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Autore: Striginae    05/09/2021    3 recensioni
[Het!FrUK: UK/Fem!Francia - AU!Human - AU!Belle Époque]
Al mondo esistevano due specie di uomini.
Alla prima tipologia appartenevano coloro che, non per particolari futuri meriti, erano nati sotto una buona stella, uomini favoriti dalla dea bendata e capaci di uscire vincenti da qualsiasi situazione, perfino la più avversa grazie alla sfacciata fortuna che mai li abbandonava.
La seconda categoria, al contrario, molto più ampia rispetto alla prima, comprendeva quegli infelici, iellati, che a dispetto di tutti i sacrifici e sforzi compiuti seguitavano ad essere baciati dalla cattiva sorte, loro unica fedele compagna di vita.
Forse per questioni di probabilità, forse per capriccio del destino, Arthur Kirkland faceva parte di quest’ultima fascia, di cui ormai poteva considerarsi socio onorario.

[Deathfic]
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Bad Friends Trio, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Nyotalia
Note: AU | Avvertimenti: Gender Bender
Capitoli:
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Atto III 


«Signorina Bonnefoy, voi state per morire...»

Seduta di fronte alle finestra della sua camera Marianne fissava un punto indefinito all’esterno, la mente lontana che riviveva ancora e ancora quella maledetta conversazione, come un disco rotto che continuava a ripetere senza posa lo stesso segmento.

«... di tubercolosi

Era stato il dottore ad annunciarglielo, a seguito della visita della francesina che, dopo quanto accaduto al ricevimento del signor Edelstein, non poteva più fingere che tutto andasse bene.

Era malata e il medico glielo aveva assicurato, non sarebbe guarita.

«Da adesso in poi non farà altro che peggiorare. Se solo foste venuta da me prima...», le aveva detto quella volta il dottore che scuoteva il capo, come se la stesse rimproverando.

Parlare per ipotesi però era inutile, quel che era stato non si poteva più cambiare. Era frustrante e Marianne si sentiva già abbastanza mortificata, non aveva bisogno che qualcuno le rinfacciasse la realtà. Non sarebbe servito a nulla comunque.
Marianne non sapeva come avesse contratto il virus, ma aveva ignorato i segnali della malattia e adesso era troppo tardi.
La donna aveva trascorso una notte insonne, il malessere e l’agitazione le avevano impedito di dormire: era avvilita e arrabbiata con se stessa, per la sua superficialità. E tossiva, sempre più spesso e violentemente. Seppur inconsapevolmente, era stata lei stessa l’artefice del suo stesso destino e ne avrebbe pagato le conseguenze. Certo, stava ancora relativamente bene ma... quanto sarebbe durato?

Il suo tempo ormai era agli sgoccioli.

Marianne strinse i lembi della coperta di lana che aveva appoggiato sulle gambe.
Non aveva ancora detto nulla a Julchen e Carmen e non sarebbe stato semplice farlo. Carmen sicuramente avrebbe pianto e Julchen avrebbe fatto di tutto per non scoppiare a sua volta in lacrime, tra le tre era colei che cercava di mostrarsi sempre forte nonostante le avversità, ma Marianne sapeva che sotto quella scorza dura anche la prussiana si sarebbe angosciata per lei. 
E Arthur... non sarebbe mai riuscita a dirglielo. Che reazione avrebbe avuto l’inglese? L’avrebbe compatita? L’avrebbe giudicata una sciocca per non aver consultato prima un medico? Oppure avrebbe accolto la notizia con indifferenza?
Inoltre, cosa ne sarebbe stato della sua carriera? Sebbene il dottore le avesse consigliato di smettere di ballare per non sottoporsi a sforzi inutili ed eccessivi, Marianne avrebbe voluto continuare ad esibirsi al Moulin Rouge. Il cabaret era il luogo in cui passava la maggior parte delle sue giornate, era la sua casa. Lei voleva continuare a lavorare lì, a ballare il can-can come aveva sempre fatto.
Non riusciva a credere che una maledetta malattia le avrebbe portato via tutto quello per cui aveva duramente lavorato.

Era furiosa.

Marianne strinse le labbra e si alzò dalla seggiola ma un improvviso giramento di testa la costrinse a sorreggersi al bordo della finestra.
La francese chiuse gli occhi e mille lucine esplosero sotto le sue palpebre pesanti, le unghie ancora artigliate al legno della finestrella, in attesa che il capogiro le passasse.

In quel preciso istante Marianne si rese conto che si sarebbe spenta lentamente. Ogni giorno la malattia le avrebbe portato via un po’ di energia fino a quando i suoi deboli polmoni non le avrebbero più fornito ossigeno e lei avrebbe smesso di respirare e il suo cuore di battere. 
Sarebbe stato un avanzamento cadenzato ma inevitabile, come quello di un fiore che appassisce.  

