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Autore: JohnHWatsonxx    08/09/2021    0 recensioni
Raccolta di one-shots Johnlock in cui ogni capitolo è ispirato da una canzone dell'album 'Plus' di Ed Sheeran
1. The A Team -Post!Reichenbach
2. Drunk -Uni!lock
3. U.N.I. -Uni!lock
4. Grade 8 -post quarta stagione, What If?
5. Wake Me Up -Soulmate!AU
6. Small Bump -What If 3x3 pre-slash (Tw: aborto)
7. This -post quarta stagione
8. The City -Post!Reichenbach
9. Lego House -kid!lock AU
10. You Need Me, I don't Need You -Retirement!lock
11. Kiss Me -post quarta stagione
12. Give Me Love -Post!Reichenbach
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Lego House
 
I'm gonna pick up the pieces, and build a lego house if things go wrong we can knock it down
 
 
 
Tutto iniziò con un lungo viaggio in macchina. Le campagne del Sussex sembravano appartenere ad un’altra epoca rispetto al frenetico rumoreggiare della capitale inglese. John, 11 anni di pantaloncini corti e magliette a righe, teneva la guancia incollata al vetro mentre cercava di immagazzinare ogni dettaglio di quella città meravigliosa: gli sembrava di essere nello spazio, circondato da luci e suoni a lui sconosciuti. Se non fosse stato buio probabilmente sarebbe riuscito a vederci qualcosa in più, ma purtroppo non sapeva come vedere al buio.

Quando il motore della Ford rossa di suo padre smise di tremare e si spense, il piccolo capì di essere arrivato nella sua nuova casa. Accanto a lui la sorella di dieci anni più grande sbuffava sonoramente, ma non era una novità, dato che non aveva fatto altro da quando aveva saputo del trasferimento del padre. Harry spense il suo walkman, lo ripose nel suo zaino nero che portava sempre con sé e scese ad aiutare il padre con i bagagli: anche John voleva unirsi, ma le valigie erano troppo grandi e lui troppo poco forte, quindi si limitò a raccogliere i suoi giochi e la sua tracolla di pelle marrone che apparteneva al nonno e scese dalla macchina. Davanti a lui si prostrava una villetta a schiera di due piani, con il tetto a punta, come li disegnava quando aveva cinque anni. Non stava più nella pelle dal conoscere i suoi vicini e, soprattutto, i suoi compagni di scuola. David Watson lo aveva iscritto in una prestigiosa scuola privata, dove bisognava indossare una divisa blu con i dettagli rossi e con i pantaloni lunghi, che il piccolo aveva sempre odiato.

Dopo aver sistemato i bagagli e aver fatto un giro della casa, John era pronto per andare a dormire, dato che il giorno seguente sarebbe dovuto andare a scuola. Passò davanti alla foto di sua madre, la prima cosa che suo padre aveva sistemato, e poi si rifugiò in camera sua, che finalmente non doveva più condividere con sua sorella. Si sistemò sotto le sue coperte e prese a fissare il suo completo ancora nuovo e stirato appeso all’anta dal suo armadio. Stava andando tutto bene, si disse rincuorandosi. Da quando erano rimasti in tre le cose erano diventate insopportabili nella vecchia casa, e il nuovo lavoro del padre avrebbe di sicuro cambiato le cose.

John si girò un paio di volte nel letto, prima di decidersi a dormire, ma, proprio mentre stava per prendere sonno, un gatto cominciò a miagolare fastidiosamente vicino alla sua finestra. No, non era un gatto, si corresse John, ma un violino suonato malissimo. E il rumore fastidioso non proveniva dalla finestra, ma dall’altra parte del muro. Suo padre gli aveva detto che l’unico difetto di quella casa era quello di essere attaccata a quelle degli altri, ma non immaginava che avrebbe potuto sentire cosa facevano le altre famiglie dall’altra parte del muro. Così John, arrabbiato, tirò un pugno sul calcestruzzo, per far capire all’altra persona che era troppo tardi per suonare. In risposta sentì un tonfo, e subito dopo il rumore del violino scordato riprese come se nulla fosse. John decise che era troppo tardi per mettersi a fare una guerra di pugni sul muro con il vicino e si limitò a coprirsi l’orecchio con uno dei suoi pupazzi, quello a forma di coniglio che gli aveva regalato la mamma.

Il primo giorno di scuola non fu memorabile, ma neanche da buttare: essendo arrivato a metà anno tutti volevano parlare con lui, conoscerlo. Era la novità di cui tutti avrebbero parlato per almeno le prime due settimane e John si sentiva contento di questo. Ma questo suo entusiasmo venne subito smorzato dalla quantità di compiti che aveva da fare per rimettersi in paro con gli altri. Uscì da scuola sconsolato al solo pensiero di dover chiudersi in camera a studiare e fece il tragitto verso casa guardandosi la punta nera e lucida delle sue scarpe scolastiche, senza accorgersi di qualcuno che, poco dietro di lui, stava facendo la stessa strada.

L’altro ragazzo era alto, davvero alto, con i capelli scompigliati e gli occhi color ghiaccio. La sua giornata a scuola era stata come tutte le altre: aveva litigato con i professori e con i compagni, aveva preso qualche voto alto e qualche nota di demerito. Non vedeva l’ora di tornare a casa e suonare il suo violino, magari per infastidire i nuovi vicini. Era la cosa che preferiva di più: quella casa era sul mercato da così tanto tempo che ormai tutti potevano permettersela, e la ragione per la quale nessuno la voleva era proprio lui. Sherlock Holmes, dieci anni e tre quarti di pura arroganza, adorava far impazzire le persone, specie se quelle persone volevano appropriarsi degli stessi spazi dove lui scappava quando voleva stare da solo. Il 17 e il 15 avevano un balconcino in comune, diviso da un cancelletto di metallo alto due metri ma facilissimo da scavalcare per lui. Non appena superato l’ostacolo era come se il piccoletto avesse una casa tutta per sé. Casa che, purtroppo, ora era abitata da sconosciuti indesiderati. Rientrò in casa senza badare a chi era entrato lì accanto, talmente che odiava i vicini che non aveva bisogno di vederli per dare fastidio, e salì in camera sua per iniziare una sessione di studio lunga e fastidiosa.

I rumori del vicino si rivelarono particolarmente rilassanti però, per l’inquilino dall’altra parte del muro, che preferiva di gran lunga sentire un violino scordato piuttosto che sua sorella e suo padre litigare. Aveva sbagliato, John, a pensare che l’aria di Londra avrebbe potuto cambiare le cose: sua sorella continuava a tornare tardi ubriaca marcia e suo padre non migliorava la situazione urlandole contro. Il piccolo John era stanco e aveva trovato nell’irritante suono dall’altra parte del muro una soluzione ai suoi problemi.

Il primo giorno di convivenza tra i due passò velocemente e senza troppi drammi: Sherlock rimase sinceramente deluso dell’insuccesso del suo piano mentre John riuscì a finire tutti i compiti del giorno dopo studiando con le orecchie appiccicate alla parete color cannella. Rimase sorpreso di sé stesso quando, alle sei e mezza, aveva chiuso il libro di matematica accorgendosi che non aveva più nulla da fare. Il tizio dall’altra parte della parete aveva smesso di suonare da un po’, quindi decise di disturbarlo. Bussò contro il muro tre volte e attese una risposta che non tardò ad arrivare. Altri tre colpi, a sua imitazione. John sorrise.
“Non so se mi senti, ma grazie per il concerto di oggi!” urlò con la bocca attaccata alla parete. Non ricevendo risposta decise di continuare: “se però imparassi a suonare quel violino in modo da non farlo sembrare un gatto morente te ne sarei davvero grato!”. Ancora nessuna risposta. Cosa aveva detto di male? O forse il signore dall’altra parte del muro non aveva gradito?

