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Autore: SibillaCubana    29/08/2021    1 recensioni
Il fatto insolito successe il giorno in cui Christoffel Hoffeldorf si laureò.
Un giovane astronomo tedesco viene incaricato dal suo professore di esaminare un radiotelescopio che ha captato uno strano segnale. Il ragazzo, che si sta preparando per una cerimonia, pensa che l'avvenimento e la misteriosa scomparsa del suo collega che deve discutere la tesi siano del tutto scollegate, ma sarà davvero così?
Genere: Mistero, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La vita è ciò che facciamo di essa.
I viaggi sono i viaggiatori.
Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.

(F. Pessoa – Il libro dell’Inquietudine)




 


Il fatto insolito successe il giorno in cui Christoffel Hoffeldorf si laureò.
Non eravamo mai stati amici, però mi invitò alla cerimonia, un po' per cortese indifferenza, un po' perché smaniava di esporre la sua tesi sul paradosso di Fermi alla platea più gremita possibile. Poco gli importava che la folla che lo ascoltava fosse composta da semplici curiosi – che lo avrebbero di certo riconosciuto come il giovane più promettente nella sala – parenti o, come nel mio caso, astronomi.
Avevamo, per breve tempo, cercato di conquistare la stessa ragazza; ma alla fine le sue erudizioni avevano avuto lo stesso effetto della mia sagacia. Tuttavia, secondo Hoffeldorf, condividere quel tipo di esperienza legava due maschi tedeschi in maniera indissolubile.
Meditai a lungo su quale fosse la scelta migliore da fare, e alla fine mi risolsi a declinare l'invito per il ricevimento (al quale mi sarei sentito senz'altro a disagio, non conoscendo nessuno), ma accettare quello alla discussione della tesi. Avrei assistito all'ampollosa esposizione delle sue considerazioni riguardo l'esistenza di vita extrasolare, al suo – per dirla con parole dello stesso Hoffeldorf – accademico stupor mundi.
Non appena ebbi terminato la colazione, troppo distratto dalle circostanze per studiare, feci per uscire dallo studentato, con l'intenzione di recarmi a noleggiare un abito da cerimonia. Il telefono della mia stanza squillò, bloccandomi mentre stavo per varcare l'uscio. Con fare annoiato, alzai la cornetta, e mi ritrovai al cospetto della tonante voce del professor Pfannkuchen.
«Abbiamo riscontrato un problema col radiotelescopio» mi annunciò, dopo le solite domande di rito sulla mia salute. «Questa mattina, alle otto e trenta, ha inviato all'Istituto un segnale che non riusciamo in nessun modo a spiegare. Potresti andare a verificare di persona?»
Il professor Pfannkuchen era un tipo simpatico. Portava degli occhialetti tondi sul faccione rubicondo, che sembrava una luna piena appena sorta, e il periodo che aveva passato in Italia gli aveva fatto prendere l'abitudine di gesticolare quando voleva porre enfasi su concetti particolarmente importanti. Era grazie a lui se, dopo quello spiacevole incidente con la cupola dell'osservatorio, non ero stato cacciato dal corpo di ricerca ma piuttosto trasferito nel novero di chi usa, per captare onde radio, parabole smisurate.
Gliene ero – e gliene sono tuttora – molto grato, ma il suo salvataggio implicava, come effetto collaterale, il fatto che si sentisse libero di telefonarmi a qualsiasi ora del giorno e della notte, e che a ogni suo "potresti...?" corrispondesse, di fatto, un ordine.
Presi allora l'auto, controvoglia, per dirigermi da Bonn a Bad Münstereifel. I cambiamenti di programma improvvisi mi avevano sempre turbato, e speravo di sbrigarmela in fretta, tornare in città e noleggiare l'abito entro mezzogiorno.
Giunsi presto in vista del radiotelescopio Effelsberg. Quel mostro bianco, con il suo telaio dalle intricate geometrie, mi faceva ogni volta ammirare, con una modestia quasi dimessa, l'arte degli ingegneri che lo avevano realizzato. La prima cosa che pensai fu che, in quanto all'anomalia riscontrata, non doveva trattarsi di nulla di eccezionale. Del resto, non sarebbe stata la prima volta che qualcosa interferiva con le rivelazioni del segnale; era anche capitato che gli uccelli facessero il nido all'interno della parabola.