Trattenendo le lacrime, Marianne aprì di nuovo gli occhi e guardò di fronte a sé. Il suo stesso riflesso sui vetri le restituì lo sguardo e la francese non riuscì a scorgervi nulla se non l’amara collera di chi non vuole accettare la realtà.

Tuttavia, vi fu anche qualcos’altro che attirò l’attenzione della ballerina.
Oltre i vetri opachi, infatti, Marianne riuscì ad individuare l’inconfondibile figura di Arthur che passo dopo passo si avvicinava a casa sua.

Marianne si spostò dalla finestra mentre il suo cuore afflitto già accelerava i battiti.

Cosa ci fa qui?

La francese non sapeva perché il londinese si trovasse lì e la sua sola presenza le causava un’ondata di sentimenti contrastanti.
Non sapeva come avrebbe fatto a dirgli la verità e se dirgliela. Era troppo presto, lei stessa lo aveva saputo da poco e non era ancora riuscita ad elaborare la notizia che le era caduta in testa come un macigno. Marianne aveva bisogno di rimanere sola, a pensare. Però, forse, la presenza di Arthur la avrebbe fatta sentire meglio. Stare insieme sarebbe stata una consolazione. A Marianne non piaceva la solitudine, rendeva tutto molto più difficile.


La parigina prese un profondo respiro, battendosi due mani sulle guance per riscuotersi dai suoi pensieri e riprendere il controllo di se stessa. Raggiunse lo specchio e si pettinò velocemente i capelli, lasciandoli sciolti oltre le spalle. Mise un filo di trucco e si spruzzò il profumo, poi si impose di sorridere e quasi si stupì nel constatare quanto convincente risultasse.

In quel momento il campanello suonò, facendola trasalire.

La francese restò immobile.
Ad Arthur non avrebbe mostrato nulla della sua sofferenza.  

Il campanello trillò ancora, più a lungo questa volta.

Inspirò ed espirò.
Marianne mosse un passo, poi un altro, finché non giunse davanti la porta d’ingresso e la aprì.


«Buon pomeriggio. Disturbo forse?»
Esordì Arthur quando finalmente la francese si presentò alla soglia. Da sempre un tipetto impaziente, Arthur si stava giusto chiedendo quanto tempo le ci volesse per aprire. L’inglese stava rischiando di fare le radici dietro quella porta! Ed era tutto intenzionato a lamentarsene, ma l'arrivo della francesina lo fermò.

Lei, con quel sorriso accogliente e quello sguardo gentile... Arthur non poteva recriminarle nulla. Quella donna riusciva a fargli perdere la testa senza nemmeno provarci.

«Avrei dovuto avvertirti della mia visita.»
Balbettò allora Arthur che aveva cambiato completamente idea per quel che riguardava il rinfacciarle l’attesa.
Invece, osservò la gracile figura della francese.
C’era qualcosa di diverso in lei. Rispetto a come era abituato a vederla, Marianne era avvolta in un modesto abitino da giorno, nessuna elaborata acconciatura a sistemarle i lunghi capelli mossi che le ricadevano dolcemente sulle spalle e le conferivano un aspetto quasi angelico. Era pallida ma gli sorrideva. Gli occhi di lei, quasi spogli di qualsivoglia cosmetico, indugiarono curiosamente su di lui ed Arthur sciolse il suo tipico broncio in un timido sorriso.

«Non importa, sono felice di vederti. A cosa devo questa visita inaspettata?»
Rispose cortesemente Marianne che si fece da parte per permettere ad Arthur di entrare.

Lui annuì ed oltrepassò la padrona di casa.

«Ah... sì! Oggi è lunedì, ricordi? Il signor Edelstein mi aveva dato appuntamento nel suo studio per parlare meglio della mia opera e abbiamo finito di discuterne proprio poco fa. Be’... l’ha accettata, la metteremo in scena!»
Annunciò Arthur, togliendosi il cappello e arrossendo un po’, evidentemente felice per il suo recente successo.

In verità, l’inglese era talmente su di giri che si sarebbe messo a saltellare sul posto.
Avevano davvero deciso di rappresentare qualcosa scritto da lui, non riusciva ancora a crederci! Quando l’austriaco gli aveva dato la sua disponibilità, il primo pensiero di Arthur era andato alla francese ed era corso al Moulin Rouge per darle la bella notizia.
Era rimasto un po’ interdetto quando, dopo aver chiesto di lei, gli era stato comunicato che Marianne non si era presentata al lavoro. Arthur però, per una volta, non si era perso d’animo ed aveva deciso di recarsi a casa di lei, dato che conosceva il suo indirizzo. D’altro canto, se finalmente aveva un’opportunità nel mondo del teatro, era solo grazie a Marianne.
Era giusto che lei sapesse.

