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Autore: Rosheen    01/09/2021    1 recensioni
«Ashara, guardami.» La ragazza obbedì. Il sorriso di Amanita era dolce, i suoi occhi un porto sicuro in mezzo alla tempesta. «Non sono una veggente, non sono una stregona, non so leggere il futuro ma so quello che sto dicendo: non esisterà mai una versione del tuo futuro in cui non sarai amata.»
***
Una piovosa sera d'autunno porta Ashara a confidarsi con la madre adottiva riguardo i dubbi che la attanagliano sul suo futuro, scoprendo che forse il destino aveva già deciso da tempo per lei.
***
Questa storia fa parte della serie "Ashara Laveau".
Nella sezione dedicata alla serie troverete in descrizione un riassunto sul passato di Ashara utile per orientarsi nella comprensione della storia.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Ashara Laveau'
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AUTUNNO

 
 
 
 
 
Stretta nello scialle, Ashara fece passare l’ago nel tessuto, tirando per bene il filo. Proprio non riusciva a spiegarselo come facessero i fratelli Rahl a ridurre a quel modo i loro vestiti. C’era sempre uno strappo da ricucire, un buco da rattoppare, un bottone da attaccare e sembrava che il lavoro non finisse mai. Aveva cominciato a occuparsene lei fin dai primi tempi in cui era approdata alla carovana; era quello che sentiva di saper fare meglio, il modo migliore che conoscesse per rendersi utile. Era piacevole, era terapeutico e riportava a galla dolci ricordi.
L’aria della sera era fresca, sapeva delle giornate autunnali, dorate e croccanti come una mela. Sapeva di terra, di umido e di qualcosa di più profondo, delle radici degli alberi che affondano nel terreno come gigantesche ragnatele. Sapeva già d’inverno e ancora d’estate, l’ultimo alito che respirava la vita prima di coricarsi per dormire l’ennesimo, lungo sonno.
L’interno del carro era avvolto nel silenzio. Ezran era già andato a letto da un pezzo mentre gli altri fratelli si erano recati alla taverna del paese; Ethan era riuscito a convincere dopo molte lusinghe i fratelli maggiori a portarlo con loro, prendendoli più che altro per asfissia. Amanita, invece, quella sera aveva occupato la cucina: aveva recuperato una nuova fornitura di materiali con cui creare diversi ninnoli e gioielli per rimpinguare la sua scorta. Aveva detto di sentirsi particolarmente ispirata, così Ashara aveva deciso di trasferirsi in veranda per non rischiare di disturbarla.
La luna era piena quella sera. Risplendeva in cielo, bellissima e fiera come una dama, illuminando i profili dei carri di una luce fredda. Da lassù, pensò Ashara, doveva vedere tutto. Ogni albero, ogni animale, ogni persona. Quanti segreti doveva conoscere, quanta fatica doveva fare per vegliare su tutti quanti. Chissà se avrebbe continuato a vegliare anche su di lei. Da lassù, la luna poteva vedere anche lui.
La porta del carro si aprì; Amanita era appoggiata allo stipite, le braccia conserte, gli occhi alzati ad ammirare la stessa luna. «È bellissima, vero?»
Ashara piegò la camicia di Devlan su cui stava lavorando e se l’appoggiò sulle gambe. «Lo è sempre, ma stasera particolarmente.»
«Sono d’accordo. È anche più grande del solito. È un bene, così potrà guardare più lontano, vegliare su tutti quanti.»
Ashara sorrise. Anche se erano trascorsi tre anni dal suo arrivo alla carovana, non si era ancora abituata alla sorprendente perspicacia di quella donna. Riusciva a spiazzarla ogni volta, come riuscisse a indovinare i suoi pensieri quasi fosse in grado di leggerli, come sapesse sempre toccare, con una frase o un semplice gesto, le corde giuste.
Amanita rivolse lo sguardo su di lei. «Vieni dentro, bambina, comincia a fare freddo, non vorrei ti prendessi un raffreddore.»
«Ma no, sto bene, non ho freddo, davvero. E poi ho ancora un sacco di lavoro da fare, questi vestiti non si rammenderanno da soli.»
«Ma non si offenderanno se non li finirai tutti quanti entro stanotte.» Sorrise. «Per oggi ho finito anch’io di lavorare, è proprio il caso che mi prenda una pausa. Vorresti venire a farmi compagnia? Ho messo su il tè.»
 