Non riuscì a pensare a qualcos’altro, perché qualcuno bussò alla sua portafinestra, facendolo sobbalzare: era un ragazzino alto, incredibilmente alto, con i capelli neri neri e gli occhi chiari chiari. Che fosse lui l’inquilino dall’altra parte del muro?

John decide di aprirgli e quello subito si precipitò dentro svelto. “Perché non ti dà fastidio quando suono?” chiese immediatamente, senza neanche presentarsi.
“Sei dentro casa mia, uno sconosciuto e non mi hai neanche detto il tuo nome, sei scortese” ribatté John.

“Mi chiamo Sherlock. Ora, vuoi rispondere alla mia domanda?” insisté il bambino –Sherlock.

“Ciao, Sherlock, io sono John” rispose invece il biondo, con l’intento unico di far spazientire l’altro. Aveva come l’impressione che non avesse una buona pazienza.

“Rispondi” sibilò il più alto, confermando i dubbi di John.

“E va bene! –sbuffò- Non è che non mi dai fastidio, anzi sei pessimo e ieri sera ti ho odiato, ma ho preferito ascoltare te piuttosto che mio padre e mia sorella che litigano, mi ha permesso di finire i compiti” rispose, indicando il letto vicino alla parete ancora coperto da quaderni e libri.

“E tu perché vuoi darmi fastidio?” aggiunse poi John, incrociando le braccia.

“Oh non è nulla di personale, ma questa stanza mi serve.”

“Ma non è casa tua, è casa mia!”

“Che perspicacia! È facile da raggiungere scavalcando il cancelletto e quando non ci abita nessuno ci vengo io per stare da solo” dichiarò il piccolo “e io ho bisogno di stare da solo”.

Quelle furono le ultime parole pronunciate prima di un silenzio strano e indecifrabile. In sottofondo le urla dei parenti di John continuavano a disturbare la quiete pubblica ma i due non ci facevano molto caso.

“Penso di avere un’idea: e se tu venissi qui i pomeriggi per stare solo e in cambio mi aiutassi a fare i compiti?” propose John.

Sherlock lo squadrò per qualche attimo, ma poi annuì. Si strinsero la mano, come fanno gli adulti, e decisero di vedersi il giorno dopo alle tre e mezza nella stanza di John.

Scoprirono il giorno dopo di frequentare la stessa scuola e di avere gli stessi orari: tornarono a casa insieme e si incontrarono in camera di John all’orario stabilito. Sorprendentemente si ritrovarono ad andare d’accordo, cosa del tutto nuova per Sherlock: passarono tutto il resto del giorno insieme a raccontarsi anche le cose più stupide mentre studiavano e John scoprì che Sherlock sapeva suonare davvero bene il violino e che aveva volutamente suonato male per infastidirlo.

Erano diversi in tutto: a partire dall’aspetto fisico, fino ad arrivare allo studio e alle famiglie. John scoprì che Sherlock aveva un fratello maggiore che non vedeva mai perché lavorava per il governo, una madre e un padre del tutto normali e un cane vecchio con il pelo rosso; Sherlock scoprì che John aveva una sorella di dieci anni più grande che si ubriacava e un padre che aveva lavorato per una radio locale nel Sussex e che si erano trasferiti perché lo aveva chiamato una qualche radio londinese importante, e scoprì anche che John da grande voleva fare il supereroe ma, non avendo nessun potere magico, avrebbe ripiegato sulla professione di medico.

Da quel pomeriggio non ci fu un giorno in cui i due non si vedevano: se uno non poteva lo raggiungeva l’altro; andavano e tornavano da scuola insieme e pranzavano insieme. Sherlock non aveva una buona reputazione tra i suoi compagni, ma questo a John non interessava.

A gennaio, il giorno dell’undicesimo compleanno di Sherlock, John gli aveva regalato un pupazzetto a forma di cane per commemorare la scomparsa di Barbarossa giusto qualche giorno prima. A pasqua la famiglia Watson (meno che Harry) passò la giornata dalla famiglia Holmes (meno che Mycroft). Fu una bella giornata, soprattutto per i coniugi Violet e Siger che ebbero modo di vedere come la presenza di John facesse bene al loro figlio più piccolo. Maggio lo passarono a studiare insieme: Sherlock era di una classe inferiore rispetto a John, ma nonostante questo era lui che spiegava le cose all’altro.

L’estate arrivò con la demolizione del cancelletto tra i balconi dei due bambini, che così non avevano più il pericolo di farsi male per passare da una camera all’altra. Per il compleanno di John, Sherlock gli organizzò una festa a sorpresa, invitando tutti i suoi amici, e gli regalò un vero stetoscopio, di quelli utilizzati dai veri dottori.

L’inizio della scuola arrivò inesorabile e inevitabile, e i due si ritrovarono incastrati di nuovo nella stessa routine.

Passò velocemente quell’anno, e altrettanto velocemente quello successivo.

Poi tutto si bloccò.

“Vado in America” esordì il primo giugno Sherlock, entrando in camera del suo migliore amico.

Avevano entrambi quattordici anni, anche se John ne avrebbe compiuti quindici due mesi dopo. Sherlock doveva iniziare il liceo e avevano pianificato tutto, dalla scuola, allo zaino, alle materie che avrebbero potuto seguire insieme.

“Come- cosa- perché?” esclamò John.

“A quanto pare mio fratello ha ‘parlato’ di me a qualche persona e adesso quella persona vuole che io vada a frequentare un qualche college importante lì”
John rimase pietrificato. “College? Ma se non hai ancora iniziato il liceo. Di cosa cazzo stai parlando?” urlò talmente tanto che avrebbero sentito entrambe le case.

“Abbassa la voce! John, è un’opportunità che mi hanno fatto capire di non poter rifiutare. Si parla di Harvard, si parla del miglior programma di chimica nel mondo, si tratta di seguire lezioni che mi interessano davvero” rispose l’altro a bassa voce.

Il biondo sospirò, nascondendosi il viso tra le mani. “Questo rovina tutto” disse “Quando partirai?”

“A fine estate. Questo vuol dire che sarò qui per il tuo compleanno e potremo organizzare una festa stupenda. Magari puoi invitare quella biondina che viene a matematica con te” rispose Sherlock, sedendosi sul letto accanto a John.

“No, voglio stare solo con te. Voglio passare una giornata perfetta con te” ribatté il più basso, allungando il collo per posare il capo sulla spalla di Sherlock. Restarono così a lungo, senza muoversi, nel completo imbarazzo. Sherlock era completamente rosso in viso, mentre John aveva il respiro irregolare e le mani sudate: non che il contatto fisico li disturbasse, anzi, ma erano un paio di mesi che Sherlock si comportava in maniera strana con lui, quasi evitandolo, ed era da tantissimo che non erano così vicini.

“Sono gay” disse poi Sherlock, chiudendo gli occhi quando John si staccò da lui per guardarlo.

“Sherlock, hey, va tutto bene” rispose John prendendogli il viso tra le mani. Il più alto aprì gli occhi cautamente, trovando l’altro che gli sorrideva.

“Non mi interessa chi ami, sei comunque il mio migliore amico” disse il più basso “inoltre lo sospettavo da un po’” aggiunse ridendo.

“C-come?” strillò Sherlock.

“Ho visto come ti mangiavi con gli occhi Trevor quando sono venuto a prenderti il mese scorso!”

“Non è vero!”

“Si invece! Hai una cotta per Victor Trevor!” rise John, cominciando a prenderlo a cuscinate.

Passarono i due mesi più belli delle loro vite: non sprecarono un solo attimo ora che avevano un conto alla rovescia puntato sulle loro teste. Per il compleanno di John andarono al parco dove da piccoli andavano per nascondersi dai propri genitori, poi andarono a prendere un gelato nella loro gelateria preferita, passeggiando per Londra. Sherlock si divertiva ad indovinare le vite dei passanti e John lo ascoltava rapito: aveva visto nascere quell’abilità e lo aveva spronato a continuare. Passarono davanti a Buckingham Palace dove John imitò la postura dei soldati e l’altro gli fece una foto con una macchinetta usa e getta. Quando arrivò sera andarono a cena in un ristorante cinese, il loro preferito, e mangiarono fino a scoppiare.

