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Autore: myyouthisyourss    28/08/2021    0 recensioni
Quando la psicologa decide che ormai il suo aiuto non è sufficiente a placare le sue ossessioni e concorda con la famiglia un nuovo piano terapeutico, Beatrice viene portata in un centro per disturbi psichiatrici.
Quel luogo, inizialmente mal visto, diventa sin da subito la sua nuova casa e subito inizia a sentirsi parte di una piccola realtà fatta di persone con cui finalmente riesce a non provar disagio.
Beatrice non aveva mai avuto una vera vita, non aveva mai avuto dei veri amici,
il suo cuore non aveva mai battuto davvero, e quando conosce Damiano, inizia per la prima volta a sentirne le pulsazioni.
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Il mio primo ingresso in clinica fu terribile, un'esplosione di emozioni fortemente negative, un'alternanza di angoscia, malinconia e rabbia e poi ancora malinconia, rabbia e angoscia. Cambiava la combinazione con cui si presentavano, ma  le emozioni erano sempre le stesse.

Ne avevo già fatta molta di strada, avevo già visto troppi medici, troppi psicologi, psichiatri e nessuno di questi era riuscito a risolvere o placare i miei istinti. A detta dei miei genitori avevo fatto dei piccoli progressi che seppur impercettibili, erano comunque progressi, ma la realtà è che io non ne notavo neanche uno. Io, e solo io, sapevo delle notti passate nella mia camera a non dormire, in lacrime, a fissare il vuoto e contare minuti, secondi, giorni e ore. Io e solo io sapevo della mia condizione.

Disturbo ossessivo compulsivo. Era per questo che mi avevano portata li, in quel covo di pazzi disadattati, così li definivo io, così apparivano alla mia immaginazione. Non lo pensavo davvero, sapevo bene che quelle persone non erano pazze, nessuno di noi lo è, era solo un mio strano modo discriminatorio per impuntarmi e per cercare di restare a casa.

"Non sono una pazza", urlai alla dottoressa quando, col suo solito sorrisetto di chi ha conseguito una laurea per strizzarti il cervello, mi disse che mi avrebbero portata in una clinica psichiatrica.

"Chi ha detto che sei pazza? La clinica non é per pazzi, ma per persone che hanno difficoltà e hanno bisogno di un aiuto in più che io non posso offrire" replicò.
"Guarda che non è un luogo cupo e triste come lo starai immaginando, è un posto davvero molto bello e confortevole" continuò il suo assistente.

E così, con quella scusa, con quel pretesto, mi ritrovai una mattina di luglio a oltrepassare il cancello che avrebbe portato via la mia libertà per chissà quanto tempo.

La prima volta che mia madre capì che qualcosa in me non andava avevo dieci anni. In quel periodo mio nonno stava male, sembrava in punto di morte e mentre i miei genitori passavano le loro giornate in ospedale, io le passavo chiusa in casa, senza amici e col caldo afoso di agosto. Era tutto troppo nuovo per me, ero sempre stata una bambina solare e circondata da amici, soprattutto, in estate ero solita viaggiare con mia madre e mio padre. Sola, angosciata, annoiata e con una tremenda paura di perdere mio nonno (che alla fine si riprese dopo due mesi) iniziai, senza un preciso perché, a giocherellare con i peli delle mie sopracciglia fino a staccarli e creare delle enormi chiazze vuote, esenti da ogni pelo. Quel gesto d'istinto, quello strappare mi creava enorme soddisfazione che tutt'ora mi è difficile spiegare: un attimo prima adrenalina, successivamente tensione e al termine dello strappo venivo pervasa da un tremendo senso di colpa e inadeguatezza.

Mia madre si accorse del mio malessere quando una sera, accarezzandomi la fronte, intravide degli evidenti spazi vuoti sulle mie sopracciglia.

"Non lo so, credo proprio che mi siano cadute" le risposi mentre lei cercava di capire cosa fosse successo. Ci vollero sette visite da sette specialisti diversi per farmi confessare che la causa di tutto ero io.

