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Autore: Fe_    30/08/2021    3 recensioni
Raccolta di one-shot, spin off dell’interattiva Il Paese delle Meraviglie.
Contiene un po’ di tutto, ma per godersela al meglio è consigliabile leggere l’opera principale- ma non è obbligatorio, non sono mica vostra madre.
Attenzione! All’inizio di ogni capitolo ci saranno le dovute indicazioni, ma alcuni tratteranno tematiche delicate, inadatte alle persone più sensibili o suscettibili. Non saltate direttamente al testo ma leggete anche la presentazione, per favore.
1.Come nascono i cacciatori
2.La danza dei morti
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Maghi fanfiction interattive
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nuova generazione, Da VII libro alternativo
Capitoli:
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Titolo: Attraverso lo specchio
Titolo del capitolo: Come nascono i cacciatori
Personaggi: Bethan Sawyer; Emma Charlotte Vargas; Jack White; Leonard Visser; Hecate Medea Andinson; Ninette Violet O’Banion.
Rating: Arancione
Coppia: ///
Note: Introspettivo; tematiche delicate; missing moments; | 5911 parole
¹Squash: un preparato per bevande che i bambini inglesi apparentemente adorano; è un concentrato di succo di frutta dai diversi gusti e colori che va diluito con acqua.
²Sjakie: abbreviazione di Izaak, variante olandese di Isaac. È il nomignolo con cui viene chiamato in famiglia il fratello maggiore di Leo.
³¡Coño! ¿Eres una maldita imbécil? ¡Ràpida!: Cazzo! Sei una fottuta idiota? Veloce!; i restanti termini spagnoli sono solo dei volgari rafforzativi.


7 febbraio 2017
Edmonton, Inghilterra

La ragazzina che si trovano davanti ha un viso adorabile, con grandi occhi azzurri e lisci capelli biondi: praticamente un angioletto di circa cinque anni. Peccato che l’espressione sia di puro sospetto, ben lontana dall’innocenza che dovrebbe animarla.
         «Perché non entri e ci dici come ti chiami, piccola?» Le propone gentilmente una suora, ma la bimba si ritrae dalla mano allungata per accoglierla e fa una smorfia.
         «Mamma tornerà presto. Ed io non devo parlare con gli sconosciuti.» Le piccole sopracciglia si aggrottano in maniera buffa, scolpendo tra di loro un solco poco adatto alla sua età. Le due donne si lanciano un’occhiata preoccupata, poi tornano a sorriderle.
         «Hai ragione. Io sono Suor Laura, mentre lei è Sorella Alizé. Vieni, è freddo oggi, l’aspettiamo dentro davanti ad una tazza di tè, vuoi?»
         La piccola pare ancora irrimediabilmente dubbiosa ma, dopo un’ulteriore esitazione, marcia dentro la struttura con passo spedito e il mento alto. «Io sono Elizabeth.» Aggiunge poi, come si fosse d’improvviso ricordata delle buone maniere.
         Troppo piccola per leggere la scritta che campeggia sopra la porta, Elizabeth non si rende conto di essere entrata in un orfanotrofio fino a diverse ore più tardi, quando Suor Laura le propone di accomodarsi in una stanza assieme a molti altri bimbi.
         Alizé, decisamente più giovane dell’anziana donna che le ha fatto compagnia, è scomparsa praticamente dopo aver portato loro una bevanda calda e qualche biscotto.
         «È andata a compilare le carte per tenerti qui per sempre.» Afferma con aria decisa un bambino più grande. Gli altri nella stanza lo guardano tutti, quindi Elizabeth non dubita neanche per un istante che sappia come stanno davvero le cose. «Le suore fanno così, dopo che gli adulti ti lasciano o muoiono per colpa delle streghe. Ma qui si sta bene, meglio che fuori, sei stata fortunata. Albert,» aggiunge, indicando un bambino dall’aria fragile, «è rimasto per strada tre giorni prima che lo trovassero.»
         «Le streghe gli hanno rubato la voce.» Esclama una brunetta con gli occhiali spessi, e questo scatena un’accesa discussione nel piccolo gruppo. Elizabeth si rannicchia sul lettino in cui prima si era seduta, le ginocchia strette al petto, ripensando a sua madre e al sorriso incerto che le aveva rivolto prima di dirle di aspettarla davanti a quella porta.
         «Bimbi!» La voce allegra di Sorella Alizé li interrompe e, come un rituale che tutti conoscono, si alzano e si divino in due gruppi. La ragazzina con gli occhiali la prende per il braccio, ma Elizabeth si libera con uno strattone.
         «È ora di andare a fare il bagno, Eliza. Non abbiamo trovato ancora la tua mamma, perciò stanotte starai con noi, ti va? È come un pigiama party.» Le dice la donna, chinandosi alla sua altezza e rivolgendole un sorriso. È molto bella, come un’attrice della televisione, con grandi occhi verdi, e la ragazzina si chiede non sia una specie di spettacolo di cui non conosce le battute.
