Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: Gaia Bessie    28/08/2021    4 recensioni
Coraline e l'anoressia, in quattro momenti della sua ripresa.
Lorenzo lo sa – Coraline non tornerà mai più. E a lui rimarranno solamente le monetine che conservava sempre nella tasca posteriore dei jeans, i biglietti dell’autobus dimenticati nel portafoglio, la sua matita preferita e tutte quelle altre chincaglierie di una divinità che non sapeva di esserlo.
[OS | Anoressia]
Partecipa al contest "Volete storiarmi?" indetto da milla4 sul forum di EFP
Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2022 nella categoria "Miglior sceneggiatura storia originale"indetti sul forum Ferisce più la penna
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Attenzione: Questa storia parla di anoressia e dca in maniere che potrebbero turbare il lettore. Non è ovviamente mia intenzione offendere nessuno.



«Coraline, Coraline, dimmi le tue verità».
La riempie di domande, una dopo l’altra, ma lei non risponde mai – significherebbe rompere quell’alone di intangibilità che la circonda e, in un certo senso, permettersi finalmente di crescere. Ma il senso della realtà è anche quello di essere negata e, la sua, è tutta un’immensa negazione che pittura le pareti della vita in tocchi di blu notte.
Coraline non risponde mai – mi sento come se fossi muta, sillaba, ma lui non riesce a comprenderla (come in molte altre cose, del resto) – e scuote il capo e si rannicchia tra le ombre delle sue costole e silenziosamente piange singhiozzi amari, amarissimi. Sanno di sciroppo per la tosse e di un cocktail miscelato male.
 
Coraline e la porta magica
 
 
Coraline bella come il sole
Guerriera dal cuore zelante
Capelli come rose rosse
Preziosi quei fili di rame amore portali da me
Se senti campane cantare
Vedrai Coraline che piange
Che prende il dolore degli altri
E poi lo porta dentro lei
 
