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Autore: LaMusaCalliope    26/08/2021    0 recensioni
PROMPT: OPEN THE NOVEL YOU ARE READING AT PAGE 99. TAKE THE FIRST SENTENCE AT THE TOP OF THE PAGE AND USE IT AS THE FIRST SENTENCE FOR A STORY. WRITE THE FIRST THREE PARAGRAPH (https://writerswrite.co.za/daily-writing-prompt-2/):
“«Wrote to you?» repeated Edna in amazement, stirring her coffee absently.”
(K. Chopin, The Awakening, London, HarperCollins, 2011)
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DAL TESTO: "Stava per aprire il portone in ottone quando un suono catturò la sua attenzione, un suono bizzarro che le sembrava provenisse da qualche parte alla sua destra. Edna rimase immobile, con le orecchie tese pronte a captare ogni rumore intorno a lei, finché non lo sentì nuovamente: un miagolio. Non era di quelli fievoli, come si racconta nei libri, ma forte e coraggioso, che quasi sovrastava il suono della grandine che cadeva sui tetti delle macchine e contro le finestre".
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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«E così ti ha scritto?» chiese Edna mentre, fingendosi interessata e sicuramente più sveglia di quanto non fosse in realtà, sorseggiava la sua tazza serale di camomilla.
Era stata una giornata terribilmente lunga e, da quando era uscita dalla biblioteca dell’Edinburgh University, non aveva fatto altro che pensare al pigiama che l’attendeva caldo sul calorifero, alle comode coperte, e a quel libro che aveva iniziato un mese prima e che non aveva ancora terminato. I trenta minuti passati sul tram erano stati forse i più lunghi della sua vita, e la breve strada che la divideva dal suo appartamento era stata percorsa come se si fosse trattata di una manciata di metri, e non di un chilometro abbondante di asfalto che procedeva in salita. Eppure, appena a casa, non aveva fatto in tempo a finire di mangiare il piatto di insalata che componeva la sua cena, e a preparare il bollitore per la tisana, che il telefono aveva iniziato a squillare in maniera piuttosto insistente. Quando aveva visto chi la stesse chiamando a quell’ora della sera, avrebbe davvero voluto buttare il cellulare da qualche parte e ignorarlo, ma sapeva che comunque non avrebbe scampato il colloquio con sua madre, quindi aveva pigiato sullo schermo in corrispondenza della cornetta verde.
Era iniziata così l’ennesima telefonata durante la quale Isabelle, donna in carriera di sessant’anni, pianse per venti minuti con sua figlia per il più grande errore che avesse commesso nella sua intera esistenza: sposarsi con un uomo.
«Quel farabutto! Dopo tutti questi anni crede ancora che il mio sia stato un capriccio e che lui non abbia alcuna colpa in quello che è successo. Riesci a crederci che mi ha mandato un messaggio per dirmi che rivuole indietro la “sua” macchina?! Come se cinque anni fa non li avessi messi io, i soldi per comprarla!»
La madre continuò a inveire contro l’ex marito, e nel frattempo Edna sorseggiava la sua camomilla, cercando di non cadere in quel profondo stato di ansia che i battibecchi tra i suoi genitori erano soliti causarle. Sapeva perfettamente infatti che il giorno dopo avrebbe dovuto affrontare una telefonata dai toni piuttosto simili con suo padre, e il solo pensiero le mise addosso un forte senso di angoscia.

Erano ormai quattro anni che i suoi genitori si erano lasciati, e quattro anni che ogni mercoledì pomeriggio Edna usciva prima dalla libreria in cui lavorava dopo le lezioni, per recarsi nello studio della sua psicologa. Quattro anni durante i quali, seppur con fatica, era lentamente riuscita a dominare quegli attacchi d’ansia che solitamente le prendevano nei momenti più inaspettati, quattro anni pieni di litigi, di urla, di ricatti, che Edna, guardando indietro, non poteva non domandarsi come avesse fatto a superarli e a lasciarseli alle spalle. Non le era bastato cambiare casa e allontanarsi da quell’ambiente che ormai aveva compreso essere nocivo per la sua salute mentale, e non era nemmeno bastato aiutare sua madre a trovare una nuova sistemazione dopo che suo padre aveva rivendicato per sé l’appartamento che, appena dopo essersi sposati, avevano acquistato e arredato insieme. Né tantomeno era stato sufficiente il periodo di sei mesi che Edna aveva trascorso in Erasmus in Bretagna, durante il quale i suoi genitori avevano continuato a chiamarla per rovesciare su di lei i loro problemi e la loro frustrazione per quella situazione. Non appena era tornata a Edimburgo infatti, non ci aveva pensato due volte a mettersi in contatto con la psicologa, la Dottoressa Manez, che frequentava assiduamente la libreria, e iniziare così la terapia.
