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Autore: Sweet Pink    29/08/2021    3 recensioni
Impero Britannico, 1730.
Saffie Lynwood e Arthur Worthington non si potrebbero dire più diversi di così: freddo quanto implacabile giovane Ammiraglio della Royal Navy lui, allegra e irriverente ragazza aristocratica lei. Dire che fra i due non scorre buon sangue è dire poco, soprattutto da quando sono stati costretti a diventare marito e moglie contro la loro stessa volontà e inclinazione!
Entrambi si giurano infatti odio reciproco, in barba non solo al fatto di essere i discendenti di due delle più ricche e antiche famiglie dell'Impero, ma pure alla vita che sono sfortunatamente costretti a condividere.
Eppure, il destino non è un giocatore tanto prevedibile quanto ci si potrebbe aspettare, poiché sono innumerevoli i segreti che li tengono incatenati l'uno all'altra; segreti, che risalgono il passato dei Worthington e dei Lynwood.
E se, con il tempo, i due nemici si scoprissero più simili di quanto avrebbero mai immaginato, quale tremendo desiderio ne potrebbe mai derivare?
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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CAPITOLO QUINTO

LA VERA LEZIONE




“Signora Worthington, il regalo di nozze dei Duchi di Lynwood è arrivato.”

Saffie continuò ad osservare il brulicante traffico di persone e carrozze che si muoveva sotto di lei, dall’altra parte del vetro sporco di una minuscola finestrella. Erano le prime ore di una mattinata che si prometteva stranamente tiepida e splendente, ma comunque gli uomini e le donne su cui la ragazza posava lo sguardo non avevano l’espressione di chi si ferma ad osservare il cielo azzurro, ma il volto inciso bensì da premature rughe e pesanti preoccupazioni.

Era la prima volta – e probabilmente anche l’ultima – che visitava Bristol; mai prima di allora si era avvicinata così tanto a un quartiere popolare: nemmeno a Londra la Duchessina di Lynwood era stata sfiorata dal pensiero di avventurarsi nelle strade in mano al proletariato, ma ugualmente si era preoccupata dei diritti di quella povera gente senza aver avuto effettivamente testimonianza diretta del modo in cui solevano vivere.

“…senza alcuna esperienza diretta del mondo.”

Quelle che lui aveva chiamato un mucchio di sciocchezze.

“Tu sei mia adesso.”

Il tocco di una mano grande e forte che si stringeva attorno al suo polso sottile con ferma rabbia, il ricordo di un paio di iridi verde smeraldo, tanto profonde e fredde da essere quasi dolorose da guardare. Sì, Saffie aveva promesso con sé stessa di dimenticare la disastrosa notte passata in compagnia del suo odiato marito, il famoso Ammiraglio Worthington, eppure non c'era istante in cui la consapevolezza di essere irrimediabilmente legata a lui non provocasse nel suo petto un sentimento di profonda oppressione, accompagnato da un altrettanto schiacciante senso di colpa nei confronti di Amandine.

“Signora Worthington?”

No, questo non è il mio nome.

La voce si fece più alta, facendosi spazio fra i suoi pensieri e squarciando così il velo che sembrava dividerla dalla realtà. Dopo essersi concessa un pesante sospiro, la ragazza presa in causa si voltò in direzione di colui che aveva parlato, cercando di parere la fanciulla più pacata e serena del mondo, proprio come le era stato insegnato da ventisette anni a quella parte.

All’altro capo della stanza, il proprietario della locanda presso cui Saffie aveva trovato ospitalità la osservava con grande deferenza, stringendo nervosamente fra le dita delle mani rovinate un informe cappello di lana. L’uomo in effetti trovava incredibile la fortuna che gli era piombata addosso da un momento all’altro: non solo il grande e ricchissimo Arthur Worthington aveva scelto proprio il suo piccolo locale sul porto come alloggio per la giovane moglie, ma quest’ultima era pure una graziosa quanto importante Duchessina!

“Vi ringrazio vivamente per avermi avvertito, signore” asserì cordialmente la ragazza, sfoggiando un luminoso sorriso di gentilezza “Scenderò immediatamente”.

Dopo un profondo inchino, l’uomo si ritirò dalla camera quietamente, considerando quanto bizzarro dovesse essere in effetti il mondo dei nobili: mai avrebbe immaginato fosse loro usanza quel genere di regalo. In ogni caso, pensò poi, non era affatto affar suo il capriccio di qualche Duca; non finché l'ammiraglio garantiva il lauto pagamento dell’affitto.

Dal canto suo, la figlia del nobile in questione aveva già cominciato a scendere i gradini della locanda in silenzio, sperando ardentemente di non trovare ad attenderla in salotto l’ennesimo baule ricco di pregiati vestiti all’ultima moda. Da quando aveva salutato la sua famiglia e si era messa in viaggio per raggiungere Bristol e il suo detestato coniuge, Cordelia aveva fatto in tempo a inviarle ben due ‘regali’ di nozze: abiti e accessori di qualsiasi foggia e colore, tutti fabbricati secondo i diktat della moda francese, strabordavano da valigie portate a fatica dai servi messi a disposizione di Saffie da Alastair Lynwood.

Il fatto che i doni dei genitori la trovassero puntualmente ad ogni tappa del suo itinerario, le fece considerare quanto ancora l’influenza e i mezzi di suo padre fossero senza alcun limite.

“Almeno una di noi sarà libera”

No, alla fine sono solo passata da una prigione all’altra.

Alzò gli occhi scuri con rassegnazione rabbiosa, giusto in tempo per incrociare lo sguardo più triste e spaventato che avesse mai visto in tutta la sua intera esistenza.

“Signora Worthington! Duchessina! È veramente un onore per noi incontrarvi di persona! Il Duca Vostro padre manda i suoi omaggi!” esclamò tutto d’un fiato quella che, ad una prima occhiata, pareva essere un’anziana e rigida istitutrice. Anche se, in effetti, era stata la persona a cui si accompagnava ad aver attirato l’attenzione della ragazza castana.

Saffie fece a malapena caso al tono lascivo e stridulo con cui quella sequela di frasi era stata pronunciata - come nemmeno si accorse di essere stata chiamata nuovamente con il nome del maledetto Ammiraglio - perché davanti a lei si ergeva in piedi una figura paffuta fatta di nervi e brividi, tremante come un bastardino in mezzo ad una bufera di neve.

Una ragazza che non doveva avere più di diciassette anni era impegnata ora a evadere il suo sguardo, posando gli occhi neri e nervosi su qualsiasi angolo di quel piccolo salotto fumoso. Un ciuffo ribelle di capelli corvini faceva capolino da una tenera cuffietta bianca; nuova di zecca come la divisa ricca di merletti che qualcuno doveva averla costretta ad indossare proprio in occasione di quella presentazione.

A Saffie si strinse immediatamente il cuore, nel vedere l’espressione sperduta che si palesava sul suo volto tondo e pallido, così bello quanto stanco.

È infine questo il vostro ultimo regalo, padre.

“Buongiorno” salutò quindi con dolcezza la Duchessina di Lynwood, come a voler far comprendere che non c'era alcun bisogno di aver paura di lei.

Uno sguardo timido scattò sul viso di Saffie, salvo poi tornare ad abbattersi subito al suolo; mentre, senza fosse in alcun modo richiesto o necessario, l’arcigna donna che aveva parlato poco prima decise di intervenire di nuovo, spingendo in avanti la ragazzina al suo fianco con fin troppa forza. “Saluta come si deve, disgrazia!” sbraitò, cambiando completamente tono di voce rispetto a come si era rivolta nei confronti della signora Worthington. “È questo il modo in cui ti presenti a chi d’ora in poi sarà la tua nuova padrona?!”

