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Autore: Rosheen    01/09/2021    1 recensioni
«Fa paura, sai, ammettere di essere diversi. Molta paura. Perché significa accettarsi per quello che si è, né più né meno. Conoscere se stessi, avere fiducia e rispetto per quello che sei veramente non è un'arma da sottovalutare. Ma se ce la fai, Ethan, nessuno potrà più fermarti.»
***
Per quanto non possa ritenersi un'esperta d'amore, se c'è un campo in cui Ashara eccelle sono i primi appuntamenti e quando vede suo fratello adottivo Ethan in difficoltà con la sua prima cotta decide di dargli una mano.
***
Questa storia fa parte della serie "Ashara Laveau".
Nella sezione dedicata alla serie troverete in descrizione un riassunto sul passato di Ashara utile per orientarsi nella comprensione della storia.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Ashara Laveau'
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PRIMAVERA

 
 
 
 
 
Il sole stava tramontando, colorando tutto di rosso e oro: la dolce curvatura delle colline sulle quali si erano accampati, i profili dei carri parcheggiati sul soffice tappeto d’erba; dipingeva di nero le sagome dei membri della carovana rendendo quasi impossibile distinguerli gli uni dagli altri, facendoli assomigliare a tante formiche indaffarate; restituiva i bagliori dei gioielli e si frangeva sulle increspature dell’acqua conservata nei barili. Si levò una brezza leggera che le si insinuò sotto la gonna, gonfiandola, costringendola a tenerla ferma con una mano per evitare che si alzasse; le solleticò i piedi nudi, appoggiati sopra il cuscino della sedia di vimini, e le accarezzò la pelle facendola rabbrividire. Cominciava a rinfrescare, ma aveva deciso che prima di rientrare in casa avrebbe finito quelle poche pagine che le rimanevano da leggere.
Ethan le aveva prestato il libro più di due decadi fa e da allora l’aveva assillata ogni sera chiedendole se non l’avesse per caso già finito, stupendosi ogni volta della sua risposta negativa. Quella sera, si era ripromessa, lo avrebbe reso felice dicendogli che l’aveva finalmente terminato. Ashara sospirò al pensiero che quella notte il ragazzo l’avrebbe tenuta sveglia per ore a parlare delle sue impressioni sulla storia, se le era piaciuta, per commentare lo stile di scrittura e i personaggi, quale fosse il suo preferito e chi proprio non le fosse piaciuto; poi avrebbe ripercorso tutti i momenti più salienti, citando a memoria brevi frasi e interi paragrafi; forse si sarebbe persino commosso e si sarebbe messo a piangere. Quasi sicuramente avrebbe alzato la voce senza nemmeno rendersene conto e a nulla sarebbero valsi i suoi rimproveri, si sarebbe ricordato di parlare piano solo quando Devlan gli avrebbe gridato dalla sua stanza di tacere, ma solo per cinque minuti, poi avrebbe gradualmente ripreso quasi a urlare dalla gioia e dall’emozione; solo dopo che Drefan, completamente esasperato, avrebbe fatto irruzione nella sua stanza per tirargli un sonoro coppino intimandogli di lasciarlo dormire in pace si sarebbe finalmente deciso a parlare a bassa voce; e allora avrebbe anche potuto restare a parlare fino all’alba obbligandola a rimanere sveglia se Amanita non li avesse scoperti e costretti ad andare a letto riservando loro una bella lavata di capo.
Ashara non l’avrebbe mai interrotto, tutt’altro: sarebbe rimasta sveglia ad ascoltarlo finché i suoi occhi gliel’avrebbero permesso. Sapeva di essere una delle poche persone, se non l’unica, ad avere la forza di ascoltare Ethan per ore, assecondandolo nei suoi discorsi, e anche se lui non gliene aveva mai fatto cenno Amanita glielo ripeteva spesso, quanto questo fosse importante per il figlio. Ashara replicava che non era niente di speciale, che questo, in realtà, era il minimo che potesse fare, perché lo pensava davvero.
Ethan le era stato accanto solo tre anni prima, quando era arrivata alla carovana e si stava ambientando, quando non trovava il coraggio di aprire bocca e non parlava con nessuno, quando evitava la compagnia di tutti o quasi, quando stava ancora imparando a conoscere la famiglia che l’aveva così gentilmente accolta. Ethan era stato uno dei pochi a riuscire ad avvicinarla e lo aveva fatto con l’aiuto della cosa che amava di più: i libri.
C’era qualcosa di speciale, nei libri, un potere che li aveva avvicinati e uniti e che tuttora continuava a rappresentare la base sulla quale avevano costruito il loro legame. Ethan amava i libri, erano la sua vita. A lei piacevano, sì, ma non allo stesso modo del ragazzo, non così tanto da trascorrere ore e ore della propria giornata rintanandosi da qualche parte per leggere. Però adorava Ethan e se poteva renderlo felice semplicemente ascoltandolo allora sarebbe rimasta sveglia anche tutta la notte.
La brezza portò con sé il profumo dell’erba e dei fiori appena sbocciati, le risate dei bambini che giocavano a qualche carro di distanza e le imprecazioni di qualcuno, forse del vecchio Dug o del mezzorco Gro’mog. Portò il profumo della legna accesa sotto i paioli e delle zuppe e del pane, insieme a quello più acre, sgradevole della carne.
