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Autore: Zobeyde    27/08/2021    13 recensioni
New Orleans, 1933.
In un mondo sempre più arido di magia, il Fenomenale Spettacolo Errante di Maurice O’Malley si sposta attraverso l’America colpita dalla Grande Depressione con il suo baraccone di prodigi e mostri. Tra loro c’è Jim Doherty, l’unico a possedere capacità straordinarie: è giovane, irrequieto e vorrebbe spingere i propri numeri oltre i limiti imposti dal burbero direttore.
La sua vita cambia quando incontra Solomon Blake, che gli propone di diventare suo apprendista: egli è l’Arcistregone dell’Ovest e proviene da un mondo in cui la magia non ha mai smesso di esistere, ma viene custodita gelosamente tra pochi a scapito di molti.
Ma chi è davvero Mr. Blake? Cosa nasconde dietro i modi raffinati, l’immensa cultura e la spropositata ricchezza? E soprattutto, cosa ha visto realmente in Jim?
Nell’epoca del Proibizionismo, dei gangster e del jazz, il giovane allievo dovrà imparare a sopravvivere in una nuova realtà dove tutto sembra possibile ma niente è come appare, per salvare ciò che ama da un nemico che lo osserva da anni dietro agli specchi...
Genere: Azione, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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UNA VECCHIA STORIA





Khazam raggiunse il circo dopo aver attraversato il Faubourg Tremé, un vasto quartiere popolare abitato per lo più da afroamericani; il tram ci aveva messo più del previsto a lasciare il centro e si erano già fatte le quattro, il che significava che gli spettacoli erano tutti cominciati. Di sicuro, la sua assenza doveva essersi fatta notare.
«Ehi tu, fermati!» esclamò una voce stridula mentre superava di corsa il botteghino.
«Dove credi di andare senza biglietto? Sicurezza! Sicureeeezza!»
«Ernie sono io, Jim! Mettiti gli occhiali.»
Da dietro lo sportello si affacciò un vecchietto minuscolo e con la faccia raggrinzita.
 «Oh, Jimmy!» Il bigliettaio sistemò sul naso bitorzoluto un paio di occhiali di corno e i suoi occhi divennero giganteschi dietro le lenti spesse. «Che fai qui? Lo Straordinario Khazam non va in scena tra poco?»
Il ragazzo non perse tempo a rispondergli. Fatta eccezione per qualcuno che si era intrattenuto per comprare una bibita o tentare la fortuna al tiro a segno, la maggior parte dei visitatori stava assistendo alle esibizioni, attirata dalle grida degli imbonitori. Passò in mezzo a un gruppo di fermi che affollavano l’entrata della Cueva del Diablo, dove un giovane ispanico di nome Rodrigo aveva appena inghiottito senza batter ciglio l’estremità infuocata di un bastone; mentre la folla applaudiva e commentava impressionata, il mago sparì nel retro dei tendoni, zigzagando agile tra i cavi.
Jim Doherty, era questo il suo vero nome, ma da ormai dieci anni vestiva i panni di “Khazam”: di sangue celtico, rimasto orfano durante un viaggio in Medio Oriente a causa di predoni del deserto, era stato adottato da un sultano e cresciuto nella sua corte tra fachiri e alchimisti da cui aveva appreso la magia. Almeno, questa era la fiaba confezionata da O' Malley per far sognare il pubblico. Del resto, nel mondo del circo quasi tutte le storie contenevano una buona dose di fantasia.
Quanto a Jim, era sì un orfano, ma di certo non era mai stato in Oriente né tantomeno era stato cresciuto da un sultano: semplicemente, una mattina, gli operai lo avevano trovato che dormiva nel vagone dei ruminanti, accoccolato tra la paglia. Capitava di frequente che dei vagabondi si intrufolassero per scroccare un passaggio o del cibo, e di solito li si faceva sloggiare senza troppe cerimonie. Ma che farne di un bambino di sei anni, che si rifiutava di raccontare come fosse finito laggiù, e dove fossero i suoi genitori? Alla fine, Margot se l’era preso a cuore e aveva insistito per tenerlo con loro.