 
Un tempo aveva un nome che era un nome vero e non una finzione letteraria, l’ennesima dimostrazione del fatto che mentalmente Coraline (r)esisteva, ma Lorenzo ha perso l’abitudine di pronunciarlo e, allora, è caduto nel dimenticatoio. Come molte altre cose, del resto.
È la fine che ha fatto il loro amore sprecato, il loro amore bruciato, il loro amore insensato. Preso e gettato nella pattumiera tra le bottiglie di plastica accartocciate e le lattine di Coca cola, rimasto a far la muffa accanto a un limone rattrappito e un avanzo di pasta di chissà quante sere prima. Prova a scavare ma, quando arriva alle bottiglie di plastica e alle lattine, non trova mai niente.
Le hanno detto che deve lasciarla andare. Che è l’unico modo per convincerla a permettersi di crescere e riattraversare quella porta magica che le ha permesso di esplorare ad occhi aperti un altro mondo.
Lorenzo lo sa – Coraline non tornerà mai più. E a lui rimarranno solamente le monetine che conservava sempre nella tasca posteriore dei jeans, i biglietti dell’autobus dimenticati nel portafoglio, la sua matita preferita e tutte quelle altre chincaglierie di una divinità che non sapeva di esserlo.
Ma, per lui, lo era: e trattiene le sue cose come fossero acqua che scola, intrattenibile, ma continua ad aggrapparvisi come se la vita di Coraline dipendesse da quello, dalle sue cose. Ma la polvere scalfisce i ricordi e, giorno dopo giorno, tutto si fa più grigio e intoccato, in un cassetto della scrivania di Lorenzo che non apre mai nessuno. Nemmeno lui.
Se aprisse quel cassetto, vedrebbe uno sprazzo del nuovo universo di Coraline e, allora, significherebbe consegnarle la propria resa – ammettere che la porta magica esiste e si può attraversarla per giungere in un luogo che, per l’aldilà, è solamente l’ennesima e inutile anteporta – e ammettere che dovrà imparare a vivere in quegli oggetti, per sentirla nuovamente con sé.
Lorenzo lo sa. Che dicono che è perduta, che non comprende, che balla su quel limite come se potesse farlo per sempre – e, forse, un po’ perduta lo è per davvero: è ancora Coraline-occhi-d’oceano ma, quando lo guarda, la tempesta che l’animava s’è spenta e acqua cheta e insensibile restituiscono il suo sguardo.
Lui ogni giorno percorre quei venticinque minuti d’autobus che lo separano dalla clinica dove è stata ricoverata, trovandola ogni giorno più debole e stanca. Grottesco, il sorriso sovrappensiero che gli rivolge, quando sente le ossa scricchiolare nel loro tentativo di bucare la carne.
La chiama, ma lei non risponde mai: si maciulla le unghia delle mani, già sfibrate, con l’attacco feroce dei denti, fino a farsi uscire il sangue – forse, vuole smarrire anche quello.
Lorenzo non le chiede mai spiegazioni, lei non gliele fornirebbe – senza sapere che, alla fine, Coraline non desidera altro che scavare tra mille perché.
«Coraline» la scuote, ma lei è sempre così concentrata sui suoi pensieri che non lo sente mai.
Lui pensa che ha le ossa fragili come cartapesta, potrebbe sgretolarsi sotto le sue mani con facilità indicibile, eppure. Eppure, se socchiude gli occhi, è ancora bella da far male.