Qualcosa attirò la sua attenzione: un respiro profondo, ansimante proprio al suo fianco. Quando guardò in quella direzione vide un paio di occhi marroni grandi come piattini che la osservavano speranzosi: il cane del signor Roman, Bricco, aveva la lingua a penzoloni fuori dalla bocca e l’aria di chi sta aspettando qualcosa.
«Scusa, non ho niente.»
Il cane prese ad ansimare più velocemente.
«Non hai sentito? Non ho niente per te.»
Per tutta risposta Bricco si sollevò sulle zampe posteriori e appoggiò quelle anteriori sul suo braccio, sporgendosi per leccarle la faccia. Ashara arricciò il naso in una smorfia e cercò di allontanarlo senza successo, finendo per arrendersi poco dopo. Bricco le regalò un’ultima leccata sul naso e si risedette, la coda che frustava l’aria dall’eccitazione.
Non le serviva uno specchio per sapere che la sua faccia doveva avere un aspetto orribile. Andando a tentoni, usò un incantesimo per ripulirsi dalla bava. Bricco piegò la testa di lato e la guardò con evidente disappunto.
«E non guardarmi così, cagnaccio pulcioso.» Ashara allungò una mano verso il muso del cane, che si spostò per permetterle di grattare meglio dietro le orecchie. «Così va bene, vero?» Per tutta risposta, Bricco tirò un forte starnuto.
Il sole andava scomparendo, rendendo la lettura sempre più difficoltosa. La fresca brezza primaverile portava con sé visi stanchi dopo una lunga giornata di lavoro, fronti sudate e mani sporche di polvere e grasso, le minacce delle madri che intimavano ai figli di andarsi a lavare prima di cena, i sorrisi stanchi ma sinceri di chi incrociava qualcuno mentre si apprestava a fare ritorno al proprio carro, le risate dei giovani, il tintinnio di alcuni braccialetti che sbattevano fra loro, la voce di Amanita, calda e profonda, che canticchiava qualcosa a bocca chiusa mentre cucinava, il profumo della cena che Ezran si era divertito ad aiutare a preparare, l’odore acre del sudore e quello fresco del sapone…
Alcuni odori, alcuni suoni erano familiari, li ricordava, sapevano di casa, sapevano della sua carovana, di suo padre; altri ancora erano nuovi, alieni, stava imparando a conoscerli solo ora. Tutto sommato, si diceva Ashara, era stata fortunata, le sarebbe potuta andare molto peggio. Se Amanita non l’avesse trovata quel giorno chissà cosa sarebbe successo; magari avrebbe trovato qualcun altro così gentile che la ospitasse in casa sua; forse avrebbe trovato lavoro, un buon posto in cui vivere, in cui ripartire; oppure si sarebbe trovata a vagare da sola per la strada, elemosinando qualche moneta di rame con cui comprarsi da mangiare e dormendo in un vicolo che sapeva di piscio e vomito, lottando contro i ratti che uscivano dalle loro tane ogni notte per morderle mani e piedi. Forse qualcuno, vedendola, avrebbe avuto pietà di lei; altri, probabilmente, se ne sarebbero approfittati.
Ashara chiuse gli occhi, cercando di concentrasi sui rumori che provenivano da dentro il carro, oltre la finestra aperta: la voce di Amanita che cantava una qualche melodia gitana, il rumore della tavola che veniva apparecchiata con cura quasi maniacale da Ezran e la sua voce leggera, esitante, discreta come quella di un uccellino. Erano reali, erano reali, erano lì, non se li era immaginati, non era tutto un sogno, era al sicuro.
Si alzò una folata di vento un po’ più forte che le strappò un urlo sorpreso e un’imprecazione: le pagine del libro avevano cominciato a scorrere velocemente, facendole perdere il segno. Lo chiuse rapidamente, frenando quel frusciante rumore di carta impazzita e pregando gli déi di non averlo rovinato piegando una delle pagine: Ethan non gliel’avrebbe mai perdonato.
Quando il vento si fu calmato Ashara riaprì cautamente il libro per esaminarne lo stato. Bricco si alzò e le venne vicino col muso, come per imitarla. Nessuna piega, nessuna orecchia apparente; tirò un sospiro di sollievo.
Finì il libro solo dieci minuti più tardi, giusto in tempo per intercettare la figura di Ezran sopra la sua testa: si era sporto dalla finestra e stava guardando oltre di lei, lontano, scandagliando i dintorni alla ricerca dei fratelli.
«Non sono ancora rientrati.»
Ezran per poco non cadde all’indietro per lo spavento. «A-a-ashara, mi hai fatto paura!»
«Ti chiedo scusa, tesoro, non volevo. Credevo mi avessi vista.»
«N-no, m-m-mi spiace» rispose lui imbarazzato con un filo di voce.
«Non scusarti, è colpa mia. Prometto che la prossima volta cercherò di non farti prendere un colpo.»
«Ne-nessun problema, davvero. S-sono io che sono un fifone.» Lo disse sorridendo, ma Ashara sapeva perfettamente che quello per Ezran era un tasto dolente. «È p-pronta la cena. Oh, ciao, Bricco!»
Il meticcio, sentendosi preso in causa, si mise a scodinzolare eccitato.
«Lo immaginavo e non vedo l’ora di vedere che cos’avete preparato: si sente un profumino!»
Ezran gonfiò il petto e le rivolse un sorriso pieno d’orgoglio. Se c’era qualcosa che amava più di ogni altra era cucinare, e Ashara lo sapeva bene.
La ragazza lanciò uno sguardo al meticcio. «Senti, Ezran, se avanza del cibo non è che ti andrebbe di darne un po’ a questo cagnaccio pulcioso? Ho l’impressione che anche lui abbia voglia di assaggiare la tua cucina. Possiamo farlo insieme» si affrettò ad aggiungere, notando lo sguardo timoroso che il bambino aveva lanciato al cane.
