… »
I loro urletti estasiati e i loro sorrisi adulatori a queste parole (che, mi rendo conto, devono suonare cariche di qualcosa di simile a falsa modestia e preteso eroismo) mi lasciano a intendere che ho detto la cosa giusta; se non che, come al solito, Tamaki interrompe le sue attività, per dire la propria circa la mia ultima dichiarazione.
« Ah! » esclama, avvicinandosi e portandosi la mano alla fronte con un gesto teatrale, « la nobile missione del volgo, che, contrariamente agli appartenenti ai dorati ceti dominanti, non può dimenticare nemmeno per un istante l’incessante, logorante lavorio cui è sottoposto a causa della malevola ruota del destino… »
Il resto del delirante discorso si perde, mentre la mia mente vaga, senza prestargli più attenzione, come al solito quando si lancia nei suoi voli pindarici.

… e, ovviamente, quei cinque, dorati minuti in cui posso distrarmi in delicate digressioni sul significato della vita, sul recondito segnale della caducità della giovinezza lanciatoci dalla neve che si scioglie o – più spesso e più prosaicamente – su cosa cucinare per cena, vengono definitivamente rovinati dallo stesso individuo che mi ha fornito il pretesto per cominciarli.
« … ed eccoci qui, con il simbolo perfetto di questo processo appena descrittovi! »  conclude Tamaki, in tono magniloquente e trionfante, poggiandomi una mano sulla spalla e guardandomi con un’aria mista tra l’ammirazione forzata e il compassionevole. « Il ragazzo del popolo, grande lavoratore, che per riuscire nella vita non può contare sul denaro, su amicizie importanti, o su fascino, carisma, bellezza come noialtri, giovani gentiluomini di famiglia avita… » osserva, « ma solo sulle sue capacità... o sul suo cervello! » dichiara, tremando per lo sdegno, scuotendo la testa in modo estremamente drammatico (effetto amplificato dalla luce ambrata dei lampadari che si riflette sul taglio all’ultima moda dei suoi capelli castano chiaro), mentre la maggior parte delle nostre ospiti lo guarda rapita, annuendo. Qualcuna, addirittura, si asciuga una lacrima nel fazzoletto di pizzo.
Quanto a me…  sono estremamente irritata dalla retorica strombazzante e disinformata del suo discorso, dalla generale banalità e prolissità dei contenuti, nonché dall’espressione schifata che assume il viso di Tamaki ogniqualvolta si trova a pronunciare la parola ”lavoro” (neanche fosse un’attività infamante). Quindi,  giunti all’enfatica pausa finale, mi volto e do fiato alla prima risposta graffiante che mi si affaccia alla mente.
« Tamaki… » esordisco, richiamando la sua attenzione (cosa non facile, preso com’è a incassare i complimenti estasiati delle clienti e a pavoneggiarsi).
« Sì, oh mio ingenuo, sfruttato virgulto della classe lavoratrice? » è la sua risposta al mio appello.
« Il vantaggio di essere intelligente è che si può sempre fare l'imbecille, mentre il contrario è del tutto impossibile » sciorino, con espressione indifferente.
Vedere il suo sorriso incrinarsi in una faccia pietrificata, mentre inizia a correre di qua e di là emettendo versi strozzati e scandalizzati è un piacere.
Immediatamente, sul viso mi si delinea un rilassato, cortese sorriso “da sfinge”, mentre mi rivolgo nuovamente alle clienti e Renge sfarfalla in giro con un taccuino e una macchina fotografica, cianciando di un possibile ”… allontanamento e rottura tra i membri dell’Host Club a causa delle illazioni offensive di Tamaki, dettate da gelosia nei confronti della relazione troppo intima tra Haru-chan e Honey”.

