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Autore: Dorabella27    04/09/2021    12 recensioni
Questa storia inizia quasi vent'anni dopo il 1789, quando la Rivoluzione è ormai un lontano ricordo e la Francia vive i fasti del Primo Impero. Siamo nel campo del what if, anche se per sapere dove sia lo switch, il punto di svolta, l'anello della catena che non tiene - per dirla con Qualcuno - e che ci dà una diversa versione dei fatti rispetto a quella di Madame Ikeda e di Dezaki, vi chiedo di pazientare, poiché, lo sapete bene, la linearità - lo avete visto - non è il mio talento, ma tutti i pezzi andranno al loro posto, alla fine. O, almeno, lo spero. Insieme, mi è venuta questa idea, forse un po' pazza, un po' cercando di riabilitare (ma ne ha poi bisogno?) il buon conte di Fersen e un po' riguardando per l'ennesima volta un film che mi è molto caro (non quello di Demy). Buona lettura a chi vorrà seguirmi in questa che sarà una cavalcata a ritroso negli anni.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Axel von Fersen, Oscar François de Jarjayes, Robespierre
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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9.

Adesso che Françoise aveva finito di spronare Germanico e di testarne la velocità, veniva verso di loro, tenendo il cavallo per le briglie, e affondando gli stivali nell'erba con l'energia e la soddifazione di una ragazza di vent'anni, vivace e in salute, che era riuscita a strappare un giorno di libera uscita dai programmi minuziosi della madre. E quando anche Germanico fu vicino ai cavalli di Fersen e André, Françoise si lasciò cadere con poca grazia sull'erba, fra il conte e suo zio, e, appoggiata la testa sulla spalla di questo, alzando lo sguardo, adorante, gli chiese: "Allora, zio André, che cosa ti sei portato dalle cucine per noi da sgranocchiare?"."


"Io?", aveva chiesto con aria innocente André. "Ma non dovevi occupartene tu?".

"Io?", chiese con una faccia confusa e mortificata Françoise. "Oh, santo cielo! Ma davvero?! Vuoi dire che mi sono dimenticata...? Fersen, zio, scusatemi...sono la solita pasticciona!".

"Scherzavo, Françoise, scherzavo: guarda un po' che cosa ho rubat...ehm....prelevato dalla cucina, di nascosto da Émilie", e intanto prendeva una borsa di cuoio posata poco lontana sull'erba, da cui cavava pane, formaggio, una bottiglia di Bordeaux, tre bicchieri avvolti in spessi tovaglioli di fiandra, salsicce, coltelli, panini dolci, burro e mele.

"Émilie è la nostra cuoca", chiarì Françoise a beneficio di Fersen, "giusto un pochino più sussiegosa di maman, anche se non è marchesa". "Però, noi la perdoniamo, perché, in compenso, Émilie sa cucinare", aggiunse André, strappando alla nipote una risata.

"Monsieur Grandier, ricordatevi sempre di portarci rispetto, perché gli antenati della famiglia Jarjayes hanno partecipato alle Crociate", declamò Françoise, sollevando il dito con aria severa, chiaramente producendosi in una imitazione della marchesa Clothilde.

"Madama la Marchesa, e voi ricordate che gli antenati dei Grandier erano nientemeno che i falegnami che fabbricarono la tavola dell'Ultima Cena", aggiunse di rimando André con una grassa risata.

"Contegno, conte zio!", lo rimproverò Françoise già con le lacrime agli occhi.

"Non sono conte, e, purtroppo, a casa Jarjayes questo è quel che conta", ripose André.

"Ma io sì, che sono conte", intervenne Fersen.

Da quel momento in poi, la loro allegria non ebbe più ritegno, e le risate rimbalzavano dall'uno all'altro del terzetto; e per un istante a Fersen sembrò davvero di aver fatto un viaggio nel passato, di essere tornato ai primi tempi della sua amicizia con Oscar e André, molto prima della sua partenza per l'America, ai pomeriggi spensierati e alle sere passate bevendo in allegria, prima che i l'amore si mettesse in mezzo, come una serpe maligna, a rovinare tutto.

"Guardate che cosa mi sono portata", disse a un tratto Françoise, esibendo un mazzo di carte cavato dalla tasca interna della sua giacca.

"Oh no, Françoise, io mi rifiuto di giocare ancora con te!", esclamò André.

"Certo che ti rifiuti! E so anche perché: perché perdi sempre!", ripose quella, come se dicesse la più grande ovvietà di questo mondo.

"Gioco io con voi, Françoise", intervenne cavalleresco Fersen. "Va bene, va bene: a quanto fissiamo la puntata minima?", chiese la ragazza.
"Ma come?! Volete giocare davvero, allora?", chiese stupefatto quello.

"Certo, conte! E si gioca per vincere!", asserì con sicurezza lei.

"E se doveste perdere tutto il denaro che avete in tasca?", chiese Fersen, mentre mescolava le carte, gli occhi socchiusi e l'aria da uomo di mondo.
"Beh, allora sarei costretta all'inevitabile. Dovrei pagarvi in natura". André sgranò gli occhi: possibile?  Ma, subito dopo, Françoise, con una smorfia e con voce innaturalmente grave: "Conte di Fersen, accettate mia madre in pagamento? Credo che questo sia un fattore determinante perché voi mi lasciate vincere". Ciò detto, la ragazza si strinse naso e bocca fra le mani, in preda a un attacco di riso furioso, seguita da André, e poi anche da Fersen.
Prima di avviarsi verso casa, Françoise si addormentò per un breve momento sull'erba, e Fersen potè parlare liberamente con André.

"Io ....vi ringrazio molto. Pensavo di rendervi un gran favore, con la sua lettera..."- nominava Oscar il meno possibile, in quegli ultimi tempi, - "Ma, come sempre quando ho soggiornato ospite degli Jarjayes, ho ricevuto più di quanto avessi dato. E forse più di quanto meritassi".

"Fersen, non dite così".

"Sì, invece. Vedete, domani mattina me ne andrò, e tornerò a Parigi, e di lì, tra poco più di una settimana, partirò per Stoccolma. Non so se rivedrò mai più la Francia. Ma prima di andarmene, io, io vorrei ... salutarla".

"Sta bene. Vi attenderò domani mattina alle sei ai piedi dello scalone d'onore".

"Grazie, André", annuì Fersen.

Il pomeriggio passò lietamente, con Fersen che, andando al passo accanto a Françoise, cercava di insegnarle qualche frase in svedese. Ogni tanto la ragazza scoppiava a ridere, e addirittura esclamò: "Ah cielo! Ma è impossibile! Ma che lingua è? "Ti amo" in svedese sembra una bestemmia! Dite la verità, conte, siete venuto in Francia perché non ne potevate più di sentire latrare, invece che parlare, per le vie di Stoccolma, via, ammettetelo!".

Ritornati a palazzo per tempo per presenziare in perfetto orario alla cena imbandita con misura ed eleganza dalla Marchesa Clothilde, trascorsero una serata nella piacevolezza di chiacchiere convenzionali e senza spessore, sino a quando Fersen ruppe ogni indugio, prendendo congedo dalle signore, e avvisando che sarebbe ripartito molto presto la mattina dopo, forse troppo presto per poter pretendere di salutarle. Beneficiò quindi di un baciamano impeccabile sia Clothilde de Jarjayes che Françoise. Quest'ultima, però, oltre a ricevere l'impronta delle labbra di Fersen sul dorso della mano, lo abbracciò calorosamente e se ne fece abbracciare, non senza suscitare uno sguardo corrucciato della madre.

"Grazie, per le vostre lezioni di svedese. Spero di poter venire un giorno a Stoccolma per continuarle, conte".

"Grazie, Mademoiselle Françoise. Siete un'allieva promettente, la più promettente che abbia incontrato da molto tempo a questa parte".

Poi, la notte era scivolata via.

Il mattino dopo, prima che l'alba dissipasse le tenebre, Fersen aveva trovato, puntualmente, alle sei, André ad attenderlo ai piedi della scalinata monumentale, con in mano una lanterna.

I due uomini si erano fatti un cenno d'intesa; quindi André aveva condotto Fersen fuori dal palazzo, e l'aveva guidato sino a un piccolo edificio, poco lontano: la cappella privata della famiglia Jarjayes. André cavò dalla tasca un pesante mazzo di chiavi e, dopo aver armeggiato un po', ne impugnò una e fece entrare Fersen.

L'ambiente, freddo e ed essenziale, completamente rivestito di marmo bianco, non invitava certo a semtirsi a proprio agio. André porse a Fersen una sedia, e ne prese una seconda per sé: e i due si accomodarono davanti a una lapide bianca, che spiccava per semplicità, su cui vi era solo composto, a lettere d'oro:
 
OSCAR GRANDIER
1755-1794
 
         Non c'erano né date più precise, né un epitaffio, né complicati bassorilievi, che invece decoravano la tomba del Generale e della moglie Marguerite, quella dei genitori del Generale, e infine, quella di Hortense, una delle sorelle di Oscar, e di François, il primo figlio di Clothilde, nato e vissuto solo un giorno, un anno prima della nascita della sorella.

"Tutto finisce qui...", mormorò Fersen, ponendo una mano, con delicatezza, sulle lettere dorate. E poi, con amarezza, articolò poche, disperate parole: "Ebbene, amico mio, avete una grande consolazione: quella di avere una tomba su cui potere piangere la donna che amate. Una grande anche se assai triste consolazione, ma che non tutti possono avere".

"Oh, no, Fersen", rispose con la sua quieta fermezza André "Ricordate, ricordatelo sempre: dipende solo da voi, dipende da noi, dall'intensità del nostro ricordo, dalla fiducia e dal calore con cui sapremo coltivarlo e farlo fiorire e fruttare, nel nostro animo e nella nostra vita, se la donna che abbiamo amato non verrà dimenticata, e non sarà travolta dall'oblio. E se riusciremo a fare questo, davvero potremo dire non di avere vinto la battaglia contro un'avversaria che non si vince, ma potremo forse dire che non tutto è perduto".

"Grazie, André, voi mi avete dato una grande lezione. E non solo ora", disse Fersen, con semplicità. "Siete un amico, sappiatelo, anche se non dovessimo più incontrarci, come credo e temo. E siete anche l'uomo più nobile che io abbia mai incontrato. Posso comprendere l'amore che Oscar aveva avuto per voi: una creatura eccezionale come lei poteva amare solo un uomo altrettanto eccezionale. Vi auguro ogni bene. Abbiate cura di lei, del suo ricordo", disse, volgendo gli occhi al marmo bianco, "e anche di voi", e guadagnò l'uscita, seguito da André, che, prima di richiudere a chiave l'ingresso, sostò per pochi secondi davanti a quel biancore inerte, sfiorando le lettere che componevano il nome di lei.

Rimasero in silenzio. Il cocchiere, debitamente istruito, attendeva già, a cassetta, pronto a partire. Prima di salire in carrozza, Fersen e André si strinsero la mano, in silenzio, perché non c'erano più parole da consumare. Poi, la carrozza del conte non fu più che un puntino che sfumava in lontananza, e André rientrò verso casa a passi lenti.

Ormai il sole stava sorgendo, e, in quell'alba limpida di primavera, la vita a palazzo Jarjayes stava riprendendo i suoi ritmi di sempre.
 

 
 
   
 
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