Il quale, forse avendo intuito la possibilità di riempirsi lo stomaco, assunse un’espressione angelica. Doveva averla sviluppata in anni di pratica.
Ezran lanciò un’occhiata preoccupata alle proprie spalle in direzione di Amanita: sapeva che alla madre Bricco non era mai andato particolarmente a genio. Abbassò la voce: «C-ci sto!» rispose, sorridendo.
Bricco abbaiò la propria approvazione.
«Sei contento, cagnaccio? Sei riuscito a scroccare del cibo anche questa volta.» Ashara richiuse il libro, ancora aperto all’ultima pagina. «Di’ ad Amanita che arrivo fra poco, vado ad avvertire gli altri che la cena è pronta.»
Ezran annuì e la sua testa ricciuta scomparve oltre la finestra. Ashara si stiracchiò sulla sedia di vimini, dove ripose il libro di Ethan, si rimise le scarpe, fece un ultimo grattino a Bricco e si avviò a cercare gli altri fratelli.
Trovò Devlan e Drefan già sulla via del ritorno, sudati e sporchi; entrambi portavano sottobraccio degli involti dall’aria ingombrante. Dovevano essere stati a caccia tutto il giorno a giudicare dall’aria stanca, e dalle loro espressioni soddisfatte doveva essere stata parecchio fruttuosa. Devlan le venne incontro con uno dei suoi perfetti sorrisi da schiaffi stampato in faccia, mentre Drefan quando la vide cambiò immediatamente espressione rabbuiandosi, tenendosi a qualche passo di distanza da lei.
Li liquidò in fretta, scartando per un pelo Devlan che cercò di stringerla in un abbraccio, perfettamente conscio di quanto la sola idea di trovarsi così vicino alla sua ascella sudata non l’allettasse ed evitando di incrociare gli occhi di Drefan per tutto il tempo.
I due fratelli si avviarono verso casa a passo spedito quando appresero che li attendeva la cena. Ashara si soffermò un istante a guardare le loro schiene allontanarsi, poi si osservò intorno: mancava solo Ethan. Chissà dove si era cacciato. Se si era nascosto da qualche parte per leggere indisturbato, poteva essere ovunque.
Vagò fra i carri per almeno cinque minuti, fermando chiunque incrociasse per strada chiedendo se non avessero per caso idea di dove fosse. Alla fine qualcuno le disse di averlo visto aggirarsi verso il carro dei Mc Coy. Si avviò in quella direzione e poco dopo le parve di intravederlo in lontananza; stava camminando verso casa in compagnia di qualcuno, ma da lì non riusciva a capire di chi si trattasse. Aumentò il passo per raggiungerlo e quando fu a portata d’orecchio riempì d’aria i polmoni preparandosi a urlare con tutto il fiato che aveva in corpo per attirare la sua attenzione. Qualcosa, però, le fece cambiare idea.
Era con Arvel, un mezzelfo poco più piccolo di lei con cui non aveva mai scambiato più di quattro chiacchiere, ma che tutto sommato non le dispiaceva. Era gentile, questo lo sapeva, forse un po’ timido, riservato, il genere di persona discreta che preferiva farsi i fatti suoi. Non sapeva che quei due fossero amici e già questo era strano. Quello che trovò sospetto, però, era l’atteggiamento di Ethan: se ne stava in silenzio, con lo sguardo basso piantato sulle proprie scarpe. Lui, che non smetteva di parlare nemmeno mentre mangiava, finendo con l’attirare su di sé lo sguardo severo della madre, che spesso continuava a bofonchiare anche nel sonno, sembrava essere rimasto senza parole.
Il primo pensiero che attraversò Ashara era che doveva essere successo qualcosa di grave: forse Ethan non si era sentito bene, forse si era fatto male, forse quei due avevano avuto da ridire, forse Arvel se la stava prendendo con lui, forse lo aveva minacciato… fece qualche passo in avanti, senza riflettere, decisa a intervenire, poi però cambiò idea e si fermò per osservare meglio la scena.
Arvel non gli stava urlando addosso, non stavano litigando, anzi anche lui teneva lo sguardo ben piantato sul terreno davanti a sé. Sembravano stare bene entrambi, quantomeno nessuno dei due presentava labbra spaccate o un occhio nero. Camminavano vicini, spalla contro spalla, scambiandosi qualche parola ogni tanto; Arvel sfiorò quasi per caso con le dita la mano di Ethan e Ashara lo vide rabbrividire.
Si fermarono poco più avanti, mettendosi uno di fronte all’altro. Ashara si nascose dietro un carro, attirando su di sé lo sguardo incuriosito del proprietario che si era affacciato alla finestra per fumare. Ethan alzò gli occhi, incrociando quelli di Arvel e anche da lì Ashara riuscì a vedere il sangue affluire alle sue guance. Arvel disse qualcosa che strappò a Ethan una risata decisamente troppo acuta. Si salutarono così, senza che accadesse altro fra loro, ma quel poco che aveva visto le era bastato per comprendere la situazione.
Lo seguì mantenendosi a distanza per non farsi vedere. Ethan tornò al loro carro senza rendersi minimamente conto della sua presenza, non si accorse nemmeno del libro che aveva lasciato appoggiato sulla sedia quando ci passò davanti.
Ashara attese qualche minuto prima di rientrare in casa, approfittandone per lavarsi le mani e la faccia nel barile d’acqua appoggiato contro la fiancata del carro. Recuperò il libro e lo riportò in camera sua, poi si diresse in cucina dove era già scoppiato il finimondo.
 
