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Autore: blackjessamine    03/09/2021    4 recensioni
[Ole Nissen (OC)/Homer Landmann (OC)]
Ole, per i terremoti emotivi, ha sempre avuto un sesto senso.
Soprattutto quando si tratta di un terremoto emotivo di undici anni, troppi ricci sulla testa e quattro lettere a cui dare una risposta.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
- Questa storia fa parte della serie 'Surya Namaskara'
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Attenzione: la storia contiene spoiler del finale di “Surya Namaskara” e risulta di difficile comprensione senza conoscere personaggi e situazioni pregresse.

 


 





 

Qualcosa da festeggiare




 

Ole poggiò con gesto stanco gli occhiali accanto alla tastiera del computer, concedendosi qualche istante di nocche premute sulle palpebre: fra quello sbocciare di fiori elettrici e puntini luminosi fece un respiro profondo, cercando di concentrarsi sui compiti che lo attendevano prima di poter considerare conclusa quella giornata.

Era stanco, perché l’intera settimana cominciava a pesargli addosso con insistenza, e c’era una strana sensazione di disagio che continuava a solleticargli la nuca. Sembrava che tutto, in quel tiepido venerdì di fine marzo, stesse cercando di cullarlo in un falso senso di sicurezza e serenità: Portland si era svegliata sotto un cielo che sembrava fatto di zucchero filato, con quello sfilacciarsi di nuvole su uno sfondo azzurro tenue che raccontava di brezze leggere e di profumo di primavera nell’aria. Eppure, Ole ormai conosceva quella città, e sapeva che avrebbero dovuto affrontare ancora troppi giorni di freddo e pioggia e vento crudele prima di potersi lasciare l’inverno alle spalle. Il suo studio lo aveva accolto con il sorriso distratto di Anita che gli annunciava che avrebbero avuto pochi appuntamenti, e tutti con quei pazienti che Ole tra sé definiva quelli gentili: i pazienti che facevano progressi, quelli che Ole riusciva a leggere e ad aiutare davvero, quelli che non lasciavano Ole con lo spasmodico bisogno di respirare aria fredda per non soccombere sotto il peso dei propri limiti e della propria incapacità di aiutare per davvero qualcuno. Eppure, Ole sapeva che gli appuntamenti che promettevano di essere rapidi e indolori per pazienti e dottore spesso si trasformavano in dolorose passeggiate in mezzo all’angoscia e agli imprevisti.

E poi, era venerdì, il venerdì di una settimana in cui si era ripromesso di mantenere tutto il weekend libero da impegni lavorativi e cattivi pensieri: niente al mondo lo avrebbe convinto che avrebbe potuto cavarsela con una giornata tranquilla e priva di pugnalate alla schiena.

 

Un lieve bussare alla porta.

Puntuale come il mal di testa dopo una sera con troppo vino, il suono arrivò a distogliere Ole dal suo tentativo di mettere a fuoco tutto quello che avrebbe potuto andare storto.

Il viso affilato di Anita Zimmer, affacciato con circospezione alla fenditura della porta socchiusa, era già qualcosa che stava andando storto. Mancava poco all’ora di pranzo, e Ole non aspettava alcun paziente prima delle due del pomeriggio: sperava di poter usare quella mezz’ora prima del pranzo per rivedere gli appunti di un paziente particolarmente difficile che lo attendeva lunedì mattina, ma a quanto pareva il destino aveva già cominciato a far valere le proprie rimostranze.

“Dottore? C’è una visita per lei”.

Anita sorrise davanti alla fronte aggrottata di Ole: non aspettavano alcun paziente, e in ogni caso di solito Anita non si scomodava mai ad attraversare il corridoio che collegava la luminosa reception dello studio con la stanza dove Ole riceveva i pazienti, limitandosi all'uso del telefono interno.

“Credo sia meglio che venga di persona”, aggiunse la donna con un sorrisetto che voleva solo sottolineare tutta la sua soddisfazione nel saperne più di Ole.

Vengo sempre di persona ad accogliere i pazienti, avrebbe voluto replicare Ole, ma si trattenne davanti all’ondata di divertimento che emanava dalla sua segretaria. Oh, be’, Anita Zimmer era una brava persona e una segretaria passabile, ma non era certo nota per avere una grande capacità di mantenere la calma in situazioni stressanti, quindi quel divertimento doveva essere un buon segno.

 

Ole si calcò con gesto distratto gli occhiali sul naso, apprestandosi a seguire il ticchettare allegro delle scarpe di vernice della donna lungo il  piccolo corridoio, fino a raggiungere l’ingresso dello studio. Da anni Ole si ripeteva che avrebbe dovuto cercarsi uno studio un pochino più grande, ma quell’appartamento affacciato sul Ross Island Bridge era ormai diventato la sua seconda casa. L’appartamento era al terzo piano di un palazzo piuttosto vecchio, ma la vista sul fiume Willamette faceva dimenticare ogni infiltrazione nei muri, ogni scricchiolio di troppo del vecchio parquet e anche le frequenti liti con il quadro elettrico. Le finestre erano ampie e luminose, e Ole praticava in quello studio da così tanti anni che era riuscito, pur nel suo disordine e con il suo scarso senso pratico, a strappare via da quel luogo l’aspetto asettico di un ambulatorio medico. Era una casa – la sua casa – e sperava che anche i suoi pazienti potessero pensare a quell’appartamento con un senso, se non di affetto, quantomeno di familiarità.

Ole provava sempre un certo orgoglio quando attraversava il corridoio e si affacciava all’ingresso dalle pareti color senape¹, facendo scivolare lo sguardo sulle poltroncine sparse in disordine sul folto tappeto che riempiva buona parte della stanza fino a incontrare il viso del paziente che lo stava aspettando.

Questa volta, però, l’orgoglio si tramutò in sorpresa: affondato nella poltrona più alta e più soffice dello studio, un ragazzino faceva dondolare le gambe, strusciando nervosamente la suola delle scarpe da ginnastica sul tappeto morbido. Quando lo vide, il ragazzino alzò lo sguardo fissando Ole con un paio di serissimi occhi scuri e abbozzando un sorriso incapace di nascondere una vena di preoccupazione.

