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Autore: Dira_    04/09/2021    4 recensioni
[Seguito de "Nella Selva Oscura"]
Castiglioscuro non è più un problema per le Silvani. Lo è il bosco, e ciò che contiene.
Un mostro si è risvegliato tra gli alberi e una barista di paese si è resa conto che non più essere soltanto quello.
Rosi deve tornare nell'Altrove, un mondo popolato da spettri, criptidi e mostri; deve trovare il coraggio di affrontarli e forse affrontare sé stessa.
Nell'Altrove è facile smarrirsi: puoi dimenticare di essere un mostro per scoprire il primo amore, puoi cominciare a dubitare che obbedire agli ordini sia sempre giusto. Puoi scoprire che no, non lo è.
Perché nell'Altrove vi è una sola certezza: una volta che lasci il sentiero, è allora che la storia comincia davvero.
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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9.
 
 
Benedetto ha accettato l'invito.
Così le dice Lietta, eccitata come una bambina la notte prima del suo compleanno mentre preparano la cena che lo introdurrà nella loro famiglia.
Il babbo ha accolto con soddisfazione la notizia che l'uomo venuto da fuori stia facendo la corte alla più giovane delle sue figlie. È un matrimonio conveniente, quello, con un lavoro sicuro al castello e la benevolenza del Malavolti in persona, che a volte chiama Benedetto alla sua tavola.
Bice si morde la lingua mentre stende la tovaglia delle grande occasioni, quella che la mamma ha cucito con le sue mani e su cui adesso mangerà quel mostro.
 
Benedetto quella sera è brillante come non mai. Intrattiene, sforna lazzi e strega suo padre, che gli versa più volte il vino, e ne beve altrettanto. Lietta pende dalle sue labbra e lei vorrebbe soltanto urlare.
Quella mattina è arrivata la notizia che è morto un altro armigero. Il cuore di Bice si è stretto in una morsa finché non hanno detto il nome. Solo allora, non riconoscendolo, ha tirato un sospiro di sollievo.
Il castello è sul piede di guerra e il comunello è silenzioso oltre le finestre lasciate aperte per far entrare l'aria fresca della sera. Sono tutti chiusi in casa, e le risate di Benedetto e suo padre si fanno beffe della paura che serpeggia lungo la collina.
Dovete restare a dormire qui,” gli dice il babbo, “è troppo pericoloso passare per il bosco con quel lupo maledetto.
Rimanete!” lo supplica Lietta. “Bice, diglielo anche tu che è pericoloso … lo dici sempre!”
Il pericolo ce l'hanno in casa, pensa Bice. Guarda la bella tovaglia della mamma, sozza di macchie di vino e di brodo. “Potete dormire da noi,” mastica tra i denti come fosse una radice amara, “se vi accontentate del fienile.”
 
Bice non vuole che Lietta rimanga sola con il mostro, quindi le ordina senza mezzi termini di aiutare il babbo, ormai ubriaco, a salire al piano di sopra.
Venite,” dice a Benedetto che la segue fuori. Nell'aia, i lumi alle finestre dei vicini sono spenti e non vola una mosca. Persino gli animali sono quieti.
Il respiro di Benedetto dietro di lei la spaventa; paiono le uniche creature vive sulla terra mentre entrano nella baracca che odora di fieno ed erba. Benedetto, appena sono dentro, le si avvicina rapido come una serpe e Bice indietreggia fino a sbattere contro la parete. Vorrebbe ucciderlo. Vorrebbe avere la forza di mille uomini per liberare la sua famiglia dalla sua presenza.
Perché avete tanta paura di me?” le domanda posandole una mano sulla spalla, facendo scivolare le dita oltre la veste, e sulla pelle nuda. “Siamo simili, dovremo essere amici.”
Statemi lontano!”
Non credo sia possibile ora che sono parte della vostra bella famiglia … a proposito, vi ringrazio dell'invito, Lietta mi ha detto che è partito da voi.”
Solo perché non voglio che vi segua nel bosco!”
Benedetto sorride, ma ha gli occhi vuoti, come quelli di un rapace. La terrorizzano. “È soltanto questo quello di cui avete paura?”
Bice serra le labbra, tenta di non far scappare le parole, ma quelle escono inarrestabili come acqua di fiume. “Il mostro che avete portato qui … non vi permetterò di fare del male ad altra gente!”
Come mi fermerete, Beatrice?” le domanda, inclinando la testa in una caricatura grottesca di bimbo curioso. “Siete una donna e tutti pensano che siate una strega … vi tollerano perché hanno bisogno di voi, ma vi disprezzano. Il prete vi vorrebbe sotto una pila di sassi. Non potete fare niente. Io, invece, posso sempre incolpare voi o vostra sorella delle mie azioni ora che mi avete accolto in famiglia. Posso fare quello che voglio.”
Il sangue le si gela nelle vene mentre Benedetto ride. La voglia di ucciderlo è così forte che si volta verso il forcone appoggiato all'ingresso. Anche Benedetto segue la direzione del suo sguardo e ride più forte mentre la afferra per un braccio e la bacia.
La sua lingua umida le si infila in bocca e Bice, nel panico, lo morde. Benedetto non smette di ridere con il sangue alle labbra mentre Bice si divincola e scappa dal fienile con le lacrime agli occhi.
 