«È magnifico. Congratulazioni Arthur, è una splendida notizia!»
Si complimentò Marianne, sinceramente felice per lui ed Arthur cercò di contenere il proprio entusiasmo.

«Posso offrirti qualcosa per festeggiare?»
Domandò Marianne, mal celando un colpo di tosse, facendo cenno al suo ospite di seguirla. Arthur ringraziò e fece cenno di diniego per rispondere alla sua domanda, ma raggiunse comunque la francese.

«Allora... raccontami!»
Ordinò Marianne, che per sé aveva preso un calice di vino anche se erano ancora nel primo pomeriggio. Si accomodarono in salotto e Arthur fu lieto di obbedire.

«Ti ricordi quando un po’ di tempo fa ti dissi che avevo qualcosa da chiederti?»
Incominciò Arthur, che dall’interno della giacca aveva tirato fuori quello che aveva tutta l’aria di essere un copione.
Marianne osservò il plico di fogli, spostando poi lo sguardo sull’inglese, in attesa che lui continuasse.

«Ebbene... mi chiedevo... vorresti essere tu ad interpretare la protagonista della mia storia? È un ruolo che richiede solo recitazione, so che la tua specialità è il can-can, ma... ci terrei che fossi tu ad impersonarla. Se per te va bene, chiaramente! Non sei obbligata, se non vuoi!»
Disse Arthur tutto d’un fiato, arrossendo fino alla punta delle orecchie mentre con aria speranzosa porgeva alla francese il copione.

Arthur deglutì rumorosamente quando Marianne, con le sue dita fredde e sottili, prese la sceneggiatura da lui scritta, sfiorandogli la mano. Arthur si sentì rabbrividire a quel delicatissimo tocco e, se possibile, divenne ancora più rosso di prima.

Marianne, in silenzio, sfogliò le pagine. Arthur, torturandosi le mani, seguiva ogni minimo movimento della donna cercando di carpirne i pensieri. Ne osservava l’espressione, lo sguardo, il modo in cui le sue labbra si piegarono all’insù mentre leggeva quelle pagine, rimanendo in trepidante attesa di ricevere il verdetto.

«Perché io?»
Chiese Marianne dopo aver letto qualche riga, incrociando lo sguardo con l’inglese.

«Perché ho scritto questa storia basandomi sui sentimenti che provo per te.»
Rispose Arthur, così candidamente sincero, da stupire perfino se stesso.
Marianne sentì le guance riscaldarsi. Abbassò lo sguardo per sfuggire a quello dell’inglese, con la scusa di leggere ancora qualche battuta.  


Per qualche istante solo il ticchettio dell’orologio riempì il silenzio della camera.

«Allora... sarò la tua protagonista.»
Sussurrò infine Marianne, dopo quella che ad Arthur parve un’eternità.

L’inglese prese un enorme sospiro di sollievo e cercò di ignorare le farfalle nello stomaco.

«Magnifico!»
Esclamò lui che, sebbene cercasse di non renderlo troppo evidente, era al settimo cielo per la gioia.

«Ci sono ancora tantissime cose da decidere, io ed Edelstein ci lavoreremo nei prossimi mesi. Però... in linea di massima la trama è quella e le battute non credo subiranno grandi modifiche.»
Si ritrovò a spiegarle Arthur, ancora sorpreso per il modo più che positivo in cui gli eventi si stavano svolgendo.

«Ottimo. Leggerò tutto quanto prima di allora, si sa già quando inizieranno le prove? Spero quanto prima.»
Domandò Marianne, cercando di nascondere la voce improvvisamente tremante e tenendo gli occhi bassi, ancora fissi sul copione.
Normalmente, Arthur avrebbe compreso che nonostante le parole gentili della ballerina, qualcosa non andava. Ma la sua stessa gioia lo aveva reso cieco di fronte la composta infelicità di Marianne.

«Non saprei... presto, comunque!»
Le assicurò Arthur, che non vedeva l’ora di mettersi al lavoro.

«Bene.»
Disse la francese ed Arthur allargò un cauto sorriso.

Nuovamente, tra loro calò il silenzio. Per Arthur, quello era il momento del successo. Per Marianne l’inizio della fine. Fu Arthur a spezzare per primo il silenzio.

«Purtroppo, adesso devo andare.»
Annunciò e Marianne lo guardò con una punta di stupore.

«Di già? Sei appena arrivato.»

Arthur annuì. Neppure l’inglese aveva voglia di andarsene e, fosse stato per lui, avrebbe parlato ancora a lungo con la donna.

«Sì. Ero venuto per chiederti della parte, devo comunicarlo subito ad Edelstein ed assegnare gli altri ruoli. Ma ci vedremo presto, nevvero? Alle prove, magari?»
Domandò Arthur, con occhi quasi scintillanti.
Marianne fece cenno d’assenso.