“Timmy? Ma come… cosa ci fai qui?”

Timothy Castro-Landmann, undici anni compiuti da poco e il viso indeciso se restare aggrappato all'infanzia o cedere il passo all'adolescenza, tentò di scrollare le spalle e con una vocina decisamente colpevole rispose che voleva solamente fare un giro.

“Ma non ti volevo disturbare mentre lavori", si affrettò ad aggiungere con una sincerità disarmante, "infatti ho detto ad Anita che ti potevo aspettare qui mentre finivi di lavorare, ma lei è comunque venuta a chiamarti”.

 Ole nascose a stento un sospiro osservando le guance del ragazzino arrossire appena.

“Ma il dottore non stava lavorando, pasticcino, non l’abbiamo mica disturbato”, trillò Anita, che sin dalla prima volta che Timmy e Homer avevano messo piede nello studio sul Ross Island Bridge aveva dimostrato di aver preso in grande simpatia quel bimbo tutto occhioni curiosi e sorrisi pieni di fossette, e ora sembrava non essersi accorta che Timmy aveva imparato a leggere e scrivere da un pezzo. Ole avrebbe voluto replicare che il fatto che non stesse visitando alcun paziente non significava che non stesse lavorando, ma si trattenne, perché non era quello il punto: Timmy poteva disturbarlo quando e quanto voleva, soprattutto se si presentava da solo a cento miglia dalla scuola dove avrebbe dovuto trovarsi quel venerdì mattina.

“Va tutto bene, Timmy?”

Il ragazzino annuì, lo sguardo sempre ostinatamente abbassato sulla punta delle sue scarpe da ginnastica.

“E, ehm, è normale che tu sia qui invece che a scuola a Eugene?”

Le guance di Timmy assunsero una bella tonalità di porpora, ma finalmente il ragazzino sollevò lo sguardo – uno sguardo che sembrava voler chiedere scusa senza però riuscire a soffocare quella scintilla di luminosa determinazione che sempre più spesso gli accendeva il viso.

“Uhm, be’, più o meno… oggi avevamo alcuni incontri con le scuole medie² della zona, quindi, insomma, non dovevo per forza andare”.

Ole sospirò di nuovo, avvertendo il suo stomaco contrarsi in preda al disagio allo stesso ritmo di quello di Timmy. Era straordinario quanto quel ragazzino fosse in grado di gettare attorno a sé le proprie emozioni con una forza e una precisione a cui Ole non sapeva sottrarsi: per quanto ci provasse, per quanto Ole cercasse di resistere, di mantenere le distanze e non invadere la privacy di Timmy, il figlio di Homer si presentava a Ole con la stessa limpidezza di un lago di montagna.

E quel disagio, quell’angoscioso tormento aveva contorni precisi, precisissimi, anche se Timmy aveva solo sfiorato l’altro lato del problema. Vedere i suoi compagni affaccendarsi attorno alla scelta di quale istituto frequentare una volta concluse le scuole elementari aggrappandosi alla consapevolezza che lui non li avrebbe mai seguiti, e che quel fingere di informarsi e raccogliere elementi per fare una scelta sensata fosse solo una sciocca pantomima non doveva essere piacevole per Timmy. Ma quella spiacevolezza non aveva nulla a che vedere con l’altra scelta, quella vera, quella che da un mese esatto aveva rannuvolato il viso altrimenti tanto incline a illuminarsi di sorrisi enormi di Timmy.

Ole gettò uno sguardo all’orologio appeso sopra la scrivania di Anita: oh, be’, l’orario della sua pausa pranzo si avvicinava sempre di più, e in ogni caso Ole era ormai troppo distratto per continuare a lavorare, così si concesse un sospiro.

“Giusto, giusto. Senti, Timmy, a me sta venendo fame: ti va di farmi compagnia a pranzo?”

Se Timmy era stupito nell’assenza di domande di Ole, nell’assenza di una ramanzina per la scuola saltata e, soprattutto, per il suo aver attraversato mezzo Oregon da solo e senza avvisare nessuno, non lo diede a vedere. Si limitò ad annuire, regalando a Ole un sorrisino mesto e riconoscente.

“Ottimo! Dammi giusto un secondo per mettere in ordine due cose di là, poi prendo il cappotto e arrivo”.

Ole aveva appena voltato le spalle a Timmy, quando la voce di Anita lo convinse a fermarsi.

“Ma, pasticcino, come mai il tuo papà non è salito?”

Ovviamente, la simpatia di Anita non si era mai limitata solo a Timmy, ela giovane donna non aveva mai fatto mistero di apprezzare moltissimo le visite di quell’uomo dai modi cordiali e dall’abbigliamento stravagante.

“Il papà, uhm, è al lavoro”.

È al lavoro e non ha la minima idea che io sia qui, aggiunse mentalmente Ole.

“Ma non sei venuto da solo, vero?”

L’idea che Timmy saltasse la scuola e da solo facesse un viaggio in autobus di tre ore faceva sentire le ginocchia di Ole cedevoli come formaggio molle, ma decise di rimandare quella paura a dopo – a quando avessero avuto la pancia piena e Timmy fosse stato nelle condizioni di ascoltare un accenno di ramanzina. Del resto, Timmy era lì, e stava bene, e questo era ciò che contava.

 

***

 

Ole osservò in silenzio la complessa coreografia con cui Timmy continuava ad arrotolare gli spaghetti³ sulla propria forchetta, per poi spostarli da una parte all’altra del piatto senza quasi mai portarli alla bocca. 

La situazione doveva essere ben grave, perché di norma un piatto di spaghetti non resisteva intatto di più di quattro minuti, con lui. 

Per tutto il pranzo Timmy aveva parlato poco, limitandosi ad annuire e fare commenti banali alle banali osservazioni di Ole, che si era consapevolmente mantenuto su un terreno neutrale, come se non si fosse nemmeno reso conto della stranezza della situazione.

