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Autore: KaienPhantomhive    31/08/2021    0 recensioni
[Aggiornamenti Settimanali | -1 Capitolo alla fine | Seguito de: "EXARION - Parte I"]
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La battaglia di Varsavia ha mostrato al mondo la forza del Quarto Reich Lunare. Ma la sete di potere non conosce limiti, da parte di nessuno. Nuove Divinità Metalliche attendono di essere risvegliate, e nuovi Contratti aspettano le loro anime come pegno. Fino a che punto può spingersi il desiderio di distruzione reciproca degli uomini? Ha senso ostinarsi a concludere una guerra, se è destinata a ripetersi per sempre?
Genere: Azione, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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20.

Acqua, sale e ghiaccio tritato

 

 

Una settimana dopo.

Ufficio del presidente; Gran Palazzo del Cremlino; Mosca.

 

Edvard Novikov era chino sulla scrivania di legno massello, intento a sfogliare ed approvare i provvedimenti sulla redistribuzione del denaro alla sanità pubblica che tanto gli stavano facendo passare le notti insonni. Spostare i fondi a favore della ricerca bellica, con quello che costava in particolare manutenere il gioiellino segreto noto come Fredya, comprimeva gli emolumenti a qualunque altro Ministero e minimizzare i danni non era una mossa né popolare e né da sbandierare ai quattro venti. A interromperlo ci pensò un bussare alla sua porta che precedette il garbato capolino della sua segretaria: “Прости, Эдвард. Прибыл доктор Khurana.”[1]

Впусти его, спасибо.”[2]

Quindi la donna si fece da parte, lasciò entrare un uomo dai tratti indiani armato di una valigetta in metallo e richiuse la porta.

“Ah, ben arrivato. La stavo aspettando” – Novikov si alzò in piedi e aggirò la scrivania a mano già tesa, con il suo Inglese da cui non riusciva a eliminare del tutto l’accento russo – “Piacere di conoscerla di persona, finalmente.”

“Il piacere è tutto mio, Presidente.” – gli ricambiò la stretta di mano.

“Volato bene?”

“Direi di sì, grazie. Con il Capitano Andrea McCoy siamo atterrati ieri. Un po’ di jet lag da digerire, ma ormai non ci faccio quasi più caso.”

“Non lo dica a me.” – Novikov attraversò la stanza per andare ad abbassare le saracinesche delle finestre, gettandoli nella semioscurità – “Di questi tempi viviamo in areo.”

Poi tornò dietro alla sua scrivania, ma senza sedersi: “Ha portato quello che mi avevano promesso?”

“Certamente.” – Khurana posò sul tavolo la valigetta; posò i polpastrelli dei diti medi sugli angoli e un bip segnò che le impronte digitali erano state riconosciute; la valigetta si aprì con un meccanismo fluido, separandosi in due cassetti – “Controlli pure.”

All’interno erano riposti ordinatamente 3 plichi di documenti cartacei, singolarmente foderati in cartelline trasparenti. Due di questi recavano, in alto a sinistra, un logo a cinque occhi. Novikov lesse i titoli stampati a caratteri squadrati sui fronti.

 

PROJECT EX

State of Work (Sept. 2050)

 

PROJECT ROSETTA

Supplementary documentation on “P-REDACTED-s’ Records” conducted by the Mars Research Committee (1 of 5)

 

Spostò lo sguardo sul terzo plico, contraddistinto invece dalle bandiere dell’Eurasia, dell’Austramerica e dal logo della NATO.

 

UNITED KINGDOM ROYAL NAVY | MINISTRY OF DEFENSE

Mission report (copy)

 

Su tutti e tre era stato apposto un timbro rosso, [CONFIDENTIAL], e su quello intitolato ‘PROJECT EX’ il relatore aveva aggiunto anche un [FOR YOUR EYES ONLY] a scanso di equivoci.

Novikov prese la cartellina, estrasse il primo documento e ne saggiò la filigrana tra pollice e indice, compiacendosene: “Con tutta la tecnologia che c’è in quest’epoca la carta è l’unica che non tradisce mai.”

Rajesh Khurana incrociò le mani dietro la schiena, dondolandosi un po’: “Spero di non risultare indisponente, ma questo è il momento in cui le devo chiedere il corrispettivo.”

“Come minimo.” – Novikov infilò una mano sotto il piano della scrivania, dove normalmente teneva le gambe, e si udì un rumore a scatto. La tirò su e stavolta fu lui a porgere una cartella: “Ecco a lei. Mi raccomando di estrarre e consegnare alla Seong-Wang e alla Reinfold solo i rispettivi capitoli.”

“Certamente. La ringrazio” – Rajesh la sostituì ai documenti nella ventiquattrore meccanizzata, richiudendola.

Espletate le formalità, Novikov non poté esimersi dal lasciarsi andare a facili pettegolezzi: “Certo che quell’operazione di recupero in Giordania avrebbe potuto essere condotta con un po’ più di discrezione.”

“Non è con me che ne deve parlare.” – lo scienziato fece spallucce – “Ma le Nazioni Arabiche sono ben consapevoli che abbiamo prove dei giochetti che i gruppi separatisti intrattengono con i Nazisti. Non credo vogliano fare a gara a chi la fa più grossa.”

E così dicendo liberò la scrivania presidenziale dalla sua valigetta e si preparò ad alzare i tacchi: “Con permesso. Buona giornata.”

“Le faccio chiamare un taxi per l’aeroporto?” – chiese Novikov poco prima che l’indiano uscisse dalla porta dell’ufficio.

“No, grazie. Penso che mi fermerò in città per un po’.” – un’idea che doveva essere divertente gli attraversò la mente, perché gli si accese il volto – “Mi piacerebbe salutare una vecchia conoscenza.”

 

*   *   *

 

Settore-12, Höhe -3; Golgotha.

 

Un getto d’acqua gelida investì il viso di Màrino, costringendolo a stringersi ancora di più in sé stesso. Se ne stava lì, nudo, in quell’ampia doccia pubblica vuota e scura, dall’illuminazione fioca e oppressiva, a farsi spruzzare d’acqua da una pompa di gomma. Gli sembrò che gli stessero tirando a dosso secchiate di ghiaccio che puzzavano di varecchina e qualche altro germicida.

Das ist genug.”[3] – disse l’uomo in camice bianco in fondo alla stanza.

Quella tortura era durata meno di un minuto ma era sembrata non finire mai e quando il soldato chiuse il getto Màrino rimase intirizzito, piegato su un lato, con i capelli zuppi d’acqua e i piedi in ammollo nella pozza che si era creata sul pavimento di metallo. Il dottor Karl Schultz gli si fece vicino. Sembrava il guardiano di qualche scimmietta esotica, prostrata e spaventata davanti a lui. Màrino non riusciva quasi ad alzare lo sguardo e gli venne istintivo coprirsi le nudità. Schultz gli prese la mascella con una mano, delicato ma fermo, e la rigirò da parte a parte, squadrandolo da sotto gli occhialetti tondi.

Seine Farbe sieht gut aus.” – disse tutto concentrato, e un altro uomo in camicie medico annotò qualcosa su un foglio di carta – “Er braucht nicht kein Melaninheilmittel.”[4]

Gli lasciò andare la mascella e indicò un tavolino alle sue spalle, accanto gli uomini, su cui era stata ripiegata la sua uniforme da Meister.

“Puoi rivestirti.” – stavolta lo disse in un ottimo Italiano.