« Haru-chan, Haru-chan! » sento esclamare la voce di Honey, che mi corre incontro.
Dopo un’ora circa, le clienti sono andate via, e i membri dell’Host Club si ritirano nell’Aula di Musica Numero Tre (ormai sede del club stesso) per “fare il punto della giornata” (il che, immagino, significa non far niente per tutti noi… eccettuato, ovviamente, l’impegnatissimo Kyoya).
L’erede degli Haninozuka mi si fionda in grembo, una fetta di torta in una mano e il mio libro nell’altra; con disappunto, noto che la copertina – già frusta, dal momento che l’ho acquistato usato alle medie – è macchiata di panna.
« Tieni! » dice Honey, porgendomelo e addentando la torta, con un sorriso che gli va da una parte all’altra del faccino; benché intenerita, non posso fare a meno di trattenere un gemito di disappunto nel constatare che ora, sul viso di Genji rappresentato in copertina nella riproduzione di una stampa ukiyo-e, si allarga un’indistinta chiazza collosa e biancastra.
Noto che Tamaki mi si è avvicinato, senza dir niente;  evidentemente, l’arrabbiatura per la mia rispostaccia dev’essergli passata. Insieme a lui si appropinquano al divanetto anche tutti gli altri membri dell’Host.
« Proprio non so perché tu legga così tanto, Haruhi » osserva un Hikaru incuriosito ma distratto, lisciandosi le pieghe della giacca azzurro polvere dell’Ouran. « Voglio dire, in fondo che bisogno hai? Il Genji Monogatari ormai lo saprai a memoria… »
In effetti è vero, ma…
« L’esame di Giapponese Moderno si avvicina, e ogni volta che lo rileggo mi sembra di comprendere aspetti nuovi, in quest’opera» replico, in tono molto ragionevole.
Come tutte le mie osservazioni proferite in tono molto ragionevole, non viene presa in considerazione, dal momento che si intromette anche Kaoru, che mi si siede a fianco. Poiché ho Honey sulle ginocchia, Hikaru a destra e Kaoru a sinistra, mentre Tamaki alle mie spalle mi osserva in silenzio, Mori è in piedi a fianco del divano e Kyoya, seduto di fronte a me in una poltrona, armeggia con il portatile che ha sulle ginocchia, mi sento circondata. E da gente interessata solo a dir la propria, certamente non ad ascoltarmi.
« Ho preso lezioni di lettura veloce ed adesso sono capace di leggere Guerra e Pace in venti minuti » dichiara Kaoru, per contrappeso alla domanda del fratello.
« Davvero, Kao? » domanda Honey, sgranando gli occhioni, il faccino sporco di crema pasticcera che Mori, silenzioso come al solito, gli sta pulendo.
Kaoru annuisce, serio, drappeggiandomi un braccio intorno alle spalle.
« Parla della Russia » afferma, come se avesse rivelato una grandiosa verità.
Senza riuscire a trattenermi, scoppio a ridere. Anche Hikaru, Kaoru e Honey mi seguono a ruota nella risata, il che fornisce ai due gemelli la possibilità di avvicinarsi da un lato all’altro del mio viso, guardandomi con espressioni seducenti e insinuanti.
La mia risata s’interrompe, mentre, con espressione esasperata, aspetto che facciano il loro solito show.
« Non devi aver paura di noi, Haru… » mormora, malizioso, Kaoru al mio orecchio, prima di sistemarmi una ciocca di capelli in disordine.
« Davvero… » annuisce, in risposta, Hikaru, prendendomi una mano e baciandomi il palmo. « In fin dei conti, noi siamo qui solo per il tuo piacere… non è vero, Kaoru? »
« Ovviamente, Hikaru… » mormora l’altro gemello Hitachiin, baciandomi l’altra mano.
Rimangono a osservarmi fissa per qualche secondo finché, prevedibilmente, la reazione isterica di Tamaki arriva.
Puntuale come le tasse.
« Staccatevi immediatamente! » esclama, gettandosi sui due e gesticolando furiosamente, « Voi, maniaci, detestabili, pedofili, seduttori di giovani innocenti, papà vi impedirà di… »
E, mentre i due fuggono ridendo dalla rabbia del King dell’Host Club, io li ignoro tutti e tre e mi reimmergo nella lettura.