Conosceva Timmy abbastanza bene da sapere che il silenzio non faceva per lui: prima o poi i pensieri gli scappavano via dalla bocca come piccole esplosioni, lasciandolo confuso della sua stessa loquacità. Era solo questione di tempo.

"Posso portare via?"

La giovane cameriera aveva già lanciato qualche occhiata nervosa al loro tavolo: il locale era pieno, e probabilmente aveva fretta di cedere il loro posto ad altri clienti, ma se Ole aveva finito di mangiare da un pezzo, Timmy aveva ancora il piatto quasi pieno. Davanti alla sua domanda, però, il ragazzino smise di tormentare gli spaghetti con la forchetta, spingendo lontano da sé il piatto.

"Vi porto un dolcetto, magari?"

Ole osservò Timmy, invitandolo con un cenno del capo a ordinare, ma il ragazzino rimase in silenzio.

"Io prendo la cheesecake alle fragole", decise infine Ole. Avrebbe preferito un tortino al cioccolato, ma a Timmy il cioccolato non piaceva, mentre andava matto per le fragole, e Ole sperava almeno di prenderlo per la gola e riuscire a riempirgli almeno in parte lo stomaco.

 

“Secondo me hanno cambiato la ricetta, vedi che adesso c’è la panna?”
Ole stava mangiando il più lentamente possibile, lasciando che il chiacchiericcio costante dei numerosi avventori lo cullasse e riempisse il silenzio che era sceso fra lui e Timmy. Timmy che, però, aveva smesso di tenere lo sguardo basso, ora fissava con sguardo intenso e concentrato Ole, come se stesse aspettando il momento giusto per intervenire. 

E Ole era determinato a dargli tutto il tempo di cui aveva bisogno, aspettando che quel momento arrivasse.

“Ce l’hanno la torta di fragole, a Hogwarts?”
Come previsto, gli occhi di Timmy si spalancarono, quasi lui stesso si fosse sorpreso della sua domanda. 

Ole chiuse gli occhi, sollevato.
Eccolo, dunque, il problema. O, per lo meno, ecco la superficie del problema. Ma una superficie da cui partire era sempre meglio di un silenzio da sopportare, e Ole negli anni si era scoperto piuttosto portato per l’arte di avere pazienza e continuare a scavare. 

“Sì che ce l’hanno. O almeno, ce l’avevano quarant’anni fa”.

Ole si lanciò un’occhiata discreta tutt’attorno, per assicurarsi che la folla di avventori fosse concentrata solamente sul cibo e sulle proprie chiacchiere: Ole poteva anche aver trovato un equilibrio perfetto fra i mondi che lo avevano visto crescere, ma aveva il vago sospetto che quest’equilibrio si sarebbe spezzato non appena fosse stato arrestato per aver infranto lo Statuto Internazionale di Segretezza.

“Certo che tu e papà siete proprio vecchi₄”, mormorò Timmy, gli occhi finalmente accesi di malizia e divertimento.

“Prego? Guarda che siamo ancora due ragazzini arzilli!”
In realtà, un ragazzino arzillo Ole non ci si era mai sentito, nemmeno quando era davvero uno studente di Hogwarts. Di certo non riusciva a sentirsi un ragazzino vedendo Timmy grande abbastanza per interessarsi alfuturo che di lì a pochi mesi lo avrebbe atteso in una scuola di magia. 

“E comunque, a Hogwarts c’è così tanta scelta al banchetto che la mancanza di una torta di fragole proprio non si avverte”.

“Be’, ma al massimo si può chiedere agli Elfi di prepararla, no?”
Timmy sembrava aver perso di nuovo un po’ del suo sorriso e così Ole, posando la forchetta, decise di rischiare un pochino:
“Quindi la presenza della torta di fragole non ti aiuta a escludere Hogwarts dalla scelta?”
Timmy chinò appena la testa di lato, e poi scrollò le spalle in un gesto che lo fece somigliare così tanto a suo padre che Ole ebbe una fitta al cuore.

“Non lo so. Io non… forse non è questo il punto”.

“Hai voglia di provare a trovarlo, questo punto?”
Timmy tornò a guardare Ole, e lo fece con lo stesso sguardo che aveva avuto nove anni prima, quando Homer era comparso in Oregon con una Passaporta stretta in una mano e il figlio appeso al collo. Ole era stato lì, in piedi accanto all’impiegato dell’Ufficio per il  Trasporto Magico Internazionale del distaccamento del M.A.C.U.S.A. di Portland, e il suo sguardo era scivolato dal volto stanco del suo amico a quello sull’orlo del pianto del bambino terrorizzato da quel mezzo di trasporto non particolarmente confortevole. Era stato lì per fare strada attraverso corridoi e uffici e poi fra le strade della cittadina, fino a raggiungere l’auto che avrebbe portato tutti e tre fuori città, a casa di Ole, dove Timmy e Homer sarebbero stati ospiti per il tempo necessario a rendere abitabile la casa che Homer aveva affittato a Eugene. Homer non aveva nemmeno raggiunto la stanza degli ospiti, era crollato addormentato sul divano senza neanche sfilarsi le scarpe. Era stato allora che, per la prima volta, Timmy aveva davvero guardato Ole. Lo aveva guardato con un faccino tutto serio e titubante, che sembrava voler dire credo che tu non abbia idea di quello che stai facendo, ma ho deciso comunque di fidarmi di te. E allora lo aveva preso per mano e lo aveva accompagnato a esplorare la sua stessa casa, il bimbo sempre un passo avanti, silenzioso, e Ole dietro a seguirlo, senza sapere cosa dire o che cosa fare, terrorizzato che Timmy potesse cadere e farsi male o spaventarsi. 