 
Jim aggirò il tendone centrale, da cui provenivano le pulsazioni della musica, le risate e gli applausi del pubblico: lì dentro si tenevano le performances che richiedevano più spazio: acrobazie aeree e numeri con gli animali. A giudicare dal pezzo ricco di suspense che l’orchestra stava suonando, i gemelli dovevano essere alle prese con la parte conclusiva del loro numero. Infatti, la musica si fermò e Jim udì la folla trattenere il fiato, segno che Vanja si era appena tuffata nel vuoto per eseguire il suo triplo avvitamento e finire tra le braccia forzute di Wilhelm. Un applauso assordante accompagnò, come sempre, la fine dell’esibizione.
Dietro le quinte regnava il consueto delirio: clown, giocolieri e musicisti si cambiavano d’abito e scorrazzavano in cerca dei propri attrezzi e tutt’intorno volavano birilli e battute in tante lingue diverse. Jim si fece largo afferrando qua e là i pezzi del suo costume: gilet e pantaloni neri alla turca, stretti in vita da una fascia dorata. L’unica cosa che mancava all’appello era il copricapo, una specie di turbante con un finto rubino incollato sul davanti. Si chinò per cercarlo tra i cesti sotto un tavolo, quando il sipario si aprì e si richiuse dietro Vanja e Wilhelm Svanmör, nei loro body bianchi e azzurri
«Sei in ritardo» scattò lei, con tale veemenza che Jim per poco non sbatté la testa contro il tavolo. «Maurice è già di pessimo umore perché sei sparito tutto il giorno!»
«Credevo che sparire e riapparire fosse il mio mestiere.»
Vanja accolse la battuta facendo schioccare la lingua e si liberò delle luccicanti ali di cartapesta legate dietro la schiena, mentre Wilhelm si spogliava dietro un separé. Jim recuperò il suo turbante sotto una pila di abiti sfusi.
«A ogni modo» riprese Vanja, impegnata a rimuovere le ciglia finte di fronte alla specchiera. «Dov’è finita quella ragazza, Penelope? Vi dovete dare una mossa, ho sentito che c’è un sacco di gente in coda alla Grotta delle Meraviglie.»
«Ecco» disse Jim, con fare vago. «Non credo che mi esibirò con Penny stasera.»
«Sarebbe a dire?»
«Sarebbe a dire che se n'è andata. Tre giorni fa, in effetti. Ha fatto le valige e adieu. Pensavo lo sapessi.»
Vanja inarcò le sopracciglia, chiare e perfettamente disegnate. Non c’era da stupirsi che il pubblico adorasse l’esibizione dei gemelli; non solo la Danza delle Fate era tra i numeri più spettacolari, ma con i loro nordici capelli biondi, gli occhi grigi e i corpi statuari, Vanja e Wilhelm erano di una bellezza ultraterrena.
«Oh, Jim, non di nuovo!»
«Guarda che io stavolta non ho fatto proprio niente.»
«Khazam va in scena a momenti e la Principessa Sherazade lo ha piantato in asso! Come diavolo farai ora?»
«In effetti, mi chiedevo se potevi darmi una mano tu, tanto conosci già il numero…»
«Io sono stanca morta!» ribatté lei, seccata. «E ne ho abbastanza di pararti le chiappe perché non sai tenerti una cavolo di valletta! Non puoi chiederlo a Judy?»
Lui si grattò la nuca. «Non è un buon momento per farmi vedere da Judy, soprattutto se ha le pistole cariche: mi sa che ce l’ha ancora con me per quella storia della contorsionista di Atlanta…»
«Sei disgustoso.»
«Mi stava solo mostrando quanto fosse flessibile! Non è colpa mia se le trovate tutte così gelose.»
Vanja si sfilò una pantofolina di seta e gliela lanciò contro, ma Jim era abituato a farle da bersaglio e la schivò prontamente. «E se invece tu la smettessi di provarci con cosa respiri?»
«Sono disposto a supplicarti. Vuoi che ti supplichi, Vanja? Guarda, mi sto mettendo in ginocchio.»
In quell’istante, la tenda del camerino si spalancò di nuovo.
