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Autore: Zobeyde    02/09/2021    10 recensioni
New Orleans, 1933.
In un mondo sempre più arido di magia, il Fenomenale Spettacolo Errante di Maurice O’Malley si sposta attraverso l’America colpita dalla Grande Depressione con il suo baraccone di prodigi e mostri. Tra loro c’è Jim Doherty, l’unico a possedere capacità straordinarie: è giovane, irrequieto e vorrebbe spingere i propri numeri oltre i limiti imposti dal burbero direttore.
La sua vita cambia quando incontra Solomon Blake, che gli propone di diventare suo apprendista: egli è l’Arcistregone dell’Ovest e proviene da un mondo in cui la magia non ha mai smesso di esistere, ma viene custodita gelosamente tra pochi a scapito di molti.
Ma chi è davvero Mr. Blake? Cosa nasconde dietro i modi raffinati, l’immensa cultura e la spropositata ricchezza? E soprattutto, cosa ha visto realmente in Jim?
Nell’epoca del Proibizionismo, dei gangster e del jazz, il giovane allievo dovrà imparare a sopravvivere in una nuova realtà dove tutto sembra possibile ma niente è come appare, per salvare ciò che ama da un nemico che lo osserva da anni dietro agli specchi...
Genere: Azione, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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FESTINO DI MEZZANOTTE





Jim camminava lungo il binario ai limiti della città di tela, adesso buia e silenziosa.
Era una notte incantevole; la luna piena inondava il prato di un chiarore metallico e la lunga fila di vagoni proiettava ombre nette come ritagli. L’aria fresca e umida risuonava del frinire dei grilli.
Il ragazzo si fermò all’ingresso di un carrozzone e bussò alla fiancata. Poco dopo, si udì il rumore di una catena sciolta e il portellone si aprì, mostrando il volto sorpreso di Arthur King. «Oh, sei tu.»
«E chi aspettavi, il corpo di ballo di Ziegfeld?[1]»
Arthur rise e aprì di più. «Entra, idiota, prima che ti veda qualcuno!»
Sottili strisce di luce lunare filtravano dalle assi sbilenche del carro bestiame.
Metà del vagone era occupata dalla gabbia di Joel, che dormiva accucciato sul fondo e russava sonoramente. Nell’altra parte del vano, era stata ricavata una stanzetta illuminata da una lampada al cherosene, posata su una cassa rovesciata assieme a una scodella di zuppa lasciata a metà. Una malandata copia di The Weary Blues giaceva aperta sopra una branda, nel punto in cui Arthur aveva interrotto la lettura.
«Maurice sa che sei qui?» domandò a Jim, sedendosi. «Non gli piace che vieni da questo lato del treno.»
La gerarchia tra i dritti che abitavano il convoglio veniva rispettata in modo ferreo, sia dagli artisti che dagli operai: ai primi spettavano le carrozze più lussuose, situate in coda alla carovana. Era lì che abitava anche Jim, in una piccola cabina tutta per sé. Gli operai, invece, occupavano le cuccette tra i carri bestiame e la Squadriglia Volante.[2]
Ma Arthur era un caso particolare. In quanto figlio di un musicista, finché Joel King aveva fatto parte dell’orchestra aveva vissuto insieme agli altri artisti. Dopo la presunta morte del padre però, il ragazzo era stato declassato al serraglio: troppo diverso dai comuni operai perché fosse accettato tra loro, gli era stata offerta una sistemazione provvisoria insieme a Joel, in modo che continuasse a prendersene cura personalmente.
«A discapito di quello che gli piace pensare, Maurice non decide ogni mio spostamento.» Jim fece il giro della stanza, curiosando tra gli oggetti di Arthur. In verità non c’era molto tra cui curiosare, a parte un baule chiuso col lucchetto, un catino e una brocca per la toeletta, una pila di libri della Harlem Renaissance[3] appartenuti a Joel e una camicia pulita appesa a un chiodo.
«Forse, ma è pericoloso gironzolare da queste parti quando fa buio» disse Arthur. «Gli operai bevono tutta la notte quello schifo di moonshine e diventano rissosi, meglio stargli alla larga.»
Jim prese un libro dallo scaffale e lo sfogliò distrattamente. «Volevo assicurarmi che stessi bene.»
«Sto bene, è stato un buono spettacolo. O almeno, Maurice non si è lamentato.»