         «No, io voglio andare a casa. Adesso!» Ribatte, stringendo i piccoli pugni e battendo il piede a terra con aria fin troppo decisa. Alcuni bambini ridono dei suoi capricci, e questo la rende solo più arrabbiata.
         «Per caso ti sei ricordata il tuo cognome, o la via in cui abiti?» Chiede, ma a quella domanda non può che abbassare il viso caldo d’imbarazzo e scuotere la testa. Lei è sempre stata solo Elizabeth, mamma è sempre stata Mamma e casa, casa. Se loro non sanno risalire a cose così ovvie non è certo colpa sua.
         «Allora temo dovrai stare con noi. Dai, un bagno caldo ti aiuterà.» Continua, e la bimba sta iniziando davvero ad odiare quel bel sorriso che suona tanto come una presa in giro.
         La segue di malavoglia assieme alle altre bambine, sbattendo ad ogni passo per dimostrare la sua contrarietà alla situazione, e quando entrano in una stanza da bagno molto grande le guarda con stupore. Procedono a spogliarsi e mettono i vestitini piegati al posto di un asciugamano, ognuna col suo, ognuna ben consapevole di come fare. Le più piccole vengono aiutate dalle bambine grandi, e Sorella Alizé le si avvicina.
         «Vieni, Elizabeth. Può sembrare strano, ma qui ci si aiuta a vicenda. Le più grandi sono come la tua mamma, no? Oggi puoi contare su di me.» Allunga una mano, ma lei è una bambina sveglia, più intelligente di così. Inizia a togliersi la magliettina tutta da sola, per dimostrare la sua evidente superiorità, e quando fa lo stesso con il vestitino sottostante la donna impallidisce.
         «Buon Dio!» Esclama, coprendola con un asciugamano. «Fuori, fuori, Madonna e tutti i Santi. Barbara, Valentine, lascio il comando a voi.»
         La spinge fuori, ma Elizabeth non capisce. Deve essere stupida, pensa, è stata lei a dirmi di fare il bagno.
         «Perché sei vestito da bambina?» Continua non appena sono uscite, ed Elizabeth la guarda confusa. Quel giorno, il primo di molti altri all’orfanotrofio, lo ricorda e sogna ancora. È stato illuminante, un punto di svolta in molti sensi.
         Non ha più rivisto la sua mamma, è diventata un’orfana.
         E ha scoperto cosa la rendeva diversa dalle altre: era un maschio. Un ragazzino che le suore hanno rinominato Bethan.

23 marzo 2024
Dumfries, Scozia

Emma è felice.
         Felice come può essere solo una ragazzina che si sta avviando verso la sua festa di compleanno.
         Gabriel, che ha la patente, l’ha fatta salire sulla sua auto e per la prima volta i due possono andare in giro da soli: mamma e papà erano un po’ ansiosi, visto che guida da poco, ma alla fine le moine della loro principessa li hanno convinti a quella piccola scommessa.
         Emma è sul sedile dietro, i capelli rossi intrecciati sulla base del capo non gli permettono di stare davvero comoda, ma ne varrà la pena una volta arrivata. Ha finalmente raggiunto gli otto anni, il giorno precedente è stato il suo compleanno e oggi, che è sabato, può festeggiare con i suoi amici e la famiglia.
         È sempre stata la piccola di casa, non sa effettivamente dire perché quel giorno sia speciale: forse perché sa che i fratelli, ora che hanno compiuto diciotto anni, dovranno allenarsi come i suoi genitori e liberare il mondo dai mostri cattivi, e avranno meno tempo per lei. In un certo senso, è come se fosse l’ultima volta che possono stare davvero insieme, poi diventeranno ufficialmente grandi.
         «Perché quell’espressione corrucciata, principessa?» Le chiede Gabriel dopo che la ragazzina ha fatto un’insolitamente lunga pausa nella loro chiacchierata. Attraverso lo specchietto Emma può vedere uno scorcio del suo viso: un occhio verde, un sopracciglio alzato, una parte di guancia lentigginosa. Conosce la sua espressione, sa che sta sorridendo e facendo un occhiolino senza poterlo vedere.
         Stringe le piccole mani in grembo, per poi lisciare le pieghe create nel vestitino color prato che indossa. L’ha aiutata Cameron a sceglierlo, perché un paio di giorni prima si sono allenati e la piccola è caduta sbucciandosi le ginocchia: con quella gonnella è davvero carina, e non si vede il piccolo incidente di cui i genitori non sanno nulla.
         «Questa è l’ultima festa che faremo insieme, vero? Quando sarete reclute non ne avrete più tempo.» Emma continua a guardarlo, ma il fratello distoglie lo sguardo per tornare a guardare la strada. Anche se è una bambina, lo conosce così bene da sapere cosa vuol dire la contrazione dello zigomo.
         «Cam, ed anche io naturalmente, noi avremo sempre tempo per venire a trovarti. E prenderemo le vacanze per il tuo compleanno, promesso.» Sta mentendo, Gabriel, non è mai stato bravo a farlo. La bimba riesce sempre a vedere oltre la sua facciata quando giocano insieme, ha vinto tante partite a carte così.