«Ah, sei qui!» esclamò Maurice O’Malley facendo il suo ingresso con un sigaro che pendeva dalla bocca storta. «Giuro su Dio, la prossima volta ti chiudo dentro un baule e lo sotterro! Dove diamine sei stato?»
Jim stava per ribattere che gli ci sarebbero voluti più o meno due minuti per liberarsi, ma non era il caso di tirare troppo la corda: non più alto di un metro e cinquanta, con un completo verde a falde e disordinati ciuffi rossi che spuntavano da sotto il cilindro, il direttore del circo era chiamato da tutti “Il Folletto”. Un soprannome che divertiva i bambini, ma che non aveva nulla di comico, perché, quando perdeva le staffe Maurice O’Malley poteva diventare un autentico demonio. E in quel momento, lo stava fissando truce con i suoi occhi azzurri, brandendo una frusta attorcigliata.
«In città» rispose Jim, con una disinvolta alzata di spalle. «Scusa se per una volta che non atterriamo in un buco di provincia mi è venuta voglia di passeggiare.»
Le sopracciglia color carota di O’Malley si avvicinarono pericolosamente.
«Mi auguro che non ne abbia combinata una delle tue.»
«Ho solo affisso qualche manifesto.»
«Sicuro?»
«Sicuro. Be’, magari potrei aver testato una nuova strategia pubblicitaria...»
O’Malley stava già cominciando a gonfiarsi come un tacchino, ma dovette interrompere la sfuriata sul nascere, perché la tenda del camerino si scostò per la terza volta e un nano travestito da suora cacciò dentro la testa.
«Capo, devi venire al serraglio. C’è un problema.»
«Che altro succede ora?» esalò O’Malley.
«È di nuovo quel leone. Non riescono a farlo uscire dalla gabbia.»
«Ci mancava questa!» O’Malley spense il sigaro dentro un bicchiere di gin che qualcuno aveva lasciato incustodito e puntò il dito contro Jim. «Con te faccio i conti più tardi. Mandate avanti i pagliacci nel frattempo.» E uscì in tutta fretta.
Vanja e Jim si scambiarono uno sguardo.
«Credi che sia…?» mormorò lei.
«Non lo so, vado a controllare. Tu indossa il costume, ci vediamo alla Grotta.»
«Non ho detto che ti avrei aiutato! Jim!»
Ma Khazam si era dileguato un’altra volta.
 

Il serraglio era, dopo il tendone, il padiglione più grande del circo; invaso da marmocchi urlanti per tutta la mattina e saturo di tanfo animale, a quell’ora di norma era chiuso al pubblico, per lasciar riposare le bestie che si sarebbero esibite durante gli spettacoli serali. Ma quando Jim vi entrò, seguendo a distanza il direttore, trovò un gruppo di operai, tra cui gli addetti alla sicurezza Kowalski, Big Joe e Sinclair, raccolti attorno a un grosso carro rosso e oro, munito di sbarre d’acciaio.
«Ce lo lasci prendere con le buone o con le cattive?»
«Vuoi metterci tutti nei guai col direttore, moccioso?»
«Ve l’ho già spiegato» ribatté il ragazzo dalla pelle nera con cui stavano discutendo; era il più vicino alla gabbia e dava la schiena alle sbarre, le braccia incrociate e un cipiglio ostinato. «Stasera non andrà in scena. Non ce la fa, sta male.»
«Lo hai detto anche la scorsa volta» ghignò il più grosso dei custodi, mostrando la dentatura giallastra. «Ma il pungolo gli ha fatto cambiare idea, no?»
«Tu prova a toccarlo…»
«Cos’è, l’ora della ricreazione?» abbaiò O’Malley, accolto dal silenzio generale. «Perché non siete al lavoro? E perché quel leone è ancora chiuso in gabbia, signor Sinclair?»
«È quello che stiamo cercando di capire, capo» rispose il custode coi denti gialli. «Ma il negro è cocciuto, si è affezionato un po’ troppo a quel sacco di pulci.»
Jim aggrottò la fronte e si avvicinò per seguire meglio la discussione.
«Quale sarebbe il problema?» O’Malley misurò il ragazzo nero da capo a piedi. «Sei, il figlio di Joel King, giusto…Albert?»
«Arthur» borbottò lui.