«Fammi vedere le braccia.»
«Oh, ma dai!»
«Sono serio. Fammi vedere.»
Arthur alzò gli occhi al soffitto, ma arrotolò le maniche fino ai gomiti. Jim si avvicinò alla luce; la pelle degli avambracci era solcata da striature rosse, laddove era stata toccata dalla frusta del direttore. In più, qua e là notò segni di bruciatura. Fece schioccare la lingua, indignato. «Poteva anche risparmiarsela.»
«Fa parte dello show.»
«È un’inutile barbarie!»
«Ma al pubblico piace.» Arthur accennò un sorriso. «Dovevi vederli, erano proprio come li descriveva papà: urlavano neanche fossi Babe Ruth alla fine del nono inning.
E quando sono saltato nel cerchio di fuoco sono andati fuori di testa!»
«Perché sono dei sadici del cazzo. Non lo dovevi fare, non ne valeva la pena.»
Arthur srotolò la manica.
«Ho saputo che c’è stato movimento durante il tuo show» disse poi. «Che è successo?»
«Degli imbecilli volevano rovinarmi la serata. Ma hanno avuto quello che si meritavano.»
Arthur lo guardò; la fiamma della lampada guizzava nei suoi occhi scuri e faceva risaltare le lentiggini sopra la sella del naso. «Hai usato i tuoi poteri?»
«Volevano uno spettacolo di magia e Khazam gliel’ha dato, fine della storia. Domani già non ne parlerà più nessuno.»
«Devi andarci cauto. Soprattutto dopo quello che è successo l’ultima volta.»
«Non è andata come a Joplin!» specificò Jim immediatamente. «E poi sto migliorando, sai? Se solo Maurice mi lasciasse esercitare in pace…»
«Ti potrebbero scoprire. Sento le chiacchiere degli operai, sono tutti convinti che il Direttore nasconda loro qualcosa: che abbia contratto una malattia rara, addirittura che tenga un figlio deforme segregato nella sua cabina. Un paio di loro propongono di entrare mentre dorme, una di queste sere.»
Jim sogghignò. «Oh, troverebbero una bella sorpresa: dorme con una Calibro 22 sotto il cuscino. E la tiene carica.»
«E tu come fai a saperlo?»
«Perché ci sono appena stato. E ho portato via con me un amico.»
Infilò una mano sotto la giacca di pelle e ne estrasse una bottiglia verde targata Jameson. Whisky irlandese, il migliore sulla piazza.
Arthur sgranò gli occhi. «Non è possibile!»
«Sono o no la miglior fata madrina che si possa desiderare?»
«No, tu sei pazzo. Un fottuto irlandese pazzo, ecco cosa sei.»
«Mi ricorderanno così oppure come un eroe filantropo.»
Subito dopo, la bottiglia fu stappata. Arthur tolse il lucchetto al suo baule e tirò fuori il Victrola portatile di suo padre e un paio di vinili; ne mise su uno di Louis Armstrong, che ascoltarono seduti, con le gambe a penzoloni sull’ingresso del carro, mentre si passavano la bottiglia, tossivano e sghignazzavano a ogni sorsata.
«Dovremo razionarla» disse Jim tristemente. Soffocò un rutto e fece oscillare la bottiglia, metà del contenuto già nei loro stomaci. «Ho sentito che non torneremo a fare rifornimento in Canada fino alla fine della stagione.»
«Grazie di essere venuto a trovarmi. È rischioso, non dovevi.»
«Non dirlo neanche per scherzo! Da quando ti hanno sbattuto quaggiù ci vediamo sempre meno.» Jim alzò le spalle, colto da un improvviso imbarazzo. L’alcol lo rendeva sentimentale. «Mi mancavi, ecco tutto.»
Arthur bevve un sorso di whisky e posò la testa contro lo sportello, lo sguardo rivolto verso il sobborgo ai limiti dell’appezzamento; intanto, il disco continuava a girare e la voce di Luis Armstrong cantava:“Man, I got heebies, got those heebies, the heebies jeebies blues...”
«Era una delle preferite di papà.»
Jim si passò il dorso della mano sulla bocca. «Sì, lo so.»
«Gliel’ho fatta ascoltare ogni sera da quando si è trasformato, speravo che potesse riportarlo indietro, sai, che gli ricordasse chi era. Che gli ricordasse me.»
Jim restò in silenzio per un momento, serio nonostante la vista appannata dall’alcol. «Se lo ricorderà.»