         Ma in qualche modo, nonostante sia così piccola, Emma capisce che per lui è importante credergli per quella volta, perciò gli rivolge il sorriso più luminoso che è in grado di fare.
         «Allora vi aspetterò tutti e due, e non dimenticate il regalo!»
         «Siamo arrivati, Ems.» L’auto rallenta sino a fermarsi e, come un cavaliere, Gabriel scende e va ad aprirle la portiera. La fa sentire una principessa come quella delle storie che le racconta la sera.
         «E mi raccomando, mamma si è raccomandata di dirti di comportarti come una signorina. Non importa se i ragazzi sono stupidi, cerca di non atterrarli... almeno, non quando i grandi ti guardano.»
         L’ultimo appunto la fa ridere e, come una damina, si copre la bocca con una mano. Il fratello le rivolge un cenno d’approvazione prima di porgerle il braccio; deve chinarsi, ma alla fine Emma può avere la sua entrata trionfale.
         La festa è un successo, esattamente quello che una bambina vorrebbe. Hanno sfidato il tempo ballerino e organizzato il tutto in un grande parco, ma per fortuna quel sabato il sole sembra non voler abbandonare il suo posto nel cielo.
         Una gentile signorina vestita da principessa l’accoglie, ci sono giochi e regali che scarterà a casa, e la torta dolce e troppo decorata che suo padre guarda con sospetto ogni anno. A volte le racconta di quando era piccolo e delle strane tradizioni italiane, come feste infinite che durano tutto il pomeriggio e gli adulti che restano, ma Emma lo considera solo strano: niente borsette regalo per gli ospiti, buffet senza tramezzini con la marmellata di fragole e Squash¹?
         Assolutamente inconcepibile.
         Però la sua mamma sa benissimo come si fanno le cose e, quando gli altri genitori arrivano puntualissimi per portare i figli a casa, i bambini la salutano dicendole quanto si sono divertiti.
         Emma è felice.
         Felice come può essere solo una ragazzina che si sta tornando dalla sua festa di compleanno.
         Mentre è in macchina coi suoi fratelli pensa che quella felicità non possa finire, e come tutti non faranno che parlare del suo party lunedì a scuola.
         Non sa ancora come quel sentimento sia effimero, come il momento che trascorre coi suoi fratelli nel tragitto dal parco a casa sia l’ultimo che potrà mai assaporare.
         Perché domenica 24 marzo 2024 Gabriel e Cameron Vargas vengono uccisi da dei mostri, dei maghi. Ed Emma, otto anni compiuti da un solo giorno, ha deciso il suo futuro.

12 aprile 2026
Londra, Inghilterra

Il rumore della colluttazione è familiare, quasi confortante.
         L’ambiente che vede è diverso da come lo ricorda in realtà, ma sa che si tratta di un sogno, sempre lo stesso negli ultimi tempi, perciò anche se la sua mente si prende alcune licenze tutto filerà liscio come al solito.
         Esce dalla propria cameretta, che non ha mai avuto tanti poster colorati alle pareti né un tale impianto stereo, posa la mano sul muro che non è mai stato color panna e, mentre lo percorre, e dita si lasciano dietro un’inquietante scia rosso acceso. Il passo successivo, le scale, presentano un tappeto dello stesso colore che non hanno mai avuto: distrattamente, mentre ascolta i rantoli soffocati, si chiede perché stavolta sia tutto così normale eppure cupo, con sbarre alle finestre e colori molto più contrastanti di quanto la sua casa non ne abbia mai avuti.
         Mentre scende i gradini ogni rumore è soffocato e la scena gli si presenta molto prima del solito; non ha finito la rampa che nota la porta spalancata, e la neve abbondante. Strano, tenendo conto che dovrebbe essere fine marzo, ma non si fa troppe domande.
         Jack si volta a destra, dove sa che vedrà un uomo fuggire: non lo ha mai visto in volto, perciò il suo subconscio rimedia ancora una volta in modo del tutto fantasioso; questa volta è poco più che un ragazzo, capelli neri e occhiali da sole. Gli ricorda un po’ un cantante, anche se non saprebbe dire chi sia.
         Suo padre invece è sanguinante a terra, più ferito di quanto non lo ricordasse; un peccato, perché vuol dire che finirà troppo presto.
         Il peso del coltello, sempre lo stesso modello da cucina, è uguale al solito: come sempre gli compare semplicemente nel pugno serrato, il manico in legno morbido tra le dita, e poi il metallo appuntito e affilato.
         Corre, si avventa sull’uomo che lo ha tormentato per anni, la lama non incontra alcuna resistenza e affonda come nel burro. In realtà le cose non sono andate proprio così, ma nel sogno è tutto molto più facile, pulito, bello persino.
         Si sveglia col fiato corto, il fantasma dell’eccitazione gli brucia sottopelle e gli rende difficile stare fermo: vorrebbe scalciare via le coperte, asciugarsi il sudore gelido dalla nuca, eppure in qualche modo gli ci vuole qualche istante prima di prendere di nuovo confidenza col proprio corpo tanto riuscire ad aprire le palpebre.
