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Autore: JoiningJoice    30/08/2021    1 recensioni
« Se ti donassi ancora più conforto, lo accetteresti? », domanda, continuando a sorridere. « Se ci fosse un modo… »
« Avrei paura. »
« Di abbattere un’altra barriera? Di stare bene? », insiste – caparbio, ma non irritante. La sua espressione si spegne appena: deve aver intravisto qualcosa nel suo volto, la risposta a quella domanda. La esprime ad alta voce, rendendola reale. « ...di stare male, nell’eventualità io ti abbandonassi. »

rebuild | eva 3.33 | kawoshin
Genere: Erotico, Hurt/Comfort, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kaworu Nagisa, Shinji Ikari
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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broken chords

 

 




Le mani di Kaworu sono diverse dalle sue, e non è solamente una questione di aspetto, di semplice apparenza. Ad uno sguardo superficiale appaiono delicate, fragili, un’opera d’arte realizzata in cristallo; ma un’analisi più approfondita rivela una forza ed una determinazione che è propria della sua intera persona, e che si manifesta nelle sue mani più che in qualsiasi altra parte del suo corpo. Shinji lo ha realizzato osservandolo suonare il piano: sembra sempre sapere come muoverle, perfettamente conscio dello spazio che occupano e del ruolo che desidera che abbiano. Le sue sono mani da pianista, mani che ti liberano della gravità della morte, mani che accarezzano. Sono delle belle mani, e Shinji sottrae il proprio sguardo alla loro visione, rosso in viso; osserva i propri palmi troppo nudi, troppo grezzi. Kaworu, seduto al suo fianco, sorride.

 

*

 

« Non riesci a dormire. »

Molte delle frasi che Kaworu gli rivolge sono constatazioni, laddove un’altra persona formulerebbe le stesse parole come una domanda. Non gli richiede lo sforzo di pensare a una risposta: la conosce, e tanto basta. Si siede al suo fianco e Shinji raccoglie le gambe al petto, poggia la nuca contro la parete fredda alle sue spalle. Fa sempre troppo freddo, lì, ma ha smesso di farci caso; ogni volta che rabbrividisce Kaworu compare a fargli compagnia, rende quel senso di malessere un po’ più sopportabile.

« Non riesco a pensare a niente. », mormora. Si è fatta sera, e il buio è così fitto da divorare i normali lineamenti dell’ambiente che li circonda: alberi, mura e cielo fusi in un’unica, mastodontica entità – l’unica presente, oltre a loro, l’unica reale. Kaworu poggia le mani sul pavimento e segue lo sguardo di Shinji, fisso su quella massa oscura. 

« Ma certo che ci riesci. Il fatto che stai parlando è la prova che riesci ancora a pensare. », gli sorride. Ha sempre parole di incoraggiamento, di conforto, che riserva solo per lui. Chi altri conosce, Kaworu? Non si è mai posto quella questione, è irrilevante. « Non sforzarti di dargli forma concreta, elaboralo e basta. Puoi parlarmi per immagini, se preferisci; le interpreterò io per te. Riproviamo: non riesci a dormire. »

Shinji abbassa lo sguardo. Le sue mani stringono i pantaloni scuri della divisa scolastica, una presa salda e nervosa. « Paura. », mormora. Non dover fornire spiegazioni è un sollievo, un’altra volta.

« Paura. », ripete Kaworu. « Un sentimento comprensibile. Paura di cosa? »

« Non lo so. », ammette, in un filo di voce. Ci sono così tante ragioni per cui dovrebbe provare paura che non riesce a concentrarsi su una sola di esse, e farlo significherebbe venir meno a quel loro gioco. Il suo flusso di coscienza deraglia, torna al presente; a Kaworu, allo spazio liminale rappresentato dai loro corpi vicini. « Conforto. », ammette, la voce bassa, un filo sottile. Il sorriso di Kaworu si fa un po’ più ampio.

« È perché ti sono vicino? », domanda; allunga una mano a carezzare il suo braccio. Shinji pensa di ritrarsi fino all’ultimo istante, fino a che non sente la punta delle sue dita chiare contro la pelle. Chiude gli occhi, nel percepire quell’incontro; ad occhi chiusi, immerso in quel buio ora ancora più fitto, trova il coraggio di annuire. Sente un lieve spostamento d’aria, il calore che scompare dal suo fianco e ricompare di fronte a lui. Quando riapre gli occhi Kaworu gli sta di fronte, in ginocchio, di fronte alle sue gambe testardamente unite e sollevate a protezione. Carezza il suo viso con dolcezza.