Dopo uno squittio sorpreso e un secondo di silenzio teso – in cui Saffie ne approfittò per lanciare un’occhiataccia all’anziana signora – la ragazza cominciò a parlare. “Bu-buongiorno, io mi-mi chiamo Keeran By-Byrne” balbettò, la voce esile che quasi usciva a fatica “Per-per me è un grande onore es-essere la vostra domestica pe-pe-personale”.

Keeran si inchinò poi meccanicamente, rossa in viso e provata come se fosse appena uscita da una vera e propria battaglia mortale: era d’altronde evidente come il suo problema di linguaggio fosse per lei fonte di grande vergogna e totale disistima.

Intenerita da tanto impegno, Saffie si prodigò in un bel sorriso incoraggiante e avrebbe anche detto la sua se, ancora una volta, la fastidiosa accompagnatrice di Keeran non avesse fatto sentire la voce stridula e saccente.

“Quante volte ti ho detto di non balbettare come una stupida!” sibilò, inacidita “Ringrazia di essere un’illegittima, sennò ti avrei già sbattuto per la strada come me…”

“Credo sia venuto il momento per voi di andarvene.”

La voce gelida di Saffie Worthington aveva interrotto a metà il monologo crudele della tutrice di Keeran Byrne che, insieme alla ragazzina in questione, si voltò nella sua direzione di botto, presa in contropiede dal tono usato dalla ragazza castana. Quest’ultima la fissava infatti con le mani appoggiate saldamente sui fianchi, lo sguardo scuro ora limpido di un sentimento molto simile al disgusto: pareva essersi trasformata all’improvviso, quella giovane nobile dall’aria mite, come se ora parlasse qualche terribile forza al suo posto.

Dopo qualche momento di giusto e sbalordito silenzio, in cui l’anziana serva sbatté le palpebre due o tre volte con aria sconvolta, la voce di Saffie si fece sentire di nuovo: “È tutto, direi. Portate a mio padre i miei più sentiti ringraziamenti, signora” asserì la ragazza con una vena di neanche troppo sottile ironia.

“Non posso che porgervi le mie più sentite scuse, mia signora” cercò di giustificarsi l’altra donna, inchinandosi leggermente. Saffie la vide allungare la sua mano rugosa verso la spalla di Keeran e aggiungere, con rancore: “Riporterò questa ragazzina indietro e, vedrete, ne troverò una più adatta al vostro eccellente rango.”

Due occhi neri si sollevarono su Saffie, terrorizzati e supplichevoli come quelli di un animale in punto di morte.

“Saffie Lynwood, voi non sarete mai nemmeno la metà, di quello che è stata Amandine.”

“Forse non ci siamo comprese chiaramente, signora mia” disse allora Saffie con una rabbia che, davvero, avrebbe ridotto alle lacrime più di un bambino. “Sto chiedendo a voi di uscire da qui, non alla signorina Byrne. La ragazza rimane con me, ovviamente.”

“Ma, signora…!”

“Devo ripetermi?” la interruppe l’altra, sfoderando un sorrisetto un poco inquietante “O devo forse informare il Duca di questa vostra insolente insistenza?”.

Uno strano gorgoglio sembrò uscire dalla gola dell’accusata che, se non altro, ebbe la decenza e il buon senso di togliersi dall’impiccio in cinque minuti scarsi: un veloce inchino di ringraziamento, nemmeno un’occhiata alla giovane che aveva allevato per più di dieci anni ed era già uscita dall’edificio a gambe in spalla.

Una volta rimaste sole, Saffie si voltò verso la sua nuova domestica personale e Keeran ebbe la sorpresa di vederle in viso un’espressione di incredibile gentilezza spuntata da chissà dove in un attimo.

“Il tuo nome è molto particolare, vero?” commentò la Duchessina come se niente fosse accaduto, puntandosi pensosamente il piccolo indice sotto il mento “Ci pensavo già da prima: non è inglese, giusto?”

“N-no” rispose la signorina Byrne, cauta. “Io so-sono irlandese, pa-padrona.”

Mi hanno sempre detto che fra essere stupida, illegittima e irlandese, quest’ultima è la peggiore delle tre.

Ora che l’ha scoperto, vorrà punirmi?

“Keeran.”

La voce lievemente severa di Saffie attirò la sua impaurita attenzione: la ragazza castana la guardava con gli occhi più dolci che avesse mai visto, così come un sorriso non le era parso più bello e rassicurante di quello sfoggiato ora dalla signora Worthington.

“Chiamami Saffie, te ne prego.”



§



20 Marzo 1730 – Nel presente

Un cielo limpido e azzurro, svuotato di qualsiasi nuvola, si apriva sereno sopra una piatta superficie scura e immensa, a malapena increspata da qualche rara onda.

Si trattava in effetti di un oceano che, da sempre, custodiva in silenzio misteri, sogni e speranze; il suo essere così enigmatico agli occhi di chi si soffermava ad osservarlo era reso ancora più palese dal contrasto con la luminosa cupola che lo sovrastava: il mare era un mondo oscuro e affascinante, che attirava l’uomo tanto quanto faceva la vastità di un cielo dove quasi si aveva l’impressione di poterci cascare dentro, se lo si fissava troppo a lungo con lo sguardo.

Sulla linea dell’orizzonte si incontravano questi due elementi all’apparenza fin troppo diversi; un luogo che si poteva innegabilmente vedere, ma in realtà inesistente.

Perché aria e mare mai si incontrano davvero.

La piccola mano appoggiata all’albero di prua e gli occhi chiusi su un viso dall’espressione finalmente rilassata, Saffie Worthington sembrava impegnata a godersi la brezza salmastra che arrivava pungente fino alle sue narici: un odore forte a cui ancora non era abituata del tutto, ma che comunque respirava a pieni polmoni. Le sue orecchie non udivano nulla al di là del vento che scuoteva le vele con dolcezza, o dello sciabordio dell’acqua contro lo scafo della nave; il rumore provocato dai marinai al lavoro alle sue spalle – come le loro voci – le risultava lontano e ovattato, come se stesse sognando.

Uno strano senso di pace sembrava propagarsi dal suo petto e volersi diffondere lentamente in tutto il corpo, donandole un momento di tranquillità che sentiva di non provare da ormai parecchi mesi.

La ragazza aprì pigramente gli occhi castani, stupendosi per l’ennesima volta dell’immensità che si andava ad aprire di fronte a lei, piccola formichina sperduta in un mastodontico universo. Le sue labbra rosee si incurvarono appena, trasformandosi in un sorriso leggermente divertito: non lo voleva ammettere nemmeno con sé stessa, ma non le dispiaceva affatto stare su quella nave, a contatto con il cielo e il mare. Anzi, poteva quasi dire di trovarlo davvero meraviglioso.

Ma tu non hai nessun diritto di pensare una cosa del genere, no?

“Io e Arthur ci sposeremo, Saffie! Sono talmente felice da sentirmi morire!”

Un piccolo sussulto la scosse all’improvviso e lei si strinse nelle spalle di scatto, preventivamente pronta a ricevere la visita del suo ormai inseparabile senso di colpa. Avrebbe potuto benissimo dargli un nome proprio, si trovò a considerare Saffie con triste ironia, visto che la inseguiva in ogni momento della sua giornata come un cagnolino fedele.