Controluce, non vede la pelle giallastra che si tende per svelare il cranio, le labbra sempre spaccate e ulcerate, le ossa che fanno capolino a ogni respiro. Ha sempre quegli occhi enormi che le mangiano la faccia e, quando sorride preda dei propri pensieri, è sempre lei.
«Dimmi a cosa pensi» le chiede, lui, ogni giorno. «Pensi mai a me?».
Ogni giorno, Coraline ha una risposta diversa – penso che vorrei un cagnolino, dice il lunedì, penso che mi piacerebbe una manicure, sai?
La domenica tace sempre e non trova mai risposta. Lui non dice nulla e china il capo, seguendo quella luce agonizzante che emana, cercando di riscaldarsi – e ottenendo, in cambio, solamente altri brividi.
Era stata bella come il sole ma, adesso, la sua stella sembra essere sull’orlo del collasso: basterà un buco nero per inghiottire Coraline e tutti i suoi pensieri?
Sono le dodici, commenta il martedì, come mai non suonano le campane? Eppure, quando finalmente spezzano l'aria con la loro musica, singhiozzi silenziosi la scuotono così intensamente che Lorenzo teme che possa perforarsi la carne con le costole.
«Credi ancora in Dio?» le domanda lui, quando il rintocco del mezzodì smette di risuonarle tra le ossa.
Coraline non risponde, se non con un sorriso che sa di rhum non diluito – non dice né sì né no, ma Lorenzo sa che lei semplicemente non crede più: non in Dio, non nella vita e, probabilmente, nemmeno in lui. D’altronde, non sa come tirarla via da lì.
Il mercoledì lui le porta un mazzo di rose e lei finalmente sorride: penso che sia il colore dei miei capelli, ride, indicando i capelli sfibrati dalle tinte casalinghe. Le cadono a ciocche, ma non ci fa caso: penso che comprerò una parrucca, dice il giovedì, adorerei cambiare colore di capelli ogni giorno.
«Coraline, ti prego» Lorenzo arriva al venerdì che non ce la fa più. «Io non so come venirti a prendere, se tu…».
Non mi dai le coordinate – penso che dovresti andare a casa: non hai lavorato tutto il giorno, oggi? Sarai stanco, vai pure.
Lui scuote il capo, lei si mette a dormire tra le ombra che le sue costole le proiettano addosso.
«Domani è domenica» il sabato, Lorenzo si illumina di speranza. «Potrei rimanere per pranzo, che ne pensi?».
Penso che sono bellissima così – senza niente dentro. Tu che ne pensi?
Domani non venire, dice ogni sabato, vorrei rimanere un po’ sola: ho bisogno di pensare, sai, e tu non mi aiuti mai.
Ma quel sabato, Coraline non spiccica parola – gli stringe la mano, come se non volesse lasciarlo andare più, a dispetto dell’orario delle visite.
«Domani, vieni» sussurra, infine. «Ti aspetterò».
«Non dirmi addio» sibila Lorenzo, stringendole la mano. «Io domani verrò per vederti ancora qui».
Lei non dice.
Ho vent’anni, vorrei non averne più.
«Vieni» risponde, semplicemente. «Domani…».
Glielo spiega l’infermiera, mentre fumano una sigaretta fuori dalla clinica – domani è il limite: l’alimentazione forzata, se va bene. Altrimenti Coraline si scolorerà come una macchia d’inchiostro su una t-shirt e diverrà così piccola da rivaleggiare con i frammenti di corallo, di cui ha adottato il nome1, che si trovano mescolati alla sabbia.
 