Tornarono a casa poi, separandosi all’entrata delle rispettive abitazioni per rincontrarsi qualche minuto dopo sul loro balcone, entrambi in pigiama. Sherlock aveva portato con sé un pacchetto coperto da una carta blu oceano. Si sedettero vicini, negli stessi posti in cui si erano seduti per tutti quegli anni.

“Buon compleanno John” disse l’altro, porgendogli il pacchetto. John aprì la carta cercando di non romperla, e nella scatola vi trovò un cellulare, di quello con i tasti.

“Io… wow Sherlock, deve essere costato tantissimo” esclamò il biondo.

“Dentro c’è una scheda telefonica abilitata alle chiamate all’estero: possiamo sentirci anche se distanti, che dici?”

John lo guardò per un attimo, analizzando il suo volto bagnato dalla luce della luna, e poi lo abbracciò forte.

“Mi mancherai tantissimo, Sherl” sussurrò tra i suoi capelli, cercando di trattenere le lacrime. Sherlock non rispose ma a John non servivano le sue parole, perché il suo tenerlo stretto a sé valeva più di tutto il dizionario di inglese.

Si staccarono dopo poco, rimanendo comunque uno di fronte all’altro. Il più alto assunse un’espressione strana, cominciando a muovere gli occhi freneticamente tra il biondo e la luna. John aprì la bocca per chiedere cosa ci fosse che non andava, ma si sentì all’improvviso tirato dalla maglietta, e in un secondo le sue labbra erano incollate a quelle del suo migliore amico.

Sherlock Holmes lo aveva baciato. Sherlock Holmes lo stava baciando! Non appena il pensiero gli si formulò nella testa John riuscì a trovare le forze per allontanarsi.

“Ma che diavol- cos’era?!” esclamò confuso. Sherlock però sembrava più confuso di lui.

“Oddio, scusa, non... buonanotte, John” sussurrò poi, alzandosi in tutta fretta e ritirandosi nella sua stanza come fa una lumaca nel suo guscio. John restò lì tutta la notte, ad osservare le stelle fino a che la stanchezza prese il sopravvento e si addormentò lì, sul balcone, il sapore del suo migliore amico ancora sulle labbra.

Quando si svegliò aveva una coperta addosso e il suo regalo era sparito, sostituito dal pupazzo a forma di cane che John aveva fatto a Sherlock anni prima e un biglietto.

“Mi dispiace, è meglio non sentirci più.
Buona vita,
SH”

Sherlock partì due giorni dopo, durante i quali John aveva provato in tutti i modi a parlare con lui, senza riuscirci: aveva cambiato stanza e chiuso a chiave la portafinestra della sua casa. Aveva anche provato ad urlare, ma ottenne come risposta altro silenzio. Chiese ai genitori di farlo entrare ma questi glie lo negarono: era come se Sherlock fosse scomparso dalla faccia della terra.

John iniziò il suo secondo anno con uno spirito decisamente diverso da quello che si era immaginato, mentre Sherlock cominciava ad ambientarsi in un contesto più grande di lui cercando di lasciarsi indietro Londra (e John) per sempre. Non tornò per le vacanze di Natale, né per quelle di Pasqua e neanche per l’estate. 

John alla fine si era messo con la biondina che seguiva matematica con lui, l’aveva baciata molte volte e in mille modi diversi, senza riuscire a togliersi la sensazione che il bacio di Sherlock gli aveva dato. Forse per quello l’aveva lasciata dopo pochi mesi e senza troppi giri di parole. La pubertà gli rese i lineamenti più duri e lo sguardo più affascinante, lasciandolo comunque basso. Nonostante ciò le ragazze gli correvano dietro per i suoi modi gentili e i suoi sorrisi dolci, perché apriva le porte e scostava le sedie come un vero gentiluomo. Ed era bello, bello come il sole. Molto spesso, guardandosi allo specchio, John si chiedeva come fosse diventato Sherlock, se si era fatto uomo, se aveva continuato a crescere, se aveva baciato qualcun altro, ma poi smetteva di pensarci, perché gli faceva troppo male.

Presto arrivò la fine del liceo e l’inizio dell’università: aveva scelto medicina e suo padre non poteva esserne più fiero. Le lezioni erano difficili ma si stava impegnando duramente per passare tutti gli esami col massimo dei voti. Lo studio gli aveva tolto molto tempo ma riuscì comunque a farsi degli amici e ad avere qualche ragazza: la più importante si chiamava Lisa, ed erano stati insieme per sei mesi prima che lei lo tradisse con un idiota di giurisprudenza di cui non ricordava neanche il volto.

Era notte fonda, e lui stava per addormentarsi su un tomo di anatomia quando il suo telefono squillò.

Suo padre era morto, colto da un infarto.

Il giorno dopo tornò a casa, dalla sorella ubriaca nel suo letto e i genitori di Sherlock sul divano ad aspettarlo.

“John” singhiozzò Violet abbracciandolo stretto. David Watson se ne era andato una calda sera d’estate, durante una litigata con la figlia Harriet.

“Tua sorella ci ha chiamato subito” spiegò Siger “abbiamo chiamato l’ambulanza ma non c’è stato nulla da fare. Ci dispiace molto”

John accolse i loro abbracci e le loro spiegazioni in modo apatico, senza riuscire ad esternare quello che provava davvero. Il rapporto con suo padre era complicato ma meraviglioso: era lui che lo aveva sostenuto in tutti i modi possibili, ed era sempre lui che gli pagava gli studi. Come avrebbero fatto lui e la sorella?

Entrò nella stanza di Harry, trovandola stesa, ancora vestita, sul letto.

“Alzati” le ordinò, ricevendo un mugolio in risposta. “Alzati, stronza!” gridò più forte che poteva, strattonandola per le braccia molli. “Nostro padre è morto! –piagnucolò- è morto e devi smetterla di bere, mi hai stufato!” urlò costringendola ad alzarsi.

“È morto!” continuò a ripetere all’infinito mentre la sorella, ora sveglia, lo faceva stendere accanto a lei e lo abbracciò. E anche lì, John non pianse. Non lo fece neanche nei giorni a seguire, mentre organizzava il funerale, accettando che i signori Holmes pagassero per tutto, aiutandolo a scegliere il marmo più bello, la sua foto più allegra e il trasporto fino al Sussex, accanto alla tomba di sua madre.

Alla vigilia dei suoi vent’anni John Watson era diventato orfano.

Il funerale si tenne in una chiesetta a sud di Hove, la stessa dove aveva detto addio a sua madre. La cerimonia fu piacevole –per quanto questo aggettivo si possa affibbiare ad un funerale- e dopo la funzione religiosa la bara fu trasportata all’Hove Cemetery, dove venne seppellito accanto a Janice Watson e al nonno Jonathan.

John ed Harry si tennero per mano durante tutta la funzione, salutando parenti e conoscenti che erano lì solo per poter essere compiaciuti dalle altre persone. Tutti parlavano del loro padre come qualcuno che frequentavano da sempre, quando in realtà David aveva tagliato i ponti con tutti da almeno sei anni.

“John, io vado in macchina, se vuoi restare un altro po’ ci vediamo tra poco” disse la sorella, a cui lui annuì senza proferire parola.

Rimase solo e, finalmente, una lacrima solitaria bagnò il suo viso.

“Quanto sono false queste cerimonie” esordì una voce alle sue spalle che non riuscì a riconoscere. “Ma sono anche l’unico modo per permettere alle persone di marciare sulle disgrazie altrui, non credi, John?”

