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Autore: Cladzky    31/08/2021    2 recensioni
Ai margini dell'universo, sul piccolo planetoide del Linaker's Diner, fanno sosta degli stranieri che portano con loro il letterale seme della distruzione, turbando la pace della contea, fra la rabbia dello sceriffo, il disinteresse della signora Linaker e la fascinazione del benzinaio locale. Prima che i personaggi possano rendersi conto di quanto stia accadendo, persi nelle proprie piccole faide, il seme germoglia e così inizia il massacro ad opera di una creatura indefinibile. Bisogna ora distruggerla, prima che la sua assimilazione della materia vivente continui.
Tributo alla letteratura apocalittica della guerra fredda, il cinema horror degli anni 80, i film exploitation, ma soprattutto a un autore molto importante che ho incontrato qui su EFP. Si sto parlando proprio di te. Non sarei a questo punto se non mi avessi dato la spinta. Grazie.
Genere: Avventura, Commedia, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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―Oddio, sto a morì! Oddio, sto a morì!

―Non andare in iperventilazione ragazzo― Gli verso un altro bicchiere di latte la signora ―È giusto un po’ piccante.

Cladzky bevve in un istante, fece un po’ di risciacqui e mandò giù, ma la sensazione di bruciore gli stava ancora torturando le papille gustative. Con la bocca aperta si faceva aria con le mani.

―Dai qua, lo finisco io― Saltò sullo sgabello al suo fianco Lee, rubandogli il piatto di costolette e cominciando a mangiare quella fornace come fosse insalata a mani nude ―Avrei dovuto dirti che aveva un forte sapore.

―Nient’altro che devi dirmi?― Si appoggiò esausto al bancone l’uomo in tuta bianca ―Magari che mangiate mattoni al posto del pane? Avete cibo normale in questo posto?

―Qualcos’altro ci sarebbe― Disse fra una masticata e l’altra l’omone, infilando già la prossima forchettata ―Dovresti uscire in questo istante.

―Cos è, non sono più il benvenuto adesso?

―Non ti azzardare a farmi perdere di nuovo clienti con le tue maniere, Tony― Lo riprese la donna, portandogli via da davanti il piatto che aveva già finito.

―No, è una faccenda seria, devi uscire a prendere aria.

―Ma fuori non c’è aria...― Cladzky ragionò un momento. Poi si alzò di scatto, quasi dimenticando di infilare il casco, dirigendosi verso la camera di decompressione per uscire.

―Un momento! ― Gli gridò dietro Linaker, alzando uno scontrino ―Solo l’aperitivo era in omaggio, mi dovete pagare il resto!

―Torno subito, non mi sento benissimo― Disse trafelato, infilandosi dietro la porta d’acciaio che andava già a chiudersi ―Tenetemi d’occhio il robot, è molto delicato.

La porta si chiuse. DI nuovo si udì il rumore dell’ossigeno essere risucchiato dalla stanza di transizione e la porta esterna aprirsi. Pochi secondi dopo, una tuta bianca come le neve, vagava di fretta sulla superficie polverosa del planetoide, dirigendosi verso il parcheggio, inciampando e rotolando più volte, lasciando una scia di sassi che non avevano alcuna fretta a ricadere verso il suolo. La notte era finita. Un freddo sole si alzò oltre l’orizzonte curvilineo, mentre la nebulosa ne cadeva oltre. La proprietaria sbuffò, togliendosi un ciuffo da davanti il viso.

―Senti chi parla, sacco di carne― Si risentì Mark, per poi voltarsi al bancone ―Dite, almeno dell’acqua distillata per il radiatore ce l’avete?