 
 

*   *   *

 
 
 
Amanita aveva messo in infusione nella teiera una manciata di foglie di melissa e biancospino. Filtrò con cura l’acqua e la versò nelle tazze, le loro tazze, quelle che usavano ogni volta che prendevano il tè insieme. Il profumo che si sprigionava era dolce, inebriante e Ashara sentì l’effetto calmante dei fiori rilassare il suo corpo e distendere i suoi pensieri.
Seduta di fronte a lei, Amanita allacciò il suo sguardo e le sorrise. «Sai, c’è qualcosa che volevo chiederti.»
Ashara sentì un brivido scenderle lungo la schiena. Quando si trattava di Amanita ci si poteva aspettare di tutto, specialmente quella particolare domanda che proprio non vorresti sentirti rivolgere.
La donna non aspettò la sua risposta e ripartì alla carica. «Negli ultimi tempi mi sei sembrata… diversa, distratta, come se avessi un pensiero costante che non ti abbandona mai. Ma forse è solo una mia impressione.» Pronunciò quest’ultima frase con un tono che lasciava perfettamente intendere quanto poco credesse alle sue parole. «Se c’è qualcosa che ti turba, lo sai che puoi parlarmene.» Allungò una mano sopra il tavolo e strinse la sua.
«Be’, ecco…» Ormai era inutile provare a mentire, Amanita era riuscita a metterla con le spalle al muro ancora una volta. E lei aveva tremendamente voglia di parlarne con qualcuno. «C’è effettivamente qualcosa… qualcuno che occupa i miei pensieri ultimamente…»
Amanita le lasciò la mano, afferrò saldamente la tazza e si appoggiò contro lo schienale, ascoltando pazientemente il suo racconto.
Le parlò così dell’uomo che aveva incontrato il mese scorso, Po, in una locanda, di come si fosse avvicinata al suo tavolo e gli avesse chiesto una lettura di tarocchi. Le parlò della carta degli Amanti, che era uscita durante la lettura e del suo significato, di quello che credeva rappresentasse e dell’interpretazione che le aveva dato. Non raccontò nei minimi dettagli come si era conclusa la serata, ma dallo sguardo di Amanita era certa che la donna avesse intuito correttamente.
«… Non so cosa mi succede, Amanita. Io non ci penso mai a queste cose. Voglio dire, col tipo di vita che conduciamo non ce lo possiamo permettere di perdere la testa per qualcuno che non viaggia con noi. Per qualcuno della carovana è un conto, ma uno straniero conosciuto in locanda con cui ho parlato solo una volta? Non voglio farmi illusioni, probabilmente non lo rivedrò mai più e devo solo mettermi il cuore in pace.»
Gli occhi di Amanita non l’avevano mai abbandonata, ma quando concluse il racconto e la guardò in cerca di una risposta Ashara vide che la donna aveva un’espressione strana, dolce e malinconica allo stesso tempo. Amanita bevve un sorso di tisana e sospirò, curvando le labbra in un sorriso. «Quest’uomo, Po, come ti è sembrato come cartomante?»
«Be’… bravo, direi. Indubbiamente sapeva il fatto suo, quantomeno conosceva il significato delle carte. Non è che io ci sappia fare molto, ma un ciarlatano so riconoscerlo quando lo vedo. O era davvero bravo, o estremamente abile a mentire.»
«Allora non hai di che preoccuparti. Lo hai visto anche tu nelle carte, no? Lo incontrerai di nuovo, è nel tuo destino.»