I miei genitori non si mostrarono sconvolti nonostante strapparsi le sopracciglia non fosse un gesto normale per tutti, si mostrarono anzi sollevati del fatto che non avessi alcuna malattia ormonale o dermatologica.

"Tranquilla piccola Bea, ora ti porteremo da qualcuno che può aiutarti davvero" disse mio padre, quando per la prima volta mi portarono dallo psicologo.

Tricotillomania, é stato questo il nome del mio primo segno di DOC.

Quando iniziarono le scuole medie, il tutto divenne ancora più grave ed accentuato.

"Perché non hai le sopracciglia? Cosa ti é successo?"

Come lo spieghi a dei bambini curiosi che strappi le sopracciglia perché ti causa piacere? Semplice, non lo spieghi, ti chiudi in te stessa e inizi a odiare ogni tipo di rapporto sociale. Ricordo quel periodo come uno dei più brutti della mia vita. Ero sempre stata educata al fatto che quando qualcuno ha un evidente problema o lo si aiuta o non lo si fa notare, insegnamento che purtroppo i miei compagni di classe non avevano ricevuto.

Chiedevano, chiedevano e chiedevano e io non facevo altro che mentire e inventare scuse, ma loro continuavano e con la loro insistenza distruggevano sempre più la mia piccola anima fragile.

Avevo un'unica amica, Azzurra, l'unica a cui non interessava delle mie sopracciglia e che rideva e scherzava con me non fissandomi sopra agli occhi, e fu proprio azzurra ad avvisarmi del fatto che i miei compagni avevano creato un gruppo su un social network intitolato "Regaliamo un paio di sopracciglia a Beatrice".

Era stato fin troppo semplice creare un gruppo di cui io non potevo essere a conoscenza considerando il fatto che per me il cellulare e i social network erano ancora un modo tutto nuovo da scoprire.

Quello fu il colpo di grazia, ma tutt'ora sono fiera di come reagii. Non una lacrima versata, non un pianto disperato, niente di niente. Corsi dalla preside della mia scuola e li feci sospendere tutti, uno ad uno. Ricordo che Azzurra mi disse "Adesso hanno un buon motivo per odiarti", io risposi "Puoi dirlo forte" e sorrisi compiaciuta sentendomi forte e invincibile.

Col tempo, fortunatamente, quel disturbo iniziò ad attenuarsi fino a scomparire del tutto. Ero felice, stavo bene, iniziai a farmi delle nuove amicizie e ad avvicinarmi al mondo degli adulti, le sopracciglia crebbero senza lasciare una traccia di come le avevo martoriate, il che fu una fortuna, il dermatologo mi aveva detto che c'era la probabilità che alcune non sarebbero ricresciute e invece erano tutte li.

Quando un altro disturbo ossessivo compulsivo prese il sopravvento su di me avevo sedici anni, terzo anno di liceo.

Iniziai ad essere ossessionata dai numeri, dai conti, sentivo la necessità di contare ogni cosa. Le pagine da studiare, le parole di una frase, le mattonelle del bagno, le persone in una stanza. Inizialmente mi piaceva, adoravo così tanto fare i conti che i miei voti in matematica aumentarono drasticamente. Il vero dilemma iniziò quando cominciai a contare anche più volte la stessa cosa, quando iniziai a contare la pasta pretendendo di avere nel piatto solo ed esclusivamente alimenti in numero pari, quando il volume della radio doveva essere sedici o ventidue, quando alla posta mi capitava un numero dispari e mi sentivo avvilita, dovevo scappare via.

I numeri presero il sopravvento su di me a tal punto da non poter uscire di casa per paura di dover contare chissà quante cose e col terrore di trovarmi dinanzi a numeri dispari. É per questo che la clinica diventò sempre più indispensabile alla mia salute mentale. Avevo varcato la soglia dei diciotto anni senza aver mai vissuto davvero, avevo bisogno di quella riabilitazione, anche se al tempo non me ne rendevo conto e anzi, disprezzavo, questa scelta più di ogni altra cosa al mondo.