«Allora... non ti rubo altro tempo.»
Disse lui. Dopo un attimo di tentennamento il londinese si alzò e Marianne fece lo stesso, accompagnandolo alla porta.

«Ci vediamo alle prove.»
Salutò Arthur ma non si mosse. Sembrava esitante, come se fosse indeciso su cosa fare.
Alla fine, Arthur catturò la mano della francese nella sua, portandosi alle labbra la mano di lei.

«A presto, Marianne.»
E fu così che, più in imbarazzo che mai, Arthur andò via senza ascoltare la risposta della donna che, era sicuro, non avrebbe avuto più il coraggio di guardare in faccia.

Marianne, stupita dall’audace mossa dell’inglese, si portò quella stessa mano sul viso e lo guardò allontanarsi, momentaneamente incapace di pensare ad altro.

«A presto, Arthur.»
Mormorò lei ancora con il batticuore, rimanendo immobile sulla soglia, ben consapevole che però l’inglese era ormai lontano.


 

* * *



Durante le tre settimane successive, fu chiaro a tutti al Moulin Rouge che le prove per l'operetta non procedevano affatto bene.
Marianne, l’attrice protagonista, era spesso assente e ciò bloccava tutta la compagnia. Tuttavia, anche quando la donna era presente le prove procedevano a rilento. Lamentava dei forti mal di testa, la tosse a volte si faceva talmente forte da non permetterle di recitare le battute e, l’ultima volta che era salita sul palco, Arthur la aveva costretta a tornare a casa poiché la donna sembrava così debole da non reggersi in piedi.
Edelstein, venuto a sapere della situazione, aveva messo l’inglese alle strette: o metteva in riga la sua attrice o ne avrebbero cercata una nuova lui stesso.
Arthur però, era più preoccupato per Marianne che per la buona riuscita dell’operetta. Era ormai sicuro che qualcosa di brutto doveva esserle accaduto.

L’inglese aveva provato a chiedere spiegazioni alle amiche di lei ma né Carmen né Julchen gli rivelarono molto. Solo degli sguardi tristi e poche enigmatiche parole.



«Marianne ci tiene molto a quel ruolo. Io non sono d’accordo con la sua scelta, non le fa bene sforzarsi così tanto. Ma non bisogna permettere a quel pallone gonfiato austriaco di toglierle la parte, Marianne non se lo perdonerebbe mai. Siate voi a farla ragionare piuttosto!», aveva sbottato Julchen, lanciando un’occhiata risoluta all’inglese.

«Julchen ha ragione. Señor Kirkland, in quanto amiche di Marianne noi non tradiremo la sua fiducia, deve essere lei a dirvi come stanno le cose. Posso darvi un consiglio, però. Statele vicino. Non perdete altro tempo.», aveva detto Carmen, a cui si erano inumiditi gli occhi.



Arthur in un certo senso le capiva. Anche se sapevano qualcosa in più rispetto a lui, non era giusto che fossero loro a parlargli delle preoccupazioni della loro amica.
Doveva essere Marianne a dirgli la verità, se lo desiderava. Arthur non l’avrebbe costretta a fare nulla contro la sua volontà.
L’inglese però non vedeva regolarmente Marianne, sebbene lei cercasse ogni momento disponibile per rimanere più a lungo con lui. In quei momenti però, era chiaro più che mai che la donna fosse costantemente turbata da qualcosa, come se un peso enorme gravasse sulle sue spalle, nonostante i sorrisi che lei continuava a rivolgergli. Ad Arthur non era sfuggito quel dettaglio ma, ogni volta che cercava di affrontare il discorso, Marianne cambiava repentinamente argomento.
Era preoccupato.
Perché Marianne non voleva renderlo partecipe di ciò che accadeva nella sua vita? Che avesse dovuto rispettare la sua volontà e farsi da parte?


Arthur aveva un brutto presentimento ed un’ipotesi si era fatta strada nella sua mente. Ma non voleva saltare a conclusioni affrettate e, soprattutto, non voleva crederci.

Aveva dunque dato appuntamento alla francese al Jardin, adducendo di voler discutere di una faccenda importante. Marianne gli assicurò che si sarebbe presentata.
Perciò Arthur, seduto, aspettava con ansia l’arrivo della francesina. Accanto a lui, adagiati sullo schienale della panchina, vi era un mazzo di fiori. Arthur li esaminò, sistemando attentamente tra i petali la dedica che aveva scritto.

Per Marianne.
Con amore,
Arthur

Un messaggio tanto semplice quanto sincero.
L’inglese sospirò. Non poteva fare a mano che chiedersi se Marianne li avrebbe apprezzati.

«Buongiorno, Arthur.»
Lo salutò Marianne quando arrivò, riscuotendo l’inglese dai suoi pensieri.