«Destino…» La parola le uscì come un sibilo, basso e pericoloso. «Io non ci credo, al destino. Non voglio crederci. Non mi sta bene pensare che il mio futuro sia già stato scritto da qualcun altro, che non possa scegliere cosa fare, che le mie azioni, le mie decisioni non siano veramente mie, ma tutte frutto di un piano superiore. Io lo detesto, il concetto di destino.»
«Ma non è questo, il destino.» Amanita si sistemò lo scialle sulle spalle prima di proseguire, e ad ogni secondo di silenzio Ashara sentiva le viscere torcersi dalla curiosità. «Ognuno di noi è destinato a qualcosa, che sia grande o piccola non fa differenza. Il nostro futuro, come dici tu, è già stato scritto da qualche parte, in un libro magari o nelle stelle. Quello che accadrà è già stato deciso e cercare di fuggire non serve a nulla. Solo gli sciocchi pensano di potersi nascondere dal proprio destino. Questo però non vuol dire che dobbiamo semplicemente accettarlo, chinare la testa e lasciarci trascinare dagli eventi. Una scelta, Ashara, ce l’abbiamo: possiamo scegliere come reagire. Se subirlo o assecondarlo, se lasciarci abbattere o lottare, se lasciarci tentare dal male o rifugiarci nel bene, se disperarci o sperare. Lo so, può sembrare poco, ma è comunque una scelta e può avere più importanza di quanto immagini.»
Ashara fece, suo malgrado, un verso di scherno. «Puoi farmi un esempio? Perché detta così non mi pare molto diverso dal non avere una scelta.»
«Quando Isaac è morto» rispose prontamente la donna, «potevo scegliere come reagire. Potevo decidere di mollare tutto, cedere alla disperazione, continuare a tormentarmi per la sua perdita e lasciarmi andare e trascinare con me i miei figli.» La sua voce era ferma, sicura, il suo sguardo deciso. «Oppure, potevo scegliere di continuare a vivere, lottare, affrontare quel dolore a testa alta, rimboccarmi le maniche per me, per loro e costruirci un nuovo futuro.» Sorrise. «È quello che ho scelto di fare e non mi pento affatto della mia decisione. Non posso negare che non sia stato facile, in diverse occasioni mi sono chiesta se ce l’avrei fatta, se sarei riuscita a resistere, se non sarebbe stato tutto più semplice se solo avessi allentato la corda, ceduto, per una volta. Non è stato facile, ma quando mi guardo indietro, quando vedo i miei figli mi dico che ne è valsa la pena.»
Un lampo squarciò il cielo, illuminando la cucina a giorno; seguì un rumore roboante, cupo come un terremoto, che scosse il carro e fece tremare i vetri della finestra aperta. Si alzò un vento freddo, impetuoso che spazzò la cucina e frustò i loro capelli e i vestiti, spegnendo la lampada a olio e facendole sprofondare nel buio.
Ashara pronunciò un incantesimo e quattro luci simili a fuochi fatui volteggiarono intorno a lei; li mandò negli angoli della cucina, cercando di ignorare il rumore dei vetri che sbattevano violentemente.
Amanita si alzò in piedi e richiuse prontamente la finestra. «Fammi un favore, Ashara, controlla che le finestre nelle camere dei ragazzi siano ben chiuse, non vorrei si rompessero con questo vento; e dà un’occhiata ad Ezran, se si è svegliato sarà spaventato a morte. Io vado a recuperare tutto quello che abbiamo lasciato fuori in veranda. Dopo, se ti andrà, mi piacerebbe raccontarti una storia.»
 