« Questo mi rende molto felice. », sussurra. È come se sapesse sempre cosa fare, cosa dire, come dirlo; dove le sue mani devono andare. Shinji si scopre debole, incapace di tacere.

« Mani. », balbetta; è troppo tardi per rimangiarselo. Lo sguardo di Kaworu si accende di una luce curiosa.

« Mani… ti piacciono le mie mani? », domanda, ridendo. Non è una risata di scherno, svilente e acida: è un suono dolce e armonico, un accordo di piano. « Le mie mani ti danno conforto? »

Talvolta lo libera dallo sforzo di pensare ad una risposta, altre volte lo accompagna nell’esplorazione del suo inconscio quasi a forza – spinte dolci, ma insistenti. Shinji si stringe nelle spalle e la mano di Kaworu scivola via dalla sua guancia come un’onda passeggera che si ritrae, torna alla bellezza infinita del mare. Sente la pelle in fiamme.

« Non lo so. », ammette, ancora una volta; poi prosegue: « Credo di sì… »

La verità è che si sente solo, e vorrebbe che non fosse così. Vorrebbe percepire Kaworu come una presenza estranea, anziché come un’estensione di sé; vorrebbe che ci fosse una barriera tra di loro, la stessa che c’è sempre stata, con chiunque gli abbia mai rivolto la parola. Oppure non lo vorrebbe affatto.

Kaworu si sporge verso di lui, il viso e le spalle che superano l’ostacolo delle sue ginocchia; Shinji le abbassa piano, e altrettanto piano solleva il viso per guardarlo negli occhi. Attorno a loro c’è solo buio, ma negli occhi di Kaworu sembrano riflettersi un numero infinito di stelle. È inumanamente bello. Solleva la propria mano a carezzare la sua, inconsciamente, le dita che si confrontano e poi si intrecciano, il pollice che stringe il dorso liscio e privo di imperfezioni. Non è una stretta salda, ma è più di quanto possa desiderare: rende reale quella fantasia che lo ha divorato per giorni, termina la ricerca del conforto. La risposta è sempre stata lì, così vicina da sembrare banale – non fosse per Kaworu. Nulla di Kaworu è banale.

« Se ti donassi ancora più conforto, lo accetteresti? », domanda, continuando a sorridere. « Se ci fosse un modo… »

« Avrei paura. »

« Di abbattere un’altra barriera? Di stare bene? », insiste – caparbio, ma non irritante. La sua espressione si spegne appena: deve aver intravisto qualcosa nel suo volto, la risposta a quella domanda. La esprime ad alta voce, rendendola reale. « ...di stare male, nell’eventualità io ti abbandonassi. »

Fa troppo male. Shinji chiude gli occhi, si china, la fronte che carezza la sua. Cerca un appiglio, anche se non ve ne sono. La sua mano afferra la camicia bianca di Kaworu.

« Non ti biasimo, ma non devi avere paura che accada qualcosa del genere. Non ho intenzione di lasciarti solo. Non è per questo che sono qui. », lo conforta. Sembra così sicuro di quello che dice – e allora perché suona come una bugia, la prima che gli abbia mai raccontato? Non riesce a capirlo, né riesce a capire a cosa sia dovuta quella certezza. Sente il viso contratto in una smorfia di dolore, l’istante che precede il pianto, ma non si abbandona ad esso. Le mani di Kaworu carezzano il suo viso, ridisegnano l’arco della sua schiena: lo solleva, lo avvicina a sé, lo bacia con delicatezza – e nel farlo cancella qualsiasi necessità di piangere stesse per sopraffarlo. Shinji non impone la minima resistenza, non conosce il modo: si abbandona e accetta quelle labbra che carezzano le sue, umide e dolci, morbide. Le sue stesse mani si sollevano a carezzare il viso di Kaworu, e quel gesto lo fa sorridere – come se non avesse bisogno che Shinji gli restituisca ciò che gli sta dando.