***
 
 
Devi avere paura degli uomini, non dei mostri.
- tratto dal film “Io non ho paura” di G. Salvadores
 
 
Maddalena sbatté contro la parete del vicolo dove l'aveva Alina l'aveva trascinata e poi spinta.
Avrebbe voluto reagire, ma la testa aveva preso a ronzarle come se vi fossero dentro migliaia di mosche impazzite.
“Hai ritrattato,” disse Alina, “Chi ti ha fatto cambiare idea?”
“Mi sbagli...”
Alina non le diede il tempo di finire. Tutto diventò bianco, quello del dolore accecante che le esplose in faccia.
Alina l’aveva colpita con un pugno. La sorpresa fu tale che il sapore del sangue arrivò dopo. Un secolo dopo Maddalena si passò una mano sulle labbra e questa si sporcò di rosso.
“Non ti sei sbagliata, hai mentito perché te l'ha chiesto qualcuno,” rispose Alina e l'accento rendeva le parole distorte, quasi incomprensibili. Puzzava orribilmente di adrenalina e le sue pupille erano dilatate di rabbia incontrollata. “Smettila di mentire,” sibilò.
In quella parte di paese, in pieno pomeriggio, non passava nessuno. Maddalena tante volte si era persa per quei vicolini dove le persiane erano chiuse, e rotte, e le case disabitate. Non aveva mai incrociato anima viva.
Un'ombra si disegnò su un balcone, ma fu rapida, scattante e Maddalena realizzò che non era umana. Era appena passato un gatto e, purtroppo, un animale non poteva aiutarla.
“Chi ti ha detto di ritrattare?”
 
Puttana! Non sei nient'altro che una puttana! Te ne esci la notte per scopare e lasci qui me e tua figlia!”
 
Non mi lascerà scappare.
Alina le sbarrava l'uscita del vicolo, che dall’altra parte finiva in un vecchio giardino abbandonato e reso selvaggio dalle erbacce. Era chiuso da un cancello: l'aveva spinta lì perché doveva già aver calcolato un suo possibile tentativo di fuga.
Non posso scappare.
Il sangue le colava dal mento, sporcandole la maglietta.
“Chi ti ha chiesto di ritrattare?”
Si avvicinò di nuovo e Maddalena istintivamente – ricordava bene la lezione – mise le braccia attorno al viso, incassa la testa nelle spalle. Aspettò.
 
Alina, che stai facendo?!”
 
Era la voce di Marina Silvani. La donna entrò nel vicolo e di nuovo, un'ombra piccola e scura le sfrecciò a fianco, infilandosi tra le sbarre del cancello; era il gatto di prima, riconobbe il manto tigrato prima che si tuffasse tra l'erba alta del giardino.
Alina si voltò. “Non sono affari tuoi Marina,” disse ma la voce non era come prima. Tradiva paura.
“Non direi proprio!” sbottò la donna e piccola, tonda e fuori forma com'era scostò la rumena come se fosse stato un fuscello. Impallidì. “Che le hai fatto?!”
“La stavo interrogando.”
“La stavi massacrando!” ritorse. “Vattene subito!”
“Sono una vânător, posso fare quello che voglio con una criptide sospettata di attività illecite.” Alina era furiosa. Era avvampata e stringeva i pugni. Stava avendo una crisi di nervi in piena regola ed era forse più pericolosa di prima. Maddalena avrebbe voluto avvertire Marina, ma non le usciva la voce.
“Non fai quello che vuoi a casa mia,” ritorse Marina. Le si rivolgeva quietamente, come una madre delusa. “Maddalena è sotto la mia responsabilità. Questi metodi da torturatori portali altrove, e dillo a tuo padre. Ti ha mandato lui a cercarla, vero?”
Alina fece un passo indietro e Maddalena, che controllava ogni suo gesto e conosceva il linguaggio corporeo dei violenti, tirò un sospiro di sollievo
“Stiamo facendo il nostro lavoro,” disse con voce rotta. Quasi la implorò. “Spostati e fammi interrogare la succuba … le farò dire la verità.”
“E se non mi sposto cosa farai? Picchierai anche me?”
Il colore sul viso di Alina se ne andò del tutto. “Io...” aprì e chiuse la bocca un paio di volte. “L'hai fatta ritrattare tu,” sussurrò e Maddalena non riuscì a capire se fosse una domanda o un'attestazione, o entrambe le cose. “Perché?”
“Si è corretta, non ha ritrattato.”
“Non è vero!”
“Allora dimostralo.” Marina era una donnina da niente, persino più bassa di sua madre, ma in quel momento aveva la statura di una quercia che non si sarebbe mossa neppure di fronte alla furia della tempesta. “Lascia stare Maddalena, lei non c'entra niente.”
“Lo scopriremo,” disse Alina facendo un altro passo indietro, “lo scopriremo e finirete tutti nei guai.”
Avrebbe probabilmente dovuto essere una minaccia ma ancora una volta aveva il suono di una supplica.
“Torna a casa Alina,” ripeté Marina con voce stanca. “Tu e tuo padre avete oltrepassato il limite.”
Alina ne andò com'era arrivata. I suoi passi risuonarono a lungo, amplificati dai vicoli deserti.
Marina si voltò e quella che era stata una roccia di delusione genitoriale si sgretolò in un'espressione ansiosa. “Tesoro mio, mi dispiace tanto...” mormorò, afferrando la borsa e rovesciandone a terra mezzo contenuto per trovare un fazzoletto pulito che le premette tra le mani. “Tamponati il sangue, su, non è niente...”
Maddalena cercò di non piangere, ma fallì miseramente finendo per crollare sulla spalla della donna, che nonostante il sangue, le lacrime e il probabile moccio non si scostò, carezzandole la schiena con la sicurezza di chi lo faceva da una vita.
“Va tutto bene,” le mormorò gentile, “sei al sicuro adesso … ci sono qui io.”
Le lasciò il tempo di calmarsi, poi la sciolse dall'abbraccio regalandole l'intero pacchetto di fazzoletti. “Su … adesso andiamo a sciacquare la faccia e mettere un po' di disinfettante.”
“Come hai fatto a capire che ero qui?” le chiese continuando a tamponare il naso e la bocca con il fazzoletto. Il sangue si era già arrestato, ma non il dolore né tantomeno la paura. Aveva il cuore che le rimbombava nelle orecchie. Doveva distrarsi e quella era una domanda come un'altra.
“Ho avuto un piccolo aiuto, ma ti stavo già seguendo. Avevo notato che Alina ti stava venendo dietro. Mi dispiace, non pensavo ti avrebbe aggredita così!”
“Sto bene,” minimizzò. “L'importante è che il segreto di Elia sia al sicuro.”
“Sei davvero una brava cittina … Elia è fortunato ad averti come amica.”
Maddalena volle obbiettare che non era certo per amicizia verso quel cretino omofobo che si era cacciata in quel guaio, ma era inutile perdersi in tanti discorsi.
L'ho fatto perché non sono quello che dite. Sono molto meglio.
Una piccola scintilla di orgoglio le si accese in petto. Il Sindaco l'aveva trattata in modo orribile, il vânător in sedia a rotelle l'aveva minacciata e infine Alina l'aveva aggredita …
Però ho resistito. Ho fatto la cosa giusta.
 
Marina la accompagnò in Piazza, controllando ogni suo passo manco avesse paura che le svenisse in braccio. La piazza era come sempre piena di gente che non risparmiò occhiate e parole a mezza voce, come in ogni tipico paesino. Per fortuna con lei c'era Marina, che evase le domande dei più curiosi con rassicurazioni e sorrisi. “È caduta e si è fatta male, ora ci mettiamo un cerotto!” scherzò, gettando un'occhiata dentro il Bar da cui usciva musica italiana a tutto volume.
 
Avrei bisogno di parlare con qualcuno di gentile
Perché non passi qui?
 
A giudicare dalla selezione musicale Rosi non c'era. C'era Caterina, e Maddalena fu lesta ad infilare l'ingresso secondario di casa Silvani prima che la ragazza uscisse. Se le fosse andata incontro, orgoglio o non orgoglio, sarebbe di nuovo scoppiata a piangere.
 
Marina la portò in camera propria e la fece sedere sul letto. Controllò con accuratezza lo stato del suo naso, decretandolo fortunatamente come contuso. Poi, occhiali a mezzaluna ben inforcati, disinfettò il taglio sul labbro con qualcosa che bruciava e odorava di erba. Che era un po' l'odore dominante in quella stanza di vecchi mobili scuri e tende di pizzo. Alzando la testa per farsi medicare Maddalena notò decine di mazzi di erbe appesi alle travi del soffitto. La libreria, oltre a volumi che non sarebbero sfigurati sugli scaffali di un mercatino dell'usato, ospitava anche boccettine e vasetti pieni di sostanze scure e foglie, frutti e persino un serpente.
Siamo in Harry Potter?
“Che roba mi stai mettendo?”
“Una mistura di erbe. Centella asiatica, sedum e un po' di stregona gialla. ” La sua espressione diffidente fece ridacchiare la donna. “Che c'è, non ti fidi? Sono rimedi naturali, ma molto efficaci.”
“No, è che mi sarei aspettata qualcosa di più … ospedaliero.”
“Perché sono un’infermiera?” Marina sorrise. “La medicina moderna non va necessariamente in conflitto con quella delle nostre nonne e, nel mio caso, quella della mia famiglia.
Noi Silvani abbiamo sempre trovato tutto ciò che ci serviva nel bosco. Le erbe e i fiori della Montagnola, colti nel giusto momento e trattati correttamente, sono perfetti per curare voi criptidi. Naturalmente, per i mali più seri, sarei la prima a dirti di andare in ospedale!”
Maddalena annuì distratta. Stava pensando al poi.
Come spiegherò 'sta faccia a Michi e Cate? E a Ste …? Ste non crederà manco per sbaglio che sono inciampata.
Avrebbe dovuto dirgli la verità e l'idea di sostenere quella conversazione con quello che di fatto rimaneva il suo sorvegliante le stringeva lo stomaco in una morsa.
Gli ho nascosto troppe cose.
Non avrebbe potuto evitare di dirgli dell'aggressione … ce l'aveva letteralmente stampata in faccia.
“Mi dispiace,” mormorò Marina fraintendendo il suo silenzio, “deve farti molto male, vero?”
“Sto bene,” ribadì, “ho passato di peggio.”
“Non lo metto in dubbio...” sospirò, “ti lascio la boccetta. È anche un cicatrizzante, se il taglio si riapre mettine qualche goccina, va bene?”
Maddalena annuì, alzandosi dal letto. Voleva solo andare a sdraiarsi e dormire mille anni.
“Ti fa male da qualche altra parte?”
“No. Grazie a te non ha fatto in tempo a farmi dire la verità come voleva.”
“Non devi ringraziarmi,” ribatté la donna con una smorfia. “Quello che ha fatto Alina avrà delle conseguenze. Parlerò con la Confraternita Maggiore di Siena. Lei e suo padre non possono diventare un pericolo. Li farò rimuovere.”
“Puoi farlo?”
“Siamo stati noi ad averli chiamati, possiamo anche mandarli via,” esitò. “Non sarà facile, come puoi intuire, dato che hanno i loro sospetti … ma con te hanno oltrepassato il limite. Dopo quello che ti ha fatto Alina sarà più facile allontanarli.”
“Cosa racconterò a Stefano invece?”
Marina rimase un attimo in silenzio. “La verità,” rispose poi, “Alina ti ha aggredito perché suo padre pensa che qualcuno ti abbia fatto cambiare la versione dei fatti. Questo puoi dirglielo … non metterà nei guai Elia.”
Maddalena annuì. Marina era ancora seduta sul letto a rimuginare quando la lasciò, salutandola e chiudendo la porta. Era davvero stanca; salì a piano di sopra e si buttò sul letto chiudendo gli occhi.
Si addormentò quasi subito, ma non sognò. Per fortuna.
 
***
 
“Ho capito che stai preoccupato per i tuoi folletti, ma non puoi andare nel bosco da solo!”
Tobia sospirò; la voce di Ettore dall'altro capo del telefono era quella della ragione.
Non poteva fare a meno di pensare di non stare facendo comunque abbastanza. “Il regolo non caccia di giorno.”
“Però noi l'abbiamo incontrato quando?”
“Di giorno,” ammise, “ma anche Rosi pensa che fosse un caso, che fosse stato disturbato da qualcosa.”
“Un po' troppo conveniente,” ribatté Ettore, “fammi un favore, Tobì, fa' stare Ettore tuo col cuore sereno. Stattene nel cimitero finché non troviamo il modo per liberarci di quel serpentone.”
Tobia sospirò di nuovo. “Hai parlato coi gatti?”
“Buoni quelli!” sbottò, tanto che dovette allontanare la cornetta. “Mi fanno il picchetto d'onore, ma non fiatano … manco na sillaba! Per poco stamattina Ferruzzi non mi ha beccato che ci ragionavo come se fossero cristiani.”
“Beh, per te un po' lo sono.”
Vaffamocc'
“Ti farei parlare con Ermione ma non andate molto d'accordo.”
“La tua gatta è 'na chiattilla,” brontolò Ettore, “comunque non sono rimasto con le mani in mano. Mi sono fatto dare la ricerca di Matilde.”
“Hai trovato qualcosa di nuovo?”
“No, però mi è venuto 'nu pensiero.” Esitò per qualche attimo poi mugugnò qualcosa che non riuscì a capire.
“Come?”
“... il fantasma.”
“Quale?”
“Quale … chello e’ Matilde!” Sbottò esasperato “Non ci possiamo andare a scambiare qualche parola?”
“Cosa vorresti chiederle?”
Tobia udì il rumore di una sedia che veniva spostata bruscamente. Ettore si era alzato e poi, dopo qualche passo, chiuse una porta a vetri con gran rumore. Era quella del suo ufficio. “Magari si ricorda qualcos'altro del regolo. E poi qualcuno ha strappato le pagine della copia in biblioteca. Forse ha visto chi è stato.”
“Non funziona così con i fantasmi, non li puoi interrogare come se fossero vivi,” gli fece notare.
Vabbuò, agg’è capito, è un'idea stupida...”
“No,” sorrise Tobia, “non costa niente e potrebbe aiutarci a capire chi muove il regolo.”
“Bene!” esclamò soddisfatto. “Ja, ti saluto che vado a fare il lavoro mio … e ah, per Rosi,” disse con un tono che sfumava in evidente, terrificante malizia, “bel colpo invitarla a dormire da te, Casanova!”
“Non l'ho invitata con secondi fini...” mormorò mentre gli scottava la faccia come ad un ragazzino del liceo. Forse da quella fase non era mai uscito, almeno per quanto riguardava le donne.
Ettore sbuffò. “Adesso capisco perché ci avete messo cinque anni a riavvicinarvi! Siete due fessi!” e riattaccò senza dargli la possibilità di ribattere.
Non fece in tempo a riflettere sulla fine di quella telefonata che un rumore arrivò dalla cucina. Non era Ermione, che sonnecchiava sul davanzale e che alzò la testa vigile. Fu anche la prima a correre nella direzione del suono, costringendolo a seguirla.
La cucina era immersa nella penombra azzurrina del tardo pomeriggio e appariva deserta. Tobia afferrò uno degli scalpelli e diede un’occhiata in giro; era tutto perfettamente in ordine, ma poi notò che uno degli sportelli della credenza, quello più basso, era aperto. Non ricordava di aver preso niente da lì dentro.
Un soffio rabbioso da Ermione catturò la sua attenzione. La gatta era con metà del corpo sotto il tavolo, il pelo gonfio e la coda raddoppiata di volume; stava puntando qualcosa.
Tobia strinse lo scalpello e si chinò. “Chi c'è?”
“C'è!” gracchiò una vocetta. “C'è! C'è!”
Era Nasone. Riconobbe la nappa bitorzoluta prima di tutto il resto. Il caramogio era acquattato sotto le sedie, in compagnia di Gobbo, che piagnucolava dietro il fratello.
Tobia afferrò la gatta per la collottola, tirandola indietro. “Sono amici, non fargli male.”
Questa lanciò un altro soffio di avvertimento, poi, con un guizzo si liberò dalla presa e saltò sul ripiano del lavello, da dove continuò a controllare i due folletti con grandi e sospettosi occhi gialli.
“Ragazzi adesso mi rubate il pane?” si accovacciò, felice di vederli, “Bastava chiedere, non dovete avere paura.”
I due, che avevano le manine adunche artigliate su due tozzi di pane vecchio, piagnucolarono in coro. “Chiedere!” disse Nasone, “Chiedere, paura!” e indicò Ermione che per tutta risposta prese a fare le fusa soddisfatta.
“Fa' soltanto il suo lavoro … non dovreste entrare nelle case custodite dai gatti, conoscete il patto,” sospirò divertito suo malgrado da quella scenetta. “Gnamo, uscite fuori che vi do qualcosa di più buono,” poi notò che mancava uno dei tre all'appello. “Dov'è Bascula?”
I due caramogi ripresero a piagnucolare. E Tobia capì. “Dov'è?” domandò con il cuore pesante. “Perché non è con voi?”
“Non noi!” disse Nasone mentre grosse lacrime gli rotolavano lungo le guance grinzose.
“Perché siete venuti qui? Siete scappati dal serpe regolo?”
“Serpe!” convenne tremante Gobbo da dietro la spalla del fratello, “Scappati serpe!”
“Bascula è rimasto indietro...” concluse per loro. Il terzo caramogio era zoppo e più lento rispetto agli altri due. Una preda perfetta. Tobia si alzò in piedi. “Restate qui. Non vi muovete da casa mia, avete capito?”
Rovistò nei cassetti della cucina finché non trovò la vecchia torcia dinamo di suo nonno, intascò il coltello e si chiuse la porta di casa dietro a doppia mandata.
Il sole era appena tramontato dietro la collina.
 
***
 
Ettore salutò i suoi sottoposti, raccomandando a Ferruzzi, di guardia quella notte, di tenere gli occhi aperti.
Era già una settimana che gli faceva quella raccomandazione e il buon uomo gli rivolse un'occhiata perplessa, ma si limitò al solito ed efficiente: “Comandi!”
Mentre usciva dalla stazione passò accanto al picchetto felino – ormai ribattezzato così anche dagli altri carabinieri; i gatti lo salutarono con beffardi occhiolini e qualche strusciamenti. “Ja, lasciatemi stare che non è aria...” sbuffò avendo troppo cuore per tirare un calcio al micetto che gli si stava rotolando tra le scarpe. “Dov'è la vostra dignità?”
“È un cucciolo randagio quello,” gli rispose Ariele sdraiato sul muretto che circondava lo stabile. “Spera di avere del cibo.”
“Chiedetelo a Ferruzzi,” ribatté afferrando il gattino e portandolo all'altezza del viso. “Agg'è capito picciriè?”
La pulce ricambiò con fusa rumorosissime. “Mamma,” miagolò con suo sommo orrore. Lo mollò a terra tra un coro di risate feline.
Tenete qualcosa da dirmi o state a strunzià?”
“Perché non entrambi?” ribatté Ariele senza scomporsi.
“Allora datemi qualche informazione! Tipo … come si elimina quel mostro e soprattutto chi ha fatto ‘sto bùrdell?”
“Gliel’ho già detto, di entrambe le domande non conosciamo la risposta. Io e gli altri Custodi non eravamo presenti quando il serpe regolo si è svegliato la prima volta.”
“E vabbuò, ma non avete chessò …”
“Della letteratura in merito come la ricerca di Matilde Silvani?” suggerì beffardo Ariele, “Trovandoci privi di pollici opponibili temo che questo non sia possibile.”
“Hai capito chill cà volevo dire! Non vi tramandate nessuna storia?”
“Ci accomuna troppo facilmente a voi Bipedi, Maresciallo. È la vostra razza che si tramandata ricordi da persona a persona. Da avi ad eredi … alcune famiglie, del resto, vivono qui da secoli.”
“Tipo quella della Rosina ...”
“Non solo e non solamente,” disse Ariele socchiudendo gli occhi color giada. Attorno agli altri gatti appariva come un dignitoso monarca circondato da sodali. Doveva ammetterlo, faceva un certo effetto, specialmente nel lento digradare verso la notte.
“Ti dispiacerebbe essere 'nu poco più chiaro?”
“Prima di noi non c’erano soltanto gli esseri umani,” fu l'annoiata risposta. “All'epoca del primo risveglio vivevano anche le creature che respingiamo ogni notte dai confini del paese. Alcune di loro sono ancora vive.”
“Il regolo vuoi dire.”
“Il regolo non è l'unica criptide presente al primo e secondo risveglio,” stavolta Ariele suonò un po' esasperato ed Ettore sogghignò; forse aveva trovato un modo per scalfire quel vezzo di vaticinare tipico dei gatti.
Fare lo scemo.
“Quindi state parlando delle altre criptidi della Montagnola … Ja, e chi sarebbero 'sti matusalemme? Ci passano secoli!”
“Noi ci limitiamo a cacciarli, Maresciallo, non è nostro dovere conoscere i loro nomi o la loro aspettativa di vita. Immagino che queste informazioni possano essere reperite da un sorvegliante però.”
“Sì, probabile...” dovette ammettere.
Ariele socchiuse gli occhi soddisfatto. “Se le siamo stati d'aiuto, si ricordi di noi domani mattina. Del tonno in scatola andrà benissimo.”
Ettore sbuffò, ma dovette riconoscere che quei sacchi di pulci ambigui qualcosa se l'erano pur meritato. “Vabbuò ... se avete altro da dirmi, sapete dove trovarmi.”
“Sempre, Maresciallo. Buona serata.”
Li salutò con un tocco del cappello – che sperò vivamente non fosse visto da nessun essere umano nel raggio di chilometri – e si incamminò verso casa.
Devo chiamare subito Tobia e Rosi. Magari sanno di che criptide si sta parlando!
Chiamò prima Tobia ma il telefono di casa squillò a lungo. Un brutto presentimento gli strisciò addosso come una febbre. Il Nero aveva imparato a rispondere dopo pochi squilli ormai.
I suoi passi, quasi senza che se ne accorgesse, deviarono verso la porta del paese.
I lampioni erano già accesi e i malacenesi stavano rincasando, tra il lento incedere degli anziani e il fare frettoloso di madri e padri di famiglia. I pochi bambini rimasti in paese per l’estate erano già rincasati portandosi dietro palloni e schiamazzi. Come sempre, a quell’ora, non incrociò molte persone: tutti sembravano avere una gran voglia di chiudersi in casa, tra i solidi mattoni rustici e le vecchie persiane smeraldo. In seno alla propria normalità, lontani dal buio che lambiva le mura.
Dopo il terzo tentativo di chiamata andato a vuoto varcò la soglia del Bar. Rosi stava cominciando a preparare la chiusura e ad un tavolo, sotto un enorme ventilatore sferragliante, i siciliani e Caterina stavano giocando ad una vivacissima partita ad Uno. Mancava Maddalena.
“Ohi,” l'apostrofò Rosi da dietro il bancone, concentrata a impilare una serie di tazze e piattini per la colazione del giorno dopo. “Non ti aspettavo stasera.”
“Tobia è passato di qui?”
“No, perché me lo chiedi?”
“Non risponde al telefono di casa. Magari è al cimitero e mi sto facendo troppi film...”
La sempiterna ruga tra le sopracciglia dell'altra si fece più profonda. “No, è ora di cena, è troppo presto.” Esitò, scoccando un'occhiata verso la sorella.
“Posso andare a controllare da solo. È uno scrupolo mio, non credo sia andato nel bosco.”
Rosi si passò una mano tra i capelli. “È qui che ti sbagli … Tobia è stato solo a lungo … a volte fa delle cose...” notò la sua espressione perché arrossì. “L'ha sempre fatto, sin da quando era bambino, di sparire senza dire niente a nessuno. Non sto insinuando niente.”
“Quindi che si fa?”
Rosi, dopo un breve momento di silenzio, recuperò la borsa da sotto il bancone, in cui infilò rapida un mazzo di chiavi e una torcia. “Vengo con te. Se è davvero in mezzo al bosco avrai bisogno di me per orientarti.”
“Ci vedi al buio come Maddalena?”
“No, faccio di meglio. Conosco il terreno come lo conosce Tobia,” ribatté con espressione determinata, quella che l'aveva fatto invaghire di lei e che adesso gliela rendeva un'amica su cui contare.
E bentornata, Rosì. Era ora.
Ettore sorrise. “Andiamo!”
Rosi annuì, voltandosi poi verso Caterina. “Io esco, non torno a cena, pensa tu a chiudere.”
“Che è successo?”
“Niente, fa' quello che ti dico,” e prima che potesse formulare domande o commenti Rosi le diede le spalle uscendo dal bar.
Ettore la seguì invidiando l'aria smarrita della ragazzina.
A volte l'ignoranza è una benedizione.
Se non altro, ti teneva al sicuro.
 
***
 
A Pietro piacevano i siciliani; al tempo stesso non aspettava altro che se ne andassero.
Lo pensava mentre scendeva con il motorino lungo il ripido e scuro nastro di asfalto che dal paese portava a casa sua.
Era estate e lui, Cate e Alina avrebbero dovuto passarla insieme. A rompersi coglioni magari, ma insieme, con Cate che ne inventava una più del diavolo, lui che faceva il bastian contrario e infine Alina che sceglieva scientemente di andar dietro alla più pericolosa, pazza e divertente delle idee proposte.
Invece Cate era persa dietro la siciliana e Alina era più le volte che tirava buca che quelle in cui si presentava.
I siciliani avevano diviso il gruppo. Per questo, quando se ne sarebbero andati, Pietro avrebbe tirato un sospiro di sollievo. Le cose sarebbero tornate come prima: loro tre, un paese addormentato e il resto del mondo che non li capiva, ma in fondo andava bene uguale.
Pietro parcheggiò il motorino nell'aia di casa notando che a fianco della macchina dei genitori c'era anche quello di Alina.
È venuta a trovarmi?
Non se lo aspettava; di solito l'amica si preannunciava con un messaggio whatsapp e attendeva conferma per scendere al podere.
C'eravamo accordati e me ne so' scordato?
Entrò dalla porta finestra del giardino, direttamente in cucina, dove sua madre si affaccendava per la cena, mentre al tavolo sua sorella Margherita disegnava con ampie volute su una serie di fogli e, probabilmente, anche su metà tovaglia. Era la cronaca di un disastro annunciato, e per evitare di assistere ad un particolare set di urla materne, fu lesto a domandare: “C'è Lin?”
“Buongiorno e buonasera,” lo salutò ironica sua madre. “Sì, è venuta mezz'ora fa, è in camera tua. Non vi eravate messi d'accordo?”
“Palese,” mentì in scioltezza, “rimane anche a cena,” aggiunse e senza aspettare risposta salì al piano di sopra. Era stranito, ma contento: i suoi adoravano Alina, e averla a cena assicurava che non gli stessero addosso come avvoltoi e che Marghe, che la idolatrava manco fosse una Barbie a grandezza naturale, rimanesse a tavola invece di andarsene in giro come una bertuccia particolarmente maleducata innescando ulteriore caos.
Alina era effettivamente in camera sua, seduta sul letto e fissava la tv, che in quel momento trasmetteva rumore statico; se non c'era la console collegata, era tutto quello che restituiva, da sempre.
Manco il satellitare funziona in questo buco di culo.
“Ohi,” la salutò, “ciao eh.”
Alina si voltò. “Ciao,” rispose neutra. “Ciao Pietro,” ripeté in modo un po' inquietante.
Durante i loro primi mesi di conoscenza, scherzando, le aveva dato dell’aliena che doveva ancora imparare usi e costumi degli esseri umani. L'amica aveva sorriso a quella battuta, ma qualcosa nei suoi occhi gli aveva fatto capire di aver morso un po' troppo a fondo. Non gliel'aveva più detto.
Non che avesse smesso di sembrarlo però.
Pietro collegò lo smartphone all'impianto stereo e alzò il volume della musica. Un po' per riempire il silenzio, un po' per tener fuori orecchie indesiderate dalla conversazione in arrivo.
 
Iniziare non vuol dire che dovrai finire
Non mi dire che tu sai predire l'avvenire
 
Alla donne piace parlare. E parliamo.
Pietro si stravaccò sulla sedia della scrivania. “Che hai?” andò dritto al punto.
“Niente.”
Seh, lallero. È successo qualcosa col' tu babbo?”
“Con tata va tutto bene. Se sei occupato me ne vado.”
Aridaie,” Alina stava mettendo alla prova la poca voglia che aveva di fare un discorso a cuore aperto. “Dai, chiamo Cate.”
“Non chiamarla.”
Il modo secco con cui lo disse lo preoccupò. Era quindi con la Silva che Alina aveva problemi? Non era possibile; le due amiche non discutevano mai.
Non aveva idea di cosa dire per tirarla su di morale o farla sfogare, o entrambe le cose. “Che c'è che non va...?” domandò piano. “Se un'm'aiuti io non un'sò che ditti.”
“Presto dovrò tornare a Roma,” buttò fuori e Pietro volle quasi non l'avesse fatto.
“Te ne vai? Quando?”
“Presto. Non potrò rimanere qui a lungo.”
“Ma che vor dì? Il tu'babbo vuole tornare a Roma? Spiegami!” esclamò alzandosi in piedi, confuso e con una gran voglia di prendere a pugni qualcosa.
Quindi non era solo un'impressione: il loro trio si stava sciogliendo.
Alina scosse la testa. “Non c'è molto da spiegare … siamo venuti qui per lavoro e tra poco quel lavoro, nel bene o nel male, non ci sarà più.”
“Un c'ho capito niente...” le crollò accanto sul materasso, sentendosi più inutile e confuso di prima. Il trasferimento di Alina e suo padre a Malacena aveva sempre avuto poco senso, considerando che non avevano parenti in zona e Marian non era lì per lavorare. Almeno, aveva pensato che Marian non fosse lì per lavorare, ma ora Alina sosteneva il contrario.
Di che lavoro parla?
Non erano però le prime persone ad arrivare, o andarsene, senza dare spiegazioni; all’epoca aveva preso atto della cosa e aveva ringraziato silenziosamente che una come Alina fosse venuta a rendere meno vuoto il paese.
E ora se ne va. Prima o poi se ne vanno tutti.
Alina continuava a guardare la tv vuota e Pietro capì che stava cercando di non piangere. Aveva le labbra serratissime e le guance pallide. “Mi dispiace,” mormorò, “è anche colpa mia...”
“Ma di che? Sei il tu babbo ha perso il lavoro te che c’entri? Comunque possiamo cercargliene un altro, chiedere al Comune, e anche i miei conoscono tanta gente ...”
“No, dobbiamo tornare a Roma, non possiamo restare,” rispose, mentre due lacrime le tremavano sulle ciglia senza dar segno di scendere. Era come se le trattenesse per pura forza di volontà.
Pietro premette la spalla contro la sua. “Un'ti posso proprio aiutà co' niente?”
Alina gli rivolse un sorriso. “Lo stai già facendo... è per questo che sono venuta qui.”
Non ci avrebbe capito nulla, però, forse non era quello il punto. Forse non era il motivo per cui l'amica era lì. Così le rimase accanto in silenzio, fissando una tv che non trasmetteva altro che statico.
Fuori i grilli avevano cominciato a frinire.
 
***
 
Note:
 
Le canzoni del capitolo
1. Il posto più freddo, dei Cani, dall'album “Aurora”, 2016
2. S.U.N.S.H.I.N.E., di Rancore, dall'omonimo EP, 2015
Ricordo che per chi vuole ascoltare le canzoni (sono belle!) c'è la playlist su Spotify.
Oppure anche su Youtube.
Sono entrambe sempre aggiornate!
  
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