 

Alle 7:45 in punto, Màrino entrava nella sala ristorazione dedicata ai vertici del Reich, dopo esservi stato accompagnato da un paio di guardie. Gli sembrò di essere a scuola, quando faceva tardi a lezione, perché trovò già sei individui in piedi dietro le loro sedie: quattro uomini in uniforme nera – dedusse che dovevano essere degli Ufficiali, dalle mostrine appuntate sulle giacche, ma non avrebbe saputo decifrarne il grado – e due Meister, che aveva ormai imparato a riconoscere da quegli abiti assurdi che sarebbero andati bene giusto per il Carnevale: Arachne e Schattennarr (non ricordava i nomi veri). Con una certa titubanza provò a sedersi a un posto qualunque ma l’iniziativa fu smorzata dal fatto che nessuno lo seguì. Si irrigidì imbarazzato e restò ad attendere un segnale di cui non aveva idea, tamburellando con le dita sulle cosce fasciate dai pantaloni gessati. Helena scosse la testa e ruotò gli occhi al soffitto: il tizio nuovo non aveva proprio idea di come stare al mondo. Fortunatamente per lui e il suo stomaco, non dovette attendere molto prima che Luft-Oberst, Schwarz Ritter e la signorina Winkler (l’unica di cui avesse memorizzato il nome e la prima ad essersi relazionata con lui, da quando era iniziata la collaborazione) entrassero nella sala, prendendo posto, e solo a quel punto tutti si sentirono autorizzati a fare lo stesso. Mentre gli altri iniziarono a mangiare il contenuto del loro vassoio, Màrino picchiettò il suo con la punta della forchetta: due fette sottile di qualcosa di lungo e bianco (un pesce bollito?), dei cavoli dal colore smunto e due fette di pane scuro come non ne aveva mai visto, e in più una piccola pasticca lasciata di lato. Il tutto gli ispirava una tristezza assoluta.

“Non è di tuo gradimento?” – chiese Helena piuttosto stizzita, che tuttavia gli concesse il dono di parlagli nel suo idioma.

“No, no…è buono.” – si sforzava di trovarlo tale, temendo di attirarsi le loro antipatie, e se ne mise in bocca un pezzo – “È buono.”

“Non c’è bisogno di fingere.” – aggiunse Jung, che non smetteva di ridere sotto ai baffi da quando lo aveva visto – “La cucina sulla Terra è più gustosa.”

Sembrava proprio che tutti se la cavassero alla grande con l’Italiano.

“Non è che di recente mangiassi tanto meglio.” – Màrino azzardò un risolino impacciato, infilzando un pezzo di cavolo. Poi, pensando che si stessero dimostrando inclini alla conversazione, prese l’ardire di porre addirittura una domanda: “Perché loro mangiano di là?”

Stava indicando con la forchetta la sfilza di teste rasate oltre la vetrata della loro stanza.

“Loro non sono come noi.” – rispose la Winkler, che era seduta davanti a lui – “Ci sono oneri e onori nell’essere un Ratsmiglieder.”

“Un…?” – Màrino cercò con lo sguardo qualcuno che gli spiegasse quella parola ma lasciò perdere in fretta. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una barretta incartata nella stagnola che gli avevano consegnato la mattina presto e la mise a fianco alla pillola misteriosa che era sul suo vassoio. Le scrutò dubbioso sul da farsi.

“Quella ti conviene tenertela per dopo, sennò a fine giornata non ci arrivi.” – disse ancora Helena, tra un boccone e l’altro – “La pillola invece è per evitare che ti vengano le voglie.”

“Voglie?”

Quelle voglie. Quelle da maschio.”

La mente di Màrino impiegò qualche secondo per passare in rassegna tutte le possibili ‘voglie’ che un uomo può avere e alla fine capì: “Ah.”

“Se proprio non riesci a contenerti dovresti prenderne una, ma un Meister dovrebbe imparare controllarsi.” – stavolta fu lo Schwarz Ritter a parlare, dal fondo della tavolata, ma neanche lui lo degnò di uno sguardo.

Decidendo di aggirare l’argomento scomodo, Màrino guardò ancora fuori dalla vetrata e rimase sorpreso alla vista del primo vero segno di umanità e positività in quel Purgatorio di ferro: un paio di donne (o presunte tali, visto l’accenno di seno, difficile esserne certi in quel mare di teste rasate tutte uguali) erano state accerchiate da un gruppetto di persone, maschi e femmine, e discutevano vivacemente. Sembravano più felici del resto della mensa.

“E lì che succede?” – chiese ancora.

“Abbiamo perso molti uomini di recente, c’è bisogno di ricambio.” – finalmente anche Luft-Oberst aveva deciso di sbloccare la lingua – “Sono state autorizzate a procreare.”

“Così non dovranno neanche prendersi quella pasticca per qualche giorno.” – aggiunse ancora Helena.

Le parole ‘autorizzate’ e ‘procreare’ suonarono così distanti e posticce alle orecchie di Màrino che sperò di aver frainteso: “Qui non…insomma, le persone non possono…?”

“Siamo in un sistema chiuso, nessuno può fare come gli pare.”

Quest’ultima risposta della Winkler sancì definitivamente un silenzio ancor più denso di prima, che fece sentire il ragazzo talmente a disagio da dover posare le posate. Si strinse di nuovo in sé stesso.

“Finisci di mangiare.” – quella fu l’ultima cosa che la Winkler che gli disse per il tempo restante – “Poi faremo un giro.”

 

Il giro promesso avvenne. Cominciarono da una passeggiata a Gravità ridotta lungo il cratere principale del Settore-12 e gli fece strada ai livelli inferiori. Gli mostrò la Reichschule – la scuola – ovvero un totale di ventuno bambini, tra i quattro e i dieci anni, intenti a fissare immagini di repertorio di un Hitler acclamato dal popolo e gli infiniti cortei cerimoniali di Norimberga, sotto gli occhi attenti di una giovane insegnate dai capelli raccolti in un’acconciatura che ricordava di aver visto solo in documentari sui primi decenni del XX secolo. Più che ripudio, Màrino provò un senso di profondo straniamento, nel vedere con quanto trasporto quella donnina parlava dei meriti del Terzo Reich, delle opere pubbliche costruite, del vivo amore che i loro antenati tedeschi avevano nutrito verso la Svastica, e con quanto innocente stupore i bambini restavano a fissarla. Quando la maestra giunse a proiettare le immagini di donne rasate e semi-svestite, che nella Francia del 1944 erano state accusate di collaborazionismo con il Reich per essere esposte all’ignominia pubblica dai loro connazionali, i bambini iniziarono a piagnucolare. Fu l’ultima cosa che Màrino vide, prima di chiedere di passare oltre.

Con Undine attraversarono poi i fumi e l’umidità dell’impianto di filtraggio aria e acqua, al Livello -4, e s’immisero nella sezione dedicata alla catena di produzione delle barrette alimentari.

“Devi capire che qui esistono delle regole e come nuovo membro della mia Divisione Marine Kreutz non puoi sottrarti.” – diceva Katrina mentre camminavano sulla passerella che sovrastava la filiera produttiva – “Cerca di abituarti il più in fretta possibile, perché la vita qui non è come sulla Terra.”

Sorpassarono gli enormi imbuti e cisterne in cui ribollivano informi masse organiche grigiastre, che venivano risputate in parallelepipedi di otto centimetri. Raggiunsero il Livello dedicato all’allevamento intensivo delle risorse organiche e Màrino resto a bocca aperta nel passare tra immense vasche illuminate, piene d’acqua e di pesci bianchi, sulle quali si muovevano scienziati in tenuta asettica.

“Qui mi guardano tutti strano.” – disse all’ennesima persona che gli riservò un saluto Nazista, solo per poi dargli le spalle e bofonchiare qualcosa di incomprensibile.

“È naturale.” – lei era sempre un passo avanti a lui e lo costringeva a fissarle la schiena per il grosso del tempo – “Tu non sei nato qui, non appartieni a questo posto.”

Forse avrebbe dovuto sentirsi sollevato che un gruppo di Nazisti non lo considerasse ancora parte integrante del quadro, ma un pezzettino di sé soffriva all’idea che ormai non era rimasto più un luogo al mondo – o fuori dal mondo – da chiamare ‘casa’.

“Però ciò non toglie che tu sia un Meister.” – continuò lei, guardandolo con la coda dell’occhio –“E, come ti dicevo, non c’è nessun altro come te.”

Da quella ittica erano passati all’ala dedicata all’allevamento da terra, una stalla grande come un campo di calcio dove poco meno di un centinaio di bovini di un bianco albino muggivano e si lamentavano, muovendosi lentamente lungo corridoi forzati verso porte automatiche, che si aprivano e chiudevano ritmicamente su antri scuri e per i quali gli animali mostravano un innato timore.