         È sempre così, eppure in qualche modo lo trova assurdo. Come avesse avuto un incubo, ma non lo è… no? È la vendetta per un uomo che lo aveva maltrattato per anni, che senso ha sentirsi spaventati da una cosa che ha desiderato così a lungo? Chiunque, al suo posto, non si sarebbe fatto scrupoli. Se lo ripete ogni volta che quel sogno finisce, e lo aiuta un poco.
         Jack si sforza di chiudere gli occhi e tornare dormire ma, quando ci prova, immagini vivide delle ultime due settimane gli danzano dietro le palpebre e non lo fanno riposare, come una sorta punizione per aver rivissuto il bel momento dovesse pensare anche agli altri.
         Il funerale, gli sguardi pietosi della gente che non capiva quanto fosse una benedizione, l’odore dei fiori che quell’uomo non meritava, e poi gli adulti che dicevano che doveva essere sotto shock, le suore gentili, i bambini dell’orfanotrofio che gli chiedono se suo padre sia morto per colpa dei maghi.
         Si rigira nel letto, sente il peso del coltello tra le dita, afferra le lenzuola e cerca di cancellare la sensazione ma la stoffa gli riporta alla mente la camicia del padre, ruvida e dozzinale, a buon mercato.
         «Vuoi stare fermo? Rompi i coglioni.» La voce nel buio è come una stilettata, Jack si irrigidisce poi guarda verso la fonte del rumore senza vedere davvero. C’è una fila di letti a castello, tre alla sua destra e quattro alla sinistra; a parlare è stato il biondino che dorme sopra di lui, un ragazzino minuto che gli altri bambini per qualche motivo temono.
         «Ti agiti tutta la notte, fai un casino infernale, ed io non riesco a dormire. Risolvili di giorno i tuoi traumi e statti fermo.» Le parole poco gentili gli riportano alla mente momenti meno felici; insulti dovuti al solo fatto di essere nato, ad un sorriso troppo simile a quello della donna che infesta tutte le cornici della sua casa.
         Tutto sommato, inizia a capire perché il più grande non piaccia molto. Anche senza vederlo, può immaginare il suo visetto magro stizzito, gli occhietti azzurri pieni di sdegno. Nemmeno le suore lo amano, le stesse donne che sono state così gentili con Jack da quando suo padre è morto.
         «Lasciami in pace, Bethan.» Il ragazzino si gira dall’altra parte, affonda il viso nel morbidissimo cuscino che sa di sapone da bucato fresco, si chiede come sarebbe stato crescere con quelle signore. Bei pensieri che si infrangono quando l’altro ricomincia a blaterare.
         «Parli nel sonno.» Non si sforza più nemmeno di sussurrare, sente il letto muoversi un poco e sa che si è sistemato. Spera decida finalmente di zittirsi: gli ricorda suo padre, con quell’atteggiamento sprezzante, e vorrebbe solo prenderlo a pugni. Non lo farà, sarebbe solo stupido.
         Ha visto altri ragazzini attaccar rissa con lui, con Bethan, e per quanto tutti sappiano che ha un carattere difficile riesce sempre a mantenere le provocazioni sulla linea dell’innocente, facendo passare gli altri per colpevoli. A Jack non dispiacerebbe imparare a farlo, è piuttosto sveglio, e gira voce che alcuni dei preti che vedono la domenica parlino con le suore per capire quali bambini hanno potenzialità come inquisitori: Bethan sarebbe uno di quelli che ha già iniziato l’addestramento.
         Anche diventare un inquisitore non gli dispiacerebbe: loro sono i buoni, proteggono i deboli dal male, e lo fanno indossando la maschera degli eroi. Sì, non gli dispiacerebbe affatto, un giorno, diventare come loro.

19 novembre 2026
Londra, Inghilterra

La pioggia scroscia così fitta che non sente più nemmeno il freddo.
         Ogni grammo di calore gli è stato sottratto da vestiti fradici e lo sguardo gelido del padre che gli buca la schiena, si sente esausto eppure continua a mettere un piede davanti all’altro in una corsa disperata.
         «Non rallentare. Che sei, una fighetta? Dovrai lavorare in condizioni ben più dure di così.» Lo ammonisce, e Leonard volta appena il viso per guardare la figura severa che gli marcia a fianco.
         Troneggia su di lui, anche se il ragazzino è sempre stato grande per la sua età si sente come un bambino vicino all’uomo. Si somigliano così tanto, nei capelli biondi e gli occhi che mimano un cielo più sereno, hanno la stessa durezza nei tratti e la stessa fisionomia. Leonard odia l’idea di diventare uguale al padre, ma sa anche che non ha molte altre opzioni.
         «Mi hai sentito? Un bravo soldato risponde.» Micha non ha mai avuto pazienza, il figlio lo ha provato più volte sulla sua pelle. Raddrizza le spalle e cerca di darsi un’aria meno patetica.