«Marianne.»
Rispose l’inglese, alzandosi in segno di saluto. Marianne accennò appena una risata per quel gesto, trovava Arthur sempre così formale.

Si sedettero insieme, l’uno accanto all’altra.

«Per te.»
Arthur le porse i fiori e fu felice nel vedere il viso della francese illuminarsi.

«Sono bellissimi. Grazie.»
Marianne li strinse a sé ma non si accorse della presenza del biglietto all’interno.
Arthur non aveva fretta che lei lo leggesse. Avrebbe preferito anzi che non lo avesse letto lì di fronte a lui ma in privato.

«È qui che ci siamo incontrati per la prima volta, ricordi?»
Disse Arthur, anticipando qualsiasi domanda di Marianne relativa a quell’incontro.

«Non lo potrei mai dimenticare.»
Rispose lei, che si era già accorta di trovarsi seduta nella stessa panchina dei Giardini del Lussemburgo in cui si erano conosciuti molti mesi prima.

«Di che cosa volevi parlarmi, comunque?»
Chiese allora con un filo di voce Marianne, cercando di dissimulare la sua agitazione.
Arthur la osservò.
Marianne non aveva una bella cera. Aveva la voce arrochita e profonde occhiaie le scurivano il viso cinereo, era dimagrita molto e della solita vitalità non vi era più traccia.
Anzi, sembrava stanca e abbattuta.

«Cos’è che non mi vuoi dire, Marianne?»
Chiese l’inglese, a bassa voce, quasi con gentilezza.
In cuor suo, Arthur credeva già di conoscere la risposta. Era sempre stato un buon osservatore e i sintomi di Marianne si facevano sempre più evidenti. Era dimagrita, era spesso costretta a letto, le amiche parlavano di lei dolorosamente e, non ultima, quella maledetta tosse che sembrava volerla spezzare in due non accennava a passare.
Non poteva essere che tubercolosi, la Piaga Bianca.
Era un pensiero terribile che aveva fatto trascorrere molte notti insonni all’inglese... e Arthur sperava ancora di sbagliarsi. 

«Non riesco a parlartene... vorrei, ma non ci riesco.»
La francese sospirò. Sapeva che prima o poi sarebbe giunto quel momento. Le faceva male nascondere la verità all’inglese, ma non sapeva come affrontare il discorso. Con Carmen e Julchen era stato già difficile.
Con Arthur le sembrava impossibile.
Con lui, voleva parlare di teatro. Di moda, di buon cibo, d’amore.
Non di morte e malattie.

Aveva provato più volte a dirgli la verità, ma sembrava quasi che le parole le si bloccassero in gola... e venissero coperte dalla tosse.

«Come posso aiutarti?»
Arthur non voleva risultare insistente o fuori luogo. Voleva semplicemente alleggerire la pena della donna, avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere per lei.

«Non puoi.»
Marianne abbassò il viso per evitare il contatto visivo con l’altro, tornando ad ammirare i fiori. E lì, semi-nascosto tra i petali, vi scorse il piccolo biglietto.
Lo lesse e sentì gli occhi inumidirsi.

Il destino era stato davvero crudele con lei.
Proprio nel momento in cui la sua vita stava andando al meglio... ecco che tutto le era stato portato via.
Era la miglior ballerina di can-can di tutta Parigi. Aveva due ottime amiche e, finalmente, si era innamorata. E lui la ricambiava.

Eppure, non avrebbero mai vissuto insieme quell’amore perché lei...
Le mancò il coraggio di terminare quel pensiero.

Con uno sforzo, Marianne cercò di ricacciare indietro le lacrime.

Arthur, lentamente, si era avvicinato a lei. Era riuscito a leggere i suoi pensieri come se la donna fosse un libro aperto per lui. Con delicatezza, le prese il viso tra le mani.
Lei lo lasciò fare, ma non lo guardò ancora.

«Marianne...»

La francese teneva ancora gli occhi bassi.
Le mani di Arthur erano così calde e accoglienti, a differenza del suo viso che invece era freddo e smunto. Con un sospiro tremolante, poggiò le mani su quelle di lui, per non farlo allontanare. 

«Non sto bene, Arthur. Ma...»

Finalmente Marianne alzò gli occhi blu, puntandoli in quelli di Arthur.
Le bastò uno sguardo per comprendere che l’inglese, chissà come, sapeva già tutto.

«... ma tu lo avevi già capito, non è così?»
Sussurrò Marianne e questa volta non riuscì a trattenere le lacrime, che copiose cominciarono a scenderle lungo le guance. 

Compunto, Arthur non disse nulla. Semplicemente la strinse a sé e solo allora, Marianne scoppiò in un pianto incontrollato, spasmodico, nascondendo il viso sulla sua spalla.