“Non devi pensarci, ma vivere per Amandine” si disse allora la ragazza castana, ripetendo probabilmente per la milionesima volta quello che era diventato il suo mantra personale, la frase magica inventata per scacciare la sua terribile sofferenza. Per allontanare l’ombra di qualsiasi colpa.

Voltò quindi il busto verso la poppa della nave, cercando di respirare profondamente. Il suo sguardo disperato scandagliò il ponte con attenzione, alla ricerca della rassicurante quanto morbida figura di Keeran Byrne, sua compagna di ventura e ora più fida alleata.

La giovane e timida domestica di Saffie aveva pure il compito di vera e propria dama di compagnia, quindi era suo dovere stare accanto alla moglie del freddo ammiraglio Worthington per la maggior parte della giornata, a meno che quest’ultima non ordinasse il contrario. E siccome per la ragazza castana ogni istante passato in solitudine equivaleva pensare alla morte di Amandine, le cure dell’irlandese erano non solo accettate di buon cuore, ma quasi necessarie.

“L-le na-navi mi fa-fanno paura, in-in realtà.”

Un sospirò comprensivo sfuggì alla Duchessina di Lynwood, mentre continuava a setacciare con gli occhi un ponte sopracoperta brulicante di tutto e di tutti, eccezion fatta per la signorina Keeran Byrne. “Povera creatura. Non so se riuscirò mai a convincerla ad una passeggiata insieme fino al fondo dell’Atlantic, visto il suo timore per questa nave” pensò Saffie rassegnata, rispondendo con un sorriso al saluto deferente di due marinai che si trovarono a passarle di fianco. “Mi piacerebbe molto aiutarla a frantumare il terribile guscio che la tiene prigioniera, ma non mi va affatto di costringerla.”

In fondo, la sua timidissima domestica personale le ricordava proprio un pulcino appena nato, che non sapeva bene come comportarsi nel mondo.

Quando la signora Worthington non era impegnata a leggere sul castello dell’Atlantic Stinger – la prua del vascello era infatti diventata il suo rifugio personale – lei e l’irlandese trascorrevano tutto il loro tempo nella lussuosa cabina che le era stata assegnata.

Ovviamente, l’ammiraglio alloggiava altrove: il capitano Inrving gli aveva infatti ceduto volentieri la sua altrettanto ricca stanza, sacrificandosi per la causa e decidendo così di dormire nelle cabine degli Ufficiali. A nessuno era parso strano che Arthur avesse fatto esplicita richiesta di esser sistemato lontano dalla moglie: le loro stanze erano comunque situate ai capi opposti dello stesso corridoio, a poppa della nave, eppure nessun membro dell’equipaggio ebbe di che domandare riguardo a quella decisione a dir poco bizzarra. E, se anche qualcuno avesse voluto saperne qualcosa di più, il solo pensiero di affrontare l’ira dell’ammiraglio bastava per mettere a tacere qualsiasi anima coraggiosa.

La cabina dedicata a Saffie era grande e comoda, corredata di un letto a baldacchino e di qualche mobile dalla fattura pregiata, mentre un’ampia vetrata dava modo di esplorare con lo sguardo ciò che la nave si lasciava alle spalle durante la sua traversata. Ormai accadeva sempre più spesso che Keeran e la sua padrona decidessero di sedersi sopra l’esotico tappeto posto davanti alla finestra e, con gli occhi persi sull’orizzonte lontano, gustassero una tazza di tè in santa pace.

Un altro sorrisetto scappò dalle labbra della ragazza castana, poiché ricordava perfettamente la faccia sconvolta e pallida dell’irlandese, quando per la prima volta l’aveva invitata a sedersi insieme a lei, dandole un ordine rivoluzionario.

“Ma-ma pa-padroncina! I-io non ho il di-diritto di stare a-accanto a voi!”

“Certo che ce l’hai: sei mia amica ora, Keeran.”

Il sorriso gioioso di Saffie si spense lentamente, su un viso dall’espressione nuovamente malinconica.

Già. Sei la mia unica amica, ormai.

Perché in quel quadro di viaggio tutto sommato felice, era l’intera cornice a crollare in pezzi.

Il motivo per cui si trovava lì era una cicatrice incancellabile nel suo animo cosciente, in fondo, del fatto che non avrebbe mai più messo piede in Inghilterra, o visto nessuna delle sue conoscenze. Di aver detto addio a Cordelia e Alastair.

L’uomo su cui riversava il disprezzo e la colpa della morte di sua sorella l’aveva infine trascinata in un inferno più profondo di quanto avrebbe potuto aspettarsi poiché, accettando di sposarla, aveva deliberatamente condannato entrambi all’eterna infelicità.

“…che ti avrei lasciata tornare a Londra, alla tua vita di sempre, come se niente fosse accaduto?”

Un’oscurità che non lasciava intravedere alcuna via di salvezza.

No, non era questo il modo in cui volevo essere libera.

Saffie serrò le mani in grembo con forza, visto che avevano cominciato a tremare leggermente, dalla tensione. Cercando di parere la fanciulla più serafica di tutta la nave – ed erano solo in due – la ragazza castana cominciò a percorrere lentamente la lunghezza del ponte sopracoperta, cieca di fronte alle occhiate segrete e maliziose dell’equipaggio. L’alto ponte di comando si faceva sempre più vicino e lei si trovò a considerare come - a parte l’incidente avvenuto con il nostromo Shaoul Brown più di due settimane prima – non ci fosse stata altra occasione di incontrare il suo tanto odiato marito.

“E non saremo più obbligati a occuparci l’uno dell’altra, né a frequentarci seriamente”

Arthur Worthington era rimasto fedele alla parola data, decidendo di rimanerle alla larga, e Saffie stessa era più che sollevata di questo fatto: nelle settimane trascorse, la ragazza non l’aveva visto che poche volte e, a dire la verità, si era trattato più che altro di incrociare il suo sguardo smeraldino da lontano.

Nulla nelle iridi incredibili dell’uomo sembrava essere mutato, come d’altronde niente era scomparso nemmeno dagli occhi di lei: la rabbia si era solamente trasformata in freddo distacco, gelida accettazione. Ma, pensava Saffie, il loro odio avrebbe di sicuro preso il sopravvento, se avessero provato a parlarsi di nuovo. Non che lo volesse, chiaro.

Le andava infatti benissimo continuare a vederlo sì e no due volte al giorno, per una manciata di secondi, mentre dal ponte di comando dominava con uno sguardo di puro acciaio i cinquecento uomini sotto di lui, incurante dei capelli scuri mossi con leggerezza dalla brezza marina.

E sarebbe andata alla perfezione una volta giunti a Kingston dove, a quanto aveva scoperto, un antico forte aspettava solo l’arrivo del famoso Ammiraglio Worthington, pronto a prendere il comando di una delle cittadine più ricche dei Caraibi Inglesi: se il detestato manichino avesse deciso di vivere nell’enorme caserma che ospitava l'esercito e il suo ufficio personale, la ragazza e Keeran avrebbero avuto la casa padronale tutta per loro.

Ciò stava a significare vederlo praticamente sparire dalla sua vita, se non per doverlo incontrare due o tre volte l’anno, a causa delle incombenze sociali a cui era richiesto partecipassero come marito e moglie.

“Chissà…potrebbe persino trovarsi una ricca amante in città e chiedermi in questo modo il divorzio” pensò Saffie, finalmente giunta di fronte al cassero della nave, dove due impettite guardie armate di moschetto e divisa rosso fuoco sorvegliavano le scalinate che conducevano al ponte di comando.