         «Signorsì, signore!» Esclama, chiaro nonostante la voce arrochita per lo sforzo. Sembra quasi un militare, nonostante gli appena tredici anni, ma quando rivolge nuovamente attenzione alla strada scivola sull’asfalto semicongelato e finisce rovinosamente a terra. L’umiliazione gli brucia molto più delle ginocchia sbucciate.
         «Rialzati subito. Non puoi permetterti di mostrare debolezza. Isaac già lavora con me, e quando morirò dovrai prendere il mio posto per proteggere il resto della famiglia.» Micha si china sul figlio e gli fa alzare la testa. C’è una profonda preoccupazione nei suoi occhi e, anche se Leonard lo odia con ogni fibra del suo essere, è altrettanto deciso a proteggere i suoi fratellini. «Forse dovrei addestrare Willelm. Anche se ha già nove anni, posso lavorare sul suo potenziale.»
         È una minaccia, lo sanno entrambi. Leonard si alza e scrolla le spalle, cercando inutilmente di liberarsi di un poca dell’acqua che gli appesantisce i vestiti. Stira la schiena e cerca di calmare il respiro affannato per via della corsa.
         «Nossignore. Possiamo continuare.» Micha lo squadra e il figlio cerca di assumere un’espressione dura. Gli arriva già al mento, ma lui pare non notarlo: allunga una mano e gli sfiora la guancia, il calore come una maledizione gli fa capire quando il suo corpo sia gelido. Leonard si ritira di scatto da quel contato, ignorando l’espressione ferita del suo aguzzino.
         «Lo sai che lo sto facendo per la famiglia. Non voglio dobbiate tornare nelle prigioni.»
         Certo che lo sa. Ogni volta che lo spinge oltre il limite, quando anche respirare è un dolore, quando finisce a terra perché le gambe non lo reggono più, suo padre gli ripete che è solo per proteggere la famiglia. Non importa la vita di chi si distrugga, finché loro sono al sicuro.
         Leo continua a guardarlo con disprezzo, lo stesso che vede riflesso negli occhi degli inquisitori che talvolta entrano nel loro quartiere. Gli edifici grigi che sorgono nella loro strada sono così alti che nascondono il sole, container che ospitano decine di appartamenti identici abitati da famiglie di reietti. Anche se è appena un bambino, si è chiesto spesso perché decidano di vivere servendo persone che li odiano e uccidendo la loro stessa specie.
         Ingoia la rabbia, si passa le dita piene di piccoli calli tra le ciocche color grano per togliersele dal viso. «Il parco è poco lontano. Se non ci sbrighiamo arriveranno i bambini a giocare.»
         Micha si morde il labbro inferiore, pensieroso; sa benissimo che il figlio odia farsi vedere dai coetanei quando si allena. Anche se sono tutti sono lì grazie ad un familiare collaborativo, nessuno li ama davvero.
         «Che ne dici se oggi andiamo a casa prima? Se dovessi ammalarti dovresti prendere una pausa.» È una bugia.
         Pioggia o sole, raffreddore o febbre, non ha mai saltato un giorno. Si vede, nemmeno gli adulti osano importunare lui o i suoi fratelli, anche quando il padre è via in missione. Cane mangia cane, lì, ed i Visser non saltano un pasto.
         «Mamma non sarà felice di vederci così presto.» Sa che è un ramoscello d’ulivo, e non si fa scrupolo a coglierlo. Infila le mani nella felpa zuppa, per nascondere il tremore che non può comunque fermare. Si riparano sotto un cornicione prima di imboccare la direzione opposta a quella che avevano preso prima, per poter tornare a casa riparati.
         «Hai ragione, ma Sjakie² ci farà del tè caldo che è, uhm… quasi meglio prendere la pioggia, in effetti.» Micha ride piano, esitante, e Leonard ricambia insicuro. Non hanno mai avuto quel tipo di rapporto, e quando l’uomo tenta un approccio meno militare è evidente che entrambi si sentono a disagio, insicuri di quell’ambiente instabile e sconosciuto.
         «Qualcuno dovrebbe impedirgli di avvicinarsi alla cucina, è vero. Però le sue intenzioni sono buone. La settimana scorsa Thea ha avuto la febbre alta e lui le è rimasto vicino tutta la notte, a farle bere un tè orribile. Per farlo ha usato la lavanda che coltiva mamma.»
         Micha alza un sopracciglio, quindi lo invita a continuare con un gesto secco del polso.
         «Tu eri partito da due giorni, e non siamo riusciti a procurarci delle medicine. Sai che verso metà mese finiscono sempre. Il carico è arrivato lunedì.» Si stringe nelle spalle, come fosse la cosa più naturale del mondo. Naturalmente il contatto col mondo esterno è proibito, sono prigionieri in ghetti, ma intorno al 15 di ogni mese dei camion portano medicine, viveri e abiti. La maggior parte di loro coltiva nei balconi piante edibili o medicinali, e chi vive stabilmente lì ha creato piccole attività di riparazione o artigianato, ma d’inverno è sempre un po’ più dura.