«Sono malata, Arthur. E non si può curare.»
Quelle parole arrivarono attutite, strascicate ma per l’inglese fu come ricevere una pugnalata dritta al cuore. Arthur chiuse gli occhi, un’espressione contrita sul suo viso.

Una lacrima solcò il volto dell’inglese che a sua volta trovava conforto in quel lungo abbraccio con la francese.

L’inglese si impose di essere forte, vedere la francese in quello stato gli faceva così male.
 
«Arthur... mi dispiace, mi dispiace così tanto...»
Un singulto spezzò la frase e Arthur non capì nemmeno di cosa si stesse scusando Marianne.

«Io non... non riuscirò ad essere la tua protagonista. Ma ci ho provato. Ci ho provato davvero.»
Singhiozzò ancora Marianne ed Arthur scosse il capo, sebbene lei non lo potesse vedere.
Al diavolo la parte, Arthur avrebbe dato in cambio metà della sua vita per salvare quella di Marianne. Non c’era nulla di cui lei dovesse scusarsi.

«Shh. Non importa ora.»
La voce dell’inglese si incrinò. Strinse più forte a sé la donna, tra le sue braccia sembrava così piccola, così fragile.
Eppure, Arthur sapeva quanto fosse forte Marianne.

Ma non sarebbe bastato per vincere contro la malattia.
Questo lo sapevano entrambi.

E mentre il sole splendeva su tutta Parigi portando gioia agli abitanti della città, seduti su una panchina ai Giardini del Lussemburgo due amanti piangevano, l’una nelle braccia dell’altro.



 
* * *



Marianne sapeva che quello sarebbe stato il suo ultimo can-can.

Nel giro dell’ultimo mese le sue condizioni si erano pericolosamente aggravate e non aveva bisogno di andare dal dottore per sapere che ormai mancava poco.
Non rimanevano che gli ultimi granelli di sabbia nella sua personale clessidra.

Non fumava più. Non ballava più. Quasi non usciva più nemmeno di casa, poiché spesso costretta a letto. Tutto ciò che era stata sembrava un ricordo lontano, ormai.
E la sua esistenza sarebbe diventata insostenibile se non fosse stato per Arthur che ogni giorno dopo il lavoro passava da lei per cercare di ravvivarle quelle lunghe ed interminabili giornate.
 


Marianne batté le mani mentre le allegre e coloratissime ballerine si piegavano in elegante inchino sul palco, alla fine della danza.
Le sarebbe piaciuto essere insieme a loro.

Aveva chiesto ad Arthur di guardare con lei lo spettacolo e, sebbene l’inglese fosse restio a portarla al Moulin Rouge, viste le sue condizioni di salute, alla fine aveva ceduto al desiderio della francese.
 
«È stato bello.»
Disse Marianne, seguendo con lo sguardo le sue vecchie compagne ritirarsi dietro le quinte.

«Già.»

Marianne guardò attentamente l’inglese, in attesa che lui aggiungesse altro. Lui però rimase in silenzio.

«Ma..?»
Lo incoraggiò lei, curiosa di scoprire cose avesse da obiettare Arthur questa volta.

«Ma non è lo stesso senza di te, sul palco.»
Confessò piano Arthur e Marianne cercò di trattenere un sospiro. Anche a lei mancava il can-can. Ma quello dell'inglese era un complimento implicito che comunque apprezzò.

«Mi accompagni ai camerini? Vorrei congratularmi con Carmen e Julchen.»
Arthur annuì, dando una mano alla francese a raggiungere le altre due.

Come aveva preannunciato Marianne, tutte le ballerine si erano ritirate nei camerini, pienissimi non soltanto delle danzatrici, ma anche di tutti gli altri addetti che si occupavano dei lavori dietro le quinte.

Carmen e Julchen accolsero festosamente Marianne all’interno, procurandole una sedia e sorridendole mentre spettegolavano tra loro.

Arthur rimase in disparte ad osservare la scena.
Anche se cercava di dissimularlo come meglio poteva, era costantemente in ansia per la francese. Le aveva consigliato di seguire il parere del dottore e rimanere a casa sotto le coperte, per preservare la sua salute sempre più cagionevole, ma lei non ne aveva voluto sapere.
In un certo senso, l’inglese comprendeva la voglia della francese di evadere dalle quattro mura dimentiche. Anzi, Arthur ammirava il modo in cui Marianne non si era persa d’animo.
Sarebbe bastato un attimo a lasciarsi andare... ma lei non aveva ceduto. Certo, a volte vi erano anche dei momenti di sconforto... ma Marianne continuava a tenere duro.

«Vivrò ogni giorno che mi rimane come se fosse l’ultimo.»
Gli aveva detto una volta lei, che non voleva vivere sotto una campana di vetro.