 
 

*   *   *

 
 
 
Ethan non aveva toccato cibo. Si era limitato a sbocconcellare un po’ della farinata di ceci senza troppa convinzione, giocherellando con l’insalata di funghi e rucola nel piatto. Ezran, che aveva preparato personalmente la farinata aggiungendo il suo tocco personale all’impasto, erba cipollina e semi di finocchio, non provò nemmeno a nascondere la delusione. Per farlo felice Devlan si offrì di finire la roba rimasta nel piatto di Ethan, allungando già una mano verso la farinata. Lo schiaffo di Drefan atterrò con precisione sul suo braccio, che colpì i bicchieri davanti a lui rovesciandoli. I due fratelli si beccarono una bella strigliata da parte di Amanita per aver sporcato di vino la tovaglia pulita e vennero incaricati di sparecchiare, lavare i piatti, spazzare e fare il bucato per tre giorni di fila.
Ashara approfittò della momentanea distrazione per recuperare la farinata e avvolgerla con cura dentro un tovagliolo, che nascose nella tasca dell’abito. Fece un occhiolino a Ezran in risposta al suo sguardo interrogativo: quella sarebbe stata la cena di Bricco. Il bambino sembrò capire perché il suo viso si aprì in un sorriso.
Ashara lo aveva tenuto d’occhio per l’intera durata della cena. Ethan era stato particolarmente silenzioso, lasciando vagare lo sguardo ora sulla tavola, ora sul piatto davanti a sé, ora in un punto lontano, oltre le pareti del carro. Drefan e Devlan sembravano non essersi accorti dello strano comportamento del fratello, specialmente dopo essere stati messi in punizione dalla madre quando avevano trascorso il resto della cena guardandosi in cagnesco da una parte all’altra del tavolo. Ezran, invece, doveva aver notato che c’era qualcosa che non andava perché di tanto in tanto lanciava a Ethan un’occhiata incuriosita; Ashara però dubitava che si fosse reso conto di cosa stesse passando per la testa del fratello. Chi invece, ne era certa, aveva già capito come stessero le cose era Amanita. Quella donna possedeva una perspicacia fuori dal comune, quasi un sesto senso, specialmente quando riguardava i propri figli. Se non fosse stata certa del contrario, Ashara avrebbe anche potuto scommettere che fosse una sorta di sciamana o che fosse in grado di comunicare con gli spiriti come faceva Alima.
Dopo che tutti – o quasi – ebbero finito di mangiare Ashara si alzò velocemente da tavola e si diresse verso la porta d’ingresso, seguita a pochi passi da Ezran. I due corsero verso il carro di Roman dove trovarono ad attenderli Bricco, già scodinzolante di gioia. Quel cane, pensò Ashara, doveva possedere lo stesso sesto senso di Amanita.
Bricco si avventò contro di lei, infilando il naso umido sotto la sua gonna alla ricerca di cibo. Riuscirono a convincerlo a sedersi solo dopo molti tentativi. Spezzettarono la farinata in tanti piccoli pezzi e si divertirono a dargli da mangiare facendoglieli prendere direttamente dalle loro mani. Quando la lingua di Bricco toccava la mano di Ezran facendogli il solletico, il bambino non riusciva a trattenere le risate.
Si sedettero sull’erba, già carica di umidità, giocando con Bricco che saltellava loro intorno agitato. Fu Ezran a tirare fuori l’argomento. «Ashara, ma… s-secondo te, Ethan sta bene?»
Ecco, e adesso cos’avrebbe dovuto rispondere? Avrebbe dovuto dirgli la verità? Era abbastanza grande per saperla? Lei, in fondo, alla sua età aveva già avuto diversi fidanzatini. Storielle infantili, innocenti, eppure le erano servite per cominciare a capire come girava il mondo. Però, rifletté, c’era ancora tempo. Poteva ancora risparmiarselo, Ezran, di crescere, di perdere la propria innocenza, poteva continuare a rimanere ancorato alla dolcezza dell’infanzia ancora per un po’. Non c’era bisogno che sapesse, che venisse forzato a crescere, com’era stato per lei.
«Sì, tesoro, credo proprio che stia bene.»
«S-sicura? Prima, a cena, mi-mi è sembrato strano.»
«Dici? Non ci ho fatto caso.»
«Ashara…» Ezran la guardò con uno sguardo severo che le ricordò Amanita. «S-stai mentendo.»
Beccata. Forse Ezran, rifletté Ashara, possedeva davvero lo stesso sesto senso della madre. Bricco, sdraiato vicino a loro, assottigliò gli occhi osservandola con palese disapprovazione.
Per tutta risposta la ragazza si sporse in avanti, afferrò Ezran sotto le ascelle e lo trascinò verso di sé stringendolo in un abbraccio. «Tu sei una piccola volpe, non è vero?» gli domandò, dondolandolo fra le sue braccia come un bambolotto.
«A-a-ashara… dai, lasciamiii…» protestò lui.
Ashara allentò la presa, ma non lo lasciò andare. Continuò a stringerlo a sé, come per sincerarsi che fosse ancora lì, che fosse reale. «Hai ragione, Ezran, l’ho notato anch’io che Ethan oggi era strano. Ma sono sicura che sta bene, sai? Molto bene.» Ezran sospirò piano e Bricco lo imitò. «Se può farti stare più tranquillo, però, posso andare a parlargli. Così saprà che se c’è qualcosa che lo turba può sempre contare su di me.»
«G-grazie.» Le braccia di Ezran le avvolsero la schiena in un abbraccio. «Ma c-credo che questo lo-lo sappia già.»
Ashara tirò su col naso, ringraziando per quell’abbraccio che nascondeva a Ezran i suoi occhi lucidi. Gli prese il viso fra le mani e gli posò un bacio sulla fronte. «Tu, cucciolo mio, sei davvero una piccola volpe.»
Bricco alzò il muso verso la luna e starnutì rumorosamente.
 
 
 

*   *   *

 
 