All’inizio, aprirsi con lei era stato difficile: Edna non aveva mai raccontato a nessuno della sua situazione familiare, e non era solita chiedere aiuto ad altre persone, ma la Dottoressa l’aveva aiutata a parlarne, a lasciarsi andare, e nel giro di qualche seduta Edna si era ritrovata a singhiozzare nello studio asettico della donna mentre, con la voce strozzata dalle lacrime, sfogava tutte le sue ansie e le sue tristezze.

Edna continuò a girare lentamente il cucchiaino nella tazza trasparente, cercando di non ascoltare la voce assordante della madre dall’altra parte della cornetta, e si concentro piuttosto sul piccolo vortice che si era andato a formare in quel poco che rimaneva della camomilla. Si lasciò ipnotizzare dal suo movimento rotante, e per un istante nella sua mente tornò la pace. Almeno finché sua madre non la riportò alla realtà.
«Eddie, ma mi stai ascoltando almeno? Tesoro, non farmi parlare da sola, ti prego» la voce della donna aveva perso all’improvviso tutta la grinta e la rabbia di poco prima, ed era diventata più dolce, quasi in apprensione.
«Sì, mamma. Ti sto ascoltando» Edna si affrettò a rassicurarla, ma dal lungo silenzio che seguì comprese che Isabelle non se l’era bevuta, e che sicuramente stava per attaccare con uno dei suoi discorsi motivazionali. Isabelle però non fece in tempo a iniziare la frase con il suo solito “tesoro”, che Edna l’aveva già bloccata.
«Ma’, ora ti devo lasciare, ché domani dovrò svegliarmi presto» disse infatti, sbadigliando appena e buttando giù l’ultimo sorso di camomilla.
La madre quindi, seppur con riluttanza, la lasciò andare; le augurò la buonanotte e attaccò. Edna, finalmente, rimase da sola nella sua piccola cucina silenziosa.
Mise la tazza nel lavello: a lavarla ci avrebbe pensato l’indomani. In quel momento, l’unica cosa che voleva fare era potersi sdraiare finalmente e porre fine a quella giornata estenuante. Chiuse gli occhi e si massaggiò leggermente le tempie, avvertendo un principio di emicrania. Quanto avrebbe voluto che tutti i suoi problemi potessero sparire all’istante, come per magia, a un suo semplice schiocco di dita…
Si diresse nella sua camera e si cambiò velocemente, il pigiama ormai freddo sul calorifero spento. Non appena si sdraiò sul letto, tutta la tensione che aveva accumulato durante il giorno si sciolse, i muscoli si rilassarono, e le palpebre si fecero improvvisamente più pesanti. Il libro che aveva iniziato il mese prima rimase chiuso sul comodino, e anche la sua lettura venne rimandata al giorno successivo.
Edna chiuse gli occhi, e cercò in ogni modo di liberare la mente dai brutti pensieri che la occupavano: la telefonata appena avuta con sua madre, quella che l’attendeva l’indomani con il padre, gli esami sempre più imminenti, e infine quel senso di solitudine e panico che l’attanagliava ogni sera prima di addormentarsi. Respirò profondamente e iniziò a contare, come le aveva consigliato la psicologa.
Edna non si accorse del momento in cui il sonno cadde su di lei, ma per tutta la notte fece sogni agitati.
            Aveva piovuto tutto il giorno a Edimburgo, e nel pomeriggio si era alzato un vento freddo che piegava gli alberi e si infiltrava ovunque, come avesse tante piccole dita gelate pronte a entrare in ogni fessura. E la libreria, vecchia come era, di fessure ne aveva parecchie: Edna aveva dovuto tenere il cappotto e la sciarpa per tutto il tempo che aveva passato alla cassa, e le sue mani erano diventate rosse e screpolate, senza i guanti di lana che aveva lasciato per errore a casa.
Quel venerdì novembrino era stata una giornata piatta, con i soliti clienti e poche vendite, forse anche per colpa del tempo. Edna aveva seguito le lezioni con la testa tra le nuvole, finché durante la pausa pranzo suo padre non l’aveva chiamata e si era lamentato con lei per il comportamento infantile della madre. A Edna era costato molto non litigare con il genitore, ma aveva comunque tentato di fargli capire con il tono più calmo di cui fosse capace che, in quell’occasione, a sbagliare era stato lui, e che sua madre aveva tutto il diritto di tenersi quella dannata auto. Al che suo padre si era risentito per la sua risposta e, dopo aver alzato la voce come era suo solito, aveva chiuso velocemente la telefonata. Lei aveva davvero cercato di non pensarci, per non guastarsi nuovamente l’umore, ma era stato più difficile di quanto fosse disposta ad ammettere.