Quest’ultimo alzò il viso e si girò di scatto: Sherlock si trovava davanti a lui, dopo quattro lunghi anni, alto, altissimo, con gli stessi capelli neri e ribelli, gli stessi occhi chiari chiari e una voce scura, molto diversa da quella bambinesca con cui si erano lasciati. Ma non era quello a stupirlo di più: stava tenendo per mano un ragazzo, uno che John non aveva mai visto, con i capelli tirati all’indietro e gli occhi neri come la notte più tetra. C’era un non so che in quell’estraneo che inquietava John: forse il modo in cui si era arpionato al braccio di Sherlock, o il suo sorrisetto compiaciuto, o il suo completo gessato fin troppo elegante per il funerale di un uomo di provincia che neanche aveva mai sentito nominare.

“Oh, certo, Jim, lui è John Watson, il mio vecchio vicino di casa”

Vicino di casa: era solo quello ormai? Non più “migliore amico” o “primo bacio”? Solo un vicino di casa, un conoscente? Quello faceva male, era come assistere alla morte definitiva di ciò che John aveva definito una volta “la cosa migliore della sua vita”.

“John, lui è Jim Moriarty, il mio ragazzo” concluse le presentazioni Sherlock.

L’aria era tesa a dir poco, nessuno dei tre era intenzionato a parlare o a muoversi, o fare qualsiasi cosa. Rimasero in silenzio per parecchio tempo, quasi infinito.

“Allora, cosa ci fai qui? Non penso sia qui per mio padre, né tantomeno per me” buttò fuori John.

“No, infatti, mi hanno costretto i miei genitori, partiamo stanotte” rispose seccato Sherlock.

“Puoi anche andare, a quanto pare non hai niente da dirmi”

“Perché dovrei dirti qualcosa?” chiese Sherlock, al che John rise, profondamente amareggiato.

“Non pensavo che quattro anni della tua vita potessero essere insignificanti. È questo l’effetto che fa l’America, Jim Moriary? Ti fa dimenticare chi eri? Hai seriamente scordato il modo in cui non mi hai detto addio? Sono davvero così poco? Non rispondere, non lo voglio sapere, vattene e basta” rispose tutto d’un fiato John, irrigidendosi.

Sherlock aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Guardò l’altro un’ultima volta e poi si voltò senza più girarsi, trascinando con sé il ragazzo, che era visibilmente confuso.

Per tutto il viaggio di ritorno in America Jim provò ad estorcere informazioni su quello che era accaduto al cimitero, senza ottenere però nessuna informazione dal ragazzo. Tanto Sherlock era sotto shock che non proferì parola fino a che non tornarono nella casa che dividevano da un paio di mesi, a Boston, e anche lì il moro non parlò, preferendo iniettarsi la soluzione al 7% che lo aspettava da due giorni.

“Pensavo volessi smettere” disse Jim prendendo la siringa dalle mani del suo ragazzo.

“Fammi il piacere, mi sono tenuto lucido per far contento i miei” rispose Sherlock che, sdraiato sulla moquette color panna, cominciava a sentire gli effetti della droga.

“È lo stesso motivo per cui mi hai trascinato lì?” chiese Jim, posizionandosi accanto a lui.

“Ovvio. Saresti perfetto, come vero ragazzo”

“Davvero? E allora cosa ti ferma?”

“Il fatto che sei un pazzo, che non mi ami, che non ti amo, che ci distruggiamo a vicenda. Peccato per il sesso, quello è decisamente fantastico” dichiarò Sherlock, chiudendo gli occhi.

“Già…” sussurrò l’altro.

Aveva incontrato Jim Moriarty un anno prima, all’università: frequentava matematica, ragazzo prodigio esattamente come lui ed estremamente affascinante, avevano sviluppato un’affinità mentale (e di conseguenza fisica) talmente potente che le loro collaborazioni avevano fatto il giro dell’America. Avevano lo stesso modo di ragionare e lo stesso modo di concepire il mondo: troppo simili, però, per potersi amare davvero. E più di amarsi, si facevano male: è stato Sherlock a far entrare Jim nella spirale della droga, e quest’ultimo in cambio gli aveva donato una visione malata del mondo, facendogli scoprire i lati peggiori, e una visione ancora più distorta degli uomini e dell’affetto, dell’amore. Si consumavano a vicenda la notte, tra le lenzuola e le siringhe vuote, per poi ricostruirsi di giorno, tra i corridoi di Harvard. Quando si erano laureati avevano deciso di non smettere, troppo drogati di quella relazione malata che avevano costruito insieme. Ed erano un paio di mesi che tra le quattro mura di uno squallido appartamento in periferia di Boston si distruggevano e si ricostruivano, superando ogni volta i loro limiti, sfidando la morte a testa alta.

Sherlock non era felice, era drogato di felicità effimera ma, da sobrio, si rendeva conto di quanto la sua vita, a soli 19 anni, fosse stata buttata al vento, e quindi si faceva ancora, e ancora, in una morsa sempre più stretta e soffocante. Rimase sdraiato lì per un tempo che sembrava infinito e troppo breve allo stesso tempo, soffocato anche dal pensiero di John, dall’altra parte del mondo.

L’unica persona che avrebbe mai potuto amare, l’unica che, a quanto pareva, lo odiasse profondamente.

La stessa persona che in quel momento si trovava all’altra parte del mondo, in un ufficio pomposo, a implorare il rettore della sua università di fargli continuare gli studi.

“Mi dispiace per la morte di suo padre, Signor Watson, ma non posso farla studiare gratuitamente: l’ambiente universitario è rigido e qualsiasi cenno a favoritismi potrebbe costarmi l’intera carriera” gli stava dicendo il professor Thompson.

“La prego, non so come fare: i risparmi sono stati spesi per la riabilitazione di mia sorella e per pagare le ultime rate del mutuo. Siamo al verde e io ho bisogno di continuare a studiare” implorò John.

“Mi dispiace –ripeté il rettore- ma qui non c’è niente che io possa fare”

Il ragazzo annuì, sospirando. Non aveva più forze per lottare, quegli ultimi giorni lo avevano prosciugato di ogni energia e l’unica cosa che poteva fare in quel momento sarebbe stata uscire per l’ultima volta da quell’edificio e andare a trovarsi un lavoro. Non voleva fare il melodrammatico, ma la sua vita era definitivamente conclusa. Non sarebbe mai riuscito a conciliare lavoro, studio e il mantenimento di Harry, avrebbe dovuto rinunciare al suo sogno.

“Tuttavia” lo fermò il rettore, mentre lui era già sulla porta “una soluzione c’è. È drastica e di solito la sconsiglio, ma in questo caso la vedo come la tua unica opportunità” disse, facendo scivolare un foglio bianco dove, in alto, troneggiava il simbolo dell’esercito britannico.

***

Erano passati tre anni dal quel giorno, ma John lo ricordava perfettamente. Come poteva scordarsi della decisione che gli aveva per sempre cambiato la vita? Semplicemente non lo faceva. Aveva firmato quel foglio senza pensarci due volte e non si era voltato quando sua sorella, appena sobria, gli implorava di non andare. Erano passati tre anni intensi, in cui era riuscito a prendersi quella laurea nella metà del tempo previsto e appena uscito lo avevano mandato a calci sul campo di battaglia, a soli ventidue anni.

Erano passati tre anni dalla morte del padre, da quell’ultimo, decisivo, incontro con Sherlock Holmes, quando gli spararono alla spalla. E anche lì, come in tutte le cose che gli succedevano, pensò a lui, ai suoi occhi così vuoti, ai suoi lineamenti duri e adulti, al suo essere completamente diverso dal bambino che aveva conosciuto dodici anni prima. È solo il tempo a cambiare così tanto le persone, oppure è ciò che gli accade tutti i giorni, in ogni singolo attimo?