« Sapevo che l’avresti fatto. », sussurra. « Cerchi sempre di essere gentile con me. »

Gli carezza il viso, lo tiene come terrebbe una coppa a cui abbeverarsi dopo giorni di siccità; gli carezza le spalle e dona loro forma, un senso d’essere. Le sue mani scendono tra le sue gambe, ora stese per terra: le dita che sanno sempre dove andare e cosa fare slacciano i suoi pantaloni e Shinji si aggrappa alle sue spalle, lo abbraccia, ma nasconde il viso contro il suo corpo caldo. 

« Non… », sospira; e poi si ferma, un gemito strozzato in gola. Si ferma anche Kaworu.

« No? », chiede. Torna a carezzargli i capelli, l’acqua torna a scivolare sulla pelle nuda del suo collo. Shinji trema. Non lo sa, non sa cosa vuole; se l’avesse saputo le cose sarebbero andate diversamente. La sua presa sulla schiena di Kaworu si fa un po’ più salda, dita che tremano, dita imperfette che non conoscono il proprio scopo. Poi allenta la presa, piano, un silenzioso cenno d’assenso. La mano di Kaworu scivola sotto il tessuto costrittivo, carezza la sua forma sopra le mutande. 

Non ha memoria di sensazioni simili. Apre la bocca e un sospiro di sollievo abbandona le sue labbra, si trasforma nel nome di Kaworu, ancora e ancora. La prima volta che le sue dita carezzano la sua pelle, dopo aver abbassato l’elastico delle mutande, Shinji stringe di nuovo la sua schiena – non per fermarlo, non questa volta. Lo imita, e lascia affondare le mani nei suoi capelli chiari, impossibili. Kaworu lo tocca in maniera diversa da come toccherebbe se stesso, eppure Shinji si riscopre in ogni movimento, nella stretta gentile sulla sua erezione, nelle pause ogni volta che raggiunge l’apice. Cosa sta cercando di comunicargli? Quella perfetta sintonia dovrebbe terrorizzarlo, ma non è così. È come se il suo corpo fosse quello di Kaworu, e viceversa. Non esistono più limiti, barriere, pudore. Concetti primitivi gli attraversano la mente – bisogno, necessità, calore, sesso – e gli sfuggono come sono arrivati; attraverso le dita di Kaworu conosce il tutto e il niente. 

Stringe le cosce nel sentirsi vicino all’orgasmo, troppo veloce; si stringe a lui come se desiderasse che quell’abbattimento fosse reale, come potesse fondersi a lui. La voce di Kaworu è così vicina da strappargli un altro singhiozzo.

« Non avere paura. Non accadrà nulla, dopo. Sarà tutto esattamente come prima. », sussurra. « E io sarò ancora qui. »

Sono quelle parole ad accompagnarlo all’orgasmo, più delle sue dita, più del suo calore; per pochi istanti il mondo intero sembra capovolgersi, cessere di esistere. Sono un tutt’uno con il buio, con lo spazio che gli circonda, un avvenimento insignificante ed il centro dell’universo al tempo stesso. Poi tutto finisce, rapido com’è cominciato. Kaworu è ancora lì, le pieghe nella sua camicia come testimonianza del suo passaggio, il corpo immobile e il pugno sporco di seme. Si scosta da lui poco a poco, per non fargli del male. Sorride e si pulisce le dita leccando via i resti del suo orgasmo, un gesto spontaneo che gli colora le guance di un rosso violento.

« Ora va meglio. », mormora. Di nuovo una constatazione al posto di una domanda, e Shinji si ritrova ad annuire pacatamente, domandandosi se sia vero. Nel pugno stringe ancora un lembo della sua camicia; lo segue quando si alza in piedi. Tra le braccia di Kaworu svanisce persino il tremore delle gambe, la vergogna, mentre si riallaccia i pantaloni e si stringe nelle spalle, sorridendogli; si sporge, tiene le sue braccia nelle sue, e gli posa un bacio sulla fronte.

« Hai bisogno di riposarti. », dichiara, e Shinji realizza la propria stanchezza solo quando è Kaworu a fargliela notare. Tesse i fili che compongono la sua anima e i suoi pensieri, disegna i suoi sentimenti, le sue dita stringono dolcemente le braccia nude di Shinji.





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