Mia madre, prima di lasciarmi, si assicurò che io stessi bene. L'infermiera mi accompagnò nella mia stanza e ci lasciò sole.

"É un bel posto qui, vero?" mi chiese sedendosi sul letto.

Mi guardai intorno, le pareti rosa della stanza erano completamente vuote, era popolata solo da due letti, due armadi e un unico bagno che sembrava abbastanza spazioso. L'unica nota positiva era il piccolo terrazzo di cui la mia camera disponeva. L'infermiera mi spiegò che non tutti avevano questa fortuna, i ragazzi con tendenze suicide avevano delle camere con le finestre severamente blindate per evitare spiacevoli situazioni. Da dove mi ero posizionata riuscii a contare che sul terrazzo c'erano sessantasette mattonelle e pregai Dio che con quelle che non si vedevano e non ero riuscita a contare  avrei scoperto che in realtà erano in numero pari.

"Mamma, solo perché le pareti non sono grigie non significa che sia un bel posto. Resta una prigione."

"Bea, non é una prigione. Possiamo venire a trovarti tutti i giorni e se lo richiederai potrai venire a casa anche solo per mezza giornata, per pranzare con noi."

Guardai il soffitto, c'erano due crepe, almeno quelle erano pari, ne fui sollevata.

"Beatrice, promettimi che resisterai più che puoi" mi disse tenendomi la mano.

Avrei voluto anche la presenza di mio padre, che ovviamente, si trovava in Germania per lavoro e mi aveva promesso che sarebbe passato il prima possibile.

"Ci provo, ma non prometto".

Quando mia madre andò via l'infermiera mi raggiunse per spiegarmi bene cosa avrei dovuto fare e quale fosse l'organizzazione della clinica.

Era una ragazza appena laureata, giovanissima, avrá avuto all'incirca ventidue anni, o almeno mi piaceva pensare che fossero ventidue e non ventitré.

"Okay Beatrice, ora ti spiego tutto.."

Iniziò uno sproloquio di cui al tempo non capii niente, ero troppo concentrata a fissare il vuoto e ogni tanto guardare intorno, l'organizzazione l'ho compresa dopo aver vissuto li ma quella spiegazione fu completamente inutile, l'unica cosa che riuscii a captare fu che la mia camera non avrebbe ospitato nessuno oltre me nonostante ci fossero due letti ma che, qualora qualcuno di sesso femminile fosse entrato in clinica, automaticamente sarebbe stato messo nella mia camera. Sperai di restare sola per tutto il tempo.

La clinica, che quel giorno mi sembrava terribile, in realtà era un piccolo angolo di paradiso e tranquillità. Ogni stanza ospitava massimo due ragazzi dello stesso sesso, c'erano vari colori e ognuno poteva sentirsi libero di attaccare poster, fotografie o decorarla come meglio preferiva. La mattina i ragazzi andavano a scuola o all'università. Quelli che venivano definiti "psicologicamente predisposti", con problemi simili ai miei, potevano recarsi tramite mezzi pubblici, coloro che invece si trovavano li con tendenze suicide e disturbi più complessi venivano accompagnati da una navetta messa a disposizione dalla stessa clinica. Chi invece non frequentava alcun percorso di studi era libero di restare in clinica per dedicarsi a qualche attività. Effettivamente, c'erano davvero tante cose da fare. Potevi dedicarti a qualche hobby, potevi fare una passeggiata, un'uscita, c'era addirittura una piscina in giardino che in estate veniva ripulita per permetterci di fare il bagno. Era una struttura completa, un piccolo mondo a parte, e proprio per i servizi che offriva era accessibile solo alle famiglie benestanti. Al tempo lo trovavo ingiusto e spesso pensavo ai ragazzi meno fortunati costretti a chiudersi in cliniche pubbliche dai muri grigi e i bagni condivisi, col tempo me ne sono fatta una ragione.