“Ognuno qui ha un compito. C’è chi rende tollerabile l’aria che respiriamo, chi si sporca le mani o perde un braccio nel riparare una falla o chi scende sul campo di battaglia. Perfino gli animali offrono la propria vita per la sopravvivenza del nostro Reich.”

Ora erano entrati nella Sala Macchine secondaria, dove Hydraggsjl giaceva inchiodato al suolo con funi d’acciaio e un gruppo di meccanici, abbarbicati sul suo corpo, era intento a saldare a fuoco una rudimentale placca di ferro scuro sulla ferita riportata alla spalla sinistra. Pensò che gli ricordavano una scena tratta da I Viaggi di Gulliver. Notò anche la presenza di almeno quattro ragazzini, tutti maschi, dai volti sporchi di grasso nero misto a chissà che altro, che facevano uno sforzo immane per tendere enormi cavi elettrici da un trasformatore a parete fino alla Camera di Flamel esposta nel torace.

“Anche i bambini devono lavorare?” – chiese guardando già dal parapetto.

“Voi terrestri considerati ‘bambini’ quegli individui a cui la società impone lo studio anziché il lavoro. Per noi non c’è differenza tra le due cose e l’una è necessaria all’altra. Per i primi dieci anni lasciamo che i nuovi nati si limitino ad apprendere le lingue e la cultura del nostro pianeta madre, ma dopo si richiede che anche loro assumano un ruolo all’interno del sistema.”

Màrino credette di iniziare a capire la logica, nemmeno troppo alla rovescia, con cui girava quel mondo. Guardando quell’automa – o essere? Non avrebbe saputo dirlo – dall’elegante ma mostruosa armatura cavalleresca, Màrino sentì che quelle persone erano a lavoro per lui e, allo stesso modo, lui era al servizio della sua Machine: “E il mio ruolo sarebbe solo…salire a bordo di Hydraggsjl? Devo solo combattere quando me lo ordinate?”

“No.” – Katrina si fermò e finalmente lo guardò negli occhi – “Il tuo – il nostro – è di riportare tutti a casa.”

Lo sguardo della donna parve assentarsi ma la verità è che vi si era accesa la luce dell’ispirazione: “Queste uniformi, la Svastica…sono solo simulacri. È il Reich a essere vivo. È un concetto, un’idea eterna che sopravvivrà a noi e proseguirà per sempre, quando finalmente tornerà a guidare i popoli della Terra! Noi siamo solo i veicoli attraverso cui si compie la volontà del Reich e del nostro Kaiser, suo Messia.”

L’estasi con cui quella donna parlava di una cultura che aveva trucidato milioni di persone appena un Secolo prima lo turbò, ma non gli passò neanche per la mente l’idea di contraddirla. Si accorse però di un dettaglio che fino ad ora gli era sfuggito: uno dei lunghi guanti neri di Katrina era leggermente sceso sull’avambraccio, rivelando quelli che potevano essere tre fori provocati da aghi sottili, intorno ai quali si erano formate delle macchie biancastre sulla pelle color caramello. Non erano cicatrici, ma qualcosa di più profondo: una sfumatura di colore, o forse la perdita di colore, a chiazze irregolari, come inchiostro bianco sciolto in acqua nera. La mente di Màrino le assimilò al ‘contrario di un tatuaggio.

“È…” – non era sicuro che fosse una buona idea indagare ma voleva anche sondare quanto in là poteva spingersi con le domande – “…è tutto a posto, con il braccio?”

Katrina rispose di sì, ma la velocità con cui si ritirò su la manica suggerì il contrario.

 

L’escursione trovò fine nella sala del Consiglio, nel Settore-1, appena in tempo per la riunione già in programma. Per la prima volta da quando esisteva la colonia lunare, tutti i seggi erano occupati.

“La sconfitta della Divisione Marine Kreuz è un altro duro colpo da digerire.” – fu il primo commento del Mond-Kaiser – “Pensare che siamo stati colti così impreparati è inaccettabile.”

Deludere così il reggente di Golgotha! Katrina Winkler si sarebbe punita da sola, colma di vergogna, se solo glielo avesse chiesto: “Mi perdoni, mein Kaiser. Mi assumerò personalmente la responsabilità di quanto accaduto.”

“Ma non è stata una tragedia totale.” – il fatto che non fosse troppo contrariato era una buona notizia, ma quello che continuasse a parlare come se non l’avesse neanche sentita era un segnale inequivocabile – “Il Risveglio del Drago delle Maree ci porta in una posizione di vantaggio rispetto alla Terra e la destrezza dimostrata da Blau Nixe merita una lode.”

“Vi…vi ringrazio.” – che provenisse o meno da un Nazista, quel complimento fece sentire Màrino di qualche utilità.

“Tuttavia…” – il tono di voce del Kaiser cambiò quel tanto che bastava da permettere chi lo conosceva meglio di leggervi tutto il disgusto e la rabbia che erano in lui – “…l’Eurasia si è dimostrata in possesso di un’ennesima Machine. Facendosi beffa dei nostri avvertimenti hanno nascosto la sua esistenza e hanno osato attaccarci di sorpresa. Questo può significare solo una cosa…”

Stava per dirlo? Stava per succedere davvero? Il presentimento era vivido in tutti, era una mossa che attendevano da tempo, ma l’accelerazione che avevano preso gli eventi era stata inattesa.

“…mostriamo loro che il Reich tiene sempre fede alla parola data!”

 

*   *   *

 

Centro di ricerca militare, sezione sperimentazione biologica; Mosca; Russia.

 

Ekaterina Asimov presidiava all’operato di altri due colleghi in camice bianco, affaccendati a un trittico di computer adiacenti, posti innanzi a una finestra di vetro rinforzato. La finestra dava su una sala ben illuminata, dentro cui quattro uomini in tenuta antisettica, mascherine e occhiali protettivi, armeggiavano e si scambiavano pareri intorno a una macchina diagnostica di forma cilindrica, dalla quale spuntavano solo le punte delle dita di piedi diafani.

Gli elaboratori della stanza di osservazione stavano riproducendo, strato dopo strato, la radioscopia di un corpo femminile. In un angolo della schermata, una telecamera era fissa sul viso di una ragazza dagli occhi chiusi. Mai si era vista in vita una giovane dalla pelle tanto pallida, né alcuna tinta per capelli avrebbe mai potuto riprodurre quell’azzurro fino alle radici.

“Proprio come immaginavo.” – Ekaterina studiò con attenzione le analisi biometriche, mentre finestre pop-up confrontavano eliche di DNA di almeno tre specie diverse – “La sequenza genomica corrisponde per il 14% con quella delle sWARd Machines.”

“C’è anche una compatibilità del 78% con il DNA umano, però…” – con un gesto del mouse, un assistente isolò tre bastoncelli di codice genetico, creandolo un grafico di raffronto separato – “…rimane fuori una sequenza di codice. È qualcosa di completamente nuovo.”

La donna sentì vibrare la tasca destra del suo camice e ne estrasse uno smartsquare. C’era un messaggio in sovrimpressione sullo schermo, che citava un luogo e un orario per un appuntamento. Memorizzò le informazioni e lo rimise in tasca.

“Forse è solo la conferma che stavamo cercando.”

Guardò ancora la radiografia e si soffermò sull’unica cosa per la quale non serviva una laurea in Ingegneria Biomeccanica per dedurre che dal luogo da cui proveniva quella ragazzina le cose non potevano essere come nel nostro: sotto la gabbia toracica, battevano alternativamente due cuori e quattro sacche polmonari.

 

*   *   *

 

Golgotha.

 

Nel mondo senza Sole della base lunare, mattina e sera si confondevano senza confini precisi. La sveglia nell’appartamento-cella di Màrino segnava le 18:13, un orario a cui non si sarebbe mai messo a dormire sulla Terra, ma la fatica mentale e il senso di spaesamento avevano distorto il tempo e l’orologio biologico.