I suoi compagni lo accerchiarono, chiamando disperatamente il secondo medico. Aveva voglia di dirgli di lasciarlo lì, lasciarlo morire perché nessuno a casa lo aspettava: non sua sorella, in procinto di sposarsi, nessun amico, che aveva smesso di sentire da anni, non Sherlock Holmes, l’unico che non potesse appartenere ad una categoria, l’unico che, con un solo bacio rubato gli aveva fatto sentire più cose che con qualsiasi altra persona. Anche l’unico che lo aveva abbandonato quando era iniziata la sua nuova vita. No, di certo Sherlock Holmes non lo avrebbe aspettato.

Si lasciò trasportare dai suoi compagni sulla stessa barella dove lui li aveva curati per mesi, dopodiché non sentì più nulla.

Quando si risvegliò capì subito di essere in Inghilterra: chiamala intuizione, chiamala il rumore incessante delle macchine al di fuori del vetro della finestra o l’ambiente asettico e disinfettato dell’ospedale, ma era nella sua Londra, la città dalle mille luci che a distanza di anni continuava ad affascinarlo. Non provava alcun dolore, ma sapeva di aver rischiato la morte, più volte. Di quei giorni di incoscienza aveva sensazioni disposte alla rinfusa: il rumore dell’elicottero che partiva, l’odore di benzina, voci di medici sconosciuti che lo spostavano da una stanza all’altra come se fosse una bambola di pezza. E poi il risveglio, tranquillo, solitario, in quella stanza vuota. Era passato un dottore che gli aveva riferito le sue condizioni: sparo, spalla, mesi di riabilitazione, congedo, solitudine, solitudine. John sospirò e non fece altro, in quelle settimane. Sospirava quando cercava di muovere la spalla, sospirava mentre cercava di camminare ma non ci riusciva, sospirava anche mentre mangiava e beveva. Cosa ne avrebbe fatto della sua vita?

Lo dimisero presto, dopo appena una settimana, con una stampella e un misero borsone con dentro solo la sua divisa. Sospirò anche in quel momento, mentre alzava la mano per fermare il taxi che lo avrebbe portato a casa.

Il viaggio non durò a lungo, e non fu particolarmente interessante, tanto che John se ne dimenticò appena sceso dall’auto, appena i suoi occhi incrociarono quelli di Violet Holmes. La donna sembrava essere invecchiata di più in quei tre anni che in tutto il tempo precedente: i capelli, come fili di argento, le incorniciavano il volto irrequieto e stanco e pieno di piccole rughe d’espressione che la facevano sembrare ancora più anziana; la schiena era leggermente curva, mentre trasportava due sacchetti della spesa dentro casa a passo lento. Sembrava così cambiata, così diversa, ma gli occhi erano sempre gli stessi, quelli di una madre che ha appena visto tornare a casa il proprio figlio. Quello sguardo che era così diverso dall’ultimo che si erano scambiati, quando lui, in procinto di partire, l’aveva abbracciata stretta, quella donna che era come una seconda madre.

E ora si guardavano e sembrava essere passata un’eternità prima che lei si mosse ad abbracciarlo e prima che lui ricambiasse la stretta. John era tornato a casa.

“Oh, John caro, sono stata così in pensiero per te!” disse diretta al suo orecchio, prima di allontanarsi. Il suo sorriso lo contagiò profondamente.
“Per fortuna che ora sei a casa, come stai?”

“Intero, signora Holmes, anche se ho rischiato di perdere il braccio sinistro”

“O mio Dio, John! Allora devi riposare, forza vieni dentro!” propose Violet, ma lui rifiutò: tutto quello che voleva fare era togliersi il brutto odore d’ospedale e dormire nel suo comodo letto per ore. Si congedarono con la promessa che lui sarebbe andati a trovarli il mattino dopo, e poi entrò nella sua vecchia casa. Sembrava una capsula del tempo ferma a tre anni prima: non c’era traccia del passaggio di Harry o di qualsiasi altra persona. Se si fosse concentrato sarebbe riuscito a ricordare la voce di suo padre che li chiamava per cena o le urla che dedicava solo ed esclusivamente a sua sorella. Era contento che lei non ci fosse, perché voleva dire che stava bene, che stava vivendo la sua vita e che era felice, invece di essere rimasta in quel luogo pieno di brutti ricordi. Ma ora quella casa era sua, e ora era lui a dover conviverci, come con un ingombrante inquilino che lascia sporco al suo passaggio.

Quando rientrò nella sua stanza i ricordi dell’ultima giornata buona passata con Sherlock gli invasero la mente: a distanza di anni ancora non capiva cosa fosse successo. Era stato un bacio bellissimo, dato con l’innocenza di un adolescente, perché è dovuto scappare così? Perché non ti ha dato la possibilità di parlarti? E perché, nell’unica volta in cui si erano visti dopo, aveva portato un ragazzo, per di più al funerale di suo padre? Era solito conoscerlo così bene, ma dalla sera del suo compleanno non aveva capito più niente, e alla fine Sherlock era diventato un enigma.

Buttò la sua roba sul letto e poi andò ad aprire la portafinestra, affacciandosi sul balcone per prendere un po’ d’aria.

“Siamo nostalgici, a quant-“
“AH!” urlò spaventato John. Non si aspettava che ci fosse qualcuno lì e quella voce lo colse di sorpresa. “Ma che diavolo? Sherlock?” esclamò tra lo shock e la paura.

Il moro sedeva per terra, esattamente come quasi dieci anni prima, e si stava portando una sigaretta quasi finita alle labbra. Tirò un’ultima volta prima di lasciarla cadere accanto a lui, e poi si alzò in piedi.

“Sono sorpreso quanto te, John, non mi aspettavo che ci saremmo visti” disse, appoggiandosi sulla ringhiera accanto a lui.

Sherlock si era fatto un uomo bellissimo, constatò John: i lineamenti da bambino, che aveva intravisto poco tre anni prima, ora erano del tutto scomparsi, lasciando spazio a delle line più dure, a un pomo d’Adamo più pronunciato e a uno sguardo più severo. Il corpo, al contrario, sembrava fragile, e in procinto di spezzarsi: John pensava che non si potesse essere più magri di quanto lo fosse l’ex amico di fronte a lui, si vedeva, attraverso la camicia bianca, il segno delle dodici coste e lo stomaco incavato.

“Che ci fai qui?” chiese.

“Potrei farti la stessa domanda” rispose il moro che, vedendo l’interesse dell’altro verso il suo addome, incrociò le braccia, anch’esse magrissime.

“Non serve che ti dica niente, Sherlock, a te basta guardarmi. Posso provare ogni tipo di supposizione su di te ma so che se non te lo chiedo non saprò mai perché sei qui e non in America a vivere la tua bella vita” ribatté John acido.

“Bella vita, eh? Mi chiedo proprio che immagine tu abbia di me in testa”

“L’immagine di un ragazzino che mi ha abbandonato quasi dieci anni fa, prima, e di un deficiente che porta sconosciuti al funerale di mio padre, poi” rinfacciò John, guardandolo fisso negli occhi. Lo aveva volutamente ferito, si disse, ma non gli importava quanto fargli capire tutto il dolore che lui aveva provato in tutti quegli anni.

Sherlock non rispose subito, pesò le sue parole con attenzione, prima di parlare. Se quello che aveva fatto non lo aveva mai fatto sentire in imbarazzo (au contraire, quasi ne andava fiero), davanti a John si vergognava e provava un certo tipo di terrore.

“Non era bella vita, John” iniziò “Non lo era affatto. Il mondo universitario è troppo per un bambino di tredici anni e non sono riuscito a gestire la pressione. Diciamo che mi sono tirato avanti attraverso le cose sbagliate”

“Quel Jim?” chiese John, innocente.
“La droga” rispose invece Sherlock. Non volle vedere l’espressione sul suo viso, preferendo invece chiudere gli occhi e continuare a parlare. “Ero riuscito a tenere il controllo, all’inizio, ma dopo aver trascinato anche Jim nei miei casini ci siamo rovinati a vicenda. E quando anche lui mi ha lasciato… ho perso il filo conduttore della mia vita. Mi hanno trovato in overdose nel laboratorio di chimica di Harvard, mi hanno soccorso e poi mi hanno gentilmente invitato a non farmi più vedere. Ho passato un anno in riabilitazione e ieri sono tornato qui” concluse.