«Be’, insomma Arthur, riesci a farlo stare su quattro zampe oppure no?»
«Non stasera» ribadì Arthur freddamente. Sollevò il pollice per indicare la gabbia. «Le sembra in grado di esibirsi?»
All’interno del carro, il vecchio leone se ne stava sdraiato in mezzo al fieno con la criniera arruffata e il grosso capo adagiato sulle zampe anteriori, una delle quali sprovvista di alcune dita; aveva lo sguardo assente, e le costole ben visibili sotto il mantello opaco. Il suo respiro era fiacco e irregolare.
O’Malley osservò la bestia, le mani sui fianchi. Poi, tirò un profondo sospiro e disse: «Uscite. Tutti fuori!»
«E perché?» domandò Sinclair.
«Perché sono sicuro che dopo aver scambiato due paroline in privato, il nostro Arthur sarà più accondiscendente.»
«Va bene, ma…»
«Il prossimo che parla si ritrova un Picasso disegnato in faccia» disse il direttore, stringendo la frusta. «Devo ripetermi, capomastro?»
Gli operai si scambiarono uno sguardo sbalordito, ma ubbidirono senza fiatare.
Jim invece non si mosse. Una volta che nel serraglio furono rimasti solo loro tre, chiese a O’Malley: «Vado a chiamare Margot?»
«Sta lavorando, è inutile scomodarla.»
«Gli serve un dottore» disse Arthur, preoccupato. «Sono giorni che sta così, Maurice. Non mangia, a malapena riesco a farlo bere.»
Il direttore sospirò ancora. «Lo abbiamo già chiamato il dottore. Si è preso solo una barca di soldi e non ha risolto niente. Anzi, per poco non ci ha fatto causa perché Joel gli si è avventato contro. È compito tuo tenerlo a bada.»
Arthur si incupì maggiormente. «Sta diventando difficile, ci sono momenti in cui sembra non riconoscere più nemmeno me. Glielo leggo negli occhi.»
O’Malley lisciò la barbetta appuntita. «Questo è un problema. Ma i fermi stanno aspettando, non possiamo lasciare un buco.»
«Non vorrai farlo uscire lo stesso?» protestò Jim, sconcertato.
«Il numero coi felini è quello di punta.»
«Fai esibire me e Vanja al suo posto» propose il mago. «Si tratta solo di spostare la mia attrezzatura dalla Grotta delle Meraviglie al tendone: posso rendere lo show più spettacolare, così i fermi non si lamenteranno…»
«Lo faccio io.»
Jim e O’Malley si voltarono a guardare Arthur.
«Lo faccio io» ripeté, con più convinzione. «Conosco i salti, fallo fare a me.»
«Non se ne parla!» ribatté Jim di getto. «È troppo pericoloso, diglielo Maurice.»
Il direttore però continuava a fissare la gabbia con espressione indecifrabile. Sospirò di nuovo.
«Decisione tua, ragazzo» disse, rivolto ad Arthur. «Ma al circo serve un numero di punta: la gente ha pagato, se non avrà lo show che gli abbiamo promesso ci si rivolterà contro e saremo costretti a sloggiare.»
«Arthur…» cominciò Jim, impotente, ma il ragazzo aveva già iniziato a calarsi le bretelle. Si tolse anche le scarpe, la camicia e i pantaloni di cotone grezzo, restando in mutande.
Per qualche istante, stette immobile e con gli occhi chiusi. Poi, si piegò in avanti e gemette come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. D’istinto, Jim si mosse verso l’amico scosso dalle convulsioni, ma O’Malley lo trattenne.
«Fidati, è meglio non toccarlo, ora.»
Arthur crollò a terra carponi e le sue mani strinsero la paglia. Gettò all’indietro la testa, digrignando i denti per frenare un grido di dolore, i tendini del collo che si gonfiavano e la fronte madida di sudore. Una peluria dorata cominciò a cospargersi su tutto il suo corpo. Poi la schiena si inarcò. Le articolazioni, sotto la pelle tesa, cambiarono posizione. Le sue labbra si arricciarono, scoprendo una chiostra di zanne bianche e robuste, e la carne dei polpastrelli si spaccò per lasciar spazio agli artigli. A seguire spuntò la coda, le vibrisse, la folta criniera e in pochi istanti, la Muta fu completa.