Se ne stava supino sulla sua branda, in mutande e canottiera, gli abiti da Meister accantonati in un angolo. Neanche si era preso il disturbo di disfare il ‘cubo’, per quanto era duro e scomodo quel letto, e pensò che non ci si sarebbe mai abituato. Fissava la luce, pallida e nebbiosa come tutte le altre, che proveniva dalla lampada al neon sul soffitto. Il senso di nausea e giramento di testa che avvertiva da quando aveva messo piede sulla Luna ora si era fatto meno intenso, ma comunque presente, e trasportò una melassa fluida e faticosa di pensieri: l’immagine di Fernando De Bortoli spremuto nel suo pugno, impasti informi di proteine e fibre in un macinatore, lui ed Aaron che si gridavano addosso a vicenda, la Machine azzurra legata al suolo e coperta da bambini-schiavi, e poi la sensazione di venire disfatto – non c’era modo in cui avrebbe potuto esprimerlo a parole – dal flusso di fotoni del Bilröst Gatter per poi ricomporsi miracolosamente dentro quella base…tutto si mischiava nella sua mente e si sovrapponeva sulla sua retina.

Vomitò nel water chimico della sua camera.

Tornato sul letto, fissò ancora la luce che gli intorpidiva i sensi. Le pupille si restrinsero e le palpebre si dilatarono e un pensiero si rese inevitabile.

Ma che ho fatto?

 

*   *   *

 

Centro di Mosca.

 

Il cielo andava velandosi di nuvole, ma dietro di esse il Sole del tardo pomeriggio era ancora sufficiente a indorare i palazzi e le vie gremite di passanti e turisti. Il caldo torrido dell’estate aveva iniziato a cedere il passo all’umidità, sebbene i tempi delle rinfrescate settembrine a Mosca fossero passati già da un decennio.

Nataša Novikov risalì le scale della metropolitana, ritrovandosi sulla via principale della fermata ‘Park Cultury’. Parlava al telefono, cercando qualcuno con lo sguardo: “Non ti vedo…no, non sei tu…eccoti!”

Dall’altro lato della strada, Miša Vasyljev agitava un braccio. Cercando di non farsi investire, attraversò in fretta la strada senza passare sulle strisce e fu da lei. Rapido scambio di saluti, niente eccesso di abbracci o dimostrazioni fisiche, ma entrambi sapevano che non c’era un’altra persona al mondo che avrebbero voluto incontrare al posto dell’altra. Nat si scusò per il leggero ritardo – sfuggire alle grinfie dei bodyguard assoldati da suo padre aveva richiesto molta diplomazia – ma finalmente erano lì.

“Allora?” – chiese Nat, con una trepidazione ritrovata da mesi lontana da un campo di battaglia – “Qual è questo posto in cui mi volevi portare?”

“Datti tempo!” – il tempo era proprio quello che gli sembrava di avere sempre meno – “È un sacco che non ci concediamo una passeggiata solo tra noi. Prendiamocela comoda, no?”

E, offrendole il braccio, iniziarono le loro peregrinazioni pomeridiane, diretti verso il Gorky Park.

“Allora, che mi racconti?” – incalzò dopo poco.

“Che dire.” – sospirò, perdendosi nel fissare i passanti che venivano nel senso opposto della Garden Ring – “Ormai sono un’affezionata visitatrice del centro di addestramento, e meno male che si tratta solo di simulazioni. E ho iniziato a vedere una psicologa militare.”

“Sul serio?”

 

“Sì.” – Nat rispose con decisione, se ne stava parlando era perché aveva già passato la fase del rifiuto – “Dopo l’ultima missione ho pensato che mi servisse qualcuno con cui parlarne. Qualcuno di esterno ai fatti, intendo.”

“E ti aiuta?”

“Abbastanza, sì.”

Ma c’erano altri aggiornamenti da dare, meno incoraggianti: “Più che altro mio padre è sempre nervoso per le pressioni politiche da tutte le parti e i miei ora non vanno più tanto d’accordo.”

“Mi dispiace. Sarà una fase, sicuramente.”

Per Miša la coppia dei Novikov era sacra, praticamente i genitori che avrebbe voluto per sé, e immaginarli in lite era contro natura.

“Lo spero. Tanto perché sentirli discutere è proprio quello che mi ci vuole di questi tempi.” – scosse la testa, amareggiata – “Immagina: un bel divorzio in mezzo a una guerra! Molto maturo da parte loro.”

“Non pensare già al peggio!”

Lei si strinse nelle spalle e nel farlo si strinse anche a lui: “Ho come la sensazione che l’unica cosa che glielo impedisca ora come ora siano i giornali scandalistici.”

Sospirò ancora molto pesantemente e le venne da tirare un po’ su col naso: “Così diventeremo anche noi come quelle famiglie fallite che non riescono a salvare neanche un matrimonio.”

La frase innescò in Miša un colpo di tosse, da cui si riprese annuendo rassegnato. Si morse un labbro, con la bocca secca: “Già.”

“Oh. Cavolo…scusami, non ci ho pensato.”

Nat aveva razionalizzato solo dopo e si sentì davvero indelicata per aver parlato senza connettere prima il cervello alla bocca.

 

La famiglia di Miša era una di quelle, con l’ulteriore aggiunta che era una coppia un po’ attempata rispetto all’età del figlio. Tutto era successo quando andava ancora alle medie. Suo fratello Dmitry, di otto anni più grande, era da poco entrato all’accademia militare, ma l’esperienza era durata poco. Un giorno, una telefonata inattesa li aveva informati di un’esercitazione aerea – il test di volo 457, così l’avevano chiamata – finita molto male. Nat non aveva mai capito appieno le dinamiche familiari – dopotutto lei era ancora alle elementari – ma era chiaro che qualcosa si era rotto tra i genitori del suo amico e come spesso accade in questi casi, il peso delle conseguenze era ricaduto sulle spalle dell’ultimo figlio rimasto. Nat non aveva mai osato confessarglielo, ma riteneva che quella vocazione alla carriera militare, quella dedizione nel cercare di primeggiare nel volo, fosse una diretta conseguenza degli eventi, consapevole o meno.

 

“No, no, è tutto a posto.” – fu la sua risposta che non riuscì a convincere troppo Nat – “In fondo è vero.”

Quindi si schiarì la voce e migrò la conversazione altrove: “Comunque potresti anche andare a vivere da sola. Fai come me!”

Nat arricciò la bocca e lo squadrò dall’alto del suo metro e sessantacinque: “Tu vivi in una caserma, Miša.”

Lui, per tutta risposta, fece spallucce: “Tra maschi ci si intende meglio.”

E per il resto del pomeriggio non si toccò più l’argomento, la giornata era troppo corta e l’occasione troppo rara per poterla sprecare crogiolandosi nell’autocommiserazione.

Si lasciarono cullare dal venticello pomeridiano mentre attraversavano con calma i viali alberati e i ricchi giardinetti in fiore del Gorky Park, fermandosi di tanto in tanto ad osservare i battelli turistici attraversare placidi il fiume Moskva, o ingannando il tempo davanti ai giochi d’acqua delle grandi fontane. Ragazzi facevano slalom tra i passanti su hoverboard non proprio padroneggiati alla perfezione, e una famiglia passò loro accanto pedalando su biciclette elettriche, come un’anatra seguita dai suoi pulcini. Il Sole era ancora alto ma il colore mutava e sfumava verso tinte sempre più roventi e gli eleganti lampioni storici iniziavano ad accendersi. Un paio di volte si trovarono a dover aggirare le insistenze di un gruppo di attivisti politici, che dai loro gazebo improvvisati spargevano volantini contro il Governo, dai quali Nataša si liberò fingendo un interesse tattico, quel tanto che bastava per imbonirli e poter telare via con meno resistenze.

Dopo circa un’ora e mezza di dolce far niente, un certo languorino li portò a rintanarsi in uno dei più recenti locali aperti nel parco, proprio al centro di uno spiazzo attorniato da dalie e ciclamini viola e bianchi. Era una pasticceria graziosa, molto femminile nei suoi colori confetto, e la scelta era da attribuirsi più a Nat che al suo amico, un po’ come tutte le volte in cui uscivano insieme. Quando i dolci arrivarono a tavola, i commenti sulla bontà di questo o quel pasticcino non si risparmiarono e quando Miša fu sul punto di ordinarne una seconda porzione, Nat gli diede un colpetto sulla mano: “Basta ingozzarti di carboidrati!”