Non che i vostri sentimenti nei confronti di Amandine fossero così intensi, no?

“Saffie, perché non è arrivato?”

“Si-signora Saffie!”

Grazie al cielo, fu la voce fievole di Keeran a trarla in salvo da quel ricordo doloroso e traditore. Alla ragazza castana venne da considerare che, davvero, la presenza della giovane serva nelle sue giornate era una vera ancora di salvezza: non poté infatti trattenersi dal sorridere nuovamente, con una strana tenerezza nel cuore, nel vedere quella morbida figura avvicinarsi a lei tutta agitata.

Keeran le stava infatti venendo incontro con il solito incedere cauto e intimidito – da cane randagio – ma l’espressione di malcelata eccitazione stampata sul suo viso paffuto e arrossato tutto diceva di ciò che stava per accadere. Era arrivata quell’ora del giorno.

“Ho-ho portato i-i fogli!” esclamò ancora l’irlandese, alzando nella direzione di Saffie un plico stropicciato di carta con genuino entusiasmo. “E ho an-anche l’inchiostro!”

Soffocando un risolino divertito fra le piccole dita della mano, la ragazza presa in causa cercò di darsi un finto contegno da rigida istitutrice, lo stesso da lei tenuto nei confronti dei suoi ricchi ex-alunni. Si schiarì quindi la voce con forza e commentò, annuendo soddisfatta: “Molto bene, mia cara. Direi che possiamo dare inizio alla lezione di oggi.”

E, con orrore della domestica, iniziò ad avviarsi a poca distanza dal parapetto della nave, appoggiando il materiale per scrivere sopra quello che era a tutti gli effetti un barile sigillato, di cui nessuno pareva servirsi da parecchio tempo. “Ma-ma non do-dovremmo a-a-andare de-dentro, si-signora?” osò infine chiedere Keeran, balbettando più del solito, segno di uno stato d’animo improvvisamente poco sereno: non le piaceva affatto stare sul ponte dell’Atlantic Stinger, con così tanta gente che poteva guardarla.

“Sei come una grossa oca che vaga senza padrone: né bella, né intelligente.”

Una mano si protese nella sua direzione con delicatezza, nel medesimo istante in cui il suo stesso corpo si irrigidiva di colpo, terrorizzato. Keeran alzò gli occhi neri, sgranati, e mise a fuoco il sorriso sereno di Saffie.

“Andrà tutto bene” le disse la ragazza castana, in tono tranquillizzante. “Puoi riuscire in tutto ciò che vuoi e, fra le altre cose, ci sono io qui con te.”

Posso farcela per davvero?

“La tua stessa nascita è una disgrazia. A cosa dovrebbe mai servirti imparare a leggere?”

Saffie ebbe la soddisfazione di vedere il viso dell’irlandese illuminarsi di gratitudine e gioia, mentre prendeva coraggio e si accostava a lei, davanti al barile su cui avrebbero dovuto studiare. “È una ragazza veramente deliziosa” considerò la Duchessina di Lynwood infine, lanciando un’occhiata alla stupenda chioma corvina di colei che aveva al fianco. “Che vergogna. Come hanno potuto ridurla in questo stato di eterna paura?”

D’altronde, sull’Atlantic Stinger erano sì in molti a guardare la diciassettenne Keeran Byrne, ma la stessa ragazza non si poteva rendere conto che erano ben altre, le ragioni di quegli sguardi.

“Ri-ricominciamo da qui?” domandò quest’ultima, ora ignara dell’agitazione che si stava animando alle spalle sue e di Saffie Worthington. “A-avevo appena fi-finito di scri-scrivere Il cielo oggi è azzurro, mentre il mare è blu.”

La ragazza a cui quella domanda era stata posta decise di non rispondere subito. Saffie si guardò intorno e sul suo volto si aprì un mezzo ghigno, nel notare come i marinai al lavoro intorno a loro paressero improvvisamente impegnati nell’attività di osservare a bocca aperta la sua domestica personale intenta a scribacchiare con solerte attenzione, la mano stretta attorno al pennino piumato di cui la Duchessina le aveva fatto generosamente dono. Di certo, non doveva essere una scena a cui assistevano tutti i giorni.

Saffie sollevò poi gli occhi castani sul ponte di comando sgombro, per fortuna, di qualsiasi sagoma potesse anche solo lontanamente assomigliare ad Arthur Worthington. Con tutta probabilità, l’uomo doveva essersi rinchiuso nell’ufficio del capitano Inrving, luogo in cui passava il tempo quando non era impegnato a terrorizzare la povera gente sopracoperta.

Lui potrebbe rappresentare un problema, se venisse a sapere di questa lezione all'aperto.

“Chissà in quali delle tue inutili sciocchezze dovevi essere impegnata, non è vero?”

Eppure, la sola idea di mettere l’odiato marito in difficoltà, riempiva la ragazza di crudele aspettativa. Sperava lui la lasciasse in pace ma, di certo, non si sarebbe ritirata di fronte ad alcuna battaglia.



§



Stranamente, Keeran Byrne non era l’unica persona a prendere lezioni dalla graziosa consorte dell’implacabile ammiraglio Worthington. Dopo un prudente corteggiamento durato almeno due settimane, costituito di vaghi sguardi e apparentemente casuali camminate nelle vicinanze dei luoghi in cui Saffie soleva leggere, un altro essere umano aveva espresso la volontà di imparare a scrivere almeno il proprio nome.

Malgrado l’iniziale timore nei confronti della giovane donna, il mozzo difeso dalla ragazza all’inizio della loro traversata si era infatti avvicinato a lei e, arrossendo a vista d’occhio, le aveva chiesto se poteva insegnargli come si facevano le lettere dell’alfabeto.

Con una improvvisa allegria nel cuore e un sorriso a trentadue denti, l'interpellata si era detta più che disposta ad aiutarlo nell’ardua impresa.

Anche quel giorno, quindi, il diciottenne Douglas Jackson si era fatto vedere sul ponte di poppa dove Keeran e la sua padroncina stavano per l’appunto studiando: il ragazzo salutò le due donne con un cortese quanto intimidito cenno della testa bionda e, indugiando con gli occhi azzurri un secondo di più sull’irlandese, disse di avere dieci minuti di pausa.

“Unitevi pure a noi, allora” lo invitò Saffie, sorridendogli con gentilezza “Immagino non abbiate avuto molto tempo per esercitarvi, signor Jackson”.

Douglas si appoggiò al parapetto con i gomiti, l’aria effettivamente esausta. La signora Worthington non poté fare a meno di notare quanto la sua figura alta risultasse magra e deperita, come se il povero mozzo non mangiasse, né riposasse da fin troppi giorni.

“Sto cercando di scrivere nei momenti morti, o durante le ore notturne” spiegò infine il ragazzo, addentando con aria noncurante una mela comparsa magicamente dalle tasche dei suoi larghi calzoni. “Ma desidero a qualsiasi costo imparare a firmare con il mio nome completo, e non essere più obbligato a mettere una croce tutta storta sui documenti”.

“È un nobile intento, il vostro.”

Douglas annuì, grato delle parole piene di rispetto della signora Worthington che, parola sua, era la più strana creatura avesse mai visto: si chiese se tutte le giovani di sangue nobile fossero di buon cuore come lei, pure se già sapeva di trovarsi di fronte alla classica eccezione che confermava la regola. Senza rimuginarci troppo sopra, il ragazzo tirò fuori dal nulla altre due mele verdi e succose; dopo averle strofinate alla meno peggio contro la sua camicia stropicciata, le porse verso Saffie e Keeran con una smorfia d’imbarazzo. “Volete favorire, signorine? Sappiate, sono veramente squisite.”