« Aspetta Haru! » è la voce di Kaoru quella che mi blocca, mentre ci dirigiamo verso l’atrio per uscire dall’Ouran e tornarcene  a casa. « Ti accompagniamo a casa noi, piove a dirotto e tu non hai l’ombrello! »
« No, grazie! » mi schermisco, segretamente inorridita all’idea di passare altro tempo con quei due.
« Insistiamo! » si aggiunge allegramente l’altro gemello, comparendo all’improvviso alle mie spalle. « Non permetteremo assolutamente che tu faccia l’intero viaggio su uno di quei carri bestiame camuffati da veicoli… », ecco, appunto, « che voi chiamate autobus ».
Il suo tono sarebbe definitivo, e sto per rifiutare ancor più recisamente di prima, quando appare anche Tamaki.
Ma non c’è modo di liberarsi di ‘sti tre? penso, al culmine dell’esasperazione. Apro bocca, intenzionata a dar voce alla mia ferma intenzione di usare i mezzi pubblici, quando Tamaki mi previene.
« No! » osserva, sorridendo. « Ma come, Haruhi, non ricordi? Oggi avevi promesso a papà il privilegio di portarti a casa… »
I gemelli lo squadrano, sbalorditi da queste parole, mentre io rimango a bocca aperta.
« Ma… » provo a ribattere, ma Tamaki mi prende per mano e mi trascina (letteralmente) a bordo della limousine lunga un chilometro che aspetta appena fuori dall’ingresso.

L’atmosfera all’interno della macchina è a dir poco tesa. Perlomeno da parte mia: mi è impossibile, infatti, intuire anche solo lontanamente le ragioni del perché Tamaki proprio oggi abbia fatto ricorso a un simile sotterfugio per accompagnarmi
Lui, invece, sembra perfettamente rilassato: come un bambino che ha finalmente ottenuto ciò che voleva.
« Uffa, che stress! » esclama, a un certo punto, rompendo il silenzio creatosi. « Liberarsi degli Hitachiin è quasi impossibile… »
Annuisco, fissandolo.
« Quello che non capisco è perché tu ti sia voluto… » come sempre, vengo interrotta.
Stavolta, da un enorme pacco, racchiuso in preziosa carta da regalo a colori vivaci (un fitto motivo di ventagli dorati e fiori di ciliegio su fondo crema), legato con un sontuoso fiocco in velluto verde smeraldo.
Tamaki me lo porge con un sorriso strano. Non quello allegro che rivolge ai suoi amici, non quello melenso e teatrale che riserva alle clienti, ma un sorriso vero. Più simile a quello che ha quando parla di sua madre che a tutti gli altri, studiati e, in certo modo, falsi che sfoggia di solito.
« Aprilo» dice. « È per te».
Attonita, troppo stupita persino per ribattere o rifiutare il dono, sciolgo il nastro e apro la carta.
E, quando finalmente ne scorgo il contenuto, trattengo il fiato per lo stupore.
È una pregiatissima edizione di Genji Monogatari, risalente apparentemente agli anni venti, in piena Restaurazione Meiji. Il formato è enorme, la spessa copertina è rilegata in una delicatissima seta seppia, presumibilmente ingiallita dal tempo, in cui i caratteri kanji che ne delineano il titolo sono stati tracciati a mano, in china nera, con un’elegante calligrafia.
A fianco del titolo, un meraviglioso disegno, eseguito anch’esso a mano, raffigura una dama in abito di corte Heian (l’uni-jitoe, i tradizionali dodici kimono sfoderati sovrapposti che all’epoca costituivano la veste femminile negli ambienti reali), i lunghissimi capelli che si dilungano fino all’orlo della copertina, svanendo. Presumibilmente, il disegno raffigura Murasaki Shikibu, l’autrice del romanzo.
« È… » deglutisco, gli occhi dilatati per l’emozione di stringere tra le mani un simile capolavoro, « è bellissimo… »
« Vero? » osserva Tamaki, con voce delicata e gentile, senza rompere l’incanto di questo momento. « Se lo apri, scoprirai che all’interno ci sono illustrazioni dipinte a mano praticamente su ogni pagina… » spiega, in un tono garbato che raramente gli ho sentito.
Faccio per aprirlo, ma nel momento in cui sto per alzare il frontespizio mi rendo conto improvvisamente di quanto deve costare un volume simile. Pertanto…
« Non posso accettarlo» concludo, sia pur a malincuore, prendendolo e posandolo delicatamente sulle ginocchia di Tamaki, che mi guarda sbalordito.
Evidentemente, per una volta non si aspettava davvero che avrei osato rifiutare un dono tanto confacente alla mia natura.
« Perc… »
Ne prevengo l’obiezione.
« È un oggetto troppo di valore, non posso veramente accettarlo » concludo, in tono fermo.
Tamaki rimane qualche momento a incassare la risposta, poi quel suo sorriso gli ricompare in viso.
« Quando oggi Kaoru ti ha chiesto perché leggi così tanto tu gli hai dato una risposta assolutamente non attendibile » esordisce.
Ora è il mio turno di essere stupita: cosa c’entra quella domanda con il mio garbato rifiuto?
Rimango a osservarlo, mentre continua a parlare: « Sì, la tua replica era assolutamente piena di buon senso… » sbuffa, liquidandola con un gesto vago, « ma non era quello che realmente pensavi, vero? »
All’improvviso, ciò che intende dire mi si dipana all’occhio della mente con una certa chiarezza.
« No, ma… »
« Ascoltami, Haruhi… » mormora lui, sporgendosi verso di me, sempre sorridendo, ma in un modo… più serio, mi parrebbe (se una cosa simile non fosse un ossimoro).  « Ora potresti dirmi perché leggi così tanto? Intendo, la risposta autentica ».
La sua domanda mi lascia così sconcertata che non posso fare a meno di dargli seguito positivo.
« Be’… perché mi piace», dico;  e, mentre lo faccio, mi rendo conto che, effettivamente, non è del tutto così.
Lui annuisce, incoraggiante.
« E…? », continua. Come ha fatto a capire che non gli ho detto tutto? È forse una specie di mago?, o magari dall’esitazione nella mia voce?
Come se la mia mente si aprisse davanti allo sguardo gentile ma non inquisitivo di Tamaki, fornisco in un soffio (abbassando gli occhi) l’ultima risposta.
« Leggo per legittima difesa» mormoro. E lui, di sottecchi, annuisce.