Quando, appena finite le lezioni e consegnato il saggio per il corso di Letteratura Celtica, si era recata al lavoro in libreria, l’aveva trovata praticamente vuota. Ne aveva approfittato per sistemare gli ultimi arrivi della settimana nello scaffale dedicato, e per alzare di qualche grado il termostato.
Le era sempre piaciuto quel posto, che con il suo forte odore di carta stampata e legno, le trasmetteva un senso di pace e di familiarità al punto che la sua psicologa le aveva spiegato che, probabilmente, quello doveva essere per lei la sua “comfort zone”: un luogo in cui potesse sentirsi a suo agio, tranquilla, e un po’ più serena.
L’aveva scoperto quasi per caso, il giorno in cui, tre anni prima, girovagava per Old Town alla ricerca di un appartamento che potesse fare al caso suo, vicino all’Università e che non le costasse un occhio della testa. La mattinata era stata così inconcludente, con tre offerte di affitto esagerate per degli appartamenti che le sarebbero potuti crollare in testa nella notte, che aveva sentito il bisogno di risollevarsi il morale. Quando aveva visto quella piccola libreria dall’altra parte della strada, non aveva resistito e, nemmeno dieci minuti più tardi si trovava alla cassa a pagare tre libri nuovi di zecca e anche qualche segnalibro. Era stato in quel momento che aveva visto l’annuncio attaccato sul muro dietro l’anziana commessa: stavano cercando una persona disposta a occuparsi del negozio nei pomeriggi infrasettimanali, e poiché a Edna non sarebbe certamente dispiaciuto poter iniziare a mettere da parte dei soldi per il futuro, aveva lasciato le sue credenziali. La settimana dopo, aveva trovato non solo l’appartamento, ma anche un lavoro che le permettesse di mantenersi, ora che non avrebbe più vissuto con la sua famiglia.
Da allora, il suo ruolo al negozio era decisamente cambiato: la signora MacRibbon, la stessa che aveva conosciuto quel giorno fortunato, andava di rado in libreria, anche a causa dell’età che avanzava e dei reumatismi che le impedivano di stare in piedi per troppo tempo. Così, Edna si era ritrovata a dover gestire non solo la clientela – perlopiù studenti e studentesse, e docenti che frequentavano l’Edinburgh University a qualche traversa di distanza – ma anche e soprattutto i conti e gli ordini. Per sua fortuna, le prime due settimane era stato con lei Max, il giovanissimo nipote della vecchia signora, da cui non aveva ereditato solo il bronzo scuro della sua pelle o i ricci di un nero profondo, ma anche gli occhi gentili e il sorriso sempre sulle labbra; grazie a lui e al suo aiuto, Edna era riuscita presto a destreggiarsi tra cifre, indirizzi, e numeri di telefono importanti, a usare la cassa e a fare un reso. Quando Max se ne era andato per poter realizzare finalmente la sua ambizione da fotografo professionista, ed era quindi partito per un servizio nelle Highlands, Edna aveva iniziato a passare sempre più tempo da sola in quel posto, e aveva compreso che era qualcosa a cui stava iniziando piano piano ad abituarsi: al silenzio che regnava nel pomeriggio tardo, agli schiamazzi dell’ora di pranzo, agli studenti e delle studentesse che, nelle ore di pausa dalle lezioni, si infilavano nel negozio e ne uscivano con più libri di quanti ne avrebbero mai letti… D’altronde, essere circondata da montagne e montagne di volumi era stato da sempre stato il suo sogno, e aveva sperato che la laurea in Letteratura l’avrebbe portata proprio a quello.

Quel pomeriggio, comunque, non ci fu nessuno per molto tempo: erano solo lei e i libri, e un temporale che sembrava totalmente intenzionato a buttare giù il cielo, per quanto suonavano potenti i tuoni e parevano pesanti le nuvole livide e gonfie di pioggia. Ogni tanto entrava qualcuno, più per approfittare del caldo dell’ambiente che per comprare davvero qualcosa: c’era chi aveva fatto un giro per gli scaffali e poi aveva preso la porta senza nemmeno salutare, e chi invece si era fermato più a lungo, spulciando qua e là, tirando giù un libro o due, e magari finendo per acquistare tutt’altro. Come quel ragazzo che aveva girovagato per tutto il tempo intorno alla sezione fantasy, leggendo le trame di una decina di titoli, ma alla fine era uscito dal negozio con una vecchia edizione di un testo sull’astrofisica nella busta di cartone e un sorriso stampato in faccia.