 

***

 

La fascia d’asteroidi sopra cui era edificata la loro contea non offriva molte possibilità di crescita economica. Una leggenda popolare diceva che il fondatore, un industriale minerario con troppi soldi in tasca, avesse edificato la prima cava di sale, e relativi caseggiati, solo per potersi vantare che le sue proprietà si estendevano fino ai confini dell’universo. Le miniere si esaurirono presto e, terminato il sale, rimasero solo stabilimenti vuoti, operai disoccupati e un nome calzante: Dryriver. Chi non abbandonò il posto dovette reinventarsi e così vennero a galla i veri tesori di quella fascia: Non il sale, ma le persone. Per quanto suonasse sdolcinato, lo sceriffo Vincent Dawn la pensava così. Non vi erano grandi risorse di territorio da poter sfruttare a livello industriale, ma abbastanza terreni coltivabili, territori da pascolo e asteroidi scavabili per mettere su una piccola impresa locale. Gli piaceva sentirsi orgoglioso di Dryriver, specie in situazioni di noia come questa.

―Radio del cazzo― E giù un’altra sberla. Ma niente da fare, lo strumento di comunicazione della sua pattuglia non si accendeva neanche. Aprì la scatola dei fusibili ma parevano intatti. Doveva essere proprio un problema dell’alimentazione. Certo, aveva ancora la radio interna della sua tuta, ma non poteva connettersi sulle sequenze criptate del suo dipartimento. Si sdraiò sul proprio sedile, mani nei capelli, occhi al cielo buio, dominato da un sole lontano e insanguinato. L’officina di Carpenter si trovava a un’ora di lì. Se si fosse sbrigato forse…

Un movimento sospetto lo destò dai suoi calcoli. Qualcosa vagava nel parcheggio e la sua ombra era appena strisciata sotto la fusoliera del suo stretto velivolo. Si rigirò agitato nel suo sedile in pelle, mettendo mano al folgoratore. Anche sporgendosi per vedere oltre il vetro qualunque cosa fosse era fuori dal suo campo visivo, sotto o dietro la sua nave. Un paio di luci lo accecarono. Il disco giallo canarino al suo fianco era stato attivato elettronicamente, ma la copertura della cabina non si mosse per accogliere nessuno al suo interno, né si alzò in volo. Poteva vederne solo il brutto muso affilato, eppure era sicuro che qualcuno stesse operandolo.

Se quel qualcuno fosse uscito dal locale non ne aveva idea. L’assoluto silenzio dovuto alla mancanza d’atmosfera aveva permesso a quella figura di sgattaiolargli sotto il naso. Eppure, per quel breve frangente che l’aveva vista, era certo che non fosse umana. Non intravide alcun senso di camminata, quanto piuttosto di slittare sul terreno, né ne aveva l’aspetto, tozza, bassa e scintillante com’era. Spense le luci, indossò il casco, lo assicurò magneticamente e mise mano al folgoratore. Un attimo dopo la carlinga scattò ad aprirsi e lui balzò fuori con un salto di qualche metro in verticale. 

E lì, più in basso, oltre il mirino della sua arma, stava la cosa che aveva visto. Non era umano di certo, no, era una macchina. Era l’unità mobile di Mark Zero, immobile sul retro del disco di Cladzky, lancia termica chiusa nel pugno a tre dita. Atterrò sul disco stesso, sovrastando la macchina poco dopo, ma non se la sentì di posare ancora l’arma. Alzò invece il distintivo, sotto cui stava stampato un codice. Se l’intelligenza artificiale di Mark fosse stata abbastanza intelligente avrebbe ricevuto un contatto in pochi secondi.

―C’è qualche problema agente?― Fu la domanda sintetizzata che ricevette subito dopo dalla sua radio interna alla tuta.

―Cosa vai a fare in giro senza il tuo padrone?

―Revisionavo il disco dopo che ho finito di revisionarmi da solo. Costituisce un illecito tale da puntarmi addosso una pistola?

―Il pilota del disco, Cladzky, è ancora dentro?

―Si è sentito male. È uscito a sgranchirsi le gambe e vedere il tramonto. E quando il sole tramonterà si sposterà un poco più avanti verso l’orizzonte per vederlo daccapo.

―Hai detto che revisionavi il disco, non è vero?

―Certo.

―Hai pratica da elettrauto?

―Qualunque problema abbiate posso aiutarvi. E voi sapete che un robot dice sempre il vero.

L’agente infilò l’arma nella fondina e fece cenno di seguirlo sotto la pancia della sua pattuglia, dove si chinò e smontò un pannello, rivelando la centralina elettrica.