La mia infanzia è stata più o meno felice, ma tremendamente solitaria. Dal momento in cui mia madre è morta, e mio padre ha improvvisamente scoperto le sue vere tendenze, ho smesso di avere amici.
L’innocenza, la naturale gentilezza dei bambini è una leggenda metropolitana: in realtà, i fanciulli sono crudeli.
Si rendono conto subito se hai qualcosa di diverso, e trovano incredibilmente divertente prenderti in giro per questo. Deriderti. Parlarti alle spalle. Renderti la vita una cosa sgradevole, piena di incerti e insicurezze.
Questo è ciò che mi accadde quando la mia famiglia smise di essere una famiglia normale: mia madre morta, mio padre un travestito, io costretta a farmi carico della conduzione del nostro ménage.
Non avevo amici, ma trentacinque persone in classe pronte a puntare il dito e a godere – letteralmente – di ciò per cui io, segretamente, ancora soffrivo.
Fu allora, credo, che mi resi conto che, dal momento che non avevo più alcuna certezza negli altri (non in un padre troppo confuso e adolescente, certamente non nei coetanei desiderosi solo di trasformarmi in uno zimbello) dovevo averne in me stessa.
Lentamente, mi indurii. Crebbi: una bambina di otto anni che non piangeva e non si disperava, pronta a farsi carico di responsabilità che avrebbero anche potuto piegare degli adulti.
Piano piano, divenni insensibile (o, meglio, imparai a mascherare sotto strati e strati di distacco la mia sensibilità). Ai bisogni del corpo, ma non della mente.
Mi piacerebbe dire che trovai nei libri quella compagnia, quel conforto che desideravo, nascosti tra le loro pagine leggere e profumate, che mi sorridevano da dietro le linee armoniose di ogni carattere, ma non è così.
La pura verità era che, vedendomi leggere, nessuno mi sarebbe venuto a disturbare con prese in giro, risate o altri sgradevoli contatti. La pura verità era che leggevo per difendermi.
Fu così che divenni la prima della classe: un titolo che, più ch’essere un merito, divenne per me un usbergo d’amianto dietro cui trincerarmi.
Questo meccanismo d’isolamento, in cui i libri si trasformavano in un comodo paracadute posto tra me e l’umanità, continuò anche quando andai alle medie.
Lì mi feci qualcosa di simile alle amiche, a una compagnia con cui trascorrere il tempo libero. Un po’ riuscii a sciogliermi, a diventare meno strana, fredda, insensibile.
Tuttavia, quando iniziai a rendermi conto che alcuni ragazzi erano interessati a me ma non solo per la mia amicizia, quel distacco manifestato un tempo tornò a palesarsi.
Temo, con gli anni, di aver perso qualsiasi fiducia nelle possibilità del corpo.
Mia madre era una donna meravigliosa, brillante e capace, che era stata tradita dal proprio corpo: un corpo che si era ammalato, che non aveva reagito alle cure.
Mio padre era un uomo allegro, bizzarro, forse un po’ immaturo, che era stato preso in giro dal proprio corpo, e solo dopo la morte di mia madre si era reso conto che avrebbe preferito essere una donna.
Io? Non era stato certo il mio corpo a salvarmi dall’esistenza grama e solitaria che avevo condotto da bambina. Era stato il mio cervello: solo quello contava.
Il mio corpo non doveva essere desiderato: io non ero carina.
Io ero intelligente. Io meritavo incontestabilmente la corona di prima della classe, prima per i voti, prima per la condotta. Ma non ero bella. Io ero intelligente.
Leggere era l’attività principe, quella che gridava a tutti questa realtà: io ero quella intelligente.
Chi cercava una carina, andasse altrove.