 
Ashara batté tre colpi decisi alla porta. Dall’altra parte le giunse la voce ovattata di Ethan: «Arrivo, arrivo, un momento!» Le aprì quel tanto che bastava per infilare la testa ricciuta in corridoio. «Chi è?»
«Di solito questa domanda si fa prima di aprire la porta.»
«Ah - ah, divertente.»
«Ti disturbo? Hai l’aria di qualcuno che stava facendo qualcosa di importante.»
«Chi, io? Naaah, figurati! Stavo solo…» Ethan guardò con aria preoccupata qualcosa alle sue spalle, «… riordinando l’armadio! Già, stavo riordinando il mio armadio.»
Ashara sentì il suo sopracciglio inarcarsi. «Ma davvero? A quest’ora? Mi sembra un po’ tardi per riordinare. E poi non è da te, Ethan.»
Il ragazzo gonfiò il petto. «Per tua informazione, Ashara, io sono una persona molto ordinata.»
«Solo quando si tratta dei tuoi libri. Quindi, posso entrare? Tranquillo, non giudicherò il tuo disordine» aggiunse, notando l’espressione dubbiosa del ragazzo.
Lo vide esitare. «Non so, Ashara, in realtà sono molto stanco» e per enfatizzare il concetto sbadigliò nella maniera più finta che gli riuscisse. «Stavo per andare a letto, e-» il suo sguardo cadde sul libro che Ashara teneva sotto braccio. «Non me lo dire! L’hai finito?»
La ragazza sorrise trionfante: l’esca aveva funzionato. Prese il libro con entrambe le mani e lo portò all’altezza del suo sguardo. «Giusto prima di cena. È per questo che sono qui, volevo chiederti se ti andava di parlar-».
Non fece in tempo a finire la frase che Ethan spalancò la porta, la afferrò per un polso e la trascinò nella stanza, richiudendosi velocemente la porta alle spalle.
La camera di Ethan era la più grande di tutte. Era riuscito a ottenerla da Devlan, che la occupava prima di lui, solo dopo un intero anno di richieste, suppliche e promesse di favori. Forse era riuscito a spuntarla col fratello maggiore solo perché lo aveva preso per esasperazione, ma ad Ethan poco importava: ora, finalmente, aveva tutto lo spazio che poteva desiderare per i suoi libri. Nella sua vecchia camera era arrivato a stiparli in ogni piccolo pertugio, incolonnandoli in alte pile che in certi punti erano arrivate a sfiorare l’altezza delle spalle di Drefan e che minacciavano di crollare ogni volta che si rimettevano in viaggio. Spesso in effetti era capitato che uno scossone, uno strappo violento o una buca sul terreno li facesse rovinare malamente a terra, strappando al povero Ethan una fantasiosa serie di imprecazioni e costringendolo a trascorrere ore per rimetterli al proprio posto. Devlan, scherzando, gli ripeteva sempre che prima o poi lo avrebbero sepolto vivo.
Ora, invece, nella sua nuova camera i libri riposavano ordinati ognuno al proprio posto. Per recuperare tutto lo spazio possibile Devlan e Drefan avevano costruito una libreria che occupava la parte alta della stanza per tre quarti delle pareti, in un sali e scendi di angoli e incastri. Da lì li osservavano tomi grossi come un braccio e sottili come foglie, colorati come le piume di un pavone e dalla copertina lucida e ben curata.
Ashara ricordava bene il giorno in cui i fratelli maggiori avevano finito di montare la libreria: Ethan saltellava eccitato per tutto il carro, tormentandosi le mani e fantasticando sull’aspetto che avrebbe avuto alla fine dei lavori, elencando ad alta voce i diversi tipi di disposizione che avrebbe potuto scegliere per riporre i libri – per altezza, per grandezza, per colore, per argomento, per autore – e chiedendo a lei e ad Ezran quale fosse, secondo loro, la migliore, infilando ogni quarto d’ora la testa dentro la stanza per chiedere se avessero finalmente finito. Alla fine Drefan, irritato dalle continue interruzioni, aveva borbottato qualcosa di incomprensibile che suonava tanto come una minaccia e gli aveva sbattuto la porta in faccia, spostandoci davanti la cassettiera per rendere più chiaro il concetto. A fine giornata, stanchi ma soddisfatti, i fratelli avevano finalmente completato la propria opera. Quando Ethan aveva posato per la prima volta gli occhi sulla libreria era rimasto a osservarla in silenzio e a bocca spalancata per almeno cinque minuti – praticamente un record personale. Drefan e Devlan si erano scambiati un sorriso compiaciuto alla vista del fratello ammutolito, gli occhi spalancati su quella che, con tutta probabilità, per lui era una vista migliore di quella di un castello. Aveva pianto, Ethan, dalla gioia, dalla commozione, dalla gratitudine, si era buttato fra le braccia dei fratelli maggiori per ringraziarli dicendo di chiedergli qualunque cosa, davvero, qualunque pur di ripagare il favore. I due si erano scambiati un brutto ghigno che non le era piaciuto per niente.
Fra i libri riposti con cura e ordine spuntavano tuttavia diversi spazi vuoti. Ethan sentiva spesso l’impulso di dover consultare un nome, una data o uno specifico passaggio, veniva assalito dalla voglia improvvisa di rileggere una frase, un dialogo, una descrizione che gli era particolarmente piaciuta o rimasta impressa. Così sfilava il libro in questione e tornava a consultarlo, dimenticando poi di riporlo al proprio posto e lasciandolo a prendere polvere da qualche parte in giro per la stanza.
Stanza che, in quel momento, sembrava un campo di battaglia. La luce della lampada a olio dipingeva di toni caldi i libri appoggiati sul comodino e sulla scrivania, le scarpe sparpagliate su tutto il pavimento a formare un intricato percorso a ostacoli e i vestiti – probabilmente tutti quelli presenti nell’armadio, a giudicare dalla quantità – sparsi sul letto, del quale si riusciva a intravedere solo qualche stralcio di lenzuolo.
Ethan raccolse alcuni vestiti e li lanciò lontano, verso il cuscino, liberando spazio sufficiente perché potessero sedersi entrambi sul fondo del letto uno di fronte all’altra, a gambe incrociate, come erano soliti fare. «Allora, allora, ti è piaciuto, eh? Cosa ne pensi? Qual è stata la tua parte preferita? E il tuo personaggio preferito? Il mio, ci ho pensato a lungo, e credo sia stato il conte Fletcher. Lo so, lo so cosa starai pensando, che è uno dei più incoerenti e scostanti di tutta la storia; ed è quello che credevo anch’io, ma poi mi sono fermato un attimo a riflettere e ho capito che…»
Ashara lasciò vagare lo sguardo sul disordine della stanza. Poteva quasi vederlo, Ethan, provare ogni combinazione d’abito possibile e immaginabile per trovare quella giusta, quella perfetta. Poteva vederlo saltellare incerto per la camera, rischiare di cadere su un paio di scarpe abbandonate sul pavimento per correre a prendere un libro che, forse, gli sarebbe tornato utile in quell’occasione, gli avrebbe suggerito qualche buona idea a cui non aveva pensato.
Ashara allungò una mano verso la pila di vestiti dietro Ethan e sollevò una camicia di lino dall’aria stropicciata. «Dunque sarebbe questa la tua idea di “riordino”? Dovrei chiamare qui Ezran e fargli vedere questo macello: gli prenderebbe un colpo.»