Mi sovvenne poi che era strano che avessero chiamato proprio me, dal momento che ciò significava che non c'era nessuno all'osservatorio. Mi chiesi come mai Hoffeldorf, con le sue manie di grandezza, non passasse lì proprio la mattina del giorno della sua laurea, in modo da cercare più proseliti possibile, ma conclusi che forse non lo conoscevo abbastanza bene per lasciarmi andare a questa, e ad altre, conclusioni.
Entrai nella sala dei comandi, da dove venivano gestite le osservazioni, e la trovai, come avevo previsto, totalmente vuota. Fui tentato dall'alzare la cornetta del telefono e chiamare il professor Pfannkuchen, ma prima che potessi terminare quel pensiero l'occhio mi cadde sul registro delle prenotazioni, dove venivano annotati minuziosamente gli orari di osservazione concessi.
"Christoffel Hoffeldorf" recitava, "8.15-10.00".
Una strana inquietudine mi colse. Temetti, nel modo più razionale possibile, che si fosse sentito male, e perlustrai l'intero edificio gridando di tanto in tanto il suo nome.
Non ebbi risposta.
Notai delle carte sul tavolo, appunti scarabocchiati che mi confermavano che in effetti Hoffeldorf era entrato all'osservatorio. Nella fila di numeri che aveva scritto, mi parve di riconoscere delle coordinate, e ricordai, come se fino a quel momento si fosse trattato di un dettaglio insignificante, che il mio collega stava svolgendo una ricerca sul segnale Wow! captato in Ohio, ed era in contatto con Arecibo.
Il computer che governava il telescopio mi confermò che, alle ore 8.17, lo strumento era stato puntato dove indicavano gli appunti di Hoffeldorf, e non era più stato spostato. Trasmetteva i dati, in tempo quasi reale, anche all'Università, che alle 8.30 era stata allertata di un'anomalia durata settantadue secondi.
Feci un altro giro dell'edificio, di nuovo a vuoto, e alla fine decisi di andare a controllare di persona la parabola. Qualcosa mi diceva che era lì che Christoffel – una parte catastrofista del mio cervello, per qualche motivo, lo dava già per spacciato – aveva avuto il suo malore.
Uscii nella pungente aria del mattino, con animo allo stesso tempo spaventato e svogliato, e tirai su con il naso. Le ricerche su forme di vita aliene, che tanto esaltavano parte della comunità astronomica, mi avevano sempre fatto sprofondare in uno stato di scettica apatia. Sicuramente, il segnale da settantadue secondi era stato prodotto da un quasar, una pulsar o qualche altra diavoleria a neutroni.
«Hoffeldorf!» chiamai di nuovo, salendo sulla passerella che portava al telescopio. Di nuovo, come prevedevo, non ebbi risposta, e non vidi anima viva.
Mi voltai verso la parabola, e il riflesso del sole sulla superficie mi abbacinò per un istante. Passarono diversi secondi prima che mi rendessi conto che non poteva essere successo: il cielo era coperto da nuvole dense come le volute di fumo del sigaro toscano del professor Pfannkuchen.
Preso dalla curiosità, misi un piede sul bordo della superficie curva, in modo da sporgermi e capire cosa ci fosse all'interno. Non riuscendo a concludere nulla, dato che l'insolita luminescenza era sparita, mi issai con tutta l'intenzione di entrare nella gigantesca parabola. Del resto, con i miei settanta chili scarsi non potevo essere un pericolo per la sua delicata architettura.
Con le ginocchia piegate per mantenere l'equilibrio, avanzai poco alla volta verso il cuore della struttura, là dove avevo visto il bagliore. Prima di concludere che era tutto frutto della mia immaginazione, volli toccare la parete a cui arrivavo.
Quel gesto scatenò un secondo lampo, molto più intenso del precedente. I miei occhi furono completamente accecati dal bianco, e impresso nelle retine mi rimase un colore verde acceso, persistente come il retrogusto amaro che resta in bocca dopo aver bevuto troppa birra, specie se di scarsa qualità.