“Ma io brucio in fretta” – bofonchiò, quasi sputando un pezzo di pasticcino, e gonfiando un bicipite – “Guarda che roba.”

“.. e ora nuovi aggiornamenti in merito a quanto accaduto in Italia la settimana scorsa.” – al teleproiettore appeso sul muro stavano passando un servizio – “Si avvisa che le immagini potrebbero urtare la sensibilità degli spettatori.”

“Ehi, guarda lì.” – trovandosi di fronte al TP, Nat richiamò l’attenzione di Miša per farlo voltare.

Sull’ologramma passavano immagini tanto mosse da far venire il mal di mare: sembrava una città antica, da quanto si poteva scorgere dalle balconate dei palazzi, ma polvere e calcinacci volavano d’dappertutto; chiunque stesse facendo quella ripresa doveva aver incespicato, perché la visuale finì quasi al livello del terreno, dove fu un per un soffio che non venne travolto da una folla urlante e in fuga. Poi l’inquadratura si era rialzata e due colossi – uno azzurro e uno bianco – erano rimasti visibili per un paio di secondi, più alti degli edifici circostanti. Il video si bloccò e la linea tornò a un servizio di qualità migliore. Ora in primo piano c’erano solo una giornalista e un signorotto in carne con il microfono puntato. Dietro di loro Nat e Miša riconobbero quello che restava di Piazza San Marco (non ci erano mai stati, in Italia, ma l’avevano vista tante volte nei documentari e su Internet), dissestata e tappezzata di nastri della polizia. Tutto appariva calmo, ma di una calma inerte, cimiteriale.

“Io l’ho visti bene, ero lì.” – disse l’intervistato; parlava in Italiano, richiedendo che la voce di un traduttore si sovrapponesse alla sua – “Uno è uscito dall’acqua e poi quello bianco era nascosto in una nave. Non lo so, non lo so perché combattevano. Hanno iniziato a sparare dalle navi e poi ci sono state esplosioni dappertutto.”

Lo videro girarsi in direzione della piazza, con la faccia che gli si faceva paonazza. Si morse un dito per non piangere, ma l’emozione era impossibile da nascondere: “Guadate qua, che disastro! Non si riconosce più, non si riconosce più…”

Il servizio tagliò su due ospiti in studio, accanto al conduttore, ma ogni tentativo di seguirne i commenti fu vano, perché un brusìo generale si era già sollevato nel locale: “Dio mio, guardate lì!”, “Ma sono veri?”, “Somigliano a quelli di qualche mese fa!”, “Ho sentito che ci sono anche gli Inglesi di mezzo.”, “È il mondo che va a puttane, guardate se qui non scoppia la Terza Guerra Mondiale!”

Nat aveva seguito attonita, come se fosse costretta a rivivere in un incubo da cui pensava di essersi appena svegliata: “Non è possibile…”

“Ce ne sono altri?” – anche a Miša penzolava la bocca come un pesce.

“Questo vuol dire che ci sono anche altri Mei-”

“Non dovremmo parlare di queste cose qui.” – Miša frenò Nat prima che i pensieri le sfuggissero po’ troppo nitidamente.

Estrasse il suo smartsquare e si preparò a pagare, selezionando la carta di debito digitalizzata: “Meglio se ce ne andiamo.”

 

*   *   *

 

Erano le ventuno di sera.

L’attesa di Ekaterina Asimov veniva scandita dal tamburellare delle sue unghie sulla pochette, al tavolo del ristorante a cui sedeva già da qualche minuto. Non erano molte le serate che si concedeva per sé oltre l’orario di lavoro e la cosa meritava almeno di rispolverare il suo abito di seta panna e di dare un senso alla parure d’oro che le era stata regalata ai tempi del PhD. Il Blue Saxophone era un locale molto chic, immerso nelle luci ovattate di lampadari art déco e frequentato da una clientela raffinata di coppie non proprio di primo pelo miste a giovani benestanti, tutti seduti a tavoli rotondi coperti da tovaglie bianche e apparecchiati con gusto. Sul palco centrale un pianista suonava arrangiamenti soft di Sinatra, e una cantante adagiata sulla coda nera prestava la sua voce ammiccante.

 

Quando vide arrivare gli interessati, Ekaterina si alzò in piedi per andare loro incontro: Rajesh Khurana, che poteva godere del privilegio degli uomini di farsi bastare un completo per portare a casa il risultato, e una giovane donna afroamericana – Andrea McCoy – sulla quale un tubino nero d’alta sartoria, un paio di sandali gioiello e un pendente dorato davano il meglio di loro.

“Non c’è niente da fare.” – Khurana accolse la sua vecchia conoscenza con un ampio sorriso – “Eka mi fa sembrare sempre in ritardo anche quando sono puntuale.”

“Ben trovato anche tu, Raji.” – ricambiò il sorriso, più contenuto.

“Eka, ti presento Andrea McCoy.” – si fece da parte per lasciare avvicinare le due donne – “Andrea, Ekaterina Asimov.”

“Sì, ci conosciamo di nome.” – disse Andrea, sorridente, tendendo una mano – “Molto piacere, comunque.”

“Diciamo di sì. Piacere mio.” – Ekaterina la strinse e nel farlo non poté non pensare che il girovita di quella donna fosse migliore del suo e che forse il nero sarebbe stato più adatto alla sera.

I convenevoli durarono poco e, mentre si accomodavano al tavolo, Andrea posò solo la borsetta: “Vado un attimo a lavarmi le mani, voi scegliete pure.”

Ekaterina attese che la linea sinuosa della sua schiena fosse abbastanza lontana prima di lasciarsi andare a un secco: “Una volta pensavo che ti piacessero le bionde.”

“E io che ti piacessero le donne.” – ribatté lui, iniziando a sfogliare il menù.

“Che cafone.” – Ekaterina si aggiustò l’asticella degli occhiali e prese anche lei un menù.

“Hai cominciato tu.” – Rajesh non riusciva a contenere un sorrisetto divertito; quel pizzica-e-mozzica continuo gli era mancato.

Con il tono di chi sta venendo distratta dal fondamentale compito di scegliere l’antipasto, la Asimov cambiò argomento: “Come mai ti sei trattenuto? Pensavo ti occupassi del Progetto Ex.”

“Cavolo, Eka, non ci vediamo da cinque anni e già mi hai rifilato un rimprovero e iniziato a parlare di lavoro?” – stavolta era più serio che ironico, ma non se la prese troppo – “Per la verità sto lavorando a varie cose, di recente. Mi hanno affidato temporaneamente al Progetto Rosetta, per cui resterò nei paraggi per un po’.”

Ekaterina lo guardò da sopra il bordo delle lenti allungate degli occhiali da vista: era ancora un bell’uomo, ma qualche ruga ai lati degli occhi non poteva essere nascosta. Averlo accanto di nuovo, dopo tutto quel tempo, era strano. Le sembrava di conoscerlo un po’ meno, di averlo in parte scordato, ma ogni parola, ogni movimento impercettibile delle sue mani o della sua testa, le facevano riaffiorare ricordi ed era come se fossero passati mesi, al massimo.

“Rieccomi.” – Andrea McCoy era tornata al tavolo e il suo arrivo aveva incentivato anche un cameriere a farsi vicino. Senza chiedere la carta dei vini, Andrea ordinò un bianco frizzante e Rajesh la seguì a ruota.

La richiesta della Asimov, però – “Un bicchiere d’acqua e sale, con del ghiaccio tritato. E anche un po’ di lime, grazie.” – lasciò di stucco Andrea.

“Questa è la prima volta che la sento!”

“Sono a dieta.” – le rispose l’altra, mentendo.

“Lascia perdere la dieta, fatti dare un consiglio, e goditi il cibo, che è una delle poche gioie della nostra vita. Per la linea basta un po’ di palestra.”

“Purtroppo non mi resta molto tempo, a fine giornata.” – si era di nuovo irrigidita e ora perdeva tempo a lisciarsi il tovagliolo sulle gambe.