 
 

*   *   *

 
 
 
La pioggia scrosciava impetuosa, battendo contro i vetri e bussando sul tetto del carro, come chiedendo di essere invitata a entrare. Il vento ululava contro le finestre cercando di insinuarsi nella stanza, facendo danzare le tende leggere.
Ezran era stato svegliato dai tuoni. Ashara lo aveva trovato seduto sul letto, nascosto dalle coperte tirate fin sopra la testa a formare una piccola tenda. Era riuscita a tranquillizzarlo e lo aveva convinto a tornare a dormire, rimanendo al suo fianco finché non si era assopito.
Amanita era riuscita a mettere al riparo tutto quello che avevano lasciato in veranda prima che iniziasse a piovere. La donna aveva sistemato davanti alla porta d’ingresso una vecchia stuoia, dove i figli avrebbero potuto lasciare gli stivali bagnati e sporchi di fango una volta rientrati per evitare che imbrattassero tutto il carro.
Insieme, poi, avevano acceso tutte le candele che erano riuscite a trovare e le avevano disposte lungo il corridoio, creando così una sorta di sentiero luminoso che andava dalla stanza di Ezran alla cucina che il bambino avrebbe potuto percorrere se si fosse svegliato di nuovo e avesse avuto paura. Avevano lasciato un paio di candele davanti ciascuna finestra, così che i fratelli avrebbero potuto vederle e seguirle per tornare a casa. Col resto delle candele avevano illuminato la cucina, che ora era punteggiata di tante piccole luci tremolanti. Avrebbero potuto accendere le lampade a olio per fare più luce, ma si erano trovate silenziosamente d’accordo sull’adottare quella soluzione.
C’era qualcosa di magico, di misterioso nelle vivide fiammelle che danzavano sotto il respiro del vento, qualcosa che Ashara sentiva strisciare in pancia come una fiera inquieta.
Amanita aveva preso tempo mettendo su dell’altra acqua per le tisane, che fumavano nuovamente nelle loro tazze. Ashara aspettava impaziente dondolandosi sulla sedia, immaginando quale tipo di storia le avrebbe raccontato. Amanita parlava davvero poco di sé e del suo passato e sperava che quella sera avrebbe deciso di fare un’eccezione.
La donna prese la tazza con entrambe le mani, la guardò e sorrise. «Dunque, questa storia… inizia molto tempo fa, in un tempo che ormai sembra così distante, in una vita che pare essere quella di qualcun altro. Avevo sedici anni quando ho lasciato casa mia, il Calimshan, e la mia famiglia, la mia vecchia carovana, per partire per il lungo viaggio che Shaundakul chiede a tutti noi gitani di compiere. Il vento del Nord quella mattina era inquieto, soffiava sulla mia nuca, spingeva le mie vesti, le gonfiava come a volermi dire “ecco, è ora, parti!”. Naturalmente, lo ascoltai: feci su i miei bagagli, salutai la mia famiglia e partii.»
Ashara ascoltava in silenzio, cercando di immaginare una giovane donna con il sorriso gentile di Amanita, i suoi occhi pieni di vita, di saggezza, i capelli sciolti, indomati.
«Viaggiai in lungo e in largo prima di approdare in quella carovana che sarebbe stata la mia casa. Mi spinsi sempre più a nord, su fino alle Marche d’Argento, alle pendici del Dorso del Mondo, dove dimora il mio amato vento, e poi ad est, verso il confine con l’Anauroch e la Costa del Drago, e ancora a ovest, viaggia lungo la Costa della Spada e mi persi nella Città degli Splendori. Viaggiai instancabilmente, a piedi o sul fondo di un carretto sul quale qualche anima misericordiosa mi permetteva di volta in volta di riposare; una volta finii perfino per spostarmi tramite un teletrasporto, grazie al passaggio offertomi da un mago gentile.»
Ashara viaggiava al fianco della giovane donna, visitava con lei luoghi nuovi e selvaggi che poteva solo immaginare e altri che riusciva perfettamente a ricordare.
«Conobbi una variegata moltitudine di persone durante quel periodo, alcune che preferirei dimenticare e altre che spero ogni giorno di poter ritrovare. Conobbi uomini e donne di ogni razza, anche delle più rare: elfi dai lunghi capelli d’argento e mezz’orchi con braccia grosse quanto tronchi d’albero, piccoli e curiosi gnomi e creature con corna da diavolo, nani stoici e cocciuti quanto una roccia e scaltri e veloci halfling. Alcune erano persone decisamente fuori dal comune e affascinanti, delle quali conservo ancora oggi un piacevole ricordo.»
A quest’ultima affermazione Amanita sorrise, e Ashara riuscì a immaginare perfettamente il motivo.
«A diciotto anni, poco prima di trovare questa carovana, incontrai una veggente, una cartomante che mi predisse il futuro. Pensavo sarebbe stato divertente scoprire quello che mi attendeva lungo il cammino, conoscere il mio destino.» Amanita bevve un sorso di tisana, con Ashara che pendeva sempre più dalle sue labbra. «Ricordo ancora l’interno del suo carro, il penetrante odore di incenso e i riflessi dei gioielli che adornavano il suo corpo. Le chiesi cosa mi avrebbe riservato il futuro: mi rispose che avrei trovato l’amore, il vero amore, per essere precisi, e che da esso avrei avuto quattro figli maschi.»