Un pesante silenzio crollò su di loro. John non sapeva cosa dire, non sapeva cosa pensare, non sapeva come agire: aveva poggiato le mani alla ringhiera, stringendola forte, per poi spostarsi e torturarsi gli avanbracci. Poi era rientrato in casa per un breve secondo, prima di uscire di nuovo e riappoggiarsi alla ringhiera, il tutto nell’arco di trenta secondi.

“Cazzo, Sherlock” disse “perché-“ si fermò. “Avrei dovuto saperlo, avrei dovuto esserci” sospirò, passandosi una mano tra i capelli cortissimi. La ferita alle spalle bruciava come se gli avessero appiccato un incendio addosso.

“Come potevi? Tu eri qui ed io ero dall’altra parte del mondo”

“Potevo eccome, invece! Avrei potuto fare di tutto, anche venirti a trovare in estate. Sarebbe stato possibile, ma tu non l’hai voluto! Non l’hai voluto nove anni fa, quando ti sei ripreso il cellulare che mi avevi appena regalato e non l’hai voluto tre anni fa” sbottò John, girandosi finalmente verso di lui e puntandogli il dito contro. Stava sbagliando, ne era certo, ma era da quasi dieci anni che si stava tenendo tutto dentro.

“Come potevo, John, come, dopo aver rovinato tutto quello che avevamo costruito?” chiese Sherlock tenendo testa all’altro.

“Cosa? Tu non avevi rovinato niente, sei scomparso e non mi hai lasciato neanche parlare”

“Non avevamo niente da dirci, John, perché sapevo quello che mi avresti detto: ‘mi dispiace ma non provo niente per te’ e io avrei avuto il cuore spezzato. Ho pensato che la lontananza mi avrebbe fatto bene, e lo ha fatto, per un po’”

Si sentì una risata leggera.

“Per essere stato un bambino prodigio sei alquanto stupido” rise John. “Se mi avessi lasciato parlare, se non avessi tagliato tutti i ponti avremmo potuto risolvere tutto questo insieme”

“E come, ignorando il fatto che io ti avessi baciato?”

“No, razza di idiota” lo offese una seconda volta “magari sarei riuscito a dirti che non eri il solo, a provare quelle cose”

Sherlock alzò di scatto la testa, allontanandosi leggermente. “Non capisco” sussurrò poi.

“Allora sarò più esplicito: quella notte, quando mi hai baciato, ho sentito qualcosa che non avevo mai provato. All’inizio l’avevo associato al fatto che tu fossi il mio migliore amico, ma poi, quando ho cominciato a stare con altre persone, a baciare altre persone, ho capito che la nostra amicizia non c’entrava niente. Io ero innamorato di te, Sherlock” confessò senza neanche pensarci “e quando me ne sono accorto ho provato in tutti i modi a raggiungerti, ma per me tu eri scomparso dalla terra” chiarì il biondo, avvicinandosi all’altro.

“Ti ho aspettato ogni singolo anno: a giugno mi attaccavo alla finestra che si affaccia alla strada nella speranza di vederti tornare per l’estate e ogni anno rimanevo deluso. Ho l’armadio pieno di scatoline contenenti stupidi portachiavi che ogni anno ti compravo per natale, nel caso tu avessi deciso di passare le vacanze qui” John sentì un singhiozzo, senza distinguere se fosse stato lui o il ragazzo che gli stava di fronte. “E Barbarossa, ancora sul mio comodino che-“
“L’ho visto” lo interruppe Sherlock, sorridendo.

John rispose al suo sorriso. “E se tu adesso, in questo istante, mi dicessi che anche tu lo vuoi, io sono pronto. Sono pronto ad amarti di nuovo, e a conoscerti dall’inizio. Perché io, davanti a te, sono ancora quel ragazzino che ti ha aspettato per cinque anni e che non vedeva l’ora di stare con te, sono ancora quel bambino a cui hai dato fastidio il primo giorno che era qui con il tuo violino suonato male” tirò su col naso, rendendosi conto di star piangendo.
“Io, davanti a te, sono solo un ragazzo, che chiede ad un altro ragazzo di amarlo*” concluse, distogliendo lo sguardo verso il cielo, notando in quel momento i colori del tramonto attraverso le lacrime.

Non aveva nient’altro da aggiungere, ora stava a Sherlock, che lo guardava in maniera indecifrabile, a metà tra la sorpresa, la paura e un profondo rammarico.
“John, io…” si schiarì la gola improvvisamente secca “non sono più quel bambino, e ho paura che tu ti sia fatto un’idea sbagliata di come sono adesso. Io… ho desiderato per anni che tu mi dicessi queste esatte parole, ma ora che le ho sentite non posso fare a meno di pensare che in me non c’è rimasto più niente di quel ragazzino di dieci anni fa. Mi dispiace, John” rispose, a malincuore, prima di voltarsi.

“Aspetta” lo fermò John “Non sparire” lo pregò.

“Non posso uscire da qui, quindi non lo farò” rispose, prima di entrare nella sua stanza.

John, esattamente come nove anni prima, rimase solo, su quel balcone, con l’unica compagnia del suo cuore spezzato.

Era stato meglio di come aveva immaginato, alla fine: non faceva così male vedersi ogni giorno, esattamente come anni prima, dava, al contrario, un rassicurante aria di familiarità. Lo sentiva suonare dall’altra parte della parete mentre lui, al computer, cercava lavoro in ambulatori ed ospedali. Era tutto dolorosamente semplice, constatò un giorno, dopo aver chiacchierato sul balcone: per quanto volesse negarlo, Sherlock era ancora quel bambino, con capricci e difetti di un undicenne troppo intelligente per la sua età. Se ne era uscito con la stramba idea di voler risolvere omicidi. Non che non pensasse che ce la potesse fare, ma inventarsi un lavoro per farlo? Quello del “consulente investigativo”? Gli risultò improbabile, oltre che esilarante. Sherlock aveva messo il broncio e lo aveva spintonato e… Dio, quanto gli era risultato difficile non baciarlo proprio lì, su quel balconcino.

“Allora…” iniziò un giorno Sherlock “cosa sei, bisessuale?” chiese a bruciapelo, rischiando di far strozzare l’altro e di farlo morire nella sua stanza d’infanzia.
Non appena si riprese, rispose: “in realtà non ne ho idea. Non ci ho mai pensato davvero. Mi innamoro di ciò che mi attrae al livello mentale. L’ultima ragazza con cui sono stato, tre anni fa, era davvero intelligente. Furba, perspicace, mi prendeva come nessuna aveva mai fatto”

“E cosa è successo?” chiese timidamente il più alto. Parlare della sua vita amorosa lo metteva a disagio, specie se l’interlocutore era Sherlock.

“Trovò più interessante qualcun altro” tagliò corto. Sherlock non rispose e non tornò mai più sull’argomento.

Quando John trovò lavoro dall’altra parte di Londra, pochi mesi dopo, e si trasferì in un appartamento vicino alla clinica, Sherlock continuò a tornare nella sua camera come quando era piccolo. Non voleva ammetterlo, ma l’assenza di John era ingombrante e ingestibile, e una delle poche cose che lo calmavano, quando si sentiva in astinenza, era sgattaiolare nella sua stanza la notte e dormire nel suo letto. E in quelle sere si chiedeva sempre se avesse fatto bene a rifiutarlo: aveva passato dieci anni convinto di essere odiato da lui quando in realtà era tutto il contrario. E quando aveva scoperto di essersi sbagliato per tutto quel tempo il suo cervello non ci aveva creduto, che uno come John Watson sarebbe stato capace di amare uno come lui, e piuttosto che provare a vedere come sarebbe potuto essere aveva preferito il dubbio, la cosa che lui più odiava.