Rajesh non si intromise nella conversazione, ma quella serie di risposte non gli era nuova. Dopo poco il cameriere fu di ritorno con i vini e riempì loro i calici, al che Ekaterina pensò che sembrare un po’ meno sulle sue fosse più appropriato e chiese: “Allora, Andrea. Ho saputo che hai condotto la missione di recupero della Siren. È stata decisiva per-”

“Oh, no, perdonami, cara.” – la frenò subito – “Sono certa che da qualche parte al Ministero avrete un intero fascicolo su di me che potrà raccontarti tutto quello che mi riguarda.”

Poi prese anche la bottiglia dal secchiello argentato e, a dispetto delle sue rimostranze, ne versò un bel po’ anche nel calice dell’altra donna: “No, oggi è il mio giorno libero e francamente ho solo voglia di spendere un mucchio di soldi in vini costosi e cibi che non mi sazieranno! E tu dovresti fare lo stesso.”

E così fu. Al piano misero su un’interpretazione sensuale e melanconica di Fly Me To The Moon e la serata passò in fretta, tra una tartina al caviale e una schiuma di finocchio. La musica accompagnava discorsi di giorni passati e i ricordi di gioventù cambiarono aspetto al locale. Ekaterina e Rajesh raccontarono di quanto il Blue Saxophone fosse diverso, una decina d’anni prima: un pub dalle mura in legno per amanti di jazz o studenti insonni che approfittavano della notte per stendere la tesi di ricerca. Ora era un ristorante d’alto livello, si era arricchito e aveva cambiato aspetto – e in questo videro una certa affinità – ma continuava a dare musica jazz in un disperato bisogno di nostalgia. Il mix di vino e molluschi fece il suo effetto, di soppiatto, nel fondo delle loro menti, sbloccando la lingua sempre di più e, in quella giostra di amabili chiacchiere, centritavola elaborati e ghirlande di lampadine, fu come se il Natale fosse arrivato alla fine dell’estate. Quel Natale dai tempi dell’università.

 

Uscirono dal ristorante che ancora ridevano, le donne un po’ instabili sui tacchi alti a tarda serata, e si ritrovarono sulla grande via della Naberezhnaya Tarasa Shevchenko, proprio nel punto in cui curvava costeggiando il fiume, a pochi passi dalla montagna squadrata di luci dell’Ukraina Hotel.

“Allora io vi abbandono, questi tacchi mi stanno uccidendo.” – Andrea aveva già il suo taxi ad attenderla – “Ci vediamo in albergo, Raji.”

Si salutarono e l’auto partì. Ekaterina chiese all’uomo se non avesse preferito accompagnarla ma lui propose di fare due passi.

Indugiarono nell’aria serale, che finalmente pareva aver rinfrescato, camminando lungo una linea un po’ sbilenca. Rajesh aveva abbandonato l’idea di tenersi la giacca indosso e anche Ekaterina avrebbe fatto volentieri a meno delle scarpe, ma a trattenerla c’era qualcosa di invisibile che metteva anche una barriera di circa un metro tra loro. Le melodie ascoltate al ristorante restavano sedute prepotenti nella sala da ballo della loro testa e immaginarono di camminare su grandi tasti di pianoforte, continuando a suonare quelle note a ogni passo. Parlavano poco, per non spezzare quella melodia che era solo nella loro mente.

“Comunque,” – Rajesh provò a interrompere quel loro torpore, accavallando la giacca su una spalla – “l’ho notato che lo hai fatto ancora, sai?”

“Che cosa?”

“Quella fissa dell’acqua e sale.”

“E quindi?”

Khurana prese un bel respiro mentre sapeva di starsi per inoltrare su un sentiero accidentato: “La chiedi quando sei a disagio. Lo hai sempre fatto, da quando ti conosco.”

Lei ruotò gli occhi al cielo, accelerando appena l’andatura e frapponendo un altro mezzo metro tra loro: “E tu invece non hai mai smesso di fare l’invadente. E nemmeno il cascamorto.”

“Ooh.” – anche lui accelerò, per riprenderla, improvvisamente solleticato – “È un po’ di gelosia quella che sento, Asimov?”

“Ma per favore.” – si voltò dall’altra parte e lo colpì leggermente con i capelli biondi – “È che vedere un uomo della tua età comportarsi come un adolescente in fase ormonale è imbarazzante.”

“Che posso farci!” – Rajesh allargò le braccia, ormai un po’ pezzate di sudore – “Concedimi un po’ di gioco. Provo solo a destreggiarmi tra le frustrazioni di ogni giorno e il gentil sesso.”

Le si avvicinò ancora.

“Sai, non è per niente facile. Specie quando una donna che porta scarpe col decolté incontra una che preferisce i sandali.”

“Che vuoi dire?” – lo guardò stranita, un po’ per la stanchezza e un po’ perché si sentì chiamata in causa.

“Che fingi di aver paura di camminare sui tacchi.”

“Questa cosa che hai detto non ha senso.” – ancora qualche passo più lontano da lui – “E poi io li porto tutti i giorni, i tacchi.”

Lui continuò a parlare seguendo un discorso tutto suo: “Anche la scusa che non hai tempo per te stessa. Non mi è sfuggita nemmeno quella. Pensavo che ti fossi trovata qualcuno, nel frattempo.”

“Ma…” – Ekaterina scosse la testa ancora e non si accorse di stare stringendo la pochette – “…che razza di discorsi sono, adesso?”

“Dovresti guardarti di più in giro, uscire con qualcuno.” – proseguì Rajesh, imperterrito – “Sicuramente ti farebbe bene avere una relazione.”

Tutta la serenità della serata svanì in un soffio. Ekaterina sentì una collera difficilmente spiegabile farle saltare i nervi: “Ah! Non ho intenzione di accettare lezioni da un uomo che passa il poco tempo libero che ha a spingere ferro in palestra, solo perché non ha mai saputo approcciarsi in modo costruttivo a una donna!”

Al suono di queste parole Rajesh Khurana si inchiodò ed Ekaterina se ne accorse solo dopo aver percorso qualche altro metro. Si voltò e lo vide fermo, severo in viso, all’angolo di un semaforo. Forse aveva esagerato.

“Scusami,” – gli disse – “sono stata ingiusta.”

“No, scusami tu.” – le si riavvicinò, cautamente – “Non sono affari miei.”

Avevano ormai raggiunto il ponte che congiungeva le due sponde del Moskva e ripresero a camminare più lentamente.

“È che tutto si è fatto più difficile.” – Ekaterina si fermò a metà del ponte, appoggiandosi alla balaustra, fissando le acque nere illuminate dai lampioni – “Papà è morto, lo sai, e ora ho paura di non essere abbastanza, da sola. La guerra, questo…schifo di faccenda in cui siamo capitati. Dio, siamo riusciti a coinvolgere perfino un ragazzino.”

Si portò una mano alla bocca e Rajesh combatté l’istinto di sfiorarla: “Devo chiederti scusa anche di questo. Ho saputo del lutto, ma forse non ti sono stato vicino come avrei dovuto.”

“No, è normale.” – lei si rigirò verso di lui, ma ancora senza trovare la forza di guardarlo – “Il nostro è un lavoro per gente sola, dopotutto.”

Il mascara iniziava a sgretolarsi.

“Ognuno si è fatto la propria vita ed è giusto così. Però, quando ti perdi di vista e poi ti rincontri, fa sempre strano.” – le labbra si arricciarono in qualcosa che non era né un sorriso né una smorfia di tristezza – “È come tagliare un filo colorato e riattaccarlo in punto diverso, dove la trama non combacia più. E in quel pezzo che è andato perduto possono essere cambiate molte cose. Anche riconsiderare le proprie aspettative dalla vita, o pensare se si è più da scarpe col decolté o da sandali.”

Lui si masticò la lingua, annuendo a testa bassa: “Abbiamo sprecato un po’ di tempo, eh?”

“Più che altro ti accorgi che le cose che rimandavi al giorno dopo, o al mese dopo, o a un altro anno…non è più il momento di farle, a un certo punto.”

Anche lei annuì e le venne istintivo guardarsi un anello che portava al dito: le andava un po’ largo, quella sera.