         «Avete fatto scorta? Sennò alla prossima missione potrei… ieri era il tuo compleanno.»
         Ah, se ne è ricordato. Leonard non ci sperava più, ha smesso a otto anni a dire il vero. Gli sorride, nascondendo il risentimento. «Sì, se vuoi farmi un regalo portami della tinta. Nera, così smetterò di assomigliarti almeno un po’.» Dice, col tono più dolce ed innocente del mondo.
         Ignora appositamente l’espressione esitante e ferita di Micha, anche se una parte di lui ne gode. Davvero molto.

8 settembre 2034
Londra, Inghilterra

Essere buttata da una cella ad una strada è, se possibile, ancora peggio che restare rinchiusa.
         Una piccola folla le si è radunata attorno, la guarda con sospetto e paura, lo legge nei loro occhi, nei loro pensieri. Frammenti confusi, vorticanti, che le danno una forte nausea. Vorrebbe solo urlare loro di andarsene, ma ha usato la voce così poco negli ultimi due anni che teme di non esserne in grado.
         «Muoviti.» L’ordine secco ha un accento straniero, caldo, che contrasta in modo spiacevole con la voce secca. Hecate si è sforzata di non guardare più del necessario l’inquisitore che l’ha accompagnata dalle prigioni a quel luogo, anche perché ogni volta che cercava di registrare qualche particolare- di lui, del veicolo, del luogo- sentiva netta la sua irritazione. Sa solo di trovarsi da qualche parte nella periferia di Londra, in quello che pare un quartiere poverissimo e recintato con filo spinato; l’uomo invece ha la pelle olivastra, un grugno malevolo e piccoli occhi porcini, neri come i capelli cortissimi.
         «¡Coño! ¿Eres una maldita imbécil? ¡Ràpida!³» L’inquisitore la spinge malamente per una spalla, facendola barcollare sorpresa, e sente dalla folla qualcuno che ride divertito. Non ha capito le sue parole, ma è certa che usare un simile linguaggio con una bambina sia sbagliato, e che gli altri non dovrebbero godere di quello spettacolino patetico.
         Inizia la sua marcia della vergogna, gli occhi bassi e nessun voglia di dar loro altri motivi per tormentarla, ma quel poco che vede le ricordano in maniera dolorosamente familiare i senzatetto dei rifugi, un ricordo lontano di un’infanzia ancora non finita. La somiglianza non è tanto fisica perché, per quanto quelle persone siano senza dubbio povere, non sono sporche o incurate; è più che altro nello sguardo, sconfitto e vuoto.
         «Non sei un po’ piccola per certi paragoni?» Hecate non ha idea di chi abbia parlato, ma d’improvviso il suo aguzzino si ferma e si mette tra lei e le persone, scrutandole truce. Ora che le dà la schiena, la ragazzina può farsi un’idea migliore della sua fisionomia e quello che gli era apparso come un corpo possente si rivela essere solo decisamente obeso.
         «Visser, cabrón, dove sei?»
         «Comandante Hernandez, buongiorno.» Il ragazzo che aveva parlato prima si avvicina e la ragazzina potrebbe giurare di vedere un principe azzurro: è più alto dell’inquisitore, anche se di molto poco, e un sorriso pacifico gli illumina il viso. Più avanti si renderà conto di quanto non sia particolarmente attraente, ma in confronto all’altro sembra un angelo dai capelli biondi.
         L’uomo gli si avvicina e gli tira un pugno allo stomaco, sibilando qualcosa sulla mancanza di rispetto, ed il ragazzo si piega ma dissimula con una risata leggera. «Siamo di cattivo umore, signore. Che ne dice se tipo lascia a me la signorina e lei ritorna al suo lavoro?»
         Per quanto probabilmente ancora irritato, il comandante fa un passo indietro. La folla, che prima si stava solo godendo lo spettacolo, ha iniziato ad agitarsi al pugno; Hecate può sentire il mutamento nel tono dei loro pensieri: non stava più torturando un’estranea, ha colpito uno di loro. E non è loro piaciuto.
         «Sto facendo il mio lavoro, perro sarnoso. È un pacco per te, dalla centrale.» Hernandez non si volta nemmeno, allunga una mano dietro di sé e le prende la spalla, per spingerla verso il ragazzo. Questo si è intanto raddrizzato, le rivolge un’espressione serena e le sfiora la testa con una mano.
         Il suo compito non è tipo, torturare ragazzine. Non preoccuparti, sei al sicuro ora. Il pensiero le viene naturale come fosse proprio, eppure sa che così non è. È qualcosa di più forte del solito rivolo di coscienza che cattura di solito, di questo è certa, e guarda stupita il biondino.
         «Ora però ha finito. Grazie, signore, e buona giornata.» Il modo cortese con cui gli si rivolge è assolutamente disarmante, sembra non avere un briciolo della rabbia che anima tutte le creature che Hecate ha incontrato fino a quel momento, e anche l’inquisitore non ha nulla per giustificare una risposta violenta.