***
 
Però lei sa la verità
Non è per tutti andare avanti
Con il cuore che è diviso in due metà
È freddo già
È una bambina però sente
Come un peso e prima o poi si spezzerà
La gente dirà: "Non vale niente"
Non riesce neanche a uscire da una misera porta
Ma un giorno, una volta lei ci riuscirà
 
 
Cede all’alimentazione forzata – a ogni goccia zucchero, grassi e proteine che le entra dentro, Coraline piange silenziosamente. È composta e non singhiozza mai ma, dentro di sé, Lorenzo lo sa che lei sta gridando a squarciagola e rompendo pareti, pavimenti e persino l’aria che l’avvolge come una coperta.
Cede perché, contrariamente a ogni sua spassionata dichiarazione, c’è ancora in Coraline qualcosa che vuole vivere e lo vuole disperatamente, perché lei è tutta fatta di disperazione – ha amato disperatamente, s’è voluta far del male disperatamente e adesso, nella stessa maniera, inizia a pensare di dover percorrere a ritroso il percorso che l’ha fatta arrivare di fronte alla porta magica. C’è un mondo che ha dimenticato, lì dietro. Probabilmente, Coraline non sa nemmeno più come sia, l'universo fuori dalla scatola in cui s’è chiusa.
È tutto bianco e soffocante, dentro la scatola, con le pareti che si piegano a ogni respiro e ormai sono così basse che quando si mette a sedere sbatte la testa. Coraline non si lamenta mai, sopporta stoicamente l’impatto delle proprie decisioni – dice: ho vent’anni, vorrei non averne di più. Ma, quando le dicono che è così vicina all’oltretomba da poterlo carezzare, improvvisamente cambia idea. Lo dice a tutti.
All’infermiera del turno di notte, a Lorenzo, ai suoi genitori: io non voglio morire a vent’anni, non qui dentro.
Lui vuole crederle, lo vuole con la stessa disperazione che mette lei nel fare le cose – ma, quando l’infermiera delle sigarette gli confida che Coraline domanda spasmodicamente le calorie che è costretta a vedersi fluire nel sangue, Lorenzo allora non crede più.
Non nella buona volontà, nella redenzione e, sul finire, nemmeno in Coraline stessa.
Gli dicono che deve farci l’abitudine – lei ha la mente rosicchiata e bucata, non pensa con chiarezza: è tutto un conteggio immaginario di calorie di cui non conosce la provenienza, potrebbe impazzire in una di quelle gocce biancastre che le entrano nelle vene.
«Ti prego» sussurra lei, dopo a malapena ventiquattr’ore attaccata alla sacca per l’alimentazione. «Portami via di qui».
Lui china il capo e non le dice che lo vorrebbe, lo vorrebbe per davvero – ma, quando la vede fissare con odio la flebo, l’insofferenza se lo mangia vivo e non gli lascia scampo.
«Ti porterei via anche subito, lo sai» si giustifica, carezzandole il capo rosso sangue. «Ma devi stare meglio, Coraline…».
Ricominciare a mangiare – questo non lo dice mai – e a camminare da sola: sa che non può farcelo, ma è un pensiero così cattivo che non gli dà mai voce.
Lei sorride, il sorriso malandrino che l’ha conquistato quando aveva sedici anni lei e lui diciannove. È stato quello, il momento, anche se Lorenzo non l’ha saputo mai – quando era bella di una rotondità perfetta, con la curva del seno che dolcemente piegava i maglioni e un timido accenno di pancetta e fianchi pronunciati che adesso sono spariti come sabbia in una clessidra bucata. È stato quello, il momento in cui la sua testa ha cominciato a fare scintille, dando fuoco all’intero impianto.
Lorenzo non lo sa, lei non gliel’ha mai raccontato, di quelle parole che le hanno ripetuto per tutta la vita: bella saresti bella, anche bellissima, se solamente perdessi peso – hai un viso da bambola, con quegli occhioni azzurri e i capelli biondi, ma guarda che brutti quei fianchi e il doppio mento e, e, e.
Coraline non gliel’ha mai detto, non ha mai pensato che tutto ciò sia stato la radice dei suoi mali – ma un po’ sì. Non menziona mai gli altri fantasmi della sua vita – nemmeno di quando, con tono svagato, raccontava di sua madre che era andata via – né le interessa ricordarlo: a Lorenzo non lo dice mai, ma lei non crede nella concatenazione tra causa ed effetto, in un mondo univoco dove ad A corrisponde una e una sola B.
Non crede che sia tutto causato, ma nemmeno che sia incausato: e, quando lo psicologo della clinica gliel’ha domandato direttamente, ha dato la sua risposta. Penso sia il controllo, dottore.
Siamo alla deriva per tutta la vita, non crede? – io voglio sapere in che mare sto navigando, che cibo sto o non sto mangiando, la taglia dei miei vestiti: non credo nel casuale, nell’improvvisato, ma credo in quello che io posso fare. E il cibo per me è questo: controllo.
Durante quella stessa seduta, Coraline è scoppiata a piangere, dicendogli un’altra semplice verità. Ho cominciato saltando un pranzo, mi ha fatto pensare che potevo saltarlo sempre. E di seguito la colazione, il pranzo, la cena e tutto il resto.
Controllo – scegliere sempre una taglia in meno, pensarsi sempre con addosso una taglia in più – è stato attraversare la porta magica e non voltarsi mai indietro. E, adesso che deve tornare sul pianeta Terra, Coraline non sa cosa fare: è come vivere perennemente sott’acqua, con la magia che ti fa odiare il cibo e, la fame, altro non è che l’ennesimo inutile piacere.
«Portami via di qui» ripete, stringendo con urgenza la mano di Lorenzo. «Altrimenti muoio, lo sai».
Lui sorride dolcemente, non le crede nemmeno per un secondo.
«Ti fa bene» le sussurra, quieto. «Tornare a mangiare sarà bello, vedrai, non avere più sempre fame».
Lei non dice niente, non spiega nulla – che avere fame ti annichilisce così tanto che, alla fine, non senti più niente, nemmeno la stessa fame che ha innescato quella reazione. Lascia che lui le faccia un resoconto di tutto quello che potranno fare insieme, quando sarà dritta sulle sue gambe e tagliente come i coralli sul fondo del mare, mai smussati, mai spezzati.
Lo interrompe solamente quando lui le dice che le cucinerà tutti i suoi piatti preferiti, ma non dà voce ai suoi pensieri – che mangiare è un compito, non un piacere, mai più un piacere. Il controllo si dimostra anche nei pensieri, quando il corpo cede.
E lei, nel luogo sicuro che è la sua mente, non mangerà mai più: la porta è chiusa, ma a Lorenzo non lo dice mai.
«Penserai che non valgo niente» constata. «Che ci vuole a uscire da una stupida porta?».
 