 

“Tu hai mai pensato di lasciare Hogwarts?”
Timmy, con la sua domanda schietta, riportò Ole al presente. Perché lo sguardo poteva essere rimasto quello di un bimbo che trotterellava incerto per le stanze di una casa che non conosceva, ma Timmy non era più un bimbo piccolo.
Era un ragazzino che, nonostante tutti gli sforzi di Homer per imparare a mettere radici e costruire attorno a suo figlio un mondo solido e capace di tenerlo fermo, si era dimostrato un Landmann in tutto e per tutto. Perché non bastavano le scuole babbane che aveva frequentato a dispetto della magia precoce e vivace che aveva mostrato di possedere sin da quando era piccolissimo – voglio che cresca senza pregiudizi, e voglio che quando sarà più grande possa cogliere tutte le possibilità che il mondo gli offre, senza fare distinzioni fra conoscenze magiche e babbane. No, non era stato sufficiente quello.

Quando lui e Ole si erano conosciuti, Homer si era definito un pasticcio geopolitico, e a poco era servito che Timmy avesse trascorso la maggior parte della sua vita in Oregon, perché quel pasticciare con i confini geografici era qualcosa che la famiglia Landmann non si sarebbe mai scrollata di dosso. Soprattutto perché le Scuole di Magia avevano metodi tutti loro per decretare l’ammissione di un nuovo studente fra i propri ranghi, e Timmy si era rivelato il bersaglio perfetto per dimostrare quanto assurda fosse la situazione. 

Il giorno dell’undicesimo compleanno di Timmy, nessuno si era stupito di vedere un’aquila di mare becchettare insistentemente alla finestra della cucina, impaziente di consegnare una voluminosa busta di pergamena spedita dalla scuola di Ilvermorny. Non c’era stato grande stupore nemmeno quando Timmy aveva cercato di versare i cereali in una tazza di latte, e si era trovato invece a fissare una pianta dai sottili viticci di un bel verde vivo: non appena il bambino aveva sfiorato una foglia tenera, i viticci avevano preso ad avvilupparsi l’uno sull’altro, intrecciandosi in nodi sempre più stretti, fino a formare un sottile foglio di fibra vegetale vergato da inchiostro nero con un sottile riflesso dorato. Aline Castro, la madre di Timmy, si era diplomata con successo a Castelobruxo, dunque era comprensibile che suo figlio risultasse iscritto anche ai registri di quella scuola. Più sorprendente era stato l’arrivo, in serata, di un barbagianni dall’aria esausta, che aveva lasciato cadere sulla tavola apparecchiata per la cena una busta proveniente da Hogwarts prima di tuffare il becco nel brodo di pollo di Homer. Decisamente inaspettato era stato però il sogno confuso che aveva svegliato Timmy quella mattina, facendogli trovare stretta fra le mani la pietra che gli sarebbe valso il suo accesso a Uagadou. Evidentemente il fatto che Homer avesse concluso i propri studi e si fosse perfezionato proprio nella scuola nascosta fra le montagne dell’Uganda era stato sufficiente affinché Timmy si guadagnasse un posto anche nella scuola africana₅. 

 

Ole si riscosse, tornando a concentrarsi su Timmy e sulla domanda che gli aveva rivolto. Un tempo, rispondere con sincerità a una simile domanda avrebbe fatto male, aprendo solchi di inadeguatezza e tornando a sottolineare la sua incapacità di sentirsi pienamente parte di uno o dell’altro mondo. Ma quel ragazzino insicuro che avrebbe voluto lasciare Hogwarts e avrebbe vissuto quell’abbandono come un fallimento da dimenticare era un ragazzino con cui Ole era cresciuto e che aveva imparato a perdonare.

“Sì, e ci sono andato anche molto vicino, alla fine del secondo anno. Non ero molto portato e non mi ero fatto nemmeno molti amici che potessero trattenermi lì, e quindi sì, ci ho pensato, eccome se ci ho pensato”.

Timmy alzò lo sguardo, stupito: forse non si aspettava una simile sincerità.

“E adesso pensi mai che avresti fatto meglio a lasciare?”
Ole si tolse gli occhiali, strofinandosi gli occhi e riflettendo. Non sulla risposta da dare, perché quella era una riflessione che gli si era presentata spesso e a cui ormai non temeva più di rispondere, ma su Timmy. Sul senso ultimo di quelle domande e sul velo di preoccupazione che era calato su di lui da quando si era trovato nella condizione di dover scegliere quale scuola frequentare.

“In realtà, no. Nemmeno adesso che sono contento del mio lavoro con i babbani. Non mi sono mai sentito molto a casa, a Hogwarts, ma se non ci fossi andato, probabilmente non sarei capace di sentirmi a casa adesso”.

“Perché non avresti conosciuto mio papà?”
Di nuovo la malizia si era affacciata negli occhi di Timmy, strappando una risata a Ole.

“No, non per quello”, mormorò, ed era la verità, ma anche una bugia. Negare che Homer avesse cambiato radicalmente il modo in cui viveva Hogwarts – e il modo in cui avrebbe vissuto tutto il resto della sua vita – sarebbe stata una sciocchezza colossale. Eppure, non era solo per quello che era contento di aver terminato gli studi nel mondo magico. 

“Perché io sono un mago, e non importa che io ora faccia un lavoro babbano insieme ai babbani. A Hogwarts non mi sono mai sentito molto a casa, ma se avessi rinunciato completamente alla magia, probabilmente non sarei mai riuscito a sentirmi completo”.

Era una questione di equilibrio sottilissimo, e Ole lo aveva capito solo crescendo. Non era bastata Hogwarts, che lo aveva fatto sentire fuori posto e non abbastanza. Non era bastata nemmeno la sua università babbana, in cui si era sentito costantemente in bilico fra due mondi in cui aveva il terrore di precipitare. Era una consapevolezza che era arrivata solamente molto più tardi, quando aveva capito che poteva lavorare in mezzo ai babbani senza rinunciare ad utilizzare quelle uniche capacità magiche che gli erano sempre venute tanto naturali, e poi le altre consapevolezze erano arrivate con una concatenazione sorprendente: poteva lavare i piatti alla babbana e incantare le lenti degli occhiali affinché non si appannassero; poteva leggere giornali dalle figure in movimento e poi prendere l’auto per andare al lavoro; poteva offrire ai suoi pazienti tè corretti con pozioni tranquillizzanti e utilizzare con scioltezza un computer. Non era più questione di trovare un mondo a cui appartenere: aveva capito che lui non era fatto per appartenere a niente, e andava bene anche così. 