Fu un attimo. Lui le prese il mento, lievemente, sollevandolo solo quel tanto che bastava per poterla guardare finalmente negli occhi. C’era una mezza Luna in cielo. Sotto le luci della città, entrambi si trovarono ad ammettere senza dirlo che la bellezza non era sfiorita, per nessuno dei due, e che ora si era rifatto vivo, dalla polvere del Passato, quel senso di insicurezza e fragilità che provavano ogni volta che erano l’uno accanto all’altra.

Fammi volare fino alla Luna! – diceva quella canzone – E fammi vedere com’è la primavera, su Giove e su Marte!

“Eka…” – le parole gli uscirono con un soffio.

I lampioni erano una cornice ricamata di nero, i loro sguardi si annegarono l’uno nell’altro.

In altre parole, prendimi la mano!

Le schiene si incurvarono finché le labbra furono così vicine da potersi sfiorare.

Ma…

Rajesh si trovò una mano poggiata sul petto. La donna che aveva davanti si era fatta indietro e aveva abbassato lo sguardo. Si lasciò respingere deliacamente. La bocca gli si era seccata e pensò che anche quella sera la sua personale regola aurea dell’andare in bianco non era stata confutata.

Ekaterina faticò solo un attimo a riprendere parola, ma alla fine riuscì ad accennare un sorriso: “Grazie per la serata, Raji.”

Lui si fece da parte, alzando i palmi in segno di resa: “Ha fatto piacere anche a me.”

Ekaterina indietreggiò di qualche passo e si incamminò verso l’entrata della metropolitana, dall’altra parte della strada. Prima di andarsene, trovò la forza di concedergli un ultimo saluto: “Ci vediamo presto.”

In altre parole, ti prego, sii sincero!

In altre parole…

 

*   *   *

 

Nel silenzio e nel buio della suite d’albergo, Andrea McCoy sedeva a terra davanti al divano damascato, sul quale aveva gettato abito e scarpe. Solo le luci di auto passeggere fuori dalla finestra illuminavano il suo viso rigato da rivoli di trucco sciolto. Guardò, per l’ennesima volta da quando era lì seduta, la catenella che reggeva in mano con appese due targhette metalliche. “F.S.A. Navy” l’una, “Eurasia Navy” l’altra. Il suo cognome e nome, seguito dal codice di previdenza sociale, su entrambe.

Quella notte nella mente di Andrea McCoy suonava una musica molto diversa da quella che aveva accompagnato i passi dei suoi colleghi. Una musica scandita da grancasse di spari, orchestre di esplosioni e cori di grida di compagni e sottoposti.

Se solo avessero potuto immaginare quanto sfiancante era dover indossare il vestito buono e fingersi disinvolta nel camminare su quei trampoli, o nel conversare del più e del meno davanti a un tavolo apparecchiato, come se il male del mondo cessasse di esistere solo per la voglia di nouvelle cuisine! Quanto stomaco serviva per convincersi che chiudere la copertina di un fascicolo sarebbe bastato a cancellare dalla coscienza una lista di nomi defunti!

Gli occhi lucidi le si posarono brevemente sulla bottiglia di Polugar che aveva preso dal frigo bar: era mezza vuota; l’altra metà l’avrebbe rigettata di lì a poco nella tazza del bagno.

La notte era ancora lunga, ma l’alcool non si decideva a fare effetto e il trucco era già quasi tutto sciolto.

 

*   *   *

 

Nat e Miša misero piede sul tappeto rosso che rivestiva il pavimento in pietra e una zaffata di fumo e alcool investì le loro narici.

 

Miša l’aveva portata in quel posto dopo esser usciti dalla pasticceria e aver passato in preoccupato semi-silenzio la successiva mezz’ora. Visto il brusco calo di positività, Miša aveva colto l’opportunità per suggerire di visitare finalmente il posto da cui tutta quella giornata era dipesa e l’aveva riportata praticamente all’inizio del loro itinerario, dove avevano preso la Linea 1 metropolitana e da Park Kultury avevano raggiunto la fermata di Okhotnyy ryad. Erano scesi e avevano doppiato il Teatro Bol’shoj, fiancheggiandolo sulla destra e percorrendo la via di Petrovka Ulitsa per meno di mezzo chilometro, finché non si erano trovati davanti a uno squallido venditore di cibo cinese da strada, alla vista del quale Nataša non volle credere che potesse davvero rappresentare il top dell’intrattenimento serale per il suo amico. Ma quando Miša era entrato e aveva salutato il ragazzo asiatico dietro il bancone, rivolgendogli un gesto con la mano che aveva una connotazione decisamente comunista, e aveva anche detto qualcosa sulla scia de “Il solito.”, le cose erano cambiate. Il tipo li aveva scortati in bagno – Nat stava per lasciarsi andare a un’esclamazione davvero poco garbata – e aveva bussato un paio di volte sulla parete. E si era aperta.

 

“Uno speakeasy?!” – l’eccitazione di Nat era tornata, mentre scendeva le scale intagliate nella pietra verso un seminterrato un po’ claustrofobico ma arredato in modo indiscutibilmente figo. Luci calde e una trentina di persone, uomini e donne a un veloce sguardo non troppo più grandi di loro due, che si passavano di mano bottiglie e bicchieri. Lo speaking sarebbe stato più easy se la musica elettronica che suonava dalle casse appese ovunque fosse stata leggermente più bassa, ma le orecchie si abituarono presto. C’erano tappeti rossi su tutto il pavimento e banconi in legno, che dovevano risalire ai primi del ‘900, dietro ai quali un barman rasato versava alcolici a profusione, poster vintage dei primi anni 2000 e tende di vari tessuti e fantasie appese alla bell’e meglio alle pareti ricavate nella pietra. Tutto appariva un po’ logoro e casuale, ma nel complesso il risultato poteva essere voluto e riusciva a conservare il fascino dell’intenzione originale.

“Allora?” – le chiese sornione – “Ti ho sorpresa, stavolta, ammettilo.”

“Sei arrivato, finalmente! E quanto ci voleva! – l’esclamazione venne da un ragazzo piuttosto sudato con una t-shirt kaki, che si era avvicinato con tale impeto da quasi urtare Miša e che si era trascinato dietro altre due ragazze.

“Mica ti sarai già scolato tutto, spero!” – fece Miša.

Nat era rimasta un po’ inebetita da quella comparsa ma una mano afferrò la sua e la fece voltare: “Tesoro!”

Anya e Irma: in una mise scollata, drink colorato in mano e uno stato d’ebbrezza non inferiore a quello del loro accompagnatore.

“Che ci fate voi qui?!”

“Ce l’ha fatto conoscere Miša!” – rispose Anya, tirando su un sorso di drink con la cannuccia – “È fichissimo!”

“Per farti una sorpresa!” – aggiunse Irma – “Cazzo, vatti a prendere uno di questi cosi, è da paura.”

“E tu devi essere la figlia di Novikov, quindi!” – ora il ragazzo si era rivolto a lei – “Ivan, molto piacere.”

E senza nemmeno darle il tempo di replicare mollò una pacca sul torace di Miša: “Ma quante amiche mi hai portato stasera?”

Ma si beccò un’occhiata intimidatoria da parte dell’amico.

“Dai, forza, venite.” – senza neanche curarsi che lo stessero seguendo davvero, il ragazzo si ritirò verso il centro del locale, tirandosi dietro Irma e Anya, che le lanciarono a Nat l’invito a unirsi prima di sparire tra mille schiene. Un “Ehi, Miša si è portato la ragazza!” riecheggiò sopra la musica e accese un entusiasmo generale. Anche Miša era sul punto di gettarsi nella mischia, ma Nat lo afferrò per la maglietta, fermandolo. Con la migliore delle espressioni di rimprovero che riuscì a sfoggiare, chiese: “Aspetta un attimo, tu! Che cosa hai raccontato a questi tizi? Chi sono?!” “Tranquilla! Niente di compromettente.” – le rispose, un po’ troppo su di giri.

“Ah no?!” – quel ‘la sua ragazza’ già le sembrava di troppo.

“È tutto a posto!” – la prese per un braccio – “Dai, ti faccio conoscere qualche amico.”