Il pomeriggio in clinica era un pomeriggio come tanti, c'era chi studiava, chi leggeva un libro in biblioteca e chi usciva a prendere un gelato e ad un certo orario, arrivava la psicoterapia, la mia era fissata ogni giorno ad orari diversi. I pasti avvenivano nella grande mensa e la sera eravamo liberi di uscire a patto di ritornare alle undici e mezza o a mezzanotte nel fine settimana.

Spiegate tutte le regole e l'organizzazione, l'infermiera mi diede il piano con gli orari della psicoterapia e mi invitò a fare un giro per familiarizzare col posto.

Decisi di uscire dalla camera per esplorare la biblioteca, uno dei posti che maggiormente attirava la mia curiosità, nonostante fosse un posto pericoloso perché tutti quei libri sicuramente mi avrebbero fatto venir voglia di contare. Avevo voglia di scoprire che libri proponessero sperando di trovarne uno abbastanza gradevole per passare il tempo aspettando che qualcuno della mia famiglia portasse i miei che avevo distrattamente lasciato a casa.

Oltrepassai quei corridoi leggendo tutti i numeri delle stanze, la mia era la centodue (avevo esplicitamente chiesto un numero pari) e riuscii subito a trovare la biblioteca grazie alle segnaletiche molto precise con delle frecce che indicavano con molta precisione il luogo in cui eri diretto.

La biblioteca era a due piani e centoventitré scale dalla mia camera, inutile sottolineare il nervosismo che provai all'ultimo passo. Durante il tragitto avevo visto molti ragazzi e sembravano tutti sanissimi. Non mi aspettavo di trovarmi in un manicomio con pazzi urlanti, sedati e con le camicie di forza, ma non mi aspettavo neanche di ritrovare tutti ragazzi così ordinari, così anonimi. Mi sentivo particolarmente osservata, pensai che probabilmente si conoscevano tutti ed ero diventata la loro novità di cui parlare per almeno un giorno.

Quando arrivai dinanzi alla biblioteca non potei far a meno di notare la targhetta d'orata con incisa una frase che avevo sempre amato "Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza", in quel momento sorrisi. Quando sei in un luogo nuovo e in cui ti senti spaesato e impaurito trovare qualcosa che ami, che ti piace, o di familiar ti crea subito un senso di profondo benessere, è in quel momento che inizi a riprendere coscienza, inizi a sentire i piedi per terra, e così mi sentivo io.

"Sei quella nuova?" subito mi bloccò una voce mentre stavo per varcare la porta di legno.

"Bel modo di etichettare le persone" risposi fissando la ragazza che aveva attirato la mia attenzione. Capelli ricci ramati, occhi verdi, corporatura esile, forse troppo per i miei gusti, riuscivo quasi a vederle le clavicole.

"Imparerai presto che qui nessuno ha un nome. Qui inizialmente sei "quella nuova" e successivamente diventi "quella bipolare", "quella grassa", "quella borderline", insomma...hai capito" rise poggiandosi le mani sui fianchi.

"E tu chi saresti?" chiesi.

"Io sono quella anoressica, piacere di conoscerti, tu?"

"Al momento sono quella nuova ma credo di essere la futura candidata al titolo di "quella ossessionata", tu però puoi chiamarmi Beatrice" risi.

"Allora tu puoi chiamarmi Luce, meglio Lu, preferisco abbreviarlo" mi pose la mano e me la strinse.

Luce seppe prendermi sin dal primo momento. Mi affascinava il fatto che una ragazza con quel nome vivesse nella più totale oscurità con se stessa. Subito mi raccontò la sua storia, inizialmente mi sembrò strano, poi però ci dovetti fare l'abitudine.

In centro funzionava così, prima di conoscere te avevano bisogno di conoscere la tua storia e non per invasione o maleducazione, ma più per un senso di appartenenza, era un po' un biglietto da visita. Notai subito infatti che le persone con una storia simile erano più propense a fare gruppo e condividere quel percorso insieme.