Dopo aver preso la sua mela, la Duchessina di Lynwood si divertì moltissimo a spostare lo sguardo dal rossore violento comparso all’improvviso sulle guance del signor Jackson, alla figura improvvisamente ansiosa della sua domestica personale, giratasi di scatto nella sua direzione come se quell’offerta fosse stata questione di vita o di morte. “Prendila pure, se vuoi” acconsentì Saffie di buon grado, ammiccando verso l'imbarazzato ragazzo biondo, che ancora attendeva con la mano alzata.

Arrossendo come un peperone lasciato al sole, Keeran si decise infine ad allungare il braccio verso il signor Jackson e a mormorare un timido ringraziamento a testa bassa, ma senza alcun balbettamento.

A quanto pareva, si trovò a considerare la ragazza castana con uno strano sorrisetto, i due non riuscivano a guardarsi per più di due secondi consecutivi senza rischiare di diventare dello stesso colore di un’aragosta arrostita. “Quindi sono io ad essere diventata il terzo incomodo, ora?” si prese in giro Saffie, distogliendo lo sguardo dalla scena e puntandolo sui fogli dalla grafia orribile abbandonati sopra il barile.

Come uno squarcio inaspettato della realtà, le figure abbracciate di Amandine e Arthur Worthington galleggiarono crudeli davanti ai suoi occhi. D’altronde, ricordava perfettamente la prima volta in cui aveva sorpreso l’ammiraglio e sua sorella nel grande parco della tenuta di famiglia, senza che loro se ne rendessero nemmeno conto.

L’istante in cui hai pensato che si amassero per davvero.

Un disagio sgradevole si fece sentire dentro di lei, e la ragazza cercò in tutti i modi di reprimerlo.

L’ultimo momento in cui hai sofferto per le attenzioni dell’uomo che ora detesti a morte.

Senza accorgersene, Saffie portò la sua piccola mano a contatto con il tessuto della sua semplice veste da giorno, sopra un cuore traditore che aveva cominciato a battere furiosamente.

Non è mai esistita, né esisterà mai, una persona del genere.

Esiste solo l’uomo che ha ucciso tua sorella.

“Bene, bene!” fece una voce roboante e selvaggia, comparsa da chissà dove. “Guarda un po’ chi ha deciso di meritarsi una punizione.”

Tre teste si votarono contemporaneamente verso colui che aveva parlato: la figura tozza e paonazza di Shaoul Brown si ergeva in tutta la sua bassezza davanti a loro, le mani grasse e rovinate chiuse a pugno sui larghi fianchi, gli occhietti liquidi pieni di infida soddisfazione che non si staccavano da un Douglas Jackson ora in preda a violenti brividi di terrore.

“Signore! Non ho fatto nulla di male!” scattò sull’attenti quest’ultimo, cercando di non far caso ai corpulenti uomini con cui il nostromo s’accompagnava, ritti in piedi alle sue spalle. “Sto solo godendo dei miei dieci minuti di riposo!”

“Quelle mele…dove le hai prese?” continuò imperterrito il signor Brown, come se Douglas non avesse parlato per davvero “Mozzo, sai bene che uno della tua risma non è autorizzato a prenderle.”

“È stato il cuoco a donarmele” rispose subito il giovane ragazzo, punto sul vivo. Si portò coraggiosamente davanti al naso di Shaoul, nascondendogli così alla vista Keeran e la mela che quest’ultima stringeva fra le dita tremanti “D’altronde, voi sapete bene di non potervi permettere un sottoposto della mia risma ridotto alla fame”.

Il silenzio che cadde fra i presenti si fece di secondo in secondo più pesante, al passo con il rossore furioso apparso sul viso di un certo nostromo, pronto a scoppiare da un momento all’altro: il fatto che la nullità di fronte a lui si fosse permessa di ribattere a tono – alla presenza della signora Worthington, fra l’altro – lo riempì di un’enorme e terribile vergogna.

Dal canto loro, Saffie e Keeran osservavano la scena pietrificate e mute, sperando ardentemente tutto potesse risolversi al meglio e senza l’intervento di qualche Ufficiale di guardia (o che venisse di conseguenza attirata l’attenzione dell’Ammiraglio, per quanto concerneva la Duchessina di Lynwood). Fu il sibilò irato del signor Brown a scuoterle di botto, colpendole come una doccia d’acqua ghiacciata.

“Bugiardo.”

Shaoul fece cenno ai due marinai dietro di lui e, in un battito di ciglia, la figura scarna di Douglas già veniva trascinata via, spinta di peso in direzione dell’albero maestro, suscitando così l’attenzione degli altri uomini al lavoro. “Dovrei farti mettere ai ferri, per la tua insolenza” asserì il nostromo, tornando al suo tono di gretta superiorità. “Ma penso che, per questa volta, cinque frustate saranno sufficienti a ricordarti il tuo posto.”

Come risvegliata da un incantesimo, Saffie sgranò tanto d’occhi alle parole dell’uomo e, in due passi risoluti, lo raggiunse in tempo per poter protestare davanti a quella che non le pareva altro se non una cattiveria gratuita. “Signor Brown!” lo chiamò, il tono vibrante di spaventato allarme “Non è necessario tutto questo! Lasciategli almeno la possibilità di spiegarsi!”

“Non c’è nulla che debba essere chiarito, signora Worthington. Questa gente comprende un unico linguaggio.”

Attorno a loro si era ormai formato un capannello di persone in trepidante attesa, mentre la ragazza aveva fatto a malapena caso ad una pallidissima Keeran che le si metteva al fianco, pronta a sostenerla: questo perché, nella folla, i suoi occhi colsero immediatamente la presenza di almeno tre eleganti sottotenenti intenzionati a non intervenire in alcuna maniera.

Tutto questo è disumano.

La fronte premuta contro il legno dell’albero maestro e gli occhi azzurri ben chiusi fra le palpebre, Douglas Jackson si lasciò passivamente legare e, con silenziosa rassegnazione, non fiatò nemmeno quando gli strapparono di dosso la vecchia camicia con un unico violento gesto, esponendo una schiena sudata e già percorsa da una fitta rete di cicatrici.

“Dio mio” sussurrò Keeran con le lacrime agli occhi, portando le mani a coprirsi la bocca tremante.

Con un sentimento simile nel cuore, Saffie si volse di nuovo verso il nostromo ed esclamò, implorante: “Abbiate pietà, ve ne prego! È solo un ragazzo!”

Shaoul Brown non si degnò neanche di voltarsi nella sua direzione, poiché il suo crudele interesse era tutto per l’inerme giovane a qualche metro da lui: il mozzo avrebbe imparato a chinare la testa al suo passaggio, come gli era dovuto. Ogni membro dell’equipaggio, quel giorno, avrebbe imparato una vera lezione.

“Un ragazzo avvezzo al vocabolario della sferza, vedo” commentò infine ad alta voce, facendosi così sentire dai presenti “È ora che ascolti un altro po’delle sue parole”.

Con una fitta di panico nello stomaco, la Duchessina di Lynwood lo vide stringere fra le mani un terribile oggetto che poteva benissimo essere uscito da un romanzo; uno strumento di tortura che lei mai aveva visto realmente. Provò a fare un altro passo disperato verso il nostromo, ma venne inchiodata sul posto da una presa ferma, seppur gentile: voltandosi, ebbe modo di specchiarsi negli occhi grigi del tenente incontrato a prua dell’Atlantic Stinger più di due settimane prima.