Ma Timmy non aveva bisogno di sentirsi dire queste cose: le insicurezze degli adulti e le loro piccole conquiste per vivere in maniera più serena erano qualcosa che non potevano riguardare un undicenne ancora preoccupato. 

“È che… io mi sento un mago, e voglio davvero imparare la magia e studiare tutte queste cose. Però… però tu non avresti preferito prendere la Metropolvere e tornare a casa, dopo le lezioni? Come faccio adesso?”
Ole sorrise. Eccolo, finalmente, il punto.

No, Ole non avrebbe preferito tornare a casa, perché casa a undici anni per lui significava un padre sempre più distante e incapace di comprenderlo. Ma anche questo Timmy non aveva bisogno di sentirselo dire, non adesso.

“È un bel cambiamento, trasferirsi in collegio”, si limitò invece a mormorare, osservando con attenzione il viso di Timmy combattere e poi arrendersi al fiume di parole che gli sgorgò dalle labbra.

“Io non sono sicuro di volerci andare. In una scuola qualsiasi, dico… io… e se ho troppa nostalgia? E se non resisto e voglio tornare a casa?”
Il tormento di Timmy era così intenso da scivolare fuori dal confine del suo corpo e travolgere Ole, rendendolo nervoso e incerto. Respirò a fondo, Ole, cercando di ristabilire una certa distanza fra di loro.

“Avere nostalgia è normale. È davvero un cambiamento grosso, e magari ci saranno dei momenti un po’ duri, ma io credo che valga la pena almeno di provarci, no?”
Timmy lo osservò con sguardo confuso.

“Di provarci? Non posso mica cambiare idea!”
“E questo chi lo dice? Andare a Hogwarts, o a Uagadou, o…”
“O a Ilvermorny, dove almeno conoscerei già qualcuno”, lo interruppe Timmy, senza guardarlo, facendo riferimento ai figli di alcuni colleghi di Homer, che certo non poteva annoverare fra i suoi amici più stretti, ma erano comunque volti conosciuti.
“O a Ilvermorny”, concesse Ole, cercando di trattenere un sorriso, “andarci, dicevo, non è una condanna, e ci sono delle alternative, se proprio non dovesse funzionare”.

Ole aveva ormai conquistato tutta l’attenzione di Timmy, e decise di approfittarne: il ragazzo aveva solo accennato ai propri timori, ma Ole era convinto di aver intuito la loro direzione, e decise di fidarsi del proprio intuito. 

“Non è molto comune, ma ci sono ragazzi che preferiscono studiare da casa, e diventano comunque degli ottimi maghi. Sono sicuro che se a scuola non ti trovassi bene, una soluzione del genere si potrebbe trovare”. 

“Tu dici?” 

Lo scetticismo nella voce di Timmy era quasi palpabile, ma Ole riuscì a mantenersi serio. 

“Certo che lo dico”.

“Ma papà… io non sono come lui, lui ha girato il mondo e ha avuto mille case ed è sempre stato facile, per lui…”. 

Questa volta, Ole non potè trattenerlo, il sorriso. Perché Timmy poteva sembrare il ritratto sputato di suo padre, con gli stessi occhi luminosi e i ricci scuri che gli cadevano sulla fronte nel medesimo modo. Poteva avere lo stesso sorriso enorme che arrivava ad illuminargli tutto il viso all’improvviso, poteva scuotere le spalle seguendo esattamente lo stesso gesto di Homer, ma non era Homer. Era stato buffo, per Ole, rendersene conto: quando aveva conosciuto quel bimbo, Ole inconsciamente si era trovato ad osservarlo, a prestargli attenzioni e a parlargli cercando in lui le tracce di Homer bambino, di Homer come non aveva mai fatto in tempo a conoscerlo. E più lo guardava, più lo vedeva crescere e diventare autonomo e sviluppare una propria personalità, più si rendeva conto che Timmy non era Homer. Timmy era vivace come era stato vivace suo padre, ma si metteva nei pasticci molto più spesso di quanto avesse mai fatto Homer – non era un caso se quel giorno aveva deciso di marinare la scuola e macinare miglia su miglia da solo. E dietro quei pasticci, Timmy nascondeva la fragilità e l’insicurezza di chi il mondo non ha ancora imparato a rigirarselo nel palmo di una mano. 

“Il fatto che tu non sia come tuo padre non significa che le tue reazioni siano sbagliate. E comunque, io non credo che per lui sia sempre stato tutto facile. È solo stato molto bravo a nasconderlo, forse anche a sé stesso”.

Il sopracciglio sollevato di Timmy esprimeva tutto il suo scetticismo, e Ole si ritrovò, di nuovo, a sorridere. Perché anche Ole aveva impiegato quarant’anni per riuscire ad abituarsi alla luce di Homer, per non esserne più abbagliato e per riuscire a fissarlo abbastanza a lungo da vedere le crepe. Le prime, profondissime crepe Ole le aveva viste nel terrore con cui Homer guardava Timmy. Quel figlio arrivato a sconvolgere ogni cosa, a stravolgere la sua vita fatta di continue fughe e rifiuti di mettere radici aveva costretto Homer a fermarsi, a smettere di scrollare le spalle e a confrontarsi con le conseguenze della sua vita liquida. Quando si era trattato di riversare su un figlio tutte le sue conseguenze dell’essere fatto solo per vivere nel momento, Homer si era incrinato. Era come se tutto il suo asse si fosse inclinato, ruotando attorno a quel bambino e al suo costante tentativo di raccogliere i pezzi della sua vita senza punti di riferimento per provare a costruire qualcosa di solido per Timmy. E allora Ole era stato in grado di guardarsi indietro, e di vedere tutto il peregrinare di Homer sotto una luce diversa. Aveva visto le mancanze dietro la sua incapacità di mettere radici, aveva visto l’irrequietezza dietro la sua fame di mondo, e aveva visto anche la nostalgia e la solitudine che lo avevano spinto, quattordicenne appena arrivato a Hogwarts, a legarsi tanto saldamente a quell’alto ragazzino che sembrava andare alla deriva in un mondo a cui non riusciva ad appartenere. 