Appoggiato alla parete, Arthur continuava a guardarla.
Lì, fra tutte quelle ballerine, Marianne rimaneva comunque la più bella come se la malattia non avesse intaccato nulla del suo fascino naturale.  
Era senza dubbio la donna più coraggiosa che l’inglese avesse mai conosciuto.

Arthur si ridestò quando Marianne si mise in piedi, aiutata dalle amiche.
Le andò incontro e salutò educatamente le altre due, offrendo loro un rapido complimento per lo spettacolo. Poi porse il braccio alla francese per aiutarla a sorreggersi ed uscirono nel corridoio che li avrebbe condotti all’atrio del teatro.

«Non sai quante ne abbiamo combinate io e le altre in quei camerini.»
Ridacchiò debolmente Marianne, un po’ ansimante mentre scendevano le scale.

«Ad esempio?»

«Drammi fra ballerine, gelosie improbabili e tantissimi cuori spezzati di ammiratori un po’ troppo invadenti.»
Marianne sospirò. Le mancavano quei bei tempi.

«Sembra interessante.»
Concesse Arthur, con uno sbuffo.

«Lo era, infatti.»

Dopo pochi minuti, molto faticosi per Marianne, giunsero nella sala principale.
Lì si guardò in giro, per imprimere bene quell’immagine nella sua memoria e notò un dettaglio che la sorprese.

«Non credevo che lo tenessero ancora appeso.»
Disse, lasciando il braccio del suo accompagnatore e avvicinandosi lentamente alla parete, su cui campeggiava il manifesto che la rappresentava, quello composto da Toulouse-Lautrec.   

Arthur la affiancò, osservando a sua volta l’immagine.

«Perché mai dovrebbero rimuoverlo? È davvero molto bello.»
Disse l’inglese, che ricordava bene quell’affiche. Era rimasto ad osservarlo per un po’ la prima volta che si era recato al cabaret.

«Perché io non mi esibirò più.»
Gli rispose Marianne, con tono piatto.

Arthur aprì la bocca per ribattere ma rimase in silenzio, un po’ in difficoltà di fronte a quella affermazione. Gli sarebbe piaciuto poterla smentire.
Purtroppo, non poteva.

Marianne però si accorse dello stato d’animo dell’inglese e scosse la testa, stendendo uno dei suoi sorrisi.

«Sono un po’ stanca. Mi riaccompagni a casa?»

Arthur annuì, cercando di ricambiare quel sorriso.

«Ma certo, andiamo.»

All’esterno, vennero investiti da un tumulto persone, di suoni e di luci e fu proprio lì, appena fuori il Moulin Rouge che accadde.

L’ultimo granello della clessidra aveva raggiunto infine gli altri.

Marianne vide il tempo fermarsi.  
Le mancò il respiro.
I rumori si fecero attutiti.
Si portò una mano sul petto ed una al collo, provò inutilmente a prendere una boccata d’aria che le bruciò la gola ma non arrivò ai polmoni.

Accanto a sé, intravide il viso di Arthur distorcersi in una maschera di apprensione.

Il mondo girava vorticosamente attorno a lei che quasi senza accorgersene, cadde a terra.

«Marianne!»
Urlò Arthur al suo fianco mentre la sorreggeva.

«Un medico! Per favore, qualcuno chiami un medico!»
Ruggì l’inglese, rivolto alla piccola folla di curiosi che si stava di già radunando intorno a loro, come degli avvoltoi attorno alla loro preda.

«Arthur...»
Rantolò Marianne, cercando la mano di Arthur per poterla stringere.

«No, Marianne... no...»
Riuscì solo a dire Arthur, il panico evidente nella sua voce mentre stringeva Marianne in un abbraccio disperato, come se ciò bastasse per fermare la morte dal portargliela via.

«Arthur... ti amo, sai?»
Esalò la francese, con infinita dolcezza.
A fatica, Marianne sollevò una mano, per posarla sul viso dell'inglese per offrirgli consolazione.

Arthur ricacciò indietro le lacrime.

«Anch’io, Marianne. Ti amo, anch’io.»
Sussurrò l’inglese appoggiando la fronte alla sua, sfiorando tremante le sue labbra.

Un bacio casto.

Un bacio d’addio.

«Non mi dimenticherai, vero?»
Chiese ancora Marianne, cercando lo sguardo di Arthur per chiedere conferma. Lei lo guardò, le pupille dilatate e il respiro affannoso.

«Mai! Non potrei mai!»
Arthur cercò di rivolgerle un sorriso. Aveva promesso a Marianne che non avrebbe pianto di fronte a lei. Perché sarebbe stato terribilmente ingiusto lasciarla andare con quell'immagine di lui.
Neppure Marianne stava piangendo. Il suo sguardo era placido, non c’era rabbia o tristezza nei suoi occhi.