Comunque continuavano a sentirsi, anche se molto meno, dato che il lavoro di John gli toglieva parecchio tempo. Non uscivano quasi mai ma i messaggi erano continui e ininterrotti: al dottore piaceva prendersi gioco dei suoi pazienti con Sherlock e quest’ultimo lo aggiornava sul suo progetto della consulenza investigativa. Aveva addirittura avviato un blog, chiamato “la scienza della deduzione”. Non grazie al suo sito riuscì a farsi notare da un detective, Lestrade, a cui lasciò il suo numero nel caso avesse difficoltà con qualche caso. John rimase sinceramente sorpreso quando Sherlock lo informò, qualche sera dopo.

Sarebbe bello se tu venissi a vedere il mio appartamento (16:30)

Non posso, ho un caso. SH (16:31)
Ti piacerebbe lavorare con me. SH (16:31)


Sono mesi che cerco di farti venire, anche prima dei casi (16:32)
Inoltre, ho già il lavoro alla clinica (16:33)
Ma vorrei sapere i dettagli (16:56)


Va bene. Stasera, da Angelo. Prenota tu. SH (18:02)
Non badare ai graffi quando mi vedrai. SH (18:02)


 
Sherlock si sentiva euforico: aveva appena risolto il suo primo caso importante, che fece finire Lestrade sui giornali. Un triplice omicidio in pieno centro a Londra, a Piccadilly: l’assassino aveva sparato dall’altro, colpendo in pieno tutta la famiglia Quill, marito, moglie e figlio di sei anni. Ci aveva lavorato per due giorni interi e alla fine aveva scoperto che l’assassino era il padre di lei, possessivo nei suoi confronti. Per arrestarlo ci erano voluti due scontri fisici e una caduta da un’abitazione di un piano. Lui ne era uscito con un lungo graffio sul volto, per fortuna superficiale, e un paio di punti sul braccio, dove l’uomo aveva affondando il coltello.

L’euforia di Sherlock, però, ebbe vita breve quando, arrivato all’ingresso del ristorante, vide John accompagnato da una donna. Una donna bellissima, con i capelli biondi corti e un adorabile vestito lilla che le scendeva dritto sul corpo. Parlavano vicini vicini e John le teneva un braccio intorno alla vita, con fare possessivo. Il giovane Holmes li guardava da lontano e si sentiva estremamente a disagio, come se stesse guardando qualcosa che non doveva. Per la prima volta sentì un moto di gelosia partirgli direttamente dai piedi fino al cervello, in forma di scarica elettrica forte quanto un colpo di fulmine e la realizzazione di non aver mai smesso di amarlo. La stessa consapevolezza che lo aveva travolto quella sera di dieci anni prima, quando, preso dall’angoscia di non poterlo vedere ogni giorno, lo aveva baciato su quello che era il loro posto, il loro rifugio sicuro. E Sherlock, davanti all’immagine di John che baciava qualcuno che non fosse lui, si sentì incredibilmente stupido. Gli venne voglia di scappare, di correre il più lontano possibile, ma la voce del biondo lo fermò.

“Sherlock!” urlò “eccoti, pensavo che mi avresti dato buca”

Il detective costruì il suo più bel sorriso e gli si avvicinò.

“Non potrei mai darti buca, anche se di sicuro non saresti rimasto solo” poi si rivolse alla donna “non credo ci abbiano presentato: sono Sherlock” le porse la mano.

“Ma come siamo gentili, John dovresti prendere esempio a lui! Sono Mary” rispose la donna, ricambiando la stretta.

John si intromise, interrompendo il contatto tra i due. “Vogliamo entrare?” chiese, per poi fare strada a Mary dentro il ristorante, seguito poco più dietro da Sherlock.

L’inizio della cena si rivelò sorprendentemente divertente: Mary non solo era simpatica, ma anche intelligente e furba e Sherlock non riusciva a non odiarla. Sembrava perfetta per John e questo era quello che faceva più male. Se fosse stata meno brava, meno perfetta, meno tutto, sarebbe stato più facile, ma la verità era che John non aveva bisogno di lui, non in una relazione romantica almeno: la gelosia, per tutta la sera, lo aveva logorato, ma sapeva che il suo migliore amico era felice così, e sapeva anche che l’amore non è abbastanza.

E lui amava John, lo amava profondamente da dieci anni, ma sapeva che non era la persona adatta a lui.

“Allora, come vi siete conosciuti?” chiese Sherlock

“Alla clinica” rispose John “lei è la nuova assistente che ti avevo accennato qualche tempo fa. Abbiamo chiacchierato un po’, poi siamo usciti e, due mesi dopo eccoci qui!” ridacchiò, e subito dopo tracannò un intero bicchiere di vino bianco.

“Dovevi vederlo all’inizio, Sherlock: era tutto un ‘non posso’ e un ‘non sono ancora pronto’. Poi gli vai a chiedere delle sue relazioni e vai a scoprire che l’ultima è stata tre anni fa!” ride Mary, non consapevole delle sue parole e di quello che comportavano. Sherlock alzò gli occhi di scatto, puntandoli dritto in quelli di John.

Se avessero potuto parlarsi nella mente, il moro avrebbe chiesto conferma: “Sono io?” Avrebbe chiesto. E se John avesse potuto ascoltare la domanda, avrebbe risposto “Si, sei sempre stato tu”. Ma non potevano parlarsi, non potevano capirsi con un solo sguardo, non potevano sapere che, se potesse succedere, si sarebbero potuti amare anche lì, in quell’istante. Continuarono a guardarsi anche mentre Mary continuava a parlare di come lo aveva convinto ad uscire con lei, anche mentre lei gli toccava il braccio cercando di attirare la sua attenzione.

Continuarono a guardarsi fino a che Sherlock non ci riuscì più.

“Devo andare” esordì, alzandosi all’improvviso. La coppia lo guardò confusa. “Ehm… devo andare a fare una ricerca per un caso che mi ha appena dato Lestrade”

“Ma non abbiamo preso neanche un antipasto!” protestò la bionda. Sherlock quindi allungò una banconota da cento sterline sul tavolo. “La cena la offro io, buonasera” disse, e poi scappò prima che uno dei due potesse ribattere.

Sherlock non era mai stato codardo, no. Ma preferiva scappare piuttosto che farsi male, aveva preferito non far vedere il suo dolore, tenerselo per sé. Perché se John era felice lui non poteva fargli male, non poteva rovinare quello che lui stesso aveva causato. Ripensava a ciò che si erano detti sul balcone, mesi prima, e capì che se avesse detto si, se si fosse lasciato amare, se ci avesse provato, ora non starebbe così male. Perché non esiste un tasto reset per gli errori? Perché quando qualcosa si rompe non si può aggiustare?

Sentiva il suo cuore rompersi come una casa di lego* e la cosa che faceva più male era la consapevolezza che non poteva fare niente. Quindi corse, e corse, fino a che non tornò a casa.

Faceva male, eccome se lo faceva: era del tutto irrazionale, lo sapeva, ma si sentiva squarciato da dentro, come se avesse avuto una bomba al posto dello stomaco. Si stese sul suo letto e rimase lì, del tutto vestito, con le lacrime secche posate sulle sue guance. Restò lì per un tempo infinito, cercando di farsi passare quel dolore insostenibile.

Non sapeva che ore fossero quando John bussò alla sua finestra ed entrò senza aspettare una risposta.

“Sherlock” esordì, e il suo tono trasudava pietà in tutte le lettere del suo nome. Il diretto interessato non rispose e non si mosse.
“Sherlock” ripeté allora l’altro che, senza chiedere il permesso, accese l’abajour e si sedette accanto a lui sul letto.

“È stata bella la cena?” chiese il moro, alzandosi e sedendosi accanto a lui.

“Quale cena, Sherlock? Non c’è stata nessuna cena, ti ho seguito” rispose John, al che Sherlock aggrottò le sopracciglia.