Luce parlò in una maniera così spontanea da catturare la mia attenzione e creare in me un senso di tenerezza.

L'ultima di cinque figli, era cresciuta a Roma in un quartiere non molto lontano dal mio con i suoi quattro fratelli, i suoi genitori e il suo tenero cane di cui mi parlava con moltissimo affetto. Anche lei, come me, non aveva avuto delle belle esperienze scolastiche soprattutto a causa di qualche chilo di troppo che a lei non infastidiva ma evidentemente ai suoi compagni si.

"Ti capisco, quello che a te non tocca diventa automaticamente il problema di qualcun altro" le dissi mentre lei mi spiegava di tutte le prese in giro dei suoi compagni.

E così, da ragazza allegra e spensierata, si era ritrovata a contare calorie, diminuire i pasti e fare i conti con uno stile di vita che le stava stretto mentre i vestiti le iniziavano a stare sempre più larghi.

"Non voglio raccontarti troppi dettagli, lo scoprirai col tempo".

Risi perché io sentivo come se mi avesse raccontato già tutta la sua vita mentre lei di me non sapeva ancora niente, avevo giusto accennato del mio disturbo e in cosa consistesse.

Tra un racconto e un altro mi fece vedere subito la biblioteca in cui riuscii a contare solo i libri di uno scaffale e scoprii con mia grande felicità che erano novantaquattro. Successivamente mi mostrò la sala con la TV in cui trasmettevano un film dopo l'altro, la coloratissima mensa, mi mostrò la strada per la psicoterapia con lo studio della mia dottoressa ed infine la piscina, il suo posto preferito.

"Questa piscina mi fa sentire come se fossi in vacanza in un villaggio turistico, anche se non è così e in inverno diventa tutta grigia e sporca" disse con un briciolo di tristezza.

Luce mi guardò negli occhi e capì subito che nonostante lo sapessi nascondere bene ero spaventata da quel nuovo ambiente e sarei voluta scappare via. Mi poggiò una mano sul braccio e mi disse "Anche io pensavo fosse una prigione, ti assicuro che si vive in maniera del tutto normale e soprattutto nessuno ti giudicherà mai".

"Non è questo" dissi fissando i bordi bianchi della piscina.

"E qual è il problema?"

"Sento che tutto questo è inutile, come potrebbe aiutarmi?"

Tirò un sospiro di sollievo, la sentii emotivamente vicina a me.

"Non lo so, ma questo posto ha qualcosa di bello. E' una piccola realtà e ti aiuta tanto. Sai quanto pesavo quando sono entrata qui?"

"Se è un numero dispari, non dirmelo" dissi mettendo le mani sulla fronte.

"Pesavo trentasei chili Bea, trentasei. Ho passato le mie prime tre settimane con un sondino naso gastrico perché rifiutavo di mangiare qualsiasi cosa e avevo una camera blindata poiché la mia dottoressa temeva potessi compiere un gesto estremo" disse.

"E ora?"

"Ora è cambiato che non sono ancora nel mio normo-peso, alterno momenti in cui digiuno tutto il giorno a momenti in cui mangio regolarmente, il mio percorso è ancora lungo, lunghissimo, però guardami. Peso dieci chili in più rispetto a quando sono entrata e la dottoressa mi ha dato una camera senza sbarre, non blindata, con un balcone in cui posso stare seduta a leggere un libro poiché sa che mi trovo bene qui e non compirò mai alcun gesto estremo"

Restammo in silenzio per un po' di tempo, mi sentii così confortata e allo stesso tempo scossa dalle sue parole che non avevo bisogno di parlare e lei fortunatamente seppe leggere benissimo quel silenzio così come aveva saputo leggere la mia tristezza poco prima.
Al tempo non lo sapevo ancora che quella ragazza così esile e minuta avrebbe imparato sempre di più a leggere i miei occhi, i miei silenzi e il mio sorriso.

 

   
 
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