         Lo sa, e si allontana con una smorfia insofferente. Lancia loro un’ultima occhiata, quando è abbastanza distante, poi sale sull’auto che li ha portati lì e sparisce oltre il cancello. Quando si chiude, di nuovo, i muri che circondano il piccolo ghetto paiono alte fino al cielo e le mozzano il respiro.
         «Beh, è stato… piuttosto scortese. Ma Jorge è sempre così, perciò suppongo che ci faccia, tipo, apprezzare di più quelli gentili?» Propone il ragazzo. Le altre persone iniziano pian piano ad allontanarsi, ora che lo spettacolo è finito, ed Hecate non sa davvero cosa fare. L’hanno presa dalla sua cella, sottoposta ad una serie di test, messo un collare e scaricata lì.
         Lanciando una seconda occhiata, si rende conto che tutti ne portano uno, anche se sono modelli diversi; si sfiora il collo con un gesto distratto, il metallo è tiepido sotto le sue dita. Lo sconosciuto la guarda e dissimula il gesto sfiorandosi una ciocca di capelli paglierini; ne riceve in cambio un’occhiata comprensiva.
         «Va tutto bene, ci si abitua in fretta a quelli. Si attivano solo per mano di un inquisitore, quindi finché sei qui non dovrebbero darti la scossa. Io sono Isaac, comunque, e tu come ti chiami?» Aggiunge, quindi si china e le prende la mano. Inizia a camminare, ma Hecate si ritira come il contatto l’avesse scottata.
         Isaac non si scompone, si limita a fermarsi a sua volta e chinarsi per raggiungere il suo viso.
         «Capisco che tu abbia paura. La paura è normale, ti tiene lontano dalle cose che possono farti male. Ma io non sono cattivo, sono tipo te, e mi avevano avvertito del tuo arrivo. Abbiamo la stessa abilità, vedi, e vogliono che ti insegni ad usarla.» Ecco, ora quello che le era sembrato un principe azzurro d’improvviso le fa paura. È uno di loro, e vuole che anche lei diventi come quelli che hanno ucciso i suoi genitori. Rapidamente vaglia le proprie possibilità: non può batterlo, è una bambina di nove anni contro un ragazzo che ha più del doppio della sua età; forse potrebbe scappare, ma alla lunga la troverebbe.
         «Non ti costringerò, se non vuoi. Ma vieni a casa, ci sono mia madre e ho una sorellina poco più grande di te. Oppure puoi andare nel tuo alloggio, perché tipo stare fuori col buio può essere pericoloso.»
         Hecate non è del tutto sicura di fidarsi, Isaac le sembra davvero un ragazzo strano, ma è indubbiamente gentile e onestamente non ha molte altre opzioni. Gli si avvicina, e lui non fa nulla per prenderle di nuovo la mano, cosa che gradisce.
         «Hecate.» Si limita a dire, e dal modo in cui l’altro annuisce capisce che già lo sapeva. Deve essere un legilimens davvero dotato, e teme davvero di scoprire come lo usano gli Inquisitori, perché di certo lei farà la stessa fine.

13 agosto 2037
Galway, Irlanda

Anche sul palco, il fantasma del profumo forte che usano le altre ragazze le pizzica il naso, minacciando uno starnuto ogni pochi minuti. La puzza di fumo ed alcolici scadenti fa ben poco per migliorare la situazione anzi, se possibile, aumenta il fastidio. Lo cela dietro un bel sorriso, come fa da sempre.
         Il turno di lavoro è iniziato da poco meno di un’ora e la luce bassa del giovedì nasconde le imperfezioni delle ragazze meno carine. Per quelle attraenti, ed i bei soldi, bisogna aspettare il weekend, e l’idea ferisce il suo ego più della pacca sul sedere che le rifila il coglione in prima fila. Si volta di scatto e gli pesta la mano col tacco.
         «Ah! Nemmeno quando le paghi accettano i tuoi complimenti, Albert?» Il commento scatena una serie di risate e l’uomo, già alterato, si allontana a grandi passi.
         Ninette torna al palo, vi scivola reggendosi solo con le cosce, ed intanto tiene gli occhi fissi su quello: sta andando a lamentarsi con il capo. Cazzo, di nuovo problemi. Il suo stupido numero, che ha la presunzione di essere chiamato balletto, finirà presto e non avrà più scuse per evitare la strigliata per essere stata di nuovo maleducata con un cliente.
         Una volta ballava davvero, su un palco che non era coperto di lustrini e rimpianti, aveva talento. Sa benissimo com’è passata dal sogno della Scala a quello ben più modesto del Róisín Dearg, non la fa meno incazzare.
         Quando la musica cambia e lei fa per tornare dietro le quinte, con la coda dell’occhio vede il grande capo farle cenno di raggiungerlo; accanto a lui c’è Oberon, l’enorme figura familiare e confortante le dà una certa tranquillità. Se non altro non sarà da sola.