***
 
E ho detto a Coraline che può crescere
Prendere le sue cose e poi partire
Ma sente un mostro che la tiene in gabbia
Che le ricopre la strada di mine
E ho detto a Coraline che può crescere
Prendere le sue cose e poi partire
Ma Coraline non vuole mangiare no
Sì Coraline vorrebbe sparire
 
 
La mettono seduta, le infilano le sneakers lilla con le borchie attaccate con la colla a caldo, l’aiutano ad alzarsi per muovere qualche passo: Lorenzo le porge il braccio, incoraggiante, ma a Coraline tremano le mani. Le hanno staccato la flebo, a patto che si sforzi di mangiare normalmente – ma, quando dopo la passeggiata le portano il vassoio, lei nemmeno lo guarda: piange e basta, senza spiegare il perché.
Ma il perché è semplicissimo: qualunque cosa ci sia su quel vassoio supererà il numero di calorie che s’è fissata per quel giorno, sarà un surplus che dovrà forzarsi a inghiottire a dispetto della voglia di vomitare – le fa ridere, quella voglia di rimettere, lei che è sempre stata terrorizzata dal vomito. Si chiede se non sia quella, la sua sorte, passare da un estremo all’altro, da un mondo in cui A è B a un mondo in cui B è A, ma la somma degli insieme è sempre inevitabilmente zero.
Le è sempre piaciuto, come numero, lo zero: un confine netto, pulito, morbido. Il numero perfetto da vedere sulla bilancia, se lo ricorda, quando ha iniziato la propria discesa verso la porta magica: sessanta era il limite, ma poi è diventato cinquanta, poi quaranta. A trentotto, ha deciso che sarebbe stato trenta.
A trenta, non c’è arrivata mai – lo psicologo le ha spiegato, con pazienza, che altrimenti sarebbe morta. L’unica cosa che Coraline ha assimilato di quel discorso è quello, il fatto che sarebbe morta e, quindi, sarebbe stata finalmente zero.
«Vuoi che ti aiuti a mangiare?» domanda Lorenzo, impaziente. «Ti sistemo i cuscini dietro la schiena?».
Lei sospira – non grida, quello mai: non servirebbe, con Lorenzo che impotente ha assistito alla sua discesa tra le ombre. Sono reali, vorrebbe dirgli, eccomi qui, dormo nelle ripiegature delle mie ossa, anzi non dormo mai.
Non osa nemmeno dire ad alta voce che lei non lo vuole, quel cibo, che non ne ha bisogno – ha già dimostrato di essere in grado di fare lunghi digiuni, di saltare tre pasti su quattro o tre e mezzo su quattro o quattro su quattro. Ma lui la guarda, con gli occhi scuri grandi come scodelle, e lei non riesce a sussurrare che sono calorie che non le serviranno mai: vent’anni, non vuole morire, ma non vuole nemmeno vivere abbastanza.
Dondola i piedi tinti di tessuto viola, come una bambina, prendendo tempo. Lorenzo stringe una mano e lei a stento si rende conto d’essersi conficcata le unghie nel palmo della mano.
«Sarà facile, vedrai» le sussurra, dolcemente. «Come andare in bicicletta: non te lo dimentichi mai per davvero, come si fa».
Lo psicologo, appoggiato al muro, annuisce con aria professionale e le borbotta quelle parole di cui lei ha semplicemente la nausea – sanno di una consapevolezza amara come la polvere di caffè che rovesciava sempre sul piano cottura, alla mattina.