―La radio di bordo non funziona e non riesco a venirne a capo. Riusciresti a metterla a posto?

Il piccolo cingolato d’argento si avvicinò per esaminare la faccenda più da vicino.

―Se questo ti porterà a smettere di prendermi a calci e spararmi a vista, puoi starne certo. Ho solo bisogno della mia cassetta degli attrezzi, la trovi sul retro del disco.

Dawn andò a cercare quanto richiesto. Circolò attorno la figura sferica del mezzo e trovò un boccaporto aperto che dava su una piccola stiva all’interno del velivolo. Tirò fuori la torcia d’ordinanza e diede un'occhiata, sporgendosi all’interno. La prima cosa che illuminò era un contenitore metallico, dall’aspetto pesante e dalla superficie ferrosa. A grandi caratteri spigolosi e neri stava scritto su un fianco “Mantenere congelato”. Considerando che quella piccola stiva sembrava essere mantenuta a temperatura ambiente, ovvero lo zero assoluto di ogni materiale nello spazio tenuto all’ombra, si poteva star sicuri che rimanesse congelato a lungo. Accanto stava la cassetta degli attrezzi.

 

***

 

Cladzky azzardò un altro passo. Non l’aveva trovato all’entrata, né sul retro del locale. Que silenzio assoluto non lo aiutava di certo a mantenere la concentrazione. Come se non bastasse, dacché il sole, quando era uscito, si trovava allo zenit, sfarfallando sulla sua testa con un colorito da ghiaccio secco, verdognolo, ecco che era tramontato di nuovo, lasciandolo nel buio più completo. Fu tentato di accendere i fanali del suo casco, ma non voleva attirare l’attenzione di nessuno là dietro. Si spinse allora verso quell’orizzonte buio, inseguendo un sole che correva più forte di lui. Avanzando tremolante a passi lenti si guardò indietro. Pensava di aver percorso una gran distanza e invece si era portato a neanche cento metri dal Linaker’s diner. Nel parcheggio al fianco Est del locale, illuminato da due grossi faretti montati su pali, nessun veicolo si era mosso. Anche il cacciapattuglia era rimasto al suo posto, nonostante lo sceriffo si fosse congedato e pagato il conto da un quarto d’ora. Uscendo dall’ingresso poco fa lo aveva visto l’ultima volta dentro la sua piccola nave ad armeggiare con la radio di bordo.

―È una trappola dello sceriffo― Ragionò ad alta voce, tranquillo che per quanto potesse urlare nessuno l’avrebbe sentito. Tanto valeva allora tenersi compagnia parlando da soli ―Il bastardo e quell’altro tizio, Lee, devono essere in contatto a distanza e mi hanno adescato fuori sapendo che stavo aspettando qualcuno e, per non attirare sospetti, uno di loro è andato ad aspettare in macchina mentre l’altro lo contattava dal bagno, per non farmi accorgere di nulla.

Era possibile, ma perché avrebbero dovuto farlo? Se veramente lo sceriffo nutriva così grandi sospetti verso il carico che Mark Zero, quell’imbecille, si era lasciato sfuggire che trasportavano, avrebbe potuto benissimo chiedere di perquisire il velivolo. Ma se non sospettava di nulla, d’altra parte, perché diavolo non si levava dai coglioni una volta per tutte, invece di rimanersene ancorato nell’area di sosta?

Qualcosa gli afferrò un piede. Ci fu uno strattone e fu trascinato a terra e ancora più in basso. Guardò a terra, piantandosi il mento nel petto dalla sua posizione reclinata, e vide nero, lo stesso immacolato nero tipico della più completa assenza di luce. Ma vide qualcos’altro. Il nero si gonfiava oltre la superficie del pianeta e lo ricopriva. Presto quella stretta morsa gli risalì fino al braccio destro. Scalciò. Udì il nero vibrare dal dolore. Vide il riflesso di occhi sotto la suola che aveva piantato con decisione e poi più nulla. Sprofondò nelle viscere rocciose del planetoide, gettato come una bambola.