Quando riacquistai il dono della vista, mi ritrovai, confuso, su quello che sono ormai convinto fosse un altro pianeta. La terra su cui sedevo era sabbiosa e rossiccia, coperta a chiazze da quella che definirei una peluria grigiastra, forse vegetale. Il cielo sopra di me era di un viola acceso, risultato della presenza nell'atmosfera di gas che non ricordavo, o che addirittura non conoscevo. Nonostante questo, respiravo senza fatica, non so se in modo naturale o per qualche artificio. La luce del Sole, o meglio della grossa stella che faceva le sue veci, illuminava con crudezza un paesaggio alieno.
Passò solo qualche secondo, in cui non feci altro che stare immobile e stranito, e poi li vidi.
Proverò ora per la prima volta a descrivere quanto successe, per quanto possa essere possibile parlare con coerenza di qualcosa che non si è capito.
Del fatto che fossero due creature vive e senzienti me ne accorsi quando li vidi camminare, seguendo direzioni serpeggianti, non prevedibili e pertanto non imputabili a una macchina. Il mio intelletto non comprendeva il corpo di quegli esseri, che mi parve allo stesso tempo concavo e convesso, solido e liquido, in continuo mutamento.
Si spostavano su quelle che definirei appendici (molto spesso, ossessionato da quella visione, ho provato a disegnarle su un quadernino, senza alcun successo): esse si estendevano e si contraevano e li trascinavano, per poi quasi scomparire. La cosa che più mi disturbava, però, era il non riuscire a distinguerne il numero.
Questo è il motivo per cui sorrido, con affetto sincero, quando penso alla tenera ingenuità non solo di chi raffigura gli alieni a propria immagine e somiglianza, come omini verdi, ma anche di chi pensa di poterne solo concepire la forma.
Mi alzai, immaginando che presentarsi per la prima volta a qualcuno seduto tra la polvere, in stato confusionale, fosse segno di maleducazione anche fuori dal mio pianeta. Notai che la gravità era maggiore rispetto a quella sulla Terra: faticai leggermente nello stendere le gambe, ma, tutto sommato, era qualcosa a cui avrei potuto abituarmi facilmente.
Rimasi in piedi, immobile, senza alzare le mani o fare altro gesto che avrebbe potuto essere interpretato come una minaccia. Attesi che i due iniziassero un contatto, di qualsiasi sorta, poiché mi parve l'idea migliore per avere una probabilità di rimanere in vita.
Le creature si fermarono a qualche passo da me, e mi parvero in qualche modo voltarsi l'una verso l'altra, forse comunicando a una frequenza che io non potevo udire.
Guardarli mi lasciava sospeso in un limbo in cui contemporaneamente pensavo e non pensavo, e non percepivo il tempo che passava. Gli alieni, poi, si rivolsero a me, e dai loro corpi, in cui non riuscivo a riconoscere alcunché di familiare, uscì un suono che (se il paragone mi è concesso) era identico a una lunga, appassionata pernacchia.
Provai del rimorso, e la mia condizione stessa mi fece pena. Mi trovavo davanti al sogno di Hoffeldorf che diventava realtà, in circostanze così mistiche e straordinarie da far impallidire qualsiasi scrittore, e il mio primo pensiero andava al fatto che quelle creature parevano deridermi con un gesto tutto umano.
Spesso mi ero trovato a meditare su quanto fossi piccolo nei confronti dell'Universo che mi circondava: una considerazione che forse era banale, la prima cosa che diceva l'astrofisico in televisione, ma che diventava incandescente quando il mio occhio sprofondava nel nucleo nudo di una galassia. In quei momenti, nessuno quanto me era consapevole, eppure su quel nuovo pianeta mi sentivo sgomento, e solo, perché per la prima volta non sapevo dove fosse la Terra.
I due esseri continuavano a emettere quei suoni, ripetuti, alcuni lunghi e alcuni brevi, e mi venne spontaneo cercare di comprendere – poiché intuire il loro significato era senz'altro impossibile – se ci fosse un motivo ripetuto, una struttura di fondo.