“Ma non sei venuto subito” osservò.

“No, dovevo schiarirmi le idee, e ho allungato verso casa mia per prendere questo” e tirò fuori dalla tasca del suo giubbotto un cane di pezza, vecchio e senza una zampa.

“Barbarossa” sussurrò Sherlock. “L’hai portato con te”

“Certo che l’ho fatto, è una parte di te” rispose John, come se la cosa fosse scontata. In quei mesi di assenza in cui Sherlock era entrato nella stanza di John aveva notato tutto, tranne l’assenza del pupazzo dal comodino: aveva dedotto che si era portato poche cose, ma importanti, quello che serviva, perché il resto lo avrebbe comprato nuovo o sarebbe passato a prenderlo successivamente, aveva visto ogni passo che John aveva fatto prima di lasciare l’appartamento. Tutto, meno che quello. Perché c’è sempre qualcosa che manca all’appello.

“Io non capisco, John, hai lasciato Mary per farmi vedere Barbarossa? Perché non sei rimasta con lei?” chiese, voltandosi verso di lui. Il biondo lo stava già guardando da tempo, e i suoi occhi brillavano come le stelle dietro di lui. Tutto era esattamente come dieci anni prima: la sera, l’atmosfera, la vicinanza, la magia dell’aspettativa. Non sapeva bene cosa desiderare da quella conversazione, Sherlock, ma era sicuro di voler sapere i pensieri del suo amico, che lo guardava e lo confondeva con i suoi occhi luminosi, e il viso rilassato e sereno e Barbarossa tra le mani tenuto come un prezioso tesoro.

“Tu non c’eri” rispose “e non aveva senso rimanere lì, non aveva senso rimanere in un posto quando la cosa che più ti importa al mondo non c’è”

“Ma…Mary-“

“Lei lo sa, lo sapeva e mi aveva accettato così com’ero, con i miei sentimenti e con metà del mio cuore da offrire. Hai capito, Sherlock?”
Lui non rispose. Non sapeva che pensare. Era quello che voleva, giusto? Era quello per cui attendeva da dieci anni. E allora perché si sentiva così sbagliato nello stare accanto a lui? Perché sentiva di non meritarsi quell’amore che tanto aveva anelato?
“Sherlock?” ripeté John.

Sherlock lo guardò e, per la prima volta nella sua vita, spense il cervello senza l’aiuto delle droghe. Spense il cervello e annullò la già breve distanza tra di loro, coinvolgendolo in un breve bacio.

Breve non fu affatto, perché John ebbe la prontezza di rispondere: aspettava quel momento da troppo tempo e non voleva accontentarsi di un tocco superficiale. Per impedirgli di scappare gli avvolse le braccia intorno al collo, affondando le dita tra i suoi ricci, scompigliandoli più di quanto già non lo fossero. Sherlock sembrò apprezzare, perché gli avvolse la vita, avvicinandolo di più a sé, e gemette tra le sue labbra. Nonostante nessuno dei due fosse inesperto, quel bacio sapeva di ingenuo, sapeva di eccitazione per la scoperta, sapeva di novità assoluta. Era come se stessero riprendendo da quella notte di dieci anni prima, e se avessero riaperto gli occhi si sarebbero rivisti giovani e impauriti come quella prima volta.

John continuò ad accarezzare i capelli dell’altro anche mentre la mano destra gli scivolava sulla sua guancia, accarezzando il punto dove poco prima si erano fermate le lacrime. Il biondo avvertì la pelle secca e, con il pollice, rimosse i residui di tristezza dal suo viso: ora c’era solo John, davanti, attorno, dentro lui in un modo che Sherlock non riusciva a capire, perché non stavano facendo sesso, non stavano nemmeno pensando a quello, eppure John gli stava abitando dentro, con un solo bacio, con due labbra, una lingua e due mani che sembravano volerlo nascondere dal resto del mondo.

Uno schiocco osceno e bellissimo fu l’unico rumore a spezzare il silenzio, e quel bacio. Anche la mano sinistra di John andò ad avvolgere il volto di Sherlock, come per cullarlo, fargli capire che poteva aprire gli occhi, perché John sarebbe stato lì. E John c’era, più bello che mai, con le labbra rosse e gonfie di quel bacio tanto atteso. C’era, e aveva gli occhi appena socchiusi, il giusto per sbirciare la faccia del suo amante come fosse la cosa più segreta del mondo. C’era, e lo stringeva a sé, per fargli capire che era solo suo, che per dieci anni avrebbero potuto essere quello, quello e basta.

Il “Ti amo” scivolò fuori dalle labbra di John come l’acqua dalla sorgente, chiaro e limpido e fresco e sorprendente. E spaventoso come non mai, si disse Sherlock. Non rispose ma lo baciò di nuovo, e lo strinse a sé, incastrandosi perfettamente con lui, anche quando si sdraiarono sul letto e si addormentarono cullati dalla presenza dell’altro.

Quando John si svegliò era solo e fuori le nuvole avevano nascosto la luce del sole, rendendo buia la stanza di Sherlock. Non aveva idea di che ore fossero e nemmeno dove fosse finito Sherlock, sapeva solo che doveva andare al lavoro nel pomeriggio e che probabilmente era già in ritardo. Si alzò quindi di scatto, lasciando il pupazzo sul letto di Sherlock e prendendo il suo cappotto. Aveva deciso di rimandare il discorso con Sherlock e magari di parlare prima con Mary, con la quale aveva gli stessi turni.

La sera prima, dopo che Sherlock era scappato, neanche loro avevano cenato.

“John” aveva iniziato Mary “So che non stavi parlando della tua ex, quando ci siamo conosciuti”
Lui non era sorpreso, ma aveva comunque sospirato, abbassando il capo, sconfitto.
“In realtà penso che è da quando me ne hai parlato, che lo so. Si percepisce che c’è qualcosa tra voi due” aveva continuato, raccogliendo la mano di John tra le sue. John che intanto era rimasto in silenzio, non sapendo cosa dire.
“Tu lo ami” aveva detto, sorridendo sconsolata “e anche lui ti ama. Devi andare da lui” ed era stato in quel momento che John aveva alzato la testa di scatto, guardandola con occhi lucidi.

“Mi dispiace così tanto” aveva sussurrato “non volevo farti del male. Tu mi piaci sul serio”

Mary aveva riso. “Lo so. Io ti piaccio, e anche questo si vede. Ma ami lui, e mi va bene. Sei stato i due mesi più belli della mia vita, John Watson, ora vai” e John aveva corso, e corso, e corso.

Anche quella mattina stava correndo, perché doveva attaccare a lavoro entro un’ora e il tragitto verso la clinica era molto lungo. Arrivò per il rotto della cuffia, sudato e con i vestiti del giorno prima. Quando Mary lo vide, così trasandato, le venne da ridere.

“Suppongo sia andata bene” esclamò divertita. John raggiunse il suo armadietto e indossò il camice.

“Ci siamo baciati” confessò sorridendo, e Mary tirò un urletto acuto. “Solo che…” e smise di sorridere.
“Solo che?” lo incalzò lei.

“Gli ho detto di amarlo, e lui non mi ha risposto. Abbiamo dormito insieme, ma quando mi sono svegliato lui non c’era” disse sconsolato, passandosi le mani sul viso.

Mary gli si avvicinò: fino al giorno prima lo avrebbe baciato, perché era il suo ragazzo, perché gli voleva bene anche se non lo amava, ma John era affranto per un’altra persona, per qualcuno che non era lei, e la cosa più assurda è che neanche gli dava fastidio.
“Forse l’hai spaventato, come il tizio di quella serie che abbiamo iniziato a vedere insieme*. Parlaci oggi, spiegati, vedi di convincerlo. Penso che anche lui stia aspettando come te” John annuì.

Quando staccò da lavoro era buio e pioveva forte. Aveva dimenticato l’ombrello a casa, vicino alla clinica