«Dici?» Arthur volse la testa verso l’altro lato del vagone, dove Joel dormiva dando loro la schiena. «A me invece sembra che si stia allontanando sempre di più.»
Un’altra pausa. Jim prese dalle sue mani la bottiglia e bevve un altro sorso, morbido, affumicato e dal retrogusto vagamente malinconico, poi cercò di rimettersi in piedi.
«Lasciami provare una cosa.»
«Che vuoi fare?»
Jim dovette aggrapparsi un attimo allo sportello, perché il mondo ballava un po’ sotto i suoi piedi. Ma una volta riacquisito l’equilibrio, si avvicinò alle sbarre della gabbia, che scintillavano per i riflessi della luna. Come aveva fatto poche ore prima sul palco, chiuse gli occhi e sollevò le mani giunte di fronte a sé. Arthur gli si accostò silenziosamente.
Jim inspirò, la fronte aggrottata. Passarono alcuni minuti, poi una leggera brezza smosse la paglia al limite della gabbia, ma non successe altro. Il mago aprì gli occhi e sbuffò. «Fanculo.»
«Non fa niente, lascia stare.»
Jim tornò a sedersi all’ingresso del vagone e scolò quel che restava del whisky.
«Scommetto che se Maurice mi permettesse di fare pratica ci riuscirei» si lamentò «Potrei ritrasformarlo. E invece, mi tocca quello stupido costume! Che senso ha essere l’unico in tutta la compagnia ad avere i poteri magici? Per quanto ne sappiamo, sono l’unico vero mago in tutti gli Stati Uniti!»
«Non è detto che tu possieda quel genere di poteri» gli fece notare Arthur.
«Andiamo, sposto gli oggetti col pensiero da quando avevo cinque anni e adesso genero fulmini dalle mani. Pensa cosa potrei fare se diventassi più forte.»
«Maurice non rischierebbe mai di esporti così. Lascia perdere, davvero.»
«E se dovesse succedere anche a te? Di non riuscire più a tornare umano?»
Arthur si sedette di nuovo al suo fianco, i gomiti poggiati sulle ginocchia. «Non so come funziona, quante altre Mute avrò a disposizione prima che diventino permanenti. Nemmeno papà lo sapeva: secondo nonno Isaiah, i King hanno perduto il Dono da almeno dodici generazioni. E invece, noi ce l’abbiamo.»
Jim posò la bottiglia. «Allora te ne devi andare di qua.»
«E dove?»
«Ovunque.»
Arthur scoppiò a ridere. «Per fare cosa? Quale sfolgorante futuro mi aspetta lontano da qui? Non so niente del mondo, sono nato su questo treno.»
«E ci morirai, se Maurice non trova un’alternativa al suo stramaledetto numero di punta» ribatté Jim duramente. «Ascolta, lo faremo insieme: andiamo a Los Angeles, un po’ di soldi da parte li ho.»
Arthur scosse la testa, continuando a sorridere. «Per comprarci una villetta in periferia, con veranda e giardino?»
«Pensavo a un appartamento in centro, si addice più al mio spirito bohémien.»
«E che faremo quando avremo finito i soldi?»
«Troveremo un lavoro. Io potrei continuare con la magia e sfondare a Hollywood…»
«Oh, certo.»
«…e tu saresti il mio agente.»
«Hai le idee piuttosto chiare.»
«Tu fai qualche telefonata, organizzi delle cene. Alla magia e al carisma ci penso io.»
«Dubito che funzioni così» obiettò Arthur, divertito. «E poi, senza offesa, ma non sei la persona più affidabile che conosco.»
«Non mi vorresti come socio barra coinquilino?»
«Non sai neanche farti il bucato. Lo so che sganci un quartino ad Archie perché te lo faccia ogni settimana.»
«Posso sempre imparare. Imparerò anche a cucinare. E laverò i piatti.»
«Allora sì che saresti da sposare.»
«Ci puoi scommettere, vecchio mio!»
«Grazie» disse Arthur, ma il suo sorriso acquisì una piega strana. «Sul serio, Jim, lo apprezzo molto. Ma non posso abbandonare qui papà. Lui ha fatto tanti sacrifici per me, e se continua a non esibirsi, Sinclair e gli altri troverebbero il pretesto per sbarazzarsene. Devo restare per lui.»