L'alternanza lungo-breve-lungo-breve mi ricordava il codice Morse, e immaginai un sistema binario dove l'uno corrispondesse a un "sì" e lo zero a un "no". Ma comunque, anche dato che fosse così, qual era il modo migliore per formulare una frase?
«Vengo in pace» provai a dire, in tedesco e poi in inglese. Gli alieni sembrarono non accorgersi in alcun modo del mio gesto, avvalorando la mia ipotesi che comunicassero su lunghezze d'onda diverse dalle mie, che risultavano per loro impercettibili.
Non mi restò allora che adagiare la lingua sui denti, facendola sporgere un po' dalle labbra, e imitare la loro pernacchia. Provai con un segnale lungo, che suonasse come una sorta di "ricevuto".
Percepii l'atmosfera cambiare: le due creature, che all'inizio mi erano parse animate da una cauta curiosità, si fecero avanti minacciose; dai loro corpi estrassero oggetti che interpretai come armi, e le spianarono verso di me.
Non osai muovermi. Ero atterrito, sia dalla minaccia sia dal solo pensiero che gli alieni non comprendessero la mia matematica, ma ne usassero un'altra, in cui le matrici trasformavano in modo diverso, e tutto ciò che conoscevo si sgretolava.
O, forse, semplicemente non capivo, e non riuscivo a capacitarmene, e non riuscivo ad applicare quel linguaggio universale che avevo sempre amato e odiato insieme.
Ricordo che mi puntarono le strane armi alla schiena. Alzai entrambe le mani, e mi condussero per un paesaggio tutto uguale sino a una struttura traslucida dalle complesse geometrie, che riuscivo a suddividere in figure elementari ma che, nella sua interezza, non avevo mai visto o immaginato prima.
Al suo interno, mi si profilò quello che mi parve un laboratorio, una postazione di ricerca, simile quasi in modo ironico a quelle, scientificamente inaccurate e grottesche, che apparivano nei vecchi film di fantascienza.
All’interno di una concavità sotto al pavimento, simile alla base di lancio di un missile, stava una teca di cristallo; e all’interno della teca di cristallo, privo di sensi, stava il corpo di Christoffel Hoffeldorf. Di nuovo mi parve di vivere in un sogno, o in una parodia: la creatura dalla forma indefinibile che mi puntava una pistola alla nuca e spernacchiava minacciosa pareva l’ultima fantasia di un regista esausto.
Voglio raggiungerlo, pensai, ma come posso farmi capire?
Cercando di non emettere più alcun suono, indicai con cautela il letto dove giaceva il mio collega, poi indicai me stesso. Le due creature – che erano, almeno in quel momento, le uniche abitanti del laboratorio – si voltarono l’una verso l’altra, forse per consultarsi, ma poi parvero riconoscere l’affinità tra me e il loro prigioniero, e mi portarono da lui.
«Hoffeldorf!» lo chiamai di nuovo, disperato, sapendo che era inutile, ma anche che, in fondo, gli alieni non mi sentivano, e pertanto quel nome rappresentava per me una specie di sfogo.
Inaspettatamente, la stazione di ricerca mi rispose, con una voce che ben conoscevo: “Sono qui.”
Trasalii, e mi voltai da una parte e dall’altra, nel tentativo di trovare da dove provenisse quella voce, che mi sembrava essere ovunque e da nessuna parte e dentro di me.
Poi capii: Hoffeldorf non era più solo nel suo corpo, ma si trovava nel freddo metallo della pistola, nel cielo violaceo e nella terra inaridita; vedeva ogni cosa per ciò che era, e allora gli alieni non erano alieni, la stella simile al Sole non era una stella, e poi lo era di nuovo, e tutto era in lui e non altro da lui. Allo stesso modo, così come lui era nel mio sogno, io ero nel suo, assieme a tutte le cose, e con lui parlavo e vedevo.
Lui aveva trovato, con un processo a me oscuro, il modo per comunicare.
«Voglio svegliarmi», gli dissi, «voglio tornare a casa».