«Ben fatto, figliolo» disse il Folletto, scuro in viso; si avvicinò al carro di Joel e tirò una cordicella per chiudere i tendaggi sulla gabbia. «Mi assicurerò che nessuno metta piede qui dentro fino alla fine del numero.»
Arthur emise un borbottio di gola e sfilò con passo felpato accanto a Jim, che era rimasto impietrito; aveva già assistito alla Muta un paio di volte in vita sua, e sempre e solo a quella di Joel, ma rimaneva una scena sconvolgente. E, soprattutto, sembrava terribilmente dolorosa.
Arthur strusciò il muso umido contro la sua manica, un gesto che equivaleva a una pacca sulla spalla, il suo modo per dire: “Andrà tutto bene”, prima di imboccare la galleria che collegava il serraglio alla pista e sparire.
«Non dovevi lasciarglielo fare» disse Jim, con voce tesa dalla collera. «Non sappiamo se la malattia di Joel dipende dalla Muta. Se è ereditaria, se peggiorerà col tempo.»
«Appunto, non lo sappiamo.» Il direttore alzò la testa per incrociare il suo sguardo infuriato. «E finché non lo capiremo dobbiamo continuare a reggere la farsa, sia coi fermi che con gli operai.»
«E se non dovesse più riuscire a ritrasformarsi?» reagì Jim. «Se rimanesse a vita un leone? Metterai in giro la voce che è morto pure lui in un incidente, come suo padre?»
O’Malley gli fece bruscamente segno di tacere.
«Vuoi tenere chiusa quella boccaccia? Qualcuno potrebbe sentirti! Lo so, sto chiedendo tanto a quel ragazzo. Ma hai una vaga idea di cosa accadrebbe se uno di quei balordi scoprisse la verità?»
«Lo so.»
«Ci venderebbero agli Accalappiatori senza pensarci due volte! C’è ancora un mucchio di gente là fuori che pagherebbe una bella sommetta per mettere le mani su quelli come noi.»     
«Sì, ma…»
«E Arthur e Joel sarebbero i primi a fare una brutta fine!»
«Ma io potrei…»
O’Malley sollevò una mano per mettere fine alle sue lamentele. «Tu non farai proprio niente. Ne abbiamo già discusso, se vuoi renderti utile limitati a seguire il programma alla lettera e niente colpi di testa. Ora fila nella tua tenda e mettiti al lavoro.»
Nel mondo del circo, quasi tutte le storie contenevano una buona dose di fantasia: ogni freak show aveva i suoi mostri, fantomatiche sirene, Bigfoot e Uomini Lupo, ma generalmente non erano che persone comuni travestite, nate con rare malformazioni o affette da disfunzioni ormonali.
Trucco. Atmosfera. E un pizzico di astuzia. Erano questi i segreti che rendevano sensazionale la banalità, e il pubblico accettava di credere nell’illusione in nome dell’intrattenimento.
Talvolta però ci si imbatteva in storie più vere di altre…solo, più antiche. 
Ma nel mondo del circo quelle storie riprendevano vita dietro il filtro della finzione; sotto strati di trucco, e grazie a qualche piccolo accorgimento, nessuno badava a una coda di troppo o a un paio di orecchie a punta.
Dimenticati, così si chiamavano tra loro. Lo erano, ad esempio, due gemelli con le orecchie a punta che volteggiavano sul trapezio indossando ali di carta, ma che avevano scordato come i loro antenati, gli Elfi, riuscissero a volare per davvero. Un Mannaro che amava la musica sopra ogni altra cosa, rimasto tragicamente senza due dita e senza un lavoro, e costretto a trasformarsi ogni sera in una bestia feroce per sostenere se stesso e il figlio, fino a non riuscire più a tornare umano.  E persino un cinico folletto irlandese, approdato nel Nuovo Mondo a caccia di tesori.
All’ombra del grande tendone, dove realtà e illusione si mescolavano e le cose spaventose non lo erano mai per davvero, i mostri del passato tornavano ad avere uno scopo. Si sentivano accettati, al sicuro. Si sentivano, in qualche modo, a casa.
  
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