Jim si chiuse in un silenzio ostinato e prese a grattare via l’etichetta della bottiglia con l’unghia del pollice. Eccola che tornava, quell’opprimente sensazione di impossibilità…
I King non meritavano affatto quella vita, non dopo tutto ciò che avevano passato. La madre di Arthur era stata portata via dall’epidemia di Spagnola quando era molto piccolo e Joel si era preso cura di lui da solo fino al giorno dell’incidente; la sera di un’esibizione, uno degli addetti alle gabbie si era ubriacato, permettendo ai felini di scappare. Jim aveva dieci anni allora, ma era tutto impresso a fuoco nella sua mente: le urla, la gente che scappava, gli animali che bramivano spaventati nella notte. Madame Margot aveva preso lui, Arthur e gli altri bambini e li aveva portati al sicuro sul treno, mentre nel tendone si consumava la tragedia. Le tigri avevano sbranato l’allora domatore e ferito alcuni spettatori, una coppia di puma era fuggita chissà dove nelle campagne. Nessuno sembrava in grado di fermarli, ed era stato allora che Joel aveva effettuato la Muta per la prima volta in vita sua, per tenere testa agli altri animali. Non seppe spiegare nemmeno lui come avesse fatto.
Durante la lotta, gli furono staccate a morsi due dita, prima che O’Malley arrivasse armato di fucile per mettere fine a tutto. Con la mano in quelle condizioni, non sarebbe più stato in grado di suonare la tromba. Jim ricordava bene il giorno in cui lo aveva visto presentarsi, quasi in lacrime, nell’ufficio del direttore:
“Ti supplico, Maurice, dammi un altro lavoro. Uno qualsiasi, devo pensare ad Arthur.”
“Gli operai non accetteranno mai te e il bambino. E quando scopriranno cosa sei in realtà, vorranno la tua pellaccia.”
“Allora fammi fare qualcos’altro!”
Si era giunti a un compromesso: per salvare il numero coi felini e non correre più simili rischi, Joel si sarebbe trasformato in leone, continuando a esibirsi e conservare la sua cabina e tutte le sue cose. Sembrava la soluzione più vantaggiosa per tutti, ma quello che né Maurice, né Joel avevano previsto era che il Mannaro avrebbe perso col tempo la capacità di ritrasformarsi.
Così, un giorno, Joel King sparì, e O’Malley liquidò la questione affermando che se ne era semplicemente andato. Il motivo? Non erano certo affari suoi!
In compenso, il Folletto si era assunto la responsabilità di Arthur, dandogli un lavoro da garzone al serraglio per poter restare vicino a suo padre. Non era dato a nessuno sapere il motivo di tale gesto: generosità? Stima per Joel? La prospettiva di avere a disposizione ben due Mannari da sfruttare? O magari, semplice senso di colpa...
«Ci deve pur essere qualcosa che posso fare» disse Jim, senza alzare lo sguardo dalla bottiglia.
«Non c’è niente che tu possa fare» ribatté Arthur, ricordandogli fastidiosamente O’Malley. «Quindi smettila di tormentarti, va bene?»
«No che non va bene.»
«Ok, ma le cose per ora stanno così. Tu, piuttosto, avresti possibilità a non finire là fuori: potresti incontrare altri come te, in grado di fare vera magia. Non hai mai pensato di tornare a casa? Di cercare la tua famiglia…?»
«Non c’è nessuno da cui valga la pena tornare. Se resti tu, resto anche io.»
«Ma…»
«Sarà meglio che vada» tagliò corto Jim, con più freddezza di quanto avrebbe voluto. All’improvviso, sentiva il bisogno di restare da solo.
Si issò in piedi e saltò giù dal vagone.
Arthur continuò a fissarlo, confuso da quel repentino cambio di umore. «Ho detto qualcosa di sbagliato?»
«No. È solo che domattina vorremo entrambi morire, meglio andarcene a letto. Grazie della compagnia, vecchio mio. Buonanotte.»
 
[1]             Ziegfeld Follies: furono una serie di spettacoli teatrali prodotti a Broadway, caratterizzati dalla presenza di ballerine avvenenti e vestite in modo succinto.
[2]             Squadriglia Volante: in gergo circense, il primo vagone che raggiungeva l’accampamento, subito dopo la locomotiva.
[3]             Harlem Renaissance: movimento artistico-culturale afroamericano sorto verso l’inizio degli anni Venti.

 
  
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