Avvenne un rapido giro di saluti, in cui Nat fu sballottata a destra e a manca e si ritrovò a reggere i bicchieri di almeno due persone di cui non aveva neanche afferrato il nome. Per tutti era “la figlia di Novikov” o “la figlia del Presidente”, e per qualcuno anche “la ragazza di Miša”, convinzione che si premurò di smentire il più in fretta possibile. Le quote rosa della serata erano in rapporto di 3-a-1 rispetto alla compagine maschile e la cosa la metteva leggermente a disagio – tutt’altro si sarebbe detto delle sue amiche – ma tutto sommato avere sempre a fianco il metro e novanta di Miša era un deterrente efficace.

Venne a conoscenza che buona parte di quella gente erano compagni di caserma di Miša, tra cadetti e soldati ai primi anni di servizio, e che il duetto costituito da lui e Ivan (egli stesso un suo collega) godeva di una certa popolarità. I restanti frequentatori del locale, se non erano conoscenti diretti di Miša, erano almeno amici-di-amici. L’intero pub era stato affittato da un gruppo di persone che evidentemente si frequentavano da tempo e più che una festa pareva una riunione di qualche tipo. Dopo un generico tergiversare che stava iniziando ad annoiare Nat, Ivan si ritagliò uno spazio sgombro dai divanetti e portò al centro un tavolo, trascinandolo rumorosamente. Ci salì sopra.

“Un momento, gente, un momento, per cortesia!” – e tutti, compresa la musica, si quietò; iniziò a declamare in piedi sul tavolo, brillo più che mai, con grande teatralità – “Oggi siamo molto fortunati, e mi riferisco soprattutto ai miei colleghi uomini, perché stasera abbiamo con noi tre bellissime ragazze!”

L’attenzione fu indirizzata verso Nat, Irma e Anya, nella prima fila del cerchio umano che si era formato intorno a Ivan. Un bell’applauso, e qualche fischio, scoppiò tra i presenti.

“Ma non è finita qui!” – Ivan alzò le braccia – “Perché tra loro abbiamo nientepopodimeno che la figlia del nostro Presidente! Un altro bell’applauso per la nostra Nataša Novikov!”

E tutti eseguirono ancora. Anche Miša, Irma e Anya si erano uniti, euforici, ma Nat non era avvezza a questo genere di manifestazioni e rivolse uno sguardo allarmato all’amico – come a voler dire “Tirami in salvo!” – ma lui, continuando ad applaudire, le mimò in labiale “È tutto ok”.

“Innanzitutto,” – Ivan si impettì, in una caricatura di formalità e con un registro linguistico più che accettabile per lo stato in cui si trovava – “ci tengo a far sapere alla nostra Nataša che tutti i qui presenti, nessuno escluso, sono grati al lavoro che il caro Presidente Novikov sta svolgendo e che siamo certi che ci saprà portare fuori da questa triste situazione in cui ci troviamo! Giusto?”

E comandò un “Sì!” generale con un gesto della mano. Nat ci lesse dell’onestà in quelle parole e si sentì un po’ più suo agio.

“E in secondo luogo, voglio ricordare alla presenza delle nostre gentili ospiti che qua noi ci riuniamo una volta al mese,” – la sua espressione si fece repentinamente più infervorata, mentre la voce si faceva sempre più forte e intrisa di rabbia – “per ricordarci che questo Paese è ancora socialista e morirà socialista! E che quelle fottute merde di Nazisti se ne devono tornare nel buco di culo della Storia da cui sono usciti!”

Pestò un paio di volte un piede sul tavolo, scatenando un tripudio generale di pugni alzati.

“E ora offriamo un bello spettacolo alle nostre amiche!” – e, ancora livido in volto dallo sforzo, saltò giù del tavolo.

L’euforia si riaccese in fretta, mentre qualcuno cambiò la playlist con qualche musica tradizionale. Sotto la carica di cori e tenori russi gli uomini ritrovano vigore e si lanciarono in un ballo scoordinato e galvanizzante. C’era chi si limitava ad ondeggiare a ritmo, e chi – incitato dall’applauso e dal coro della platea – saliva a turno sul tavolo facendone pista da ballo. Quando iniziò a suonare la Kalinka, i piedi dei presenti batterono a ritmo, dapprima lentamente, in crescendo, per poi accelerare sempre più in un tripudio di “Kalinka, kalinka, kalinka moya!”. Un ragazzone rubicondo dalla barba folta rubò la scena all’improvviso, intonando la strofa lirica della canzone con una voce limpida che usciva direttamente da polmoni d’acciaio. Sul momento tutti si ammutolirono, ma quando passò alla strofa melodica, rivolgendo i palmi delle mani verso la platea come solo un attore d’Opera avrebbe saputo, tornarono le risate e gli applausi d’acclamazione di tutti. Anche Nat si guardò con le amiche e incurvarono la bocca in un segno di vivo apprezzamento di quelle doti canore. E poi, di botto, riprese il battere di mani e piedi, il tintinnare di posate su bicchieri, i fischi e i cori per tenere alto l’impegno durante il ritornello. Nella baldoria generale anche Miša venne tirato in mezzo dal suo degno compare, saltellando sottobraccio al centro dell’anello come due cosacchi, sotto l’incitazione del pubblico, e ci vollero bei riflessi per evitare di caracollare a terra quando per errore si incrociarono con le gambe.

Irma e Anya avevano perso ogni freno e non facevano altro che strillare, applaudire e cercare di spingere l’amica al centro dell’anello, e anche Miša le tendeva la mano mettendoci tutte le speranze del mondo, ma non ci fu niente da fare. Al massimo riuscirono a strapparle qualche selfie, sforzandosi tutti e quattro di ritrarsi nelle espressioni meno lucide che erano in grado di concepire. All’apice dell’euforia generalizzata, un paio di presenti tirarono fuori addirittura una tovagliaccia bianca sulla quale era stata dipinta una Svastica con del sugo di gulash e la tesero per largo, mentre qualcun altro sfoderava un bruciatore da chef abbastanza lungo da poter rimanere a distanza di sicurezza. In un eccesso di tracotanza o solo troppi gradi alcolici sopra il livello accettabile, Miša si scolò d’un fiato quello che restava di una bottiglia di vodka e, sotto la spinta di decine di voci in visibilio, si lasciò andare a un sonoro rutto in direzione della fiammella ossidrica, prorompendo in una svampa di fiamme blue e rosse che andarono a lambire la Svastica. Ennesima esplosione di cori e applausi e perfino Nat, che iniziava a viaggiare sulla stessa scia delle amiche, scoppiò a ridere davanti a quella versione così maschia del timido e gentile Miša Vasiljev. Sotto il chiasso che copriva ogni voce, Anya e Irma le passarono un bicchiere di qualcosa che neanche avrebbe potuto dire cosa fosse e che lei rifiutò scuotendo la mano, ma senza smettere di ridere a crepapelle, ma stavolta insistettero una volta di più e la invitarono a smettere di fare la ‘santarellina’, invito davanti al quale non poté non cedere e si scolò anche lei il bicchierino tutto d’un colpo.

Tutti ridevano, tutti erano allegri e tutti non avevano altro spazio in cuore che per un’illusione di speranza. Ma nel breve istante in cui Nat riprese il dominio critico di sé, il suo sguardo andò alla tovaglia in fiamme. Proprio come quella volta a Varsavia, sul dirigibile abbattuto, quella croce uncinata, quel segno, ora moriva strozzata tra fiamme che la sbranavano come un cane rabbioso farebbe con un pezzo di carne.

Sarebbe davvero finita così? Avrebbero sentito il dolore delle fiamme anche quegli uomini, in un’universale e spietata Legge del Contrappasso?

Bruciare. Dovevano bruciare e sparire in cenere.

 

 

 

 

[1] Dal Russo; pron. “Prosti, Edvard. Pribyl doktor Khurana.”; lett. “Scusami, Edvard. Il dottor Khurana è qui.”

[2] Dal Russo; pron. “Vpusti yego, spasibo.”; lett. “Fallo entrare, grazie.”

[3] Dal Tedesco; lett.: “Così è sufficiente.”

[4] Dal Tedesco; lett.: “Ha un bel colorito. Non ha bisogno di una cura alla melanina.”

   
 
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