Ashara non riuscì a trattenere la domanda: «E le credetti?»
«Certamente. Non ho mai dubitato della capacità che posseggono alcune persone di prevedere il futuro, solo delle abilità di certi individui che si spacciano per presunti tali. Lei era indubbiamente capace, e a posteriori posso confermare che ci aveva visto giusto.»
Ashara sospirò. «E così, quando incontrasti Isaac per la prima volta, sapevi già che era lui l’uomo di cui parlava la veggente? Il tuo vero amore?»
Amanita si lasciò andare a una risata leggera. «Oh, no, affatto. Ad essere sincera, ci ho messo qualche mese prima di notarlo. Aspetta, meglio raccontare con ordine. Avevo poco più di diciotto anni quando mi sono imbattuta in questa carovana. La sua atmosfera calda, accogliente, le persone che conobbi mi fecero subito una buona impressione, così decisi di restare. All’inizio non avevo niente, nemmeno un carro in cui poter abitare, così mi rimboccai le maniche, iniziai a produrre e vendere gioielli su gioielli; lavorai duramente, così tanto che la schiena a fine giornata mi doleva da morire e le mani erano scosse da forti crampi. Ma strinsi i denti e continuai: in poco tempo riuscii ad acquistare un carro tutto mio. Era piccolo e modesto, bastava a mala pena per una persona, ma almeno era mio, potevo smetterla di approfittare della generosità delle diverse famiglie della carovana che mi avevano ospitata a turno in casa loro.»
Ashara non faticava a immaginare la giovane Amanita come le era stata descritta: da quando l’aveva conosciuta quella donna non aveva fatto altro che lavorare fino allo sfinimento, quasi senza concedersi un attimo di pausa. Era sempre stata tenace e caparbia, con spalle forti a cui appoggiarsi e mani gentili su cui fare affidamento.
«E Isaac?» domandò.
«Isaac era sempre stato lì, alla carovana, solo che all’inizio non l’avevo notato. Capisci, c’era così tanta gente nuova da conoscere e avevo così tanto lavoro da fare che non mi ero nemmeno concessa il tempo di guardarmi attorno.»
Ashara rise: era decisamente un comportamento tipico di Amanita, non lasciarsi distrarre da frivolezze del genere. «Ma lui ti aveva già notata, vero? Anzi, secondo me si era già innamorato!»
«Be’, innamorato forse no, ma… ecco, poco dopo il mio arrivo alla carovana aveva iniziato ad accadere una cosa strana. Quando tornavo al carro della famiglia che mi ospitava i proprietari mi dicevano sempre che qualcuno aveva lasciato dei regali per me. Erano piccole cose, come del cibo - frutta, biscotti, un involto di carne - oppure foglie essiccate di fiori e piante per preparare diversi infusi e tisane, o ancora lacci e strisce di cuoio che sarebbero stati perfetti per preparare i miei gioielli; una volta trovai persino un bracciale inciso con disegni floreali. All’inizio non avevo capito chi fosse a farmi quei regali. Poi una sera, tornando dal mio banchetto di gioielli, incrociai Isaac. Era appena tornato dalla caccia, aveva il viso stanco e sudato ma quando mi vide si illuminò di un sorriso. “Questo è il sorriso più bello che abbia mai visto”, pensai.» Gli occhi di Amanita si abbassarono, guardavano qualcosa che riusciva a vedere solo lei. «Iniziammo a fare la strada insieme ogni giorno; mi riaccompagnava al mio carro e lungo il tragitto chiacchieravamo. Penso che tutti quanti nella carovana sapessero che era solo questione di tempo perché ci fidanzassimo. E così fu: iniziammo a frequentarci dopo poche decadi, poi ci fidanzammo ufficialmente. Due anni dopo eravamo sposati, e poco tempo dopo stavo aspettando Devlan.» Amanita sorrise dolcemente al nominare il figlio. «Il resto… be’, lo sai com’è andata.»
Ashara annuì. La sua testa era improvvisamente pesante, i suoi pensieri distanti, persi in un ricordo dal sapore amaro. «È stata una bella storia, Amanita. Grazie per avermela raccontata.»
La donna sorrise. «Non c’è di che, bambina. Ma ti starai domandando perché abbia deciso di parlartene proprio adesso, stai cercando di comprenderne la morale. O sbaglio?»
«No, non sbagli.» Un tuono, terribile e spaventoso come il grido di un gigante di pietra, fece tremare il carro. «Cioè, non fraintendermi, sono contenta che tu l’abbia fatto, lo sai che adoro scoprire cose sempre nuove del vostro passato. Però so che l’hai fatto per un motivo, ma non lo capisco.»
«Vedi, Ashara, dando per buono che la lettura che mi fece quella cartomante era vera, quante probabilità c’erano per me di arrivare proprio in questa carovana, di decidere di viaggiare con loro, di incontrare proprio qui il mio vero amore? Quante probabilità c’erano che le cose andassero veramente come mi erano state predette? Eppure è successo, e non me ne sono mai stupita o pentita. Perché era già stato scritto, era il mio destino. E se il tuo cartomante è bravo quanto lo era la mia, allora non hai di che temere: vi ritroverete, come hanno detto le carte.»