Il sorriso di Tamaki non s’incrina minimamente, mentre mi alza delicatamente il mento con una mano, piantando i suoi occhi nei miei.
Non mi sono mai resa conto, in effetti, di quanto possa essere penetrante il suo sguardo, dietro il velo stolido con cui lo ammanta di solito.
« Ho capito» afferma, con voce gentile. E, per una volta, ho l’impressione che abbia compreso sul serio.
Mi porge con gesto garbato, un mezzo inchino addirittura, il pesante volume del Genji Monogatari.
« Accettalo » dice, e la sua non è una preghiera o una richiesta, ma un semplice dato di fatto. Non posso fare a meno di prenderlo.
« Sai, » comincia, mentre la macchina imbocca la mia via e inizia a rallentare, « ho pensato di regalarti questo volume non solo perché la tua copia è ormai da buttare… » osserva, indicando la mia cartella che giace a terra accanto  a me, « ma perché è bella. Non pensi anche tu? Il contenuto è lo stesso… » dice, picchiettandomi delicatamente un polpastrello sulla fronte, mentre io lo fisso, esterrefatta, « la storia è la stessa di sempre, emozionante, romantica. Interessante e brillante. Intelligente, » e qui mi sorge il dubbio che non stia parlando precisamente del Genji, « ma bella. Anzi, intelligente e bella. Una cosa non esclude l’altra, ti pare? »
La macchina si ferma; l’autista scende e mi apre la portiera.
« Signore… » dice, con un inchino, invitandomi a scendere.
Io, come ipnotizzata, continuo a osservare Tamaki, vedendolo e non vedendolo.
Lui mi sorride, ma ora il suo sorriso non è più quello vero: sembra piuttosto il solito, scanzonato e allegro.
« Ci vediamo domani! » esclama, salutandomi.
Io scendo dalla limousine, con passo da fantasma, vedendolo farmi “ciao-ciao” con la mano prima che i vetri oscurati salgano a celare la sua figura.
È solo mentre la macchina si allontana lungo la modesta via dove abito che mi rendo conto che stringo ancora tra le braccia il prezioso volume del Genji Monogatari.