         Dietro le quinte le ragazze sono come piccole formiche indaffarate, alcune allo specchio a truccarsi, un paio appollaiate vicino all’unica finestrella che si apre per fumare in pace, l’unica cosa vera è che c’è troppo poco spazio per tutte. Jane le rivolge un sorriso gentile e le passa i suoi abiti, in modo che possa rivestirsi più in fretta.
         «Albert è un idiota, piccola, hai fatto bene.» Le dice col suo solito tono quieto. È l’ultima donna che immagineresti lavorare in uno strip club, ha superato i trenta e ha il rassicurante aspetto di una bibliotecaria, o una madre. Nonostante la differenza di età è probabilmente quella con cui Ninette ha legato di più, proprio perché sono tanto diverse.
         «Sì, lo so io e lo sai tu. Ma finché paga in contanti Palben continuerà a non saperlo. Secondo me se la prende con noi per il nome di merda che gli ha messo sua madre.» Commenta acida, e strappa un sorrisino divertito all’amica che le posa una mano sulla spalla.
         «Questo non dirglielo, d’accordo?» Propone, e Ninette non può che fare una smorfia e annuire sotto lo sguardo di Jane. È una brava ragazza, non dovrebbe stare lì.
         «Va bene. Io vado, e prometto di non riservargli lo stesso trattamento visto che non mi ha ancora pagato il mese.»
         La donna annuisce, i fitti ricci castani che enfatizzano il movimento in modo comico, e Ninette inforca la porta prima che il buonsenso che le ha prestato evapori.
         Palben è in disparte verso l’entrata, una figura ombrosa dai colori scuri quasi completamente oscurata da Oberon, decisamente più piacevole da guardare oltre che grande. La ragazza li saluta allegramente, come non sapesse di essere nei guai, ma solo uno dei due- il suo preferito, per la cronaca- la ricambia calorosamente.
         «Ehi capo, ciao Obi! Lo sai che stasera non è il tuo turno, vero? Quelli carini si esibiscono tra due giorni.» Dice, poi scuote la testa con aria teatrale. «Ma finché non ti tagli quella cosa non puoi stare tra i carini.»
         Oberon si accarezza la barba con una nota fiera, mentre Palben, la guarda con aria annoiata. «Sei licenziata.» Le parole le scivolano lungo la schiena come una doccia gelata, e anche l’altro ragazzo si blocca e lo guarda a bocca aperta.
         «Cosa? Non puoi… non puoi licenziarmi così! Avevi detto che mi avresti assunta regolarmente!» Ninette stringe il pugno e, se non fosse stato per la presenza di un buttafuori che li adocchia già da un po’, probabilmente glielo tirerebbe in faccia. «Senza un lavoro…»
         «Tutti abbiamo i nostri problemi,» la interrompe, «ed attualmente tu sei il mio. Non mi importa dei tuoi piccoli drammi familiari, non sai comportarti e non sei così carina da permetterti certe bizze. Prendi le tue cose e vattene.» Schiocca le dita, ed il buttafuori di prima- Chucky, un omone con cui ha diviso più di una birra- le si avvicina e le prende il polso. Ha gli occhi neri, e la sua espressione dice “non fare scenate”.
         Oberon la segue, la mascella serrata e la consapevolezza di non poter fare nulla pesante sulle spalle larghe, e nessuna delle ragazze pare sorpresa quando entra dietro le quinte con lei. Alcune lo salutano, Jane si avvicina e chiede cosa sia successo.
         «Ma non può farlo, non hai fatto nulla di grave!» Esclama la donna quando le viene spiegata la situazione. Alle sue proteste si uniscono anche Anne e Catherine, anche se non possono far nulla di più che rincuorarla un poco.
         «Lo ha fatto, spero solo che cambi idea domani, perché sennò… oh, cazzo! Non possono togliermi la custodia di Dean, vero?» Il dubbio nei loro sguardi è palpabile, e Ninette conosce la risposta senza che nessuno debba dirla a voce alta. Si porta una mano ai capelli, intrecciando nervosamente le ciocche rossicce tra le dita.
         «Se ti serve un lavoro, sai, a settembre…» Inizia Catherine, ma Oberon le lancia un’occhiataccia e la frase resta sospesa qualche secondo nell’aria. La ragazza li guarda, incuriosita, e l’altra continua: «Beh, lei è del tutto umana, no? Gli inquisitori cercano sempre ragazze carine da mettere dietro le scrivanie, fanno buona pubblicità.»
         D’improvviso l’unico rumore è la musica alta ed il vociare insistente del locale, mentre lì il silenzio cala come una coperta pesante, afosa. A nessuno piacciono gli inquisitori, specie lì dove lavorano sbandati e maghi sotto copertura. Ninette ingoia a vuoto.
         «Non è affatto una buona idea. Spero mi riprenda domani senza troppe beghe.» Sa che il suo tono non è molto convito dall’espressione di Oberon, e spera solo che la cosa si risolva in fretta. Detesterebbe l’idea di lavorare per coloro che cacciano il suo amico, ma lo farà se dovesse l’unico modo.
  
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