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Autore: Clementine84    05/09/2021    0 recensioni
“Ciao Siobhan”.
Al solo sentire la voce di Keith, le gambe mi erano diventate improvvisamente molli e avevo dovuto appoggiarmi al tavolino.
“Ciao” avevo risposto, scioccata.
.....
“So che ti starai chiedendo come mai ho deciso di farmi vivo, dopo tutto questo tempo, ma la verità è che non lo so nemmeno io” aveva ammesso, lasciandomi un po’ spiazzata.
“Presumo di aver pensato che era ora di farla finita con questa stupida situazione e ho pensato che oggi fosse il giorno adatto per tentare. In fondo, uno dei due doveva pur fare il primo passo”.
......
Keith era stato il mio primo, unico, grande amore, sarebbe stato inutile negarlo. Nei nove anni in cui non ci eravamo sentiti, avevo cercato di rifarmi una vita e, in parte, ci ero riuscita. Ero soddisfatta in campo lavorativo, ma decisamente delusa in quello affettivo. Avevo avuto qualche storia, ma nessuna era mai durata più di sei mesi. La scusa era sempre la stessa. Il mio lavoro, che nessuno sembrava essere in grado di sopportare, tranne io.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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“Ecco fatto, signor MacDooly. Sam ora starà benissimo” annunciai, tirandomi in piedi e accarezzando la testa al vaporoso gatto rosso a cui avevo appena estratto una spina dalla zampa. Avevo ricevuto la chiamata alle prime luci dell’alba, solo un paio di ore dopo essere finalmente riuscita a prendere sonno, dopo i catastrofici eventi della sera precedente. A quanto pareva, Sam aveva passato la notte fuori ed era rincasato reggendosi soltanto su tre zampe. I suoi padroni, i coniugi MacDooly, due anziani scozzesi trasferitisi a Clifden parecchi anni prima, gli erano molto affezionati e mi avevano subito chiamata, in preda all’ansia. A cose normali avrei dovuto farmi portare l’animale in ambulatorio e addormentarlo, per poter estrarre la spina. Ma conoscevo bene Sam, e sapevo che era in assoluto il gatto più tranquillo e coccolone che avessi mai avuto occasione di conoscere. Non avrebbe opposto nessuna resistenza, nemmeno se avessi cercato di spellarlo vivo. Effettivamente, mi aveva accolto con lo sguardo un po’ sofferente, al mio arrivo, e ora era un vero sollievo sentirlo fare le fusa, felice, mentre gli grattavo le orecchie.

In auto, di ritorno dalla casa dei MacDooly, mi sentivo felice e appagata. Era sempre una bella sensazione aiutare un animale che soffriva, se poi quell’animale mi era particolarmente simpatico, come Sam, la sensazione di soddisfazione aumentava ulteriormente. Sarebbe stato tutto perfetto, pensai, se gli eventi della sera precedente non mi fossero continuati a ronzare per la testa, rovinandomi la giornata. Ripensandoci, a mente, fredda, e dopo averne parlato a lungo con Martin, mi ero comportata da stupida. Non avrei dovuto scappare via così, anche se quel flash mi aveva riportata indietro di nove anni, quando la mia storia con Keith era finita proprio perché non me la sentivo di affrontare la sua popolarità. Adesso, però, le cose stavano in modo diverso. Non ero più una ragazzina spaurita. Ero cresciuta, cambiata. Avevo acquistato più fiducia in me stessa. Sapevo che le cose non sarebbero state facili, ma ero cosciente di potercela fare, se solo avessi voluto. Avevo già rinunciato a Keith una volta, non volevo commettere di nuovo lo stesso errore. Non senza averci almeno provato. Era inutile continuare a mentire a me stessa, Keith era importante, per me. Lo era stato un tempo ed era tornato ad esserlo dopo che ci eravamo incontrati di nuovo. O, forse, non aveva mai smesso di esserlo, in tutti quegli anni.