***
Rodelinda alla tastiera senza coerenza
La storia presente è stata scritta per il fanfiction contest Host Club ft. Woody Allen indetto dal forum di scrittura amatoriale Writers Arena, in cui si è classificata prima.

Incollo, a seguire, il giudizio di Virou, il giudice:

Punteggio: 8.75

GRAMMATICA E SINTASSI: 9
Il testo è privo di errori; grammatica, sintassi e punteggiatura sono curate e le frasi sono ben strutturate.

CAPACITA' ESPRESSIVA: 8.5
Lo stile è scorrevole e sempre curato e la narrazione ricca di descrizioni dettagliate che danno un tocco in più alla storia, alternandosi a parti narrative e dialogate interessanti ed incalzanti. I dialoghi, in particolare, rendono la lettura vivace e non mancano delle battute sottili e divertenti: ad esempio, la citazione di Allen su "Guerra e Pace", detta da Kaouru, risulta veramente spassosa e confesso di essermi sbellicata dalle risate.

RISPETTO PARAMETRI E TRACCIA: 9
I parametri sono stati rispettati alla perfezione e in modo originale ed elaborato. Le citazioni inserite sono addirittura tre (non era richiesto, ma non era nemmeno vietato) e tutte sono state inserite ad hoc all'interno della fanfiction, lasciando che i personaggi se ne appropriassero quasi spontaneamente. La prima, pronunciata da Haruhi, è una spietatissima battutina lanciata a Tamaki, per zittirlo, e produce un effetto immediato e letale.
La seconda, menzionata nel parametro precedente, è pronunciata da uno dei gemelli Hitachin e risulta spassosissima; la terza, quella su cui gira tutta la storia, è la più bella e quella che è stata modificata, ovvero resa più "seria" e utilizzata nel modo più approfondito.

ORIGINALITA' E CREATIVITA': 8.5
La trama, seppur semplice, è originale e l'alternaza equilibrata tra parti descrittive e parti narrative rende la lettura piacevole e scorrevole. I personaggi sono perfettamente IC e ben sviluppati, in particolare, ovviamente, i due protagonisti e il rapporto che c'è tra loro, ma in generale tutta la situazione: la povera Haru che cerca di studiare per mantenere la borsa di studio, l'Host Club che, in un modo o nell'altro, le rende difficile l'impresa, Tamaki che vuole a tutti i costi rendersi utile ma che peggiora le cose con i suoi sproloqui, e poi la scena finale in cui il ragazzo smette per un attimo di fare l'idiota e dimostra quanto effettivamente tenga ad Haruhi con un "piccolo" (per lui XD) gesto.
Ho apprezzato particolarmente il paragrafo dedicato alle riflessioni e ai ricordi di Haruhi che partono dalla citazione di Woody Allen: qui si scopre un lato più sensibile e malinconico della ragazza, che nel manga viene rivelato solo di rado e solo per pochi attimo, proprio come in questa fanfiction, ma in un breve paragrafo ciò che viene trasmesso al lettore ha un forte significato e gli permette di conoscere un po' di più la protagonista.


Il bando del concorso prevedeva l'inserimento di alcune citazioni di Woody Allen (a scelta in una rosa di diverse) all'interno della storia; quelle che ho scelto sono state le seguenti:

« Ho preso lezioni di lettura veloce ed adesso sono capace di leggere Guerra e Pace in venti minuti. Parla della Russia ».
« Il vantaggio di essere intelligente è che si può sempre fare l'imbecille, mentre il contrario è del tutto impossibile ».
« Leggo per legittima difesa ».

Pertanto tali battute sono da ascriversi al genio di Woody Allen (e, occasionalmente, dei suoi sceneggiatori). Io le ho utilizzate, come i personaggi del manga Host Club, © di Bisco Hatori, del tutto senza fini di lucro e con l'unico intento di divertire e passare qualche significato a me, e, spero, a voi.

Ah, e per una miglior visualizzazione della storia, consiglio di scaricare (non temete, del tutto gratuitamente) qui il carattere Mutlu Ornamental, che ho usato per il titolo, e qui il carattere Garamond che ho usato per il corpo del testo.
Alla prossima!

   
 
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