Ma, di nuovo, queste non erano cose che Timmy aveva bisogno di sapere, non ora.

“Io lo so che a volte stare vicino a persone come tuo papà può essere un po’ soffocante, perché lui si entusiasma di qualsiasi cosa e sembra volere che anche tu sia entusiasta di tutto”.

Fra Ole e Timmy volò una scintilla di comprensione reciproca, che li fece sorridere appena. 

“Però, e questo te lo posso giurare, lo fa perché a volte è un po’ ingenuo, e si dimentica che il resto del mondo non va al suo passo. E quando si accorge che così facendo rischia di mettere a disagio le persone a cui vuole bene, è il primo a soffrirne”.

Ole stava parlando di Timmy, ma anche di sé stesso.

“Lui non ha nemmeno preso in considerazione l’idea di farti studiare a casa perché vorrebbe che tu potessi vivere le esperienze migliori. E andare a Ilvermorny, o a Castelobruxo o in qualsiasi scuola tu possa voler andare non significa solo avere un’istruzione più precisa di quella che potresti avere a casa. Significa vivere appieno il mondo magico, confrontarti con altri maghi della tua età, cominciare a crearti dei legami in un mondo che, comunque, prima o poi ti apparterrà”.

Timmy annuì piano, seguendo con la punta delle dita un solco nella venatura del legno del tavolo.

“Lo so. Però… a volte sento nostalgia di casa anche quando sto dalla mamma, e da lei ci sto solo qualche settimana. Qui devo stare via almeno fino a Natale… e se non ce la faccio?”
Ole sospirò: quando era un ragazzino non si era mai soffermato a pensare a tutto questo, ma ora che era un adulto e aveva visto Timmy crescere e si era affezionato terribilmente a lui non poteva fare a meno che pensare che undici anni fossero pochi, davvero troppo pochi per andare via di casa. Aveva totale fiducia nella forza di Timmy e sapeva che alla fine sarebbe stato benissimo, ma una parte di lui avrebbe voluto saperlo ancora a casa per tanti anni.

Si sistemò meglio gli occhiali sulla punta del naso e disse, risoluto:

“Facciamo così: facciamo che questa potrebbe essere solo una prova. Se stare lontano da casa dovesse essere troppo, tu scrivi e ti riportiamo a casa”.

“Ma papà…”
Ole sentì il cuore stringersi assieme alla paura di Timmy di deludere suo padre. Avrebbe voluto dirgli che una cosa del genere non avrebbe mai deluso Homer, non l’Homer che guardava ogni passo di suo figlio e si illuminava come se si trovasse davanti al più grande miracolo del mondo, pieno di orgoglio e commozione e gratitudine per quella persona incredibile che era Timmy.

Ma non avrebbe rovinato a Homer la possibilità di dimostrare ancora una volta a suo figlio quanto bene gli volesse, così si limitò a dire:
“Papà niente. Scrivi ai nonni, se preferisci, o scrivi a me, se non te la senti di dirlo direttamente a lui, che tanto poi ci penso io a farlo ragionare. Però”, aggiunse Ole, fissando Timmy intensamente per essere sicuro che il bambino lo stesse ascoltando, a dispetto delle obiezioni che ancora gli vedeva danzare in fondo agli occhi, “promettimi una cosa: se ti sembrerà di non farcela, se ti sembrerà che tutto sia troppo e di non riuscire più a resistere, promettimi che prima di scrivere resisterai un altro giorno. Uno solo”.

Timmy aggrottò le sopracciglia, confuso. 

“Un giorno? Perché?”

“Perché così saprai di essere stato in grado di toccare il fondo e sopravviverci un giorno in più. E poi, perché a volte un giorno solo cambia molto la nostra prospettiva, e riuscire a cambiare prospettiva può aiutare tanto”.

Timmy annuì, apparentemente convinto, ma ancora bisognoso di un’ulteriore rassicurazione.

“E davvero tu dici che papà mi verrà a prendere, se vi scrivo che a scuola non ci voglio più stare?”
“Lo dico davvero. Lui magari può fare fatica a capire che una cosa che per lui è normalissima possa mettere in difficoltà gli altri, e ha bisogno che qualcuno glielo dica. Però, se dovesse pensare che tu a scuola stessi male, male davvero, sarebbe disposto a scalare a mani nude la Torre di Astronomia, pur di riportarti a casa”.

Sarebbe disposto a farlo anche solo sapendoti soltanto malinconico, si ritrovò a pensare Ole, sapendo quanto Homer, dietro la facciata del padre poco apprensivo e sempre sereno, nascondesse invece terrori che gli mangiavano lo stomaco e lo spingevano a voler far da scudo fra Timmy e qualsiasi dolore.

“A Ilvermorny non credo ci sia una Torre di Astronomia”, mormorò Timmy, questa volta con gli occhi che avevano ricominciato a brillare.

“Be’, ci sarà pure una torre. O un albero da scalare. O magari farebbe esplodere un muro, non lo so, sono sicuro che qualcosa si inventerebbe”.

“O potrebbe entrare da una finestra su una scopa!”
“Perché non direttamente un drago?”
“Sì! Scappare su un drago mi piacerebbe!”
Se il sorriso luminoso di Timmy non fosse stato abbastanza esplicativo di quanto il punto della questione fosse ormai diventato un puntino così piccolo da poterlo soffiare via, la forchetta che il ragazzino, con evidente soddisfazione, affondò nella torta di fragole bastò a tranquillizzare Ole. 

 

***

 

Ole stava per immergere le mani nella schiuma che riempiva il lavello, quando, in un mulinare di schizzi d’acqua saponata, la padella schizzò fuori dall’acqua per correre incontro alla spugna che levitava a mezz’aria alle sue spalle.