«Permettiti di crescere» le dice, bonariamente. «Significa questo: tornare a crescere, cambiare, trovare le tue occasioni».
Ma lei, che dentro ha ancora sedici anni, trema – è ancora bambina, anche se non riesce ad ammetterlo nemmeno con sé stessa. Si vede ancora stretta in quei jeans taglia quarantasei, che è un numero meno bello di quarantaquattro, di quarantadue, di quaranta, di trentotto, di zero e basta.
Sospira, mentre le appoggiano il vassoio davanti, sbirciandone timorosamente il contenuto e intravedendo del pesce bollito.
«Non lo mangio» sussurra. «Lo sanno tutti, che io non mangio pesce: lo detesto da praticamente sempre».
«Pensi di detestarlo» risponde Lorenzo, a bassa voce. «Non ti ricordi, Coraline? Ti portavo sempre a mangiare il sushi, di venerdì sera e, una domenica al mese, andavamo a quel ristorante vicino al porto».
Lei spalanca gli occhi – per un momento, è tentata di dirgli che non gli crede nemmeno per un po’. Ma ricorda i digiuni feroci per poter compensare quel sushi del venerdì e il ristorante della prima domenica del mese, che poi erano diventati il sushi a settimane alterne e poi il sushi una volta al mese e poi il sushi mai più. Non le serviva, si era detto, il sushi non è cibo per vivere – solamente gli sciocchi provano piacere in una cosa sporca e volgare come mangiare – e lei ha sempre odiato il pesce.
«E ordinavi sempre la grigliata di pesce, sai?» continua Lorenzo, con voce carezzevole. «Non tutto, ma prova con qualche boccone».
Lei vorrebbe dirgli che non vuole mangiare, che non può farcela: è vernice fresca, in lei, il desiderio di ripiegarsi su sé stessa per poi sparire. Ma tace e prende la forchetta, senza convinzione, facendola cadere sul copriletto.
Coraline sospira, mentre Lorenzo pazientemente le districa dalla carcassa del pesce un boccone, porgendole la forchetta e aspettando con debole fiducia e scarsa speranza.
Lei apre la bocca.
È l’inizio della fine, pensa, ma che altro può ferirla: ha già il cuore spezzato a metà, ha già distrutto tutto quello che poteva distruggere e cosa le è rimasto?
Una mano che non sembra la sua che trema su una stupida posata, lo sguardo triste di Lorenzo che la trapassa da parte a parte.
Devi permetterti di crescere: ma che cosa è, alla fine dei giochi, questo famoso crescere?
Coraline lo impara in quel momento – per lei è prendere la forchetta e puntarsela verso il volto, come fosse un’arma carica. Di certo, pesa quanto una pistola e forse di più.
Sospira, apre la bocca, vi introduce il boccone. È troppo grosso, pensa, mi soffocherà e morirò per davvero a vent’anni.
Mastica, ma quella poltiglia sembra espandersi in bocca, divenendo sempre più molliccia e ingombrante, finché non si sente abbastanza disperata da deglutire. La guardano tutti, senza domandare.
«È…» tossisce, mentre Lorenzo si affretta a porgerle un bicchiere d’acqua. «Credo mi piaccia».
Lui sorride.
Lei sta pensando a quante calorie potrebbe avere quel piatto ancora pieno e quanto veloce dovrà respirare nel tentativo di sottrarre energia al proprio corpo – ma, per inerzia, continua a mangiare.
È buono.
 