Il ragazzo interruppe il fiume di parole per rivolgerle uno sguardo preoccupato. «Non oseresti. No, ti conosco, non potresti…»
«Se veramente mi conosci, allora sai che potrei e oserei.»
«Come puoi essere tanto crudele anche solo da minacciare di farlo? Non ti ho fatto niente di male per meritarmi questo!»
«Non era mica una minaccia. Non per ora, almeno.» Ethan spalancò la bocca, guardandola con aria sconvolta. «Eddai, stavo scherzando, pescione! Sei proprio un credulone, Ethan.»
Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo. «Alla faccia dello scherzo… non è stato divertente, Ashara, ma proprio per niente!»
«Mi permetto di dissentire.»
«Mh, già…» fece lui, ancora guardingo. «Comunque, stavo dicendo, lo stile: non è fra i miei preferiti se devo essere sincero, troppo didascalico e a tratti sbrigativo, ma devo spezzare una lancia a favore dell’autore per il-»
«Sai, ti ho visto, oggi.»
Ethan si interruppe a metà frase. Aprì e richiuse la bocca un paio di volte prima di riuscire a dire qualcosa. «A-ah sì? Quando? Io però non ti ho vista, non ci ho proprio fatto caso…»
«Lo credo bene, mi sembravi parecchio preso da una certa persona…» Ethan deglutì forte, mandando una risatina nervosa, ma non sembrava voler aggiungere altro. «Oh insomma, ti ho visto con Arvel, Ethan!» sbottò, forse a voce un po’ troppo alta perché il ragazzo cominciò a farle segno con la mano di abbassarla.
«Ti prego, Ashara, ti prego ti prego ti prego, parla piano o qualcuno ci sentirà.»
«E allora? Cosa ci sarebbe di male, scusa? Penso che nessuno degli altri avrebbe da ridire sul fatto che ti sei preso una cotta.»
«Co-co? Io non ho mai detto… non ho mai detto che mi-mi sono preso una…»
«Respira, Ethan. Non c’è niente di male se ti sei preso una cotta, è una cosa perfettamente normale. E no, non l’hai detto, ma credimi tesoro, non serviva che me lo dicessi: ci ero arrivata perfettamente da sola.»
A quell’affermazione Ethan sbiancò vistosamente. Ashara per un attimo temé di aver esagerato e che di lì a poco il ragazzo sarebbe svenuto, così si mise a sventolare velocemente la mano nel tentativo di fargli aria.
Il ragazzo riprese a poco a poco colorito. «Ashara, questo… questo è un disastro!» disse, prendendosi la testa fra le mani, che sparirono nella folta chioma scura. «Se l’hai capito tu, allora l’avrà capito anche lui che mi piace… l’avranno capito Drefan e Devlan… oh, cielo, anche la mamma!»
«Su tua madre potrei metterci la mano sul fuoco che l’ha capito. Per quei due tontoloni, invece, puoi stare tranquillo: posso assicurarti che non si sono accorti di niente. E Arvel… ma scusa, non lo sa già che ti piace? Non ne avete parlato?»
«S-sì, cioè non proprio, però…» Sembrò esitare a completare la frase. «Non abbiamo parlato esattamente di quello. A dirla tutta, non è che abbiamo parlato molto. Io no di certo, ero troppo imbarazzato, non sapevo cosa dire!» Ashara spostò un paio di pantaloni da sotto il sedere per stare più comoda, rimanendo in attento ascolto. «Ci siamo parlati qualche volta, poco però. Ci salutiamo quando ci incrociamo, ma c’è davvero poco altro. Poi oggi…» Ethan prese un profondo respiro. «Oggi ci siamo messi a fare una passeggiata per l’accampamento. Non so chi di noi due l’ha proposto, non ricordo. Insomma, ci siamo messi a camminare, a chiacchierare, a ridere: siamo stati bene, ecco. E anche lì, non so come sia potuto accadere, non so chi dei due abbia preso l’iniziativa, ma…» Ethan fece una pausa ad effetto; Ashara non stava più nella pelle per sentire il resto del racconto. «Abbiamo deciso di vederci ancora. Fuori, in città.»
«Vuoi dire un appuntamento
«Be’, non abbiamo proprio usato quel termine ma-»
Ashara lanciò un grido di gioia che fece sgranare a Ethan gli occhi dalla sorpresa. Si lanciò contro di lui senza riflettere, abbracciandolo, facendogli perdere l’equilibrio. Il ragazzo cadde all’indietro assieme a lei, atterrando sulla pila di vestiti.
Ethan le tappò la bocca con la mano. «Ma sei matta? Guarda che Drefan è già a letto, lo sai di cos’è capace se lo svegli.»
Ashara si liberò la bocca dalla sua mano. «Di dare aria alla bocca, ecco cosa. Drefan è solo un pallone gonfiato, parla parla ma alla fine lo hai mai visto mettere in pratica una delle sue minacce?»
«Sì» rispose lui col tono di chi aveva subìto le angherie del fratello sulla propria pelle.
«Be’, se si sveglia tu lascialo a me, so come gestirlo.»
«Con questo intendi dire che andresti a spifferare tutto alla mamma, vero?»
«Precisamente.»
Ethan piegò le labbra in un ghigno. «Sei perfida.»
«Solo con chi se lo merita.» Ashara si tirò su e si rimise a sedere, imitata da Ethan. «Allora… hai un appuntamento.»
Il ragazzo tornò improvvisamente serio e cupo. «Già» rispose, con la stessa voglia di vivere di un condannato a morte.
«Ma dai, cos’è adesso questa faccia lugubre? Non stai mica andando a un funerale, anzi! Qua ci sono grossi preparativi da fare, Ethan: prima di tutto, l’abito, che non è da sottovalutare. Devi sceglierne uno non troppo pretenzioso o elegante, ma nemmeno troppo informale e deve avere il giusto accostamento cromatico. Poi bisognerà pensare ai capelli e agli accessori, dovrei avere qualche braccialetto che potrebbe fare al caso tuo. Oh, e un po’ di trucco! Quello è magico, non letteralmente ma quasi; se sai come usarlo può valorizzare il tuo viso tanto che, vedrai, lo lascerai senza fiato!»
Ethan teneva gli occhi bassi, le spalle curve e sembrava non ascoltarla più. Ashara si piegò in basso per incrociare il suo sguardo. «Ehi, tesoro, cosa c’è?» Alzò una mano e gli accarezzò la guancia. «Lo sai che con me puoi parlare di tutto.»
«Ashara…» Sembrava che parlare gli costasse un enorme sforzo. «E se non dovessi piacergli?»
«Ma dai, cosa dici. Perché non dovresti piacergli? Vi siete dati appuntamento, no? Se non gli piacessi avrebbe rifiutato, non accettato. Non hai nulla di cui preoccuparti.»
«Non intendevo quello. E se a lui piacessero persone meno… strane? Non posso andare là vestito e truccato come un fenomeno da baraccone, finirebbe col ridere di me e non volermi più rivolgere la parola. E questo non credo proprio riuscirei a sopportarlo.»
Ethan si portò le gambe al petto e nascose la testa fra le ginocchia. Non singhiozzava, ma Ashara sapeva che stava piangendo. Piangeva spesso, Ethan, spesso e in pubblico. Di solito non si faceva problemi a mostrare agli altri quello che stava provando, fossero gioia, tristezza, rabbia o paura. Era come lo vedevi, niente di più, niente di meno: esattamente come un libro aperto.