Percepisco la loro ostilità”, mi spiegò lui, “loro non ti capiscono, e per questo pensano che tu sia un estraneo, venuto a far guerra”.
«Come posso farmi capire?»
Ricordi il messaggio di Arecibo?” mi domandò lui.
«No», ammisi. Del resto, mi era impossibile ricordare tutta quella sfilza di zero e di uno, che non aveva alcun significato se non vista nel suo insieme, e ordinata in righe e colonne. «Ma ho carta e penna, e so che tu lo conosci, insieme a tutto il resto».
La voce che era ovunque cominciò a dettare, e subito riconobbi le dieci cifre in codice binario. I due alieni, mansueti e di nuovo incuriositi, deposero l’arma e mi osservarono tracciare quei segni sul foglio.
Mi fermai, e mostrai loro le mie dita, che erano dieci anch’esse, e le alzai per contare. Un silenzio d’assenso mi consentì di andare avanti, e di disegnare con la matematica la figura seguente.
Numeri atomici, che non so se potessero intendere, e poi nucleotidi, e la doppia elica del DNA che ci forma. Su quest’immagine, di nuovo, i due si consultarono. Non sapevo come spiegarla, ma capirono che non era pericolosa, e mi fecero continuare.
Una figura umana, fatta di bit, e dei numeri che la riguardavano: questa volta, i due alieni compresero.
Poi venne il Sole, e i nove pianeti. Lì fui io che cominciai a capire, che cominciai ad associare quell’immagine, enormemente semplice e al contempo raffinata, a me stesso e alla natura. Vidi la matematica nelle cose: i numeri mi riportarono alla mente la grafia minuta con cui le donne avevano catalogato, una per volta, le stelle; e poi il nucleo della galassia che avevo osservato, quello che mi aveva fatto sentire piccolo.
L’ultimo disegno che tracciai era una rappresentazione di un radiotelescopio. Vedendolo, le due creature si animarono, molto più che in precedenza, e tentarono di comunicare con me. Con movimenti lenti, mi indicai il petto con il palmo aperto, e poi portai la mano sull’immagine, come per dire “è da qui che vengo”.
«Voglio tornare a casa», ripetei.
Mi risvegliai, in uno stato di confusione totale, sul pavimento della mia stanza. Con le poche forze che mi rimanevano mi trascinai sul letto. Quando ripresi i sensi, dopo un tempo indefinito, mi ritrovai in ospedale, ma fui presto dimesso.
“Un collasso nervoso”, mi dissero, “dovuto alle troppe ore di studio”, e mi prescrissero una dieta a base di pesce e legumi, con poca carne.
Mi raccontarono di quando Christoffel Hoffeldorf si laureò, e durante l’esposizione della tesi non fece che parlare di loro. La comunità scientifica fu quasi unanime nel ritenerlo pazzo e, date le sue brillanti prestazioni accademiche, gli conferì il titolo, ma quasi con pietà. Fece la gioia degli ufologi.
Quando, pochi giorni dopo, due giornalisti di una testata locale furono mandati a intervistarlo, si dovette constatare che era scomparso senza lasciare traccia. Nessuno lo rivide più.

 
N.d.A. Ho pensato l'ambientazione di questa storia negli anni Ottanta, per questo si fa riferimento ai "nove pianeti" del Sistema Solare (Plutone fu "declassato" a pianeta nano nel 2006).
Il segnale Wow! invece è un segnale radio che fu captato nel 1977 da Jerry Ehman, un astronomo del progetto SETI per la ricerca di vita extraterrestre. Stupito dalla sua intensità, lo cerchiò in rosso e lo commentò appunto con "wow!". Durò 72 secondi e in seguito non fu mai più captato. Nel tempo sono state fatte molte ipotesi sulla sua origine, fra cui quella di una civiltà aliena intelligente, a oggi la più accreditata è quella di un'origine cometaria.

Uno dei principali radiotelescopi del SETI è collocato ad Arecibo.

Spero che questo mio esperimento con la fantascienza vi sia piaciuto! un abbraccio,
Sibilla

Uno dei principali radiotelescopi del SETI è collocato ad Arecibo
   
 
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