“Homer! Hai rischiato di rompermi il naso!”
Homer, mollemente appoggiato allo stipite della porta della cucina, si limitò a scrollare le spalle e a schioccare le dita, costringendo il resto delle stoviglie a seguire la padella.

“So aggiustare un naso rotto anche a occhi chiusi, non dovresti preoccuparti”.

Ole non fece in tempo ad aprire la bocca per protestare e far notare che essere un Guaritore di fama internazionale non rappresentava una valida giustificazione per prenderlo a padellate in faccia, ma Homer scoppiò a ridere, interrompendolo:
“Sto scherzando. Cioè, no, davvero un naso rotto lo aggiusto come niente, ma     questa era una traiettoria calcolata. Il tuo naso non è mai stato in pericolo”.

Ole scosse la testa, ma decise di lasciarsi alle spalle la sua cucina intenta a riordinarsi da sola – non era stata una sorpresa per nessuno scoprire che Homer aveva un discreto talento anche negli incantesimi casalinghi, e Ole si era abituato presto lasciarlo fare, quando cenavano insieme – per raggiungere il Guaritore Landmann in salotto.

Era difficile far combaciare due esistenze piene di impegni tanto diversi: Ole aveva il suo studio e i suoi pazienti babbani, e Homer era il Primario del reparto di Guarigione Sperimentale dell’ospedale magico di Eugene. E aveva Timmy, a cui voleva dedicare tutto il tempo possibile prima che partisse per la scuola. E poi c’erano le sue ricerche, e rispondeva a qualsiasi richiesta d’aiuto in giro per tutti gli Stati Uniti. E aveva le sue conferenze e le lezioni alla Scuola di Guarigione, e gli eventi benefici a cui si prestava sempre. 

Non era facile trovare l’incastro perfetto per passare del tempo insieme, e quando lo facevano, nessuno dei due voleva perdere tempo con stoviglie e battibecchi per decidere se davvero l’olio di gomito fosse più efficace di un incantesimo Gratta e Netta.

Ole si sedette sul divano, lasciandosi pervadere dal calore delle fiamme del camino che Homer doveva aver attizzato in precedenza: era straordinario quanto il calore del fuoco riuscisse a cambiare completamente l’aspetto di quella stanza. Per anni, Ole aveva fatto affidamento ai termosifoni babbani, ma quando Homer si era trasferito a Eugene e aveva ricominciato a far parte della sua vita, Ole non aveva nemmeno dovuto riflettere sulla situazione: aveva bisogno di collegare casa propria alla Metropolvere. E forse era perché quel camino parlava di Homer e del suo ritorno e del modo in cui il loro legame, a vent’anni di distanza, si era rivelato saldo tanto quello che avevano da ragazzini, ma ogni volta che Ole sentiva il calore del fuoco sulla pelle, si sentiva scaldare anche da dentro.

Accanto a lui, Homer evocò con un gesto pigro e un sorriso compiaciuto due bicchieri e una bottiglia di vino.

“Festeggiamo qualcosa?”
Homer non rispose subito, ma continuò a sorridere mentre stappava la bottiglia e riempiva generosamente i due bicchieri.

“Sì e no. Festeggiamo i tuoi risultati sorprendenti, che potrebbero gettare una nuova luce sul trattamento del disturbo oppositivo provocatorio”.

Ole sentì un calore che niente aveva a che vedere con il vino salirgli in viso. Homer leggeva tutte le sue pubblicazioni, e ci teneva a sottolineare tutti i successi che Ole, dal canto suo, avrebbe passato sotto silenzio.

“Non era niente di che”.

“Ok. Allora festeggiamo il fatto che Aline domenica si sia ricordata di fare una sorpresa a Timmy e sia venuta con noi a comprare la sua bacchetta⁶. E ti ricordo che sei stato tu a suggerirmi di invitarla”.

Ole fece un gesto vago con la mano: non aveva fatto niente, lui. Il ruolo di Aline nella vita di Timmy era sempre stato un groviglio complesso: se Homer si era trasferito ad Eugene, era stato anche per essere più vicino alla madre di Timmy e darle la possibilità di far parte della vita del figlio. Aline però sembrava incapace di cogliere quella possibilità con costanza: alternava momenti in cui cercava di essere fin troppo presente, trattando Timmy come un compagno di giochi con cui divertirsi e cacciarsi in strampalate avventure, ad altri in cui era poco più di una figura sullo sfondo della vita del figlio, inafferrabile e incapace di essere un punto fermo. Quando Timmy aveva deciso di confermare la sua iscrizione a Ilvermorny e aveva chiesto di passare una domenica nel quartiere magico di Portland per cominciare a fare acquisti in vista del suo ingresso ufficiale nel mondo magico, Ole aveva fatto notare che sarebbe stato bello, per il bambino, avere entrambi i suoi genitori presenti, quando fosse stato scelto dalla sua bacchetta. Conoscendo l’incostanza di Aline, Ole aveva anche suggerito che Homer non dicesse nulla a Timmy, chiedendo ad Aline di fargli una sorpresa: in questo modo, se non si fosse presentata, Timmy non ci sarebbe rimasto male.

“Festeggiamo anche”, mormorò Homer avvicinandosi a Ole e appoggiandosi piano a lui, “il fatto che stavolta Timmy sia tutto il finesettimana con sua madre, e che quindi stasera io possa restare a dormire qui”.

Chiuse gli occhi, Ole, cercando di non sentirsi ridicolo se dopo tutti quegli anni le parole di Homer riuscivano ancora a farlo arrossire.

“In realtà”, proseguì Homer continuando a fissarlo ma con un atteggiamento diverso – con una tenerezza appena divertita, “più che festeggiare, volevo ringraziarti come si deve. Perché lo so che c’è il tuo zampino, se Timmy è tornato ad essere il Signor Sorrisoni”.

Ole sorrise, ripensando al soprannome con cui aveva cominciato a chiamare Timmy quando era piccolo. 

“Non ho idea di ciò di cui tu stia parlando”.

In realtà Ole un’idea ce l’aveva, eccome.