Rinvenne subito dopo, libero dalla presa dell’aggressore, ma vittima di una continua discesa e rotolamento lungo un piano inclinato che andava sempre più giù. Infine toccò il fondo dissestato con una botta sorda. La gravità era aumentata tutta d’un colpo. Sdraiato di schiena vide quell’ombra che l’aveva trascinato in quella buca scendere, nera macchia contro un cielo stellato. Gattonò fino ad allontanarsi ma toccò un muro di roccia contro cui si schiacciò contro. La figura era sparita di nuovo, confusasi nel buio della caverna. Ma l’aveva vista contro il cielo, non era una massa informe, era qualcosa che indossava una tuta spaziale come la sua.

Fu abbaiato da due fanali, quelli alle tempie di un tipico casco. Decise di accendere i propri. Davanti a sè apparvero pareti bianche di pietra scavata dall’uomo, tubature, pozzanghere d’acqua, pilastri di cemento, cavi elettrici, casse impolverate, fusti di latta, strumenti da scavo, batterie al litio e una tuta completamente nera, in piedi davanti a lui. Alzò un braccio, mostrandogli il palmo sinistro. Fu tentato di dargli un pugno, prima di notare sulla superficie guantata un numero a cinque cifre stampato sul tessuto. Riprendendo fiato, Cladzky alzò a sè il polso, su cui stava istallato un piccolo tastierino e inserì quel codice.

―...ora? Puoi sentirmi ora? Puoi sentirmi…

―Sì― Rispose a fatica, con la gravità aumentata che gli impose un fiatone da quanto faceva fatica a sollevare il diaframma. Ma fu sollevato in fondo. Lee non l’aveva ingannato.

―Sei tu Cladzky?

―E tu devi essere Russel.

―Piacere di conoscerti. Hai la roba?

Quel pugno, il pilota in bianco, lo diede davvero. Non andò a segno, perché ancora disabituato alla nuova gravità fu più lento del dovuto e Russel ebbe tutto il tempo di scansarsi.

―Ma c’era bisogno di assalirmi in questo modo?― Gridò il pilota in bianco nelle orecchie di quello in nero. In retrospettiva Russel avrebbe dovuto abbassare il volume della propria radio interna. Questa destabilizzazione permise a Cladzky di saltargli addosso e buttarlo contro il ripiano inclinato dal quale erano scesi.

―Certo che ce n’era bisogno, idiota!― Replicò l’altro, tossendo per il gomito sul collo. Poi puntò un indice verso l’alto ―Guarda.

Cladzky alzò lo sguardo. Sopra di loro stava l’apertura da cui erano entrati nella caverna. Le stelle sembravano essere sparite di colpo, sostituite da un’aura verdognola. Era sorto di nuovo il sole. Russel lo spinse via con un calcio allo stomaco che lo mandò in terra. Si sostò la polvere di dosso e lo aiutò a rialzarsi.

―Ascolta, mi spiace averti dovuto trattare così, ma saremmo rimasti allo scoperto in quella piana di giorno. Questo è l’unico punto dove possiamo trattare in pace― Si toccò un comando alla base del casco e la sua tuta sbiancò come le pareti di cui erano circondati. Ora due cosmonauti vestiti di latte s’aggiravano in quell’antro buio. Cominciò ad incamminarsi verso l’interno della grotta e fece segno al ragazzo castano di seguirlo.

―Si può sapere dove mi hai infilato?

―Una miniera di sale abbandonata. Questo è poco più che un condotto d’aerazione e uscita secondaria. Ho parcheggiato la mia nave all’ingresso, nell’emisfero opposto. Ma ritornando alla questione, hai la roba?

―Non con me, è rimasta nella stiva.

Russel si girò. Come molti seleniti la sua anatomia era simile a quella umana, ma percettibilmente diversa. Il suo casco, per esempio, si allungava come una piccola proboscide per accomodare un muso quasi equino da quanto era lungo, per non dimenticare il numero eccessivo di dita e l’anatomia digitigrada delle gambe. Sebbene non poteva vederli oltre il casco oscurato, sapeva che due occhi composti e tre ocelli lo stavano adocchiando furiosi.

―Anche lo sceriffo si trova piantato nel parcheggio. Come lo recuperiamo adesso?