Devlan gli ripeteva spesso che non avrebbe potuto continuare così ancora per molto. Avrebbe dovuto indurirsi, imparare ad essere più forte, perché il mondo là fuori non sa essere clemente con chi è debole e si arrende, premia solo coloro che lottano con le unghie e con i denti per sopravvivere. Era vero, era giusto, lo sapeva bene anche lei e sapeva che se gli dava quei consigli era solo perché gli voleva bene e ci teneva lui. Eppure in quei momenti Ashara avrebbe voluto gridare, urlargli di lasciarlo in pace, perché lui andava benissimo così com’era. Non c’era nulla di sbagliato nel vivere i propri sentimenti o nel mostrare apertamente la propria sensibilità, nulla da correggere o limare. Ethan era, semplicemente, perfetto; era tutto quello di cui aveva avuto bisogno quand’era arrivata alla carovana e di cui continuava ad avere bisogno anche adesso; era quello che era stata anche lei e quello che non sarebbe mai tornata ad essere.
Ashara si allungò verso il ragazzo e lo avvolse in un abbraccio. Ethan rispose subito al suo tocco stringendole forte la schiena e nascondendo il viso bagnato nella sua spalla. «Shhh, shhh, va tutto bene, Ethan, dai che ci sono qui io…» Cominciò ad accarezzargli i capelli nel tentativo di calmarlo. «Piangi pure finché ne hai bisogno. Io sono qui, non me ne vado…»
Alla fine riuscì a calmarsi. Ethan scivolò via dal suo abbraccio, il corpo ancora scosso da sporadici singhiozzi.
Ashara gli prese il viso fra le mani e gli asciugò le guance rigate di lacrime coi pollici. «Non c’è nulla di male nell’essere diversi, Ethan, mettitelo bene in testa.» Si alzò dal letto e si diresse verso la scrivania; Ethan la seguiva incuriosito con lo sguardo. Aprì un cassetto e prese la scatolina dentro la quale il ragazzo conservava gelosamente i trucchi che Amanita gli aveva regalato per lo scorso compleanno. «Assolutamente nulla di male. E poi, me lo spieghi chi è che decide chi è diverso e chi è normale? Siamo tutti diversi gli uni dagli altri.» Prese il contenitore della polvere scura e una spugnetta, con la quale raccolse un po’ di prodotto. Il pulviscolo le arrivò alle narici, solleticandogliele e rischiando di farla starnutire. Rimosse con un paio di colpi decisi la polvere in eccesso e gli passò la spugna sulla fronte, sul naso, sul mento e sulle guance, stando attenta a non lasciare dei segni. «Siamo tutti, a modo nostro, unici. Lo so, sembra un po’ una frase fatta e lo è; devo averla letta da qualche parte in uno dei tuoi libri.» Il commento riuscì a strappargli un sorriso. «Però è vero. Non troverai mai al mondo una persona uguale all’altra, e guardati bene da quelle che dichiarano di essere perfettamente “normali”, perché si stanno solo nascondendo dietro a una bugia.» Ashara prese un pettinino e glielo passò fra le sopracciglia per riordinargliele. «Chi crede di essere normale, di rientrare nei canoni giusti, chi punta il dito contro lo straniero, il diverso, l’eccentrico, a mio avviso lo fa solo perché ha paura di quello che potrebbe vedere guardandosi allo specchio.» Ethan le allungò la matita, quella dorata, e chiuse gli occhi. «Perché l’unica cosa che potrebbe vedere allo specchio è tutto l’odio che prova verso se stesso.» Gli passò delicatamente la matita sulle palpebre disegnando una perfetta linea dorata. «Fa paura, sai, ammettere di essere diversi. Molta paura. Perché significa accettarsi per quello che si è, né più né meno.» Ethan riaprì gli occhi e Ashara ne approfittò per verificare che le linee fossero simmetriche. «Ma quando ci riesci, quando finalmente sei in grado di accettarti per quello che sei, allora avrai in mano qualcosa che gli altri non hanno, qualcosa che li spaventerà a morte.» Prese il carboncino e se lo scaldò fra le dita, passandogli un po’ del prodotto fra le ciglia con l’aiuto di un altro pettinino. «Conoscere se stessi, avere fiducia e rispetto per quello che sei veramente non è un’arma da sottovalutare. Ci vuole coraggio per conoscersi, per accettare chi sei veramente. Ma se ce la fai, Ethan, nessuno potrà più fermarti.» Ashara ripose con cura i trucchi nella scatola e guardò il ragazzo negli occhi. Sorrise soddisfatta. «Sei bellissimo.» Prese uno specchietto e glielo avvicinò. «Vuoi vederti?»
Ethan non rispose, le prese semplicemente lo specchietto dalle mani e si guardò. Non poteva vedere perfettamente la sua espressione, ma le parve di intravedere uno sguardo di stupore e meraviglia. «Be’, allora…» fece lei, esitante. «Cosa ne pensi?»
«A-Ashara…»
«Sì? Che c’è?»
«Ashara…»
«Grazie per avermi ricordato come mi chiamo, sia mai che un giorno me lo dimentichi. Dimmi piuttosto se ti piace.»
Ethan abbassò lo specchietto e la guardò intensamente negli occhi: aveva ripreso a piangere, ma questa volta sapeva che erano lacrime di felicità. «Oh, Ashara!» Il ragazzo le si gettò addosso, schiacciandola contro il materasso sotto il suo peso e stringendola in un abbraccio.
«Ethan, smettila! Rovinerai il trucco se continui a piangere.»
«Ma come puoi chiedermi di smettere di piangere dopo avermi fatto quel meraviglioso discorso, scusa?»
«E non urlare, sveglierai Drefan.»
«Lascialo a me, Ashara, ci penso io a tenerlo a bada. Ora so che nulla può fermarmi!»
«Sta’ zitto, scemo, per carità…»
Bussarono alla porta. I due si rimbeccarono per almeno una trentina secondi di “shhh!”, “sei stato tu, è colpa tua che ti sei messo a urlare”, “colpa mia? Sei stata tu a farmi piangere”, “fa’ lo stesso, vai tu!”, “no, vai tu!” prima che i tonfi tornarono a scuotere la porta.
Alla fine la spuntò Ashara, che si nascose al sicuro dietro la pila di vestiti mentre Ethan si apprestava a camminare verso il patibolo. Era Drefan, e a giudicare dagli occhi arrossati e cerchiati di viola e lo sguardo incazzato dovevano averlo svegliato nel bel mezzo del sonno. Il fratello maggiore ricoprì di minacce e scappellotti il povero Ethan, che ormai aveva abbandonato ogni buon proposito di tenergli testa. Alla fine Drefan se ne tornò sbuffando in camera sua mentre loro due ringraziavano mentalmente gli déi per aver svegliato lui e non Amanita.
Trascorsero il resto della serata a chiacchierare: di Arvel, di libri, di ragazzi, delle esperienze di Ashara – Ethan era molto curioso e le faceva un sacco di domande, oltre a chiederle in continuazione pareri e consigli. Ashara aiutò Ethan, dopo diverse ore di prove e combinazioni, capelli fra le mani e crisi, a trovare l’abito giusto per il suo primo appuntamento; poi fu la volta degli accessori e dei trucchi e Ashara camminò silenziosamente in punta di piedi fino in camera sua per recuperare qualunque cosa potesse tornare loro utile.
Alla fine rimasero davvero in piedi fino all’alba. Si addormentarono insieme sul letto di Ethan, abbracciati da quella pila di vestiti stropicciati che, lo sapevano bene, avrebbe strappato ad Amanita uno sguardo orripilato e sarebbe costata loro una bella punizione. Ma su questo si erano trovati d’accordo: ne era valsa decisamente la pena.
 