“Scemo. Come se non mi fossi accorto che negli ultimi giorni lui era turbato, e poi scopro che ha preso la Metropolvere per venire a trovarti a casa dopo la scuola” – Homer alzò gli occhi al cielo, perché che Timmy avesse marinato la scuola era un segreto noto a tutti, ma del resto Homer non era mai stato capace di essere un padre severo e di fare ramanzine e seminare punizioni – “e guarda caso dopo questo incontro a casa tua torna ad essere tranquillo e decide di iscriversi a Ilvermorny”.

Ole si strinse nelle spalle, gli occhi fissi nel fuoco, fingendo indifferenza.

“Ha fatto quasi tutto Timmy, te lo assicuro”.

Una mano di Homer salì a carezzare piano la nuca di Ole, che bevve un altro sorso di vino prima di lasciarsi andare e abbandonarsi contro la spalla di Homer.

“In ogni caso, grazie. A volte mi chiedo come faremmo io e Timmy senza di te…”
“Ve la cavereste alla grande”.

Bevve anche Homer, e con un gesto della mano lasciò che la bottiglia si alzasse dal tavolino e venisse a riempire di nuovo i loro bicchieri.

“Forse. Ma non sai quanto io sia felice che tu ci sia per me quanto ci sei per lui”.

Ole sorrise, travolto dalla sincerità di quelle parole.

E poi si voltò appena, cercando lo sguardo di Homer.

“Non sarei così grato, se fossi in te. Perché ha fatto quasi tutto Timmy, io mi sono limitato a promettergli che in caso di bisogno tu saresti pronto a scalare una torre a mani nude. Poca pressione, insomma”.

Homer si disegnò sul viso un’espressione indignata buffissima, a cui Ole cercò di rispondere con il suo miglior sorriso innocente.

“Non sapevo che tu mi volessi vedere con l’osso del collo spezzato”.

“Ma no”, rise Ole, scostando piano un ricciolo dalla fronte di Homer, “era un rischio calcolato. So bene come tu le ossa le sappia aggiustare a occhi chiusi, quindi il tuo collo non è mai stato in pericolo”.

E per dimostrare la bontà delle proprie parole, Ole si chinò a sfiorare piano con le labbra quel punto morbido del collo di Homer nascosto dall’orecchio.

L’ultima cosa che udì, prima che Homer facesse cadere a terra i due bicchieri con un infrangersi di vetri di cui si sarebbero occupati solo dopo, furono le parole concitate con cui Homer lo attirò più vicino:
“Vedi che noi lo troviamo sempre, qualcosa da festeggiare?”












 

¹ Sì, color senape come il cappotto di Homer nell'ultimo capitolo di Surya Namaskara. Coincidenze?

² Sono una persona orribile e ho probabilmente distorto tutto il sistema scolastico americano, ma facciamo finta che io abbia fatto delle ricerche e che quello che scrivo abbia un senso.

³ qui invece delle ricerche le ho fatte davvero, e a quanto pare a Portland, accanto al ponte in cui immagino lo studio di Ole, esiste davvero un ristorante specializzato in spaghetti. Perché le priorità sono importanti, ed è molto più importante il cibo rispetto a un intero sistema scolastico.

⁴ non sono sicura che i conti tornino rispetto alle coordinate temporali che avevo dato nelle prime storie su di loro, ma siccome qui non è specificato in che anno ci troviamo nel presente, possiamo fare finta che tutto fili perfettamente?

⁵ ora, non so quanto sia sensato che tutte le scuole del mondo contattino i futuri studenti proprio il giorno del loro undicesimo compleanno (non credo nemmeno che tutte siano strutturate nello stesso modo e che ovunque si cominci la scuola a undici anni), ma insomma, prendetela come una licenza per questa scena. Il metodo di iscrizione a Uagadou l’ho ripreso dall’articolo di Pottermore, mentre quello di Castelobruxo è un mio headcanon. Per quanto riguarda Ilvermorny, ho scelto un metodo parallelo a quello di Hogwarts proprio per sottolineare la somiglianza di impostazione delle due scuole, sempre riprendendo l’articolo di Pottermore. 

⁶ Lo so che solitamente, nel canon, siamo abituati a vedere l’acquisto della bacchetta nell’estate precedente all’ingresso a Hogwarts. Ma qui siamo negli Stati Uniti, e ho pensato che avesse senso comprarla comunque al compimento degli undici anni del bambino (anche perché, diciamocelo chiaramente: Homer se ne frega dello Statuto, e ovviamente starà già insegnando a Timmy a fare delle magie).

 





 

 


 

Note:

Questa storia ha un grossissimo problema: tutta la prima parte, fino a metà circa, è stata scritta e riscritta e corretta e cancellata e scritta di nuovo a partire dal luglio 2020. Non mi è mai capitato di trascinarmi per così tanto tempo una storia: ogni due o tre mesi aprivo il file, perché comunque l’idea di mostrare qualche interazione tra Ole e Timmy c’è sempre stata, e scrivevo un po’, e poi fermavo tutto perché mi sembrava una storia inutile.

In un certo senso, mi sembra che vada anche a togliere forza a tutto il resto delle cose che ho scritto su Ole e Homer, perché va a “chiudere” un finale lasciato, se non aperto, almeno dischiuso.

Però, insomma, era una storia che in qualche modo dovevo togliermi dalla testa, o avrebbe continuato a perseguitarmi.

Mi rendo conto che è molto frammentata, e in un certo senso mi sembra un passo indietro rispetto ad alcune consapevolezze stilistiche che spero di aver maturato, ma meglio di così non sono riuscita a fare. È anche una storia molto lunga, e forse non lo è abbastanza, perché la mia prima idea era di dedicare tutta l’ultima parte al punto di vista di Homer. 

Insomma, non so a quanti possa interessare questo tipo di missing moments che è una fanfiction di una fanfiction che già in partenza non era particolarmente fanfiction, ma io avevo proprio il bisogno di scriverlo (ah, il titolo è terribile, ma ho davvero bisogno di liberarmi di questa storia, e non riesco a fermarmi a pensare a qualcosa di più decente). 

 
   
 
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