«Allora scrivi di noi. Scrivi la nostra storia. Il mio amore per te... vivrà per sempre così.»

Poi, il suo sguardo di spense.
Cessò il respiro.
Non si mosse più.
 
Era spirata via, tra le sue braccia.

Solo allora, Arthur lasciò le lacrime scorrergli libere sul viso.



 
* * *

 

Erano già trascorsi due anni da quando Marianne non c’era più.

La vita di Arthur era totalmente cambiata da allora. Si era fatto strada nel mondo dello spettacolo e nei circoli intellettuali e, addirittura, aveva trovato anche un editore disposto a pubblicare tutte le sue opere, teatrali e non.
Aveva riscosso una discreta popolarità in Francia e, non appena gli era stato possibile, aveva continuato la sua attività letteraria in Inghilterra, arrivando all’apice del successo. 

All’apparenza procedeva tutto bene: i debiti erano stati saldati e la carriera che aveva da sempre sognato, andava a gonfie vele.
Aveva anche acquistato un appartamento tutto per sé a Londra nella parte bene della città, dicendo addio alla vecchia stamberga in cui abitava insieme al suo amico americano, Alfred, con cui però, tuttora manteneva dei rapporti amichevoli.

Ed era proprio con Alfred F. Jones che Arthur si trovava, seduto in una comoda poltroncina rossa di velluto nel luminoso palchetto dedicato alle personalità più importanti del Theatre Royal Drury Lane nel West End.
Tra pochi minuti sarebbe andata in scena la prima della sua nuova opera teatrale.

«Certo che ne hai fatta di strada, eh Art!»
Esclamò Alfred, dando una gomitata amichevole all’inglese, impaziente che l’opera iniziasse.

«Vedi di darti un contegno, siamo a teatro!»
Lo rimproverò sussurrando l’inglese, ma Alfred non ci diede peso.

«Ehi, guarda che dovresti essermi grato! Ti ricordo che sono stato io a suggerirti di andare in Francia a cercare fortuna. Ciò significa che parte del tuo successo è anche merito mio!»
Gli rinfacciò Alfred, allargandosi il colletto della camicia. Non era sua abitudine indossare abiti così formali, erano scomodi. Lo pizzicavano da tutte le parti ma avrebbe sopportato. Era la prima volta che vedeva la rappresentazione di un'opera del suo amico inglese, non avrebbe mai perso quell’occasione.

Arthur, seduto accanto a lui, sembrava però perso nei suoi pensieri.

«Già. È cambiato tutto a Parigi.»

Alfred gli rivolse un’occhiatina curiosa.

«Be’ lo immagino, questa Marianne deve essere stata proprio importante per te, per averle dedicato un'opera.»
Osservò Alfred, sventolando un volantino con in piccolo la locandina dell’opera.

Un sorriso nostalgico e un po' amaro si fece strada sul viso dell'inglese.

«Le devo ogni cosa.»

L’inglese abbassò lo sguardo sul suo libretto su cui ad eleganti lettere rosse campeggiava il titolo dell'opera, Marianne.

«Marianne appartiene al palco. Lì, vivrà per sempre.»
Soffiò in un bisbiglio l’inglese, più a se stesso che ad Alfred che comunque non lo stava ascoltando, la sua attenzione era stata attirata dal rumoreggiare che proveniva dal palco, segno che mancavano pochi minuti prima dell’esibizione.

Poi, improvvisamente, le luci calarono nel teatro annunciando l’inizio imminente della rappresentazione.
Nessuno fiatò nell’attesa che lo spettacolo cominciasse.
Pochi istanti dopo il sipario rosso si dischiuse.

E la Marianne andò in scena.



Note finali
E finalmente... siamo giunti alla fine di questa storia.
Siete autorizzati ad odiarmi se volete. Io mi odio un po' per averla fatta finire così, non lo nascondo.
Questo è senza dubbio uno dei capitoli più difficili che io abbia mai scritto. Non scherzo, questo capitolo non è stata una passeggiata. Ma spero che vi sia piaciuto, nonostante... insomma, nonostante gli eventi T.T 
Chiedo scusa umilmente a Francia sigh- 
 
Prima di concludere queste note, ho un piccolo annuncio. 
Ho un piccolo progettino in mente a tema Hetalia che probabilmente mi prenderà tutto il mese, quindi gli aggiornamenti di Sous le Pavillon Noir non saranno regolari. 
 
Detto questo, ringrazio di cuore chiunque abbia letto questa storia, chiunque l'abbia seguita e/o aggiunta ad una delle varie liste.
Un grazie speciale anche per le recensioni <3 
Davvero, grazie mille per il supporto e l'incoraggiamento. 
 
Perciò, ci vediamo presto! 
Ciao ciao <3 
   
 
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