Quando finalmente le sei giunsero ed Edna chiuse la saracinesca del negozio, aveva appena iniziato a grandinare, e lei fu costretta a correre per le strade della città, riparandosi sotto un ombrello che stava ancora su per miracolo. Il tram era decisamente meno affollato, e il percorso fino a casa fu un vero e proprio inferno: scendendo dal mezzo, una folata di vento improvvisa la colpì e il suo ombrello, già malridotto, non resisté e si piegò all’indietro, lasciandola vulnerabile alla pioggia sempre più fitta e la grandine che non voleva saperne di perdere d’intensità. Sbuffando, Edna chiuse quello che rimaneva del suo fidato ombrello, e proseguì sotto la pioggia. La sua frangia rossa, già fradicia, le copriva gli occhi e le impediva di vedere chiaramente la strada, e il vento freddo le sferzava il volto con violenza. Solitamente, le piaceva il clima autunnale della città, con quelle piogge improvvise e il cielo che si tingeva sempre più spesso di un blu scuro, ma quella sera avrebbe fatto qualunque cosa per un piccolo raggio di sole che squarciasse le nubi e la riscaldasse almeno un poco.
Arrivata finalmente davanti al portoncino della palazzina, armeggiò a lungo con le chiavi, che erano rimaste incastrate nella borsa al filo degli auricolari. Con la mano tremante, finalmente riuscì a inserirla nella toppa e ad entrare nel piccolo cortile ormai ridotto a una piscina di fango. Stava per aprire il portone in ottone quando un suono catturò la sua attenzione, un suono bizzarro che le sembrava provenisse da qualche parte alla sua destra. Edna rimase immobile, con le orecchie tese pronte a captare ogni rumore intorno a lei, finché non lo sentì nuovamente: un miagolio. Non era di quelli fievoli, come si racconta nei libri, ma forte e coraggioso, che quasi sovrastava il suono della grandine che cadeva sui tetti delle macchine e contro le finestre. Edna cominciò a cercare il luogo da cui proveniva, piegandosi per guardare meglio in quella fanghiglia, e finalmente lo trovò. Sotto un albero, saggiamente al riparo dal temporale, stava un gattino delle dimensioni poco maggiori di un pugno. Aveva il pelo bianco e nero completamente zuppo, e gli occhioni aperti erano puntati su di lei, in attesa che facesse qualcosa.
«E tu che ci fai qui?» chiese, più a sé stessa che al piccolo esserino che aveva davanti. Quello miagolò ancora, sempre più forte, ed Edna non ci pensò due volte: si chinò sul micio e, facendo attenzione a non fargli del male e a non spaventarlo, lo tirò su e lo tenne in braccio. Tornò al portone e, con la mano libera, lo aprì, entrando finalmente nel caldo atrio della palazzina. Fece di corsa le due rampe di scale che la separavano dal suo appartamento e, quando fu dentro, con ancora il gatto che miagolava tra le sue braccia, si diresse verso la sua stanza. Poggiò il micio tremante sul letto e, non appena lo fece, questo iniziò a piangere con ancora più forza mentre, un po’ instabile, cercava di raggiungerla. Edna intanto aveva aperto il cassetto in cui teneva le cose per l’inverno, e tirò fuori una vecchia copertina di lana. Si tolse velocemente le scarpe e il cappotto, che lasciò cadere incurante sul pavimento, e si sedette sul letto accanto al gattino che non aveva smesso né di tremare, né tantomeno di miagolare. Lo riprese tra le sue braccia, e il micio sembrò calmarsi solo quando poté nascondere il musetto fradicio nell’incavo del gomito di lei; Edna lo coprì dolcemente con la coperta, tamponandolo leggermente per asciugarlo, gesto a cui lui rispose con delle tenere fusa. Lo coccolò per un po’, finché non si fu calmato, e l’unico suono che usciva da lui non fu che un ronfare sommesso. 

Edna passò tutta la sera a prendersi cura di lui – aveva controllato: era un maschietto –, asciugandogli il pelo bagnato e dandogli da bere del latte diluito usando una siringa. Si segnò il numero di telefono di un veterinario della zona e l’indirizzo, e si appuntò una serie di cose che avrebbe dovuto procurarsi il giorno dopo sul foglio con la lista della spesa che teneva attaccato al frigo con un piccolo magnete che aveva comprato a Bath due anni prima.