―Ho mandato qualcuno di più discreto. Ho contattato Mark Zero via radio e gli ho detto di revisionare il disco così da non attirare alcuna attenzione. A questo punto non mi resta che contattarlo, ordinargli di rintracciare la mia posizione attuale e portarti il frammento. Quindi è meglio se mi paghi adesso mentre aspetti perché io devo andarmene subito― Fece per tornare da dove erano venuti ma gli si piantò davanti Russel.

―Dove vorresti andare?

―A pagare il conto. Sono uscito di fretta perché non avevo un soldo: contavo che ci saremmo incontrati dentro al locale e potessi darmi lì il compenso, ma la presenza di quello sceriffo ci ha scombussolati i piani, vedo.

―Mai dire “gatto” se non ce l’hai nel sacco― Rise Russel, spingendolo verso l’ingresso della cava, via dal condotto per cui erano scesi. Cladzky si dimenò animatamente.

―Andiamo, che ti costa?

―quattromilacinquecento rubli, ecco cosa mia costa.

―Ma quel campione è praticamente già nelle tue mani, te lo porterà Mark. Dammi almeno i soldi per pagare quanto devo alla signora, così da non attirare sospetti.

―Non penserà che sei scappato senza pagare finché il tuo disco rimarrà ben parcheggiato sul planetoide.

―E che mi dici dello sceriffo allora?

―A meno che non abbia dei sospetti su di te non verrà a cercarti. E lui non ha sospetti, vero?

Cladzky meditò bene prima di rispondere. Russel gli diede una spinta che lo mandò a gambe all’aria. Sbatté un braccio contro un pannello in metallo. Avevano raggiunto la nave selenita, ferma sotto la volta dell’ingresso alla cava. Il cielo stava tramontando su quell’emisfero.

―No, non credo― Disse, rimettendosi in piedi e alzando le mani ―Ho dato un buon alibi per…

―Ti ha fatto delle domande?

―Sì. Mi ha chiesto che ci faceva uno straniero qui.

―E tu che hai risposto?

―Non sono un idiota.

―Gli hai detto questo?― Chiese stranito Russel, poggiandosi sul tettuccio.

―No, intendo dire che ovviamente ho trovato una buona scusa. A cinque anni luce si trova la stazione di Cronenberg, una mia vecchia conoscenza.

―Quanto vecchia?

―Discutevamo da anni di filmacci horror su un forum quando ancora andavano di moda.

―E cosa centra tutto questo?

―Centra che ho fatto a Russel un favore oggi. Una piccola consegna innocua di modo che non sembrasse immotivata la mia presenza in questo luogo dimenticato da dio. Lo sceriffo ha anche chiesto conferma al mio computer di bordo e se c’è qualcuno di cui ti puoi fidare nell’universo sono i robot. Per lui non sono venuto a fare altro che riempirmi lo stomaco prima di tornare da dove sono venuto e sparire dalla sua contea.

Russel rifletté. Si grattò una gamba contro l’altra e alzò le spalle.

―Te la sei giocata bene allora. Ma se è così cosa sta facendo ancora nel parcheggio?

―E io che ne so? Noie al motore forse.

Il selenita si passò una mano sul casco. Avrebbe voluto asciugarsi la fronte se avesse potuto. 

―Va bene, voglio fidarmi. Chiama qui il tuo robot e i quattromila e passa rubli sono tuoi.

Cladzky non attendeva altro. Mise mano al tastierino, digitò la frequenza di Mark e aspettò. Il collegamento fu subito impostato.

―Mark, triangola la mia posizione. Porta con te il campione.

―Sono già qui― Un terzo fascio di luce sovrastò i fanali dei loro caschi. Dall’ingresso della miniera una figura in penombra si imponeva sul cielo notturno. Voltandosi di scatto puntarono i loro fasci sul nuovo arrivato. Lo sceriffo Dawn li stava stava puntando, torcia in una mano e il folgoratore nell’altra. Ai suoi piedi stava il cingolato dell’unità mobile di Mark ―Dice di tenere le mani bene in vista e seguirlo senza fare mosse avventate.

 
   
 
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