 
 

*   *   *

 
 
 
Il giorno era finalmente arrivato. Avrebbero fatto un giro giù in paese, fra le bancarelle del mercato e i negozi di antiquariato. Arvel aveva confidato ad Ethan di aver scovato un piccolo negozio di libri usati molto interessante che sperava potesse piacergli. Ethan si era mostrato subito entusiasta all’idea, evitando accuratamente di menzionare al ragazzo che quel negozio lo conosceva già e ci aveva trascorso dentro più ore di quante riuscisse a ricordare.
Ashara era con Amanita ed Ezran in cucina quando Ethan si apprestò a uscire. Stavano sorseggiando una nuova tisana che la donna aveva comprato da una delle bancarelle del mercato, con dentro anice e rabarbaro. Ezran stava facendo molta fatica a finire la sua, facendo una buffa smorfia ad ogni sorso e allungandola con un generoso pugno di biscotti alle mandorle che aveva preparato personalmente. Ethan comparve sulla soglia della cucina; Amanita si voltò per guardare il figlio e Ashara approfittò del momento di distrazione per fare segno ad Ezran di versare il resto della tisana nella sua tazza.
«Be’, credo sia quasi ora… e se invece fossi in ritardo? Non è che Arvel è là fuori da ore e si è stufato di aspettarmi?» Ethan cominciò a percorrere lo spazio tra l’ingresso e la cucina ad ampie falcate, come faceva sempre quando era nervoso.
«Ethan, sta’ tranquillo, sei perfettamente in orario» lo rassicurò la madre. Amanita appoggiò la sua tazza sul tavolo e solo per puro caso il suo sguardo non cadde sulle gocce di tisana che Ezran e Ashara avevano rovesciato durante il travaso. Si alzò in piedi e raggiunse il figlio, prendendosi qualche secondo per osservarlo attentamente. «Hai messo la camicia di lino nuova.»
«Sì.»
«E i pantaloni? Non hanno neanche una piega. Li hai stirati tu?»
«Ci ho provato…»
«E queste bretelle? Da dove vengono? Non me le ricordo.»
«Un regalo mio, Amanita» intervenne Ashara. «Per l’occasione» e fece l’occhiolino a Ethan.
La donna annuì. «Vedo che ti sei pettinato quel nido che ti ritrovi in testa.»
«Non è stato facile.»
«Lo credo bene. Hai i capelli più annodati di un cespuglio. E…» lo sguardo della donna si soffermò sul viso del figlio.
«C’è qualche problema, ma’?»
Amanita aprì le labbra in un dolce sorriso. Lo strinse velocemente fra le braccia e gli diede un bacio sulla guancia. «No, tesoro, niente affatto. È solo che stavo pensando che sei bellissimo.»
«S-sono d’accordo!» si accodò Ezran.
Ethan li guardò entrambi con aria stupita, ma si irrigidì subito dopo al suono di qualcuno che bussava alla porta. «Oh cielo, oh, dev’essere lui. Che faccio, vado?» domandò a nessuno in particolare. Lanciò un ultimo sguardo preoccupato alla porta, poi prese un bel respiro e raddrizzò la schiena. «Io vado. Ci vediamo stasera a cena!»
«Non fare tardi» fu l’ultima raccomandazione di Amanita.
«Di-divertiti» gli augurò Ezran.
“Stasera mi devi raccontare tutto!” mimò con le labbra Ashara.
Ethan sorrise, aprì la porta d’ingresso, salutò qualcuno oltre la soglia e uscì.
Amanita tornò a sedere e si riappropriò della sua tazza. Ashara sentì il suo sguardo su di sé: la stava guardando con l’espressione di chi la sapeva lunga.
Ashara si aspettava una domanda che non tardò ad arrivare. «Sei stata tu a convincerlo?»
La ragazza bevve un sorso di tisana, cercando di mascherare il disgusto dietro un’espressione sorniona. «In parte, sì. Ma la decisione finale, quella definitiva, l’ha presa da solo.»
«Lo immaginavo. Ethan era molto spaventato all’idea di farsi vedere in giro mentre indossa del trucco, aveva paura del giudizio della gente, di quello che avrebbero potuto dire di lui. Non credevo si sarebbe convinto a farlo. Sei stata brava, bambina mia: te ne sono infinitamente grata.»
«Non è stato niente di speciale, sai? Era il minimo che potessi fare.»
La donna allungò una mano sopra al tavolo e le strinse la sua. «Era molto di più, Ashara. Molto di più.»
Ashara sentì gli occhi farsi lucidi e le lacrime minacciare di prendere a scorrere. Ma non lo fece. Non ci riuscì.
Amanita sembrò accorgersene e anche Ezran. La donna bevve un lungo sorso dalla tazza, poi la appoggiò con un po’ troppa forza sul tavolo. «Ha un sapore davvero terribile.»
Per tutta risposta, Ezran le allungò un biscotto.

   
 
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