“Mi dispiace trattenervi con queste maniere, signora Worthington; ma nessuno può mettere in discussione le leggi dell’Impero” asserì l'ultimo arrivato, facendole un cenno riverente con la testa imparruccata.

“È una crudeltà bella e buona, non una legge!” si lasciò sfuggire la ragazza in risposta, girando poi la testa castana verso l’alto albero maestro, senza lasciare all’altro alcuna possibilità di controbattere. La ragazza sentiva di avere il cuore in fiamme, tanto picchiava contro la cassa toracica da fare male; ma, si disse, cosa poteva effettivamente fare?

Così, in un lasso di tempo infinito e al contempo breve, le cinque frustate giunsero al termine nel silenzio più assoluto, lasciando un povero Douglas quasi esanime, grondante di lacrime e sangue. Sul suo viso faceva la sua comparsa un pallore mortale eppure, con grande valore, il ragazzo non si era mai lasciato sfuggire un lamento dalle labbra livide.

Attorno a lui, la folla di marinai si comportava come se quell’avvenimento fosse cosa da tutti i giorni mentre Saffie, con gambe tremolanti, sosteneva per un braccio una Keeran Byrne sull’orlo dello svenimento. Durante la punizione, le due non erano state capaci di staccare lo sguardo dai tagli sanguinanti che si aprivano frustata dopo frustata sulla schiena dell’ansimante signor Jackson.

Lieta almeno che tutto fosse concluso, la ragazza castana lanciò un’occhiata fugace a Shaoul Brown e sbiancò in viso, poiché lo vide fare il gesto di alzare nuovamente la sferza, un sorriso malvagio che s’apriva su un’espressione da fanatico impazzito.

Non ha intenzione di fermarsi.

Il cuore di Saffie smise di battere in meno di un secondo mentre, senza nemmeno darsene conto, le sue gambe già si muovevano da sole, verso il centro della scena.

Tutto questo è disumano.

“Voi non sapete un bel niente, signorina Lynwood.”

In quel frangente, era lei – nel suo ruolo di giovane donna nobile e moglie di Worthington – l’unica a poter fermare la mano del folle nostromo. No, forse non si era trattato nemmeno di questo. Forse, si era mossa solo perché voleva salvarlo.

Fu un attimo: Saffie corse fra Douglas e il signor Brown, mettendosi davanti a quest'ultimo con le braccia aperte, puntando i suoi occhi scuri e spaventati sul tozzo uomo pronto a tirare l’ennesima sferzata, la mano che stringeva la frusta già a mezz’aria.

Se fossi almeno la metà di quello che è tua sorella, io e tua madre potremmo morire felici.”

Non impari mai qual è il tuo posto.

Non poteva in alcun modo evitare di essere colpita, ormai. Reagendo d’istinto, il piccolo corpo di Saffie si rannicchiò su sé stesso, in cerca di protezione, mentre la ragazza strizzava gli occhi con forza per non guardare, eppure pronta a sentire il dolore arrivare da un momento all’altro.

Le sue orecchie udirono solamente l’urlo terrorizzato di Keeran e lo schiocco violento della frusta. Poi più nulla, solo silenzio.

Non mi ha colpito?

“Ammiraglio!”

Al suono di quell’unica parola, Saffie riaprì gli occhi di scatto e, voltandosi nella direzione in cui avrebbe fino a qualche secondo prima trovato il nostromo, non riuscì a vedere altro se non il colore blu.

“Anche io ti odio con tutto il mio animo, ragazzina”.

Arthur Worthington era in piedi davanti a lei, girato di spalle, il lungo cappotto elegante che ancora si muoveva a causa del suo intervento tempestivo, atto a schermarla dalla terribile sferza di Shaoul Brown.

Con il cuore per la seconda volta in tumulto e un groviglio intricato di emozioni contrastanti bloccato nello stomaco, la ragazza castana spostò gli occhi sbalorditi sul braccio alzato del marito perché, davvero bizzarro, qualcosa stava gocciolando sul pavimento della nave.

La manica dell'importante divisa dell’ammiraglio era infatti strappata in due, zuppa di un sangue che ne alterava la tonalità blu scuro: come se si fosse trattato di una cosa da nulla, Arthur aveva bloccato il colpo indirizzato alla Duchessina di Lynwood.

Questa dolorosa consapevolezza cadde addosso alla ragazza, pesante e fulminea.

Perché?

“Esigo delle spiegazioni” sillabò Worthington, di cui lei non poteva vedere l’espressione del volto, pure se le bastava e avanzava il suo tono di voce omicida per intuire quanto fosse a dir poco furioso. “E le esigo adesso.”

“Vo-vostra moglie si è messa in mezzo, Ammiraglio!” squittì subito il nostromo Brown, trasformatosi all’improvviso in un topino riverente e impaurito “Stavo solamente punendo secondo la legge questo piccolo sconsiderato!”

“È la verità?” chiese Arthur, glaciale. Sembrava parlasse rivolto al vuoto, ma Saffie ben sapeva che si stava rivolgendo a lei e ne ebbe la conferma quando udì le successive parole dell’uomo: “Vi siete messa in mezzo?”

“Dovremo mettere a tacere anche questa tua seccante abitudine.”

L’ammiraglio Worthington abbassò il braccio ferito lungo il fianco, senza dare alcun cenno di volersi voltare nella direzione della ragazza. Così, Saffie si ritrovò a fissare le onde ribelli della sua chioma scura e a dire, dopo aver preso coraggio: “Se…se l’ho fatto, è stato solo a causa del signor Brown, che stava andando oltre! Voleva infierire su questo povero ragazzo!”

Abbassò poi lo sguardo castano sulla mano destra di Arthur e il suo cuore si fece di piombo, nel vedere il sangue scuro dell’uomo colare lentamente dalle sue dita.

Perché l’hai fatto, se mi odi quanto ti odio io?

Qualcuno nella folla parlò, forse un giovane ufficiale, ma la Duchessina di Lynwood lo udì a malapena, tanto si sentiva turbata da un opprimente sentimento per lei difficile da decifrare.

Esiste solo l’uomo che ha sacrificato tua sorella alla sua ambizione.

“Signore, vostra moglie ha ragione: Douglas Jackson aveva già scontato le sue cinque sferzante di punizione!”

Arthur Worthington si girò finalmente verso Saffie e due taglienti occhi verdi furono su di lei in un attimo. “Slegate quel ragazzo” ordinò l’uomo freddamente, senza però distogliere lo sguardo dalla piccola figura tremante della Duchessina “Che qualcuno gli presti le prime cure”.

James Chapman, il borioso tenente che poco prima aveva trattenuto la ragazza, ebbe l’ardire di farsi avanti e asserire, con genuina ansia: “Ma Ammiraglio! Siete ferito seriamente! Dovreste essere voi, piuttosto, il primo ad essere ricevuto dal medico di bordo!”

“Quello a cui dovreste prestare attenzione tutti voi, invece, è non giocare con la mia pazienza: se non erro, sono parecchi i compiti che vi attendono” ribatté acidamente Arthur, tornando a ignorare colei che, alle sue spalle, ancora lo fissava immobile come una statua di sale. “Non dovete di certo venire a dare ordini a me.”

“Giusto Cielo, ora credo di capire il motivo per cui venite chiamato Generale Implacabile, caro Arthur.”