Ci aveva pensato per tutto il tempo, aveva immaginato le possibili risposte dei suoi genitori – che variavano da “come farai con i soldi?” a “gli animali portano solo malattie” – e dei suoi amici – che invece sapeva sarebbero stati entusiasti della cosa –, e aveva deciso che il piccolino sarebbe rimasto con lei. Aveva scoperto che prendersi cura di lui, coccolarlo e guardarlo dormire, l’avevano aiutata a rilassarsi, e di certo lui non sarebbe stato felice di tornare per strada tutto solo. Inoltre, la sola idea di darlo via o di regalarlo l’aveva fatta stare male, e gli occhi le si erano inumiditi solo a pensarlo. Perciò, era deciso: da quel momento, sarebbero stati solo loro due contro il mondo.
Gli mancava solo il nome.

Il micio non faceva che uscire dalla scatola imbottita con un maglione che Edna gli aveva procurato e annusava incuriosito tutto ciò che lo circondava. Alla fine, dopo un’ultima ispezione alla scatola, stavolta con esito positivo, entrò dentro e si acciambellò nel mezzo, da dove potesse guardarla. Il micio la osservò con i suoi occhioni grandi e blu, e lei ricambiò lo sguardo, intenerita da quell’esserino tutto pelo e ossa che stava riponendo la sua intera vita nelle sue mani impacciate e sempre piene di inchiostro. Edna lo coccolò e lui rispose con delle sonore fusa; non ci volle molto prima che il piccolo si addormentasse di nuovo.
Riprese in mano il telefono, che non controllava da quando era uscita dalla libreria, e notò che c’erano diverse chiamate perse da parte dei suoi genitori, e alcuni messaggi dei suoi amici, che la invitavano a bere qualcosa in un pub che erano soliti frequentare nei venerdì sera. Per tutta risposta, Edna fece una foto al gattino che ronfava nella scatola, e la inviò sul gruppo. Poi decise di mandare un messaggio veloce a sua madre, dicendole che era stanca e che l’avrebbe richiamata l’indomani; invece, ignorò suo padre. La conversazione che avevano avuto a pranzo ancora la faceva stare male e non aveva affatto voglia di affrontarlo in quel momento.
Andò in cucina e, nonostante non avesse molta fame, si preparò comunque un po’ di tofu in agrodolce. Mentre mangiava in silenzio, continuò a parlare con i suoi amici sulla chat di gruppo, e le chiesero più dettagli in merito al gattino che dormiva beato nella sua stanza. Edna si bloccò: raramente parlava con i suoi amici della sua vita privata, preferendo rimanere nella sua bolla, e in quel momento si maledisse non cento, ma mille volte per aver inviato quella foto. Poi però ripensò alle parole della Dottoressa, a quello che le aveva detto sull’aprirsi di più e sul fare piccoli passi verso un rapporto più sincero con le persone che la circondavano, e così si decise. Con le dita un po’ tremanti, pigiò sullo schermo in corrispondenza del microfono, e inizio un messaggio vocale, raccontando tutta la storia.

Quando quella sera si mise a letto, era tardi, e il gattino era ancora addormentato nella scatola.
I suoi amici avevano smesso di scrivere, probabilmente vinti dal sonno e dalla stanchezza. Di tutta la conversazione, una domanda era rimasta in sospeso, senza una risposta: come si chiamasse il micio. Edna ci aveva pensato a lungo, mentre puliva con il sapone i pochi utensili che aveva utilizzato per la cena, e soprattutto mentre sorseggiava la sua camomilla, e solo in quel momento le venne in mente. Era un nome che aveva scoperto da poco leggendo uno dei testi per gli esami, e le era subito piaciuto tanto per il suo significato, quanto per il suono che faceva, e sarebbe stato perfetto per il gattino: Ailig, l’equivalente scozzese per Alexander, cioè “colui che aiuta”.
Più di una volta la dottoressa Manes le aveva suggerito di prendere con sé un animale domestico che potesse farle compagnia nelle giornate difficili e tirarle su il morale, ma lei l’aveva perlopiù ignorata, in quanto non si era mai sentita sicura riguardo l’idea di doversi prendere cura di qualcun altro. In quel momento invece, mentre osservava Ailig dormire sereno, pensò che quella che aveva appena preso fosse la decisione migliore della sua vita, persino più di quella di lasciare la sua vecchia casa per trasferirsi lì. Non vedeva l’ora di dare la bella notizia alla sua psicologa!
«Benvenuto a casa, Ailig» sussurrò Edna, guardandolo ancora per un po’, poi spense la luce e chiuse gli occhi.
Per la prima volta in più di quattro anni, si addormentò in un sonno tranquillo e senza incubi.
   
 
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