«Amanita…» I ricordi scorrevano veloci. Il viso di Po, la sua barba curata, gli occhi verdi come smeraldi, che non avevano mai abbandonato i suoi. «Tu ci credi al vero amore?»
«Non ho mai avuto motivo di dubitarne.»
Il tocco delle sue mani sulla sua pelle, il suo respiro, i suoi baci.
«E come sapevi che era Isaac?»
«Non lo sapevo. Diciamo piuttosto che me lo sentivo.»
«E c’è differenza tra le due cose?»
«Oh, sì: la seconda è molto più difficile. Richiede un atto di fede, in se stessi e nell’altro.»
Il temporale infuriava all’esterno con sempre più forza, sempre più violenza. I ragazzi non avrebbero avuto un facile rientro a casa.
Ashara afferrò la sua tazza, stringendola con forza. «Io non so se per me c’è il vero amore nel mio futuro. Non so se c’è l’amore in generale. Non so se merito di essere amata.»
Amanita fece scivolare le mani sulle sue, facendogliele staccare dalla tazza e stringendogliele con forza. «Ashara, guardami.» La ragazza obbedì. Il sorriso di Amanita era dolce, i suoi occhi un porto sicuro in mezzo alla tempesta. «Non sono una veggente, non sono una stregona, non so leggere il futuro ma so quello che sto dicendo: non esisterà mai una versione del tuo futuro in cui non sarai amata. Non sono stata del tutto onesta con te.» Le mani di Amanita tremarono leggermente. «La veggente che mi predisse il futuro mi disse anche che… che avrei avuto una figlia femmina non del mio sangue. Non penso di doverti spiegare perché, a posteriori, so per certo che era un’eccellente cartomante.» Ashara sentì il suo respiro accelerare, le sue mani iniziare a sudare. «Per questo so che meriti di essere amata e che lo sarai per certo: perché io ti amo già come una figlia, e credimi se ti dico che non è mia intenzione impormi in qualunque modo o cercare di sostituire i tuoi genitori. Non devi dire niente, non devi fare niente se non vuoi, men che meno ricambiare, non è questo che voglio. Volevo solo che lo sapessi, che capissi veramente quanto sei parte di questa famiglia.»
Ashara sentì i propri pensieri vorticare, incastrarsi, accalcarsi nella sua mente. C’erano i ricordi di suo padre, quelli dolci dell’infanzia e dell’adolescenza, quelli logoranti di quella notte; c’erano i racconti su sua madre, su com’era in vita, su quanto fosse bella, gentile, su quanto il padre la rivedesse in lei; c’era il dolore, la sofferenza, quel vuoto nel petto che sembrava crescere giorno dopo giorno, divorarla sempre di più, consumarla che si colmava solo quando era accanto a quella famiglia che l’aveva accolta in casa loro tre anni prima; c’erano la paura, la rabbia, l’odio bruciante che le divampava in pancia per chi aveva osato farle del male, per chi l’aveva ferita, umiliata, dilaniata e, soprattutto, per se stessa.
Non aveva mai conosciuto sua madre. Le era stata strappata via prima ancora di poter aprire gli occhi per la prima volta. Suo padre le aveva parlato spesso di lei, del suo sorriso, di quanto fosse bella e le aveva mostrato diversi suoi disegni e ritratti. Quella volta, quando cercò di richiamare alla mente il suo volto, si rese conto che nella sua testa assomigliava incredibilmente ad Amanita.
Ashara fece come le aveva suggerito: non disse niente. Si sporse verso la donna e la abbracciò. Amanita le cinse la schiena con le braccia, stringendola a sé, le accarezzò i capelli quando la sentì piangere sulla sua spalla.
Quando si sciolsero dall’abbraccio la pioggia si era affievolita, ma continuava a scrosciare con furia dal cielo. I tre fratelli Rahl arrivarono a casa poco tempo dopo, fradici fino all’osso e tremanti per il freddo. Drefan sembrava avere l’aria più arrabbiata del solito, se questo era possibile, e infilò dritto in camera sua. Devlan, zuppo di pioggia, gocciolò fino a lei per stringerla in un abbraccio, beccandosi un rimprovero e uno scappellotto dalla madre. Ethan, invece, andò a cambiarsi i vestiti e si fece asciugare i capelli da uno degli incantesimi di Ashara mentre sorseggiava la tisana che la madre gli aveva preparato, raccontandole com’era andata la serata e tenendola sveglia per altre due ore buone.
Se solo Amanita fosse rimasta per sentire il racconto invece di congedarsi per andare a dormire, pensò Ashara, quei tre insieme avrebbero collezionato in un colpo solo un mese di lavori forzati. A quanto pare, però, il destino quella volta aveva deciso diversamente.
La pioggia tamburellava leggera sul tetto del carro, cantando una dolce melodia gitana.

   
 
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