***
 
E Coraline piange
Coraline ha l'ansia
Coraline vuole il mare ma ha paura dell'acqua
E forse il mare è dentro di lei
E ogni parola è un'ascia
Un taglio sulla schiena
Come una zattera che naviga
In un fiume in piena
E forse il fiume è dentro di lei, di lei
 
 
Appena le mura della scatola si allentano e le permettono di uscire, Lorenzo la porta a vedere il mare – lei non gli dice che, che sia mare o oceano, non le piacerà comunque: c’è troppa libertà, in quella marina, per permetterle il lusso di non provare paura.
Ma, quando vede le onde che si sfracellano sugli scogli in un tuono acquoso, Coraline pensa che è bello sa far male, l’ennesima stella buia che morente risplende nel cielo. Sta piangendo e nemmeno sa il perché.
«Se vuoi, ti aiuto a scendere lì giù» Lorenzo indica uno scoglio a ridosso del mare, da dove potrebbe tuffarsi. «Hai messo il costume?».
«Non so nuotare» soffia, lei, stringendosi addosso il vestito leggero. «Per davvero, non ho mai imparato».
Lui alza il sopracciglio bruno, facendola sorridere, a disagio – è una bugia e lo sanno entrambi: Coraline si è specchiata quella mattina e, tastandosi le ossa sporgenti, per la prima volta si è sentita fuori posto in quel corpo sottile come un tratto di matita. Ha scosso la testa, cercando di figurarsi la taglia zero, ma la colazione le è rimbalzata nello stomaco, costringendola a sedersi sul letto.
Lorenzo le ha portato un album di foto del liceo, quando lui era ancora il ragazzo bocciato due volte e non il commercialista con i capelli perfettamente tagliati e gli occhiali a lenti graduate. Quando lei era una taglia quarantasei e treccia alla francese biondissima, Coraline-occhi-d’oceano che le mangiavano la faccia a ogni respiro.
Si è vista – ne è rimasta spaventata.
Si è vista – non si è quasi riconosciuta: ha pensato che era stata bella, ma bella per davvero, e lei non aveva mai creduto a Lorenzo che glielo diceva.
Non ha pensato di voler guarire, quello mai: lo zero è sempre rassicurante e il pensiero di avere il controllo un chiodo fisso e lei ha sempre l’ansia di conteggiare quel che ingerisce, però. Però oggi ha imparato a crederci un po’ di più.
«Aiutami a scendere» sussurra, infine. «Mi piacerebbe bagnarmi i piedi, sai?».
Lorenzo sorride come un bambino e le offre il sostegno del proprio braccio: lui è cresciuto, lei non riesce a permettersi di farlo a propria volta – non ha più sogni da dedicarsi, l’anoressia le ha mangiato tutto il resto.
Fa fatica. Anche con le scarpette per gli scogli, scivola, si aggrappa a Lorenzo e tentenna quando si tratta di fare un minuscolo saltello e le sembra di piombare giù in un vuoto senza inizio o fine. Ma, quando finalmente scalcia l’acqua a piedi nudi, le viene di nuovo da piangere.
Lorenzo sorride, asciugandole le lacrime che sfuggono dal suo controllo – non glielo dice: le vede dentro, finalmente, ancora un brandello di tempesta.
Quando finalmente lei si decide a ricambiare il suo sguardo, ha gli occhi arrossati e le ciglia fradice, ma pensa che potrebbe permetterglielo: chiamarla per nome, rompere l’incantesimo e farle attraversare la porta.
Lorenzo è un muro di mattoni: fa male allo schianto ma, se ti ci ripari dietro, ti proteggerà per sempre.
«Coraline» la chiama, per mostrarle un frammento di roccia rossa che, controluce, pare corallo. «Hai visto?».
Lei pensa che potrebbe nascondersi dietro di lui, almeno il tempo che le servirà per fuggire da sé stessa. E lo dice.
«Anna».
Lorenzo spalanca gli occhi, ma non riesce a dire niente.
«Anna» ripete lui, sotto shock.
Lei sorride e le brillano gli occhi – è più di un brandello, quella tempesta.
 

 
Le han detto in città c'è un castello
Con mura talmente potenti
Che se ci vai a vivere dentro
Non potrà colpirti più niente
Non potrà colpirti più niente
(Måneskin, Coraline)
 

1L’etimologia di Coraline è quella della parola corallo: https://www.paginainizio.com/significato-nome/coraline.html
 
Segnalo che il titolo è ispirato all’omonimo film, mentre l’incipit è anche la prima strofa della canzone Coraline, da cui mi sono fatta ispirare.
Grazie per avermi letta,
Gaia
   
 
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Gaia Bessie