La voce di divertita leggerezza che aveva parlato apparteneva a un avvenente giovane uomo, dalla corporatura esile ma molto alta, che lo faceva assomigliare ad uno spillo vivente. Dietro un paio di sottilissimi occhialetti da lettura dorati, brillava uno sguardo di vivace intelligenza.

“Dottore” sibilò l’ammiraglio con rabbia, le labbra sottili piegate in una smorfia sprezzante, a denotare il pressoché inesistente entusiasmo per la comparsa del medico di bordo. Arthur chinò appena il capo bruno in direzione del sofferente Douglas Jackson e aggiunse, stoico: “Già che siete qui, rendetevi utile nel rimettere in piedi il ragazzino. Non voglio alcun peso morto su questa nave”.

In tutto questo frangente, la Duchessina di Lynwood pareva essersi trasformata in una gorgone di pietra: attorno a lei, il capannello di marinai si era disperso come un banco di sardine spaventate di fronte alle due parole in croce di Worthington, che ora lei guardava come se non comprendesse bene chi fosse. Eppure bastò l’ultima frase dell’uomo a svegliarla di botto, quasi qualcuno le avesse schioccato le dita davanti agli occhi.

“…poiché non esiste alcuna pietà per chi incrocia il suo cammino!”

Saffie si alzò in piedi lentamente, aiutata da una solerte Keeran, corsa al suo fianco non appena la folla aveva cominciato a diradarsi. “Sta-state bene, si-signora?”

“Forse mi tremano un poco le gambe, ma sono del tutto illesa, mia cara.”

Come posso stare bene, se lui continua a comportarsi in modi per me impossibili da capire?

Il medico di bordo, che rispondeva al nome di Benjamin Rochester, lanciò uno sguardo pieno di compassione su Douglas, finalmente libero da alcuna fune e malamente tenuto in piedi dalle braccia di due forzuti marinai. “Mi occuperò di lui nell’immediato, ma non prima di aver dato un’occhiata al vostro braccio” fece dunque il dottore, con un mezzo sorriso “Sarebbe una tragedia per la Corona perdere uno dei più abili maestri di spada dell’Impero.”

“Sai sorella mia, Arthur sembra capace di eccellere in qualsiasi cosa!”

Saffie si voltò di scatto verso l’ammiraglio, colta dalla sorpresa e fulminata da un sentimento divorante che si rifiutò di riconoscere come senso di colpa. Già così, si disse lei, era abbastanza difficile – se non impossibile – fare chiarezza sul groviglio di sentimenti sgradevoli che in quel momento le stava crescendo dentro: lui l’aveva aiutata ma, per qualche motivo, la ragazza sentì di odiarlo per questo.

Pare a tutti così dannatamente perfetto. Abbagliante.

“…voi non sarete mai nemmeno la metà di quello che è stata Amandine.”

Le sue piccole dita tremanti si aggrappano con forza alle pieghe della sua gonna elegante ormai stropicciata.

“Sprofonderai nell’infelicità.”

Perché io lo so bene, chi sei davvero.

Non fece in tempo a pensare ad altro che, di nuovo, lo sguardo penetrante e serio di Worthington le fu addosso. Arthur sembrava essersi ricordato all’improvviso della presenza della moglie a pochi passi da lui e, guardandola come se fosse stata un soprammobile fuori posto, ordinò freddamente: “Tenente Chapman, scortate queste due donne nella loro cabina: penso la Duchessina abbia già dato abbastanza spettacolo, per oggi”.

Un rigurgito d’ira risalì veloce la gola della suddetta nobile ragazza che, ovviamente, non riuscì a trattenersi dal ribattere, velenosa come un serpente a sonagli: “Le due dame in questione sanno benissimo dove alloggiano e, di sicuro, non hanno bisogno di una scorta. Andremo da sole, grazie”. E, dopo aver incenerito con due grandi occhi di fuoco un impassibile ammiraglio, Saffie voltò la testa castana con sdegno. “Vieni, Keeran.”

Dopo un’occhiata spaventata a Worthington, James Chapman si lanciò all’inseguimento delle due giovani, lasciando il medico e Arthur soli a osservare la sagoma minuta di Saffie allontanarsi a furibondo passo di marcia.

“Davvero notevole” commentò dopo poco Benjamin, con interesse. “Tutto questo e non ha nemmeno dovuto respirare dei sali.”

“Di notevole, c’è solo il suo essere una fastidiosa spina nel fianco” commentò di rimando l’uomo, trattenendo a malapena una vena di rancore nel tono di voce forzatamente controllato. Lasciò che Benjamin si chinasse ad esaminare il suo braccio ferito e aggiunse, come rivolto al vuoto: “Non dovrebbe nemmeno esserci lei, qui”.

Da sopra gli occhiali, il signor Rochester lanciò uno sguardo di fugace severità all’ammiraglio. “Potete almeno fare finta che vi importi del benessere di vostra moglie davanti all’equipaggio e al capitano Inrving?”

“… lei ti aspettava, ma è stata la tua ambizione ad ucciderla.”

“Ho già fatto abbastanza, mi pare.”

Benjamin continuò a fissare il volto imperscrutabile di Arthur per due altri pensosi secondi, prima di arrendersi e dire, abbassando nuovamente gli occhi sul taglio dell’uomo: “Questa lascerà un segno. Sembra voi non siate mai stanco di riempirvi di cicatrici”.

Uno strano sudore freddo cominciò a imperlare la fronte di Worthington, senza che lui potesse averne alcun controllo.

“Sto per farti tanto di quel male che vorrai solo crepare, marmocchio.”

I suoi occhi scattarono, taglienti, sull’unica persona rimasta in piedi di fronte a loro: il nostromo Shaoul Brown teneva ancora in mano la frusta coperta di sangue ed aveva la stessa espressione di un condannato a morte.



§



“Non si ripeterà mai più un incidente di questo genere” sillabò Arthur Worthington con l’usuale contegno impassibile, dedicato esclusivamente ai suoi sottoposti. “Farò finta di credere voi abbiate perso il conto delle frustate, signor Brown. Ed è ciò che è accaduto, non siete d’accordo?”

L’uomo a cui l’ammiraglio si stava rivolgendo era niente di meno che l’irascibile nostromo dell’Atlantic Stinger, ormai incarnazione degli incubi del povero Douglas Jackson: il tozzo Shaoul Brown era stato convocato nemmeno mezz’ora prima nello studio del capitano Inrving, ora convertito a ufficio temporaneo di Worthington; e, per tutto il tempo, quest’ultimo aveva parlato con gelida calma di come sarebbe stato davvero un peccato per la Marina Britannica perdere un marinaio dall’esperienza decennale, a causa di un irrilevante fraintendimento.

“Il cuoco di bordo ha confermato la versione del giovane Jackson: il ragazzo non ha rubato alcuna razione dalle cucine, ma si trattava di un dono atto a impedire che uno dei nostri uomini morisse di fame” aveva infatti spiegato Arthur Worthington con noncuranza, nascondendo il viso dietro le mani intrecciate. “Ringraziate di essere sotto il comando di Henry Inrving da così tanti anni, poiché in altre circostanze non sarei affatto passato sopra al vostro vergognoso abuso di potere.”

L’ammiraglio era parso per tutta la durata del colloquio perfettamente calmo e controllato ma, non c’era alcun dubbio, nei suoi occhi verdi era presente un disgusto che riempì il nostromo di grande vergogna.

“Siete riccamente stipendiato per essere responsabile dei vostri uomini, vedete di non dimenticarvene ancora. Sappiate pure che, se dovesse accadere, vi farò frustare fino a quando non imparerete la lezione.”

Ogni membro dell’equipaggio, quel giorno, avrebbe imparato una vera lezione.

E allora l’attempato nostromo non aveva potuto fare altro se non chinare la testa grigiastra, arrendendosi di fronte alle terribili parole dell'ufficiale più temuto di Inghilterra: ora comprendeva chiaramente il motivo per il quale Arthur Worthington era chiamato l’Implacabile, malgrado la sua giovane età e l’atteggiamento all’apparenza di elegante compostezza. Nello sguardo e nelle maniere dell’ammiraglio si celava infatti una determinazione d’acciaio, che non conosceva opposizioni di sorta.

Come un pericoloso fuoco che sembra covare sotto un abbondante strato di cenere.

Il signor Brown ne ebbe la conferma quando fu il momento di venire freddamente congedato, senza che fossero sprecati troppi preamboli. Una volta raggiunta la porta della stanza, si voltò con discrezione, lanciando uno sguardo timoroso alla persona seduta dietro la spoglia scrivania del capitano Inrving: l’ammiraglio aveva rilassato le ampie spalle contro lo schienale della sedia, come se fosse stato colto da un’improvvisa stanchezza; eppure, lo sguardo con cui continuava a fissarlo andarsene faceva letteralmente venire i brividi.

“Non…non vi darò più modo di dubitare della mia integrità, ammiraglio” si congedò il nostromo, cercando di dominare l'incredibile senso di soggezione nato dentro al suo animo impaurito. “Vi prego di perdonarmi, per aver ferito la Vostra onorevole persona e, soprattutto, per aver messo in pericolo la vita della signora Worthington.”

“…che stava andando oltre! Voleva infierire su questo povero ragazzo!”

Una dolorosa spina nel fianco.

Lo sguardo di Arthur si fece limpido di chiaro disprezzo, tagliente come una lama di rasoio.

“Tornate ai vostri doveri” ordinò, glaciale.

L’uomo a cui quella frase era stata rivolta non se lo fece ripetere di certo due volte e, senza voltarsi indietro, si chiuse la porta alle spalle, sparendo in corridoio e dalla vista dell’Implacabile.

Arthur Worthington aspettò di udire i passi pesanti del nostromo svanire in lontananza, prima di crollare a pezzi.

Si chinò sul tavolo della scrivania e, appoggiando la fronte abbronzata contro il legno fresco, lasciò alle onde dei suoi capelli scuri il compito di nascondergli un’espressione improvvisamente tormentata e sofferente.

No, non aveva alcun tipo di controllo sulla parte di sé che detestava di più.

Un sudore ghiacciato e mortale lo colse nel medesimo istante in cui i suoi polmoni sembrarono chiudersi dentro alla cassa toracica, lasciandolo a boccheggiare per avere anche solo un briciolo d’aria. Come sempre accadeva in quei casi, l’uomo si odiò per la paura opprimente che sembrava volerlo schiacciare senza alcuna pietà e, con un gesto meccanico, portò le dita tremanti sul fianco destro, dove avrebbe trovato la sua vergognosa cicatrice.

“Sto per farti tanto di quel male che vorrai solo crepare, marmocchio.”

Dimenticalo. Dimentica tutto.

Delle immagini confuse e terribili premevano le une contro le altre nella sua testa, rischiando di farla esplodere. Una frusta nero pece schioccava e sibilava per aria. Una figura tremante urlava e urlava, senza mai smetterla. Un bambino tanto gracile che no, non ricordava di essere lui, si metteva in mezzo a braccia aperte. È l’ora della punizione.

Arthur non si accorse nemmeno di stare tremando mentre, ancora, cercava disperatamente di immettere aria nei suoi polmoni impotenti. Si raggomitolò su sé stesso, stringendosi nei fianchi e affossando la chioma scura contro le ginocchia, cercando riparo. Nascondendosi.

“Puoi nasconderti finché vuoi ma, non lo sai, che tu sai solo fare del male?”

“Va tutto bene. Va tutto bene. Lei sta bene” mormorò più e più volte, cercando di calmare quel suo assurdo stato di panico che tanto odiava. “Sono arrivato in tempo, sta bene.”

Sì, avrebbe dovuto sapere molto bene di non aver alcun tipo di controllo, quando arrivava la paura.

L’immagine di Amandine si fece strada fra le altre, tanto nitida quanto dolorosa: la bellissima ragazza lo guardava immobile e muta, gli occhi turchesi puntati su di lui con evidente disprezzo. Era questo che volevi?

Lo sai già, di avermi uccisa tu.

E ora la tua ambizione ha imprigionato mia sorella, che tu giuri di odiare.

Il senso di colpa calò su di lui, immediato e letale. “Non è vero” si disse, bisbigliando a bassa voce “Quella donna ti ha abbandonata, pure se doveva occuparsi di te.”

Dal buio dei suoi ricordi, il volto bianco di Amandine si aprì in un sorriso di scetticismo crudele.

Meglio fare del male agli altri e proteggere sé stessi, no?




Angolo dell’autrice:



Volevo a tutti i costi pubblicare prima della fine di Agosto e, Santo Cielo, ce l’ho fatta! :D

Beh, intanto Buonasera! Come dice il proverbio, chi non muore si rivede: ho scritto questo quinto capitolo in un mese circa e, non lo nego, mi ha impiegato parecchio tempo; tra buttare giù la struttura, trascrivere il tutto a computer (spesso scrivo su carta, ebbene sì) e revisionare il risultato, non ho proprio potuto velocizzare la pubblicazione! (T.T)

In generale, ho pure dovuto tagliare due scene che convergeranno nella sesta parte della storia, visto che sarebbe diventato un capitolo troppo lungo! Un po’mi è dispiaciuto, poiché era presente più coinvolgimento tra Saffie e Arthur, ma in ogni caso lo potrete leggere più avanti. :D

Infine, a me piacciono molto i personaggi e i sentimenti complicati…e i due protagonisti lo sono parecchio! È difficile, ma sto cercando di rendere al meglio il conflitto di Saffie ed Arthur che, disprezzo a parte, sono in tutto e per tutto esseri umani, con il loro bel carico di debolezze.

Oh, non vedo l’ora di andare avanti a scrivere per vedere come potranno interagire durante questo viaggio!

*risata maligna di Sweet Pink in sottofondo*

Sono riuscita finalmente a introdurre al meglio qualcuno dei personaggi secondari! Onestamente, non vedevo l’ora di poter scrivere di Keeran, e di farla muovere nel racconto.

Ringrazio chi mi legge per essere arrivato fin qui e per la pazienza nell’aspettare i miei aggiornamenti! Spero ne valga la pena, perché io mi ci sto affezionando un sacco ad Away with you, sapete?

Erano nove anni che non scrivevo più qualcosa di così completo e questa esperienza mi sta entusiasmando e spaventando al tempo stesso! Quindi grazie, grazie e ancora grazie, a chi mi segue e un grande abbraccio a chi si è preso un po’di tempo per farmi sapere cosa ne pensa della storia! :)

Mi impegnerò al massimo per pubblicare entro fine Settembre!

Un bacione virtuale,

Sweet Pink




Arthur puntò le mani sul corrimano del parapetto, a fianco delle sue, imprigionandola ancora una volta fra le braccia senza che lei potesse farci nulla. I capelli castani della ragazza sfiorarono appena la camicia bianca di Worthington, che si chinò su di lei il giusto per poterle sussurrare, in tono di crudele soddisfazione: “Sbaglio, o sei stata tu la prima ad acconsentire volontariamente a questa unione?”

(Dal Sesto capitolo)

  
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