Rispondendo a un impulso irrazionale, svoltai in una stradina secondaria, trovandomi, in pochi minuti, davanti casa di Keith. Non avevo idea di cosa gli avrei detto, ma non mi importava. Volevo vederlo. Le parole sarebbero venute da sé.

 

 

Stavo guardando distrattamente la TV, cercando di togliermi dalla testa il disastroso epilogo della festa della sera prima, quando sentii suonare il campanello. Mi alzai per andare ad aprire, controvoglia. Non volevo vedere nessuno, né tanto meno parlare. A cose normali avrei chiamato Gavin per sfogarmi, ma l’avevo lasciato da Hoogan ancora piuttosto malmesso e sicuramente non avrebbe riacquistato possesso delle proprie capacità mentali almeno fino a pomeriggio inoltrato, quindi era fuori discussione. Avrei potuto chiamare Martin ma, nonostante avesse ormai annunciato pubblicamente di essere gay da qualche giorno, il mio amico aveva reputato più saggio restare ospite da Siobhan ancora per un po’ di tempo, per far calmare le acque ed evitare di trovarsi i giornalisti fuori dalla porta di casa ogni mattina. Chiamarlo sarebbe stato troppo rischioso. Martin non avrebbe mai risposto al telefono. Se fossi stato fortunato, forse avrebbe risposto Rose, ma le probabilità che mi rispondesse Siobhan erano troppe e non volevo correre il rischio.

Lanciai un’occhiata al giornale locale che avevo trovato sulla porta quella mattina, e che ora giaceva abbandonato in un angolo del divano. In prima pagina, un enorme titolo decretava che la festa da Hoogan era stata “il modo più alla moda per festeggiare l’arrivo del nuovo anno”. Sotto, una grossa foto ritraeva me e Siobhan abbracciati sulla pista da ballo, le mie labbra sulle sue. Non si facevano nomi, nella didascalia, ma, nel corso dell’articolo, si confermava chiaramente la presenza mia e di Gavin, tra gli invitati, mentre quella di Martin non era data per certa. Nonostante il viso di Siobhan fosse parzialmente nascosto dal cappello, il mio era chiaramente visibile. Bastava fare due più due. Chi ci conosceva avrebbe capito. Se avessi avuto anche solo una minima possibilità di sistemare le cose con Siobhan, quella foto le aveva fatte sfumare definitivamente.

Il campanello suonò di nuovo, mentre spegnevo la TV.

“Arrivo!” urlai, spazientito. Chiunque fosse, era veramente insistente.

Aprii la porta senza preoccuparmi di guardare dallo spioncino. Normalmente lo facevo, per evitare brutte sorprese. Clifden era una cittadina tranquilla e non temevo i malintenzionati. A volte, però, qualche ammiratrice troppo audace aveva scoperto dove abitavo ed era venuta a suonare il campanello. Dato che non mi piaceva essere scortese con le fan, ero stato costretto a firmare autografi e a scattare foto ricordo. Sulle prime non mi era dispiaciuto, ma la cosa aveva iniziato a ripetersi con troppa frequenza. Le ragazze non erano mai fastidiose o scortesi ma, purtroppo, non capivano che, a volte, non avevo tempo per fermarmi a chiacchierare con loro, oppure ero troppo stanco, o, più semplicemente, non ero dell’umore giusto per scattare decine di fotografie. Così avevo imparato a controllare chi fosse dallo spioncino, prima di aprire, in modo da poter fingere di non esserci se qualche ammiratrice si fosse presentata alla mia porta in una giornata no. Quel giorno, però, ero ancora sottosopra dalla sera precedente e non ci pensai affatto. La mia sorpresa, quindi, fu doppiamente grande quando mi trovai davanti Siobhan.

“Ciao, Keith” salutò lei, tenendo gli occhi bassi.

“Sio. Che sorpresa” farfugliai, stupito. Era l’ultima persona che mi sarei mai sognato di vedere, ma ero sinceramente contento della sua visita.

“Ti disturbo?” chiese, timorosa.

Scossi la testa. “No, affatto. Anzi, sono contento di vederti”.

La ragazza mi rivolse un timido sorriso, per distogliere poi velocemente lo sguardo non appena i nostri occhi si incrociarono.

“Posso entrare?” domandò, con un filo di voce.

“Ma certo. Certo. Che stupido. Vieni, accomodati” mi affrettai a dire, insultandomi per averla lasciata ad aspettare sulla porta.

Le feci strada in salotto e ci sedemmo entrambi sul divano.

“Posso offrirti qualcosa da bere?” chiesi, tentando di comportarmi da buon padrone di casa.

Siobhan scosse la testa. “No, grazie”.

Poi, con mio sommo orrore, vidi che lanciava un’occhiata al giornale, abbandonato distrattamente sul divano.

‘Fantastico,’ pensai ‘anche se fosse venuta per dirti qualcosa, adesso avrà sicuramente cambiato idea’.

 

 

Quando vidi il giornale con la nostra foto abbandonato sul divano, ebbi un tuffo al cuore. Non era una sorpresa. Rose me l’aveva fatta vedere quella mattina, subito dopo la telefonata del signor MacDooly. Sulle prime, l’avevo presa molto male, nonostante i miei amici cercassero di tranquillizzarmi, facendomi notare come il mio viso fosse parzialmente coperto dal buffo cappello di paillettes, che non ricordavo più dove avevo lasciato, la sera prima. Poi, Marty se ne era uscito con una delle sue solite affermazioni casuali che, però, nascondevano un fondo di verità e saggezza.

“Sio, te l’ho già detto. Oggi sembra una tragedia, ma domani questo giornale verrà usato per accendere il camino e nessuno se ne ricorderà più”.

Presi un respiro profondo e mi voltai a guardare Keith. Ero venuta per parlargli ed era ciò che avrei fatto. Forse, quella stupida foto, avrebbe reso le cose addirittura più facili.

 

 

“Devo parlarti Keith” annunciò Siobhan, seria.

Il mio cuore mancò un battito. Mi avrebbe detto che era finita, se mai qualcosa era iniziato, tra noi, che non voleva vedermi mai più. E tutto per una stupida foto.

“Sio, aspetta. Se è per quella foto…”

Siobhan scosse la testa.

“Non è per la foto Keith. I giornali di oggi, domani serviranno ad accendere il camino. Non mi interessa”.

Sospirai. Allora non era arrabbiata per la foto. Ma, allora, perché….

“O, meglio, non è per la foto in sé. È per quello che sta dietro alla foto” concluse.

Chiusi gli occhi e deglutii. Mi ero illuso troppo in fretta. Adesso sarebbe arrivata la botta, ne ero certo. Riaprii gli occhi e mi sforzai di non mettermi a urlare, mentre Siobhan parlava.

“Sono passati nove anni, Keith, e le cose non sono affatto cambiate. Anzi, semmai si sono fatte ancora più complicate. Io ho il mio lavoro che, come sai, è tutta la mia vita, e tu hai la tua musica e sei diventato ancora più famoso di quanto non lo fossi quando, nove anni fa, ti ho lasciato perché il successo a cui stavi andando incontro mi spaventava a morte. A quanto pare, però, non sono cambiati nemmeno i nostri sentimenti. Tu dici di amarmi ancora e io…beh, non so se quello che provo sia amore, sono ancora troppo confusa. Quello che so è che nella mia vita mancava qualcosa, c’era un vuoto che nemmeno il mio fantastico lavoro riusciva a colmare, e quel vuoto è sparito quando sei arrivato tu”.

“Oh, Sio” mi lasciai sfuggire.

“Ti prego, Keith, lasciami finire, o non avrò mai più il coraggio di dirti tutto”.

Annuii, promettendomi di non interromperla più. Il cuore mi martellava in petto come mai aveva fatto prima.

“Come ho detto, a quanto pare non è cambiato nulla, in questi nove anni. Io, però, sono cambiata, Keith. Non sono più la ragazzina spaventata dal mondo che conoscevi. Sono più matura, più forte. E anche più testarda. In questi anni, ho imparato, bene o male, a cavarmela da sola e ad affrontare situazioni che credevo fossero più grandi di me. So di potercela fare, adesso. Non ho più paura e non ho più bisogno di essere protetta. Non mi serve più un eroe, Keith.”

“Io non sono un eroe, Sio. Purtroppo non lo sono” avevo promesso di non interromperla, ma non ce l’avevo fatta. Non potevo tenere la bocca chiusa mentre lei decideva da sola del nostro futuro. Dovevo convincerla a tentare. Ad ogni costo.

“Hai ragione tu, questo è soltanto uno stupido, vecchio tatuaggio” dissi, toccandomi il braccio sinistro. “Però ti giuro che venderei l’anima al diavolo per poter essere il tuo eroe, Sio. Anche solo per una notte. Ne varrebbe la pena”.

Inaspettatamente, Siobhan allungò una mano, fino a stringere la mia, e sorrise.

“E, allora, Keith, ti prego, sii il mio Superman. Almeno oggi. Almeno stanotte. Non mi serve un eroe, ho bisogno di te”.

Rigirai velocemente la sua mano nella mia e la tirai a me. Lei si lasciò cadere sul mio petto, senza opporre resistenza.

“Oh, Sio,” sussurrai, al colmo della gioia “certo che sarò il tuo Superman. E non solo per stanotte. Per sempre”.

 

Fui svegliata da un fantastico profumo di caffè appena fatto. Spalancai gli occhi e mi ritrovai davanti il viso sorridente di Keith.

“Buongiorno, principessa” mi salutò, dandomi un bacio sulla punta del naso.

Sorrisi, felice. “Buongiorno a te, mio eroe”.

“Chiamami signor Superman, per favore” scherzò lui, sedendosi accanto a me e posandosi sulle gambe un vassoio con due tazze di caffè e qualche fetta di pane tostato con la marmellata.

“Okay, signor Superman” acconsentii, prendendo una fetta di pane tostato e dandole un morso. “Mmmm…questa colazione da supereroe è veramente fantastica” commentai, mettendomi a sedere.

“Che ore sono?” domandai poi, coprendomi meglio con il piumone.

“Le sette”

“Così tardi? Ho dormito tutto questo tempo?”

“Beh, non abbiamo proprio solo dormito…” rispose Keith, baciandomi una spalla.

Arrossii, imbarazzata.

“No, in effetti, no…” convenni, compiaciuta.

Mangiammo il pane tostato e bevemmo il caffè, dopodiché Keith portò tutto in cucina e tornò a sdraiarsi sul letto, insieme a me.

“Dimmi una cosa, Sio. Sei felice?” mi chiese improvvisamente, mentre giocherellava con la catenina che mi aveva regalato a Natale e che portavo al collo.

Rimasi un attimo spiazzata da quella domanda, fatta così a bruciapelo, e smisi all’istante di passarmi i suoi capelli biondi tra le dita.

“Beh, sì. Direi di sì”.

“Diresti o ne sei sicura?” insistette lui.

Sorrisi, guardandolo. “Ne sono sicura. Adesso ne sono sicura” risposi.

“Non c’è nient’altro che vorresti?”

Ci pensai un istante. No, non mi veniva in mente nulla.

“No. Non posso chiedere nulla di più, al momento”.

Improvvisamente, Keith si rizzò a sedere, guardandomi negli occhi.

“Io, invece, ho ancora una cosa da chiedere” annunciò, serio. “Anzi, sai che ti dico? Non mi importa se ti sembrerò un pazzo. Lo faccio subito”.

Si alzò di scatto e andò ad aprire un cassetto del comò. Frugò per un attimo, sotto il mio sguardo sempre più stupito, dopodiché tornò accanto a me, tenendo qualcosa in mano.

“Ascolta, Sio. Non mi devi rispondere subito. Non ti chiederò niente. Mi rendo conto che sto affrettando le cose. Ma voglio che tu sappia che, questa volta, faccio sul serio. Quindi, ti prego, non dire nulla. Accetta soltanto questo da parte mia e prometti che, un giorno, quando te lo chiederò davvero, dirai di sì”.

Mi prese una mano, me la fece aprire e posò qualcosa sul palmo. Con mia grande sorpresa, vidi un anello.

“Keith, ma questo…” farfugliai, stupita.

Il ragazzo annuì. “Su, provalo” mi spronò.

Presi l’anello e, prima di metterlo al dito, l’osservai con attenzione. Era un piccolo solitario, ma la circonferenza dell’anello non era chiusa. Restava aperto, e il diamante si trovava su di una delle due estremità.

“E’ bellissimo” dissi, sincera, mentre lo infilavo.

“Non trovi che ricordi un po’ una goccia di rugiada su di un filo d’erba?” chiese Keith.

Guardai nuovamente l’anello e annuii. “Ora che mi ci fai pensare, hai ragione” convenni.

“Allora, ti piace davvero, Sio?”

“E’ stupendo, Keith. Grazie” risposi, dandogli un bacio sulle labbra.

Keith sorrise, felice e, prendendomi la mano, chiese “Prometti che ci penserai seriamente, quando sarà il momento?”

Sorrisi, buttandogli le braccia al collo “Non mi serve aspettare il momento giusto per sapere che voglio passare il resto della mia vita con te, Keith. Ho avuto nove lunghi anni per pensarci. Credo di non avere più molti dubbi, ormai. Spero solo che questa tua doppia vita da cantante-supereroe non sia troppo faticosa, da sostenere” scherzai, facendolo scoppiare a ridere.

In quel momento, un cellulare iniziò a squillare.

“E’ il mio” annunciai, alzandomi per andarlo a prendere, nella tasca della giacca.

Guardai il display. Era il numero di Jim.

“Ciao, Jim. Dimmi”

“Ciao Sio. Mi dispiace disturbarti proprio il primo dell’anno,” si scusò subito il mio capo “ma ha chiamato ora il signor Dakin. Una delle sue cavalle ha qualche problema a partorire e lui è troppo vecchio per esserle d’aiuto. Siegfried è dai Brown perché la scrofa ha ingoiato Dio solo sa cosa. Io sto tornando adesso da Cork con Helen. Abbiamo festeggiato il capodanno con il mio collega e sua moglie. E Tristan…beh, quando l’ho chiamato sembrava non sapesse nemmeno dove si trovava, quindi dubito che possa essere di grande aiuto”.

“Nessun problema, Jim. Vado io”.

“Grazie, Sio. Te ne sono veramente grato”.

“Figurati, Jim. Dovere” lo rassicurai.

Ci salutammo e stavo per riattaccare quando Jim mi chiamò.

“Ah, Sio. Domani dobbiamo fare due chiacchiere, io e te. Ho pensato che non è necessario aspettare il mio pensionamento per farti diventare socia dello studio a tutti gli effetti”.

Strabuzzai gli occhi. “Dici sul serio, Jim?”

“Ma certo, Sio. Te lo meriti”.

Incora in trance, terminai la conversazione e tornai in camera da Keith.

“Chi era?” chiese, preoccupato.

“Era Jim. Devo andare a vedere la cavalla del signor Dakin” spiegai, raccattando i miei vestiti, sparsi per la stanza, e iniziando a sistemarmi.

“Oh, peccato” commentò lui, dispiaciuto.

“Keith, Jim mi ha appena annunciato che, tra qualche giorno, potrei diventare socia affettiva dello studio”.

“Sul serio?” esclamò Keith, entusiasta.

Annuii.

“Ma…è fantastico, Sio! È quello che hai sempre sognato. Non sei contenta?”

“Certo. Solo…non mi sembra ancora vero. Voglio dire, è tutto troppo bello. Io e te insieme, diventare socia…. Mi gira quasi la testa. Ho paura di svegliarmi e scoprire che è stato tutto solo un bellissimo sogno, che sono ancora all’università e tu non ci sei” confessai.

Keith si alzò e mi prese tra le braccia, dandomi un bacio sulla fronte.

“Non è un sogno, piccola. È tutto vero. E io per te ci sarò sempre”.

Appoggiai il viso sul suo petto e sorrisi, serena. Poi, improvvisamente, mi ricordai della cavalla del signor Dakin. Mi risvegliai dal coma e afferrai una mano di Keith.

“Vieni con me dal signor Dakin” lo pregai.

“Vuoi veramente che venga con te?” chiese lui, titubante.

Annuii, decisa. “Più di ogni altra cosa al mondo”.

Fu il viaggio più romantico della mia vita. Keith che guidava la mia vecchia auto con la mia testa appoggiata sulla sua spalla. I campi irlandesi non mi erano mai sembrati così magici.

Arrivati alla fattoria, il vecchio Trevor Dakin mi venne subito incontro, imbronciato. Sospirai. Conoscevo quell’espressione, aveva accompagnato tante volte il mio arrivo nelle fattorie, specialmente nei primi tempi, e voleva dire ‘Non potevano mandare un uomo?’. Non mi scoraggiai. Ormai ci ero abituata e sapevo per esperienza che, alla fine, anche i contadini più scettici avevano sempre dovuto ricredersi.

Sorrisi a Keith e mi avvicinai decisa al signor Dakin, con la mano tesa.

“Buonasera, signor Dakin. Sono Siobhan McBride, l’aiuto del dottor Herriot”.

Il contadino mi strinse la mano, imbarazzato.

“Buonasera…”

“Allora, mi fa vedere la cavalla?” domandai, pratica.

“Certo, certo. Da questa parte, prego”.

Lo seguii in una stalla ben riscaldata e dignitosamente illuminata. Non appena vidi la mia paziente, mi bloccai: aveva una pancia enorme, ma sembrava stare benissimo e brucava distrattamente un po’ fieno dalla rastrelliera. Le parole del signor Dakin non fecero che confermare le mie ipotesi.

“Non c’è assolutamente nulla che non va ed è questo che mi preoccupa! È tutto dannatamente a posto ma quel puledro non si decide ad uscire” mi spiegò, seccato.

“Ha ragione, signor Dakin,” dissi, mentre mi toglievo la giacca e mi arrotolavo le maniche del maglione fino ai gomiti “sembra che non ci sia nulla che non va. Adesso comunque diamo un’occhiata”.

Infilai una mano nell’utero della cavalla, sotto lo sguardo divertito di Keith, che non mi aveva mai visto all’opera. Eccolo lì, il puledrino. Sembrava bello sano. Il muso era umido, quindi stava bene. Purtroppo, però, il muso del puledro era anche l’unica cosa vagamente umida dentro a quell’utero. Capii all’istante qual era il problema.

“E’ tutto a posto, signor Dakin, il puledro sta bene. È solo che la madre deve aver perso le acque molto tempo fa e adesso le pareti dell’utero sono completamente asciutte” spiegai, estraendo la mano e lavandomela in uno dei secchi d’acqua calda che il signor Dakin aveva diligentemente preparato prima del mio arrivo.

“E dove sta il problema?” chiese il contadino, confuso.

Sorrisi. I contadini irlandesi erano brave persone, ma molto pratiche. Avrei dovuto spiegarmi con qualche esempio.

“Vede, immagini di doversi sfilare un anello troppo stretto dal dito. La prima cosa che le viene in mente di fare è di usare acqua e sapone, ovviamente. Ma, metta il caso che non lo possa fare. Posso affermare quasi con sicurezza che rinuncerebbe a togliersi l’anello perché le farebbe troppo male. Ecco, questa è, più o meno, la filosofia della sua cavalla, stasera. Con l’utero così asciutto deve essere dolorosissimo agevolare le contrazioni e lei ha semplicemente pensato ‘Non vuoi uscire? Bene, allora resta là dentro!’. È comprensibile”.

“Beh, che cosa intende fare, dunque?”

“Basterà fare qualcosa per questa mancanza di liquido uterino. Vado subito in macchina a prendere un tubetto di crema lubrificante. Qualche passata e dovrebbe venire fuori, liscio come l’olio. Torno subito”.

Mi precipitai fuori, seguita da Keith, che approfittò dell’oscurità per baciarmi, vicino al portabagagli. Sorridendogli, tornai nella stalla e applicai una buona dose di crema alla cavalla. “Bene. Adesso non ci resta che aspettare” dissi, fiduciosa.

“Quanto dice che le ci vorrà per rimettersi in carreggiata?” chiese il signor Dakin, spiccio.

“Beh, dipende dai casi. Non credo molto, comunque”.

Aspettammo circa mezz’ora, conversando del più e del meno sulle recenti nevicate e sulla difficoltà del far asciugare il fieno rimasto nei campi. Poi, finalmente, la cavalla si accorse che poteva ricominciare a spingere e, subito dopo, diede alla luce un bellissimo puledrino bianco. Mentre il coltivatore si affrettava ad andare a ripulirlo con la paglia, guardai Keith, che mi sorrise, alzando i pollici in segno di vittoria. Sorrisi, fiera di aver fatto bella figura davanti a lui, e stavo per avvicinarmi quando fui distratta dalla voce del signor Dakin, diventato improvvisamente cortese. “Vi andrebbe una tazza di the bollente, ragazzi? Così ne approfittate per scaldarvi un po’ davanti al fuoco”.

Guardai Keith e lui annuì.

“Grazie mille, signor Dakin. Molto volentieri”.

Lo seguimmo in casa, dove fummo accolti dalla moglie, una donnina minuta ma molto energica, come molte delle mogli dei contadini con cui avevo avuto a che fare, con due vispi occhi neri, che sembravano in grado di leggere dentro alle persone.

La signora Dakin ci sorrise, portando sul tavolo un vassoio con il the e dei deliziosi biscotti alla cannella fatti in casa. Mentre la bevanda calda ci riscaldava lo stomaco, il signor Dakin le raccontò di come avessi, secondo lui, salvato prodigiosamente la loro cavalla da morte certa. Ai biscotti seguirono svariate fette di torta e anche un paio di bicchieri di whiskey, prodotto artigianalmente da uno dei figli dei coniugi Dakin.

La notte sembrò volare via e stava già albeggiando, quando decidemmo di andarcene. La signora Dakin ci accompagnò alla porta. Posai una mano sulla maniglia e mi voltai a salutare.

“Grazie mille, signora, e scusi per il disturbo”.

“Sì, grazie signora Dakin. Quella torta era veramente fantastica. E anche il whiskey. Lo dica a suo figlio” aggiunse, Keith, cordiale.

La piccola signora Dakin sorrise, felice. Poi notai che il suo sguardo era stato distratto dall’anello che mi aveva regalato Keith.

Mentre io e Keith ci stavamo già addentrando nell’oscurità, mano nella mano, la signora Dakin mi afferrò per un braccio e mi guardò. I suoi vispi occhietti neri non erano mai stati così furbi.

“Immagino che questo giovanotto sia il suo fidanzato, signorina” disse, sorridendo.

Strinsi forte la mano di Keith, giocherellando con l’anello che avevo al dito.

“Sì,” risposi, sorridendo “lui è il mio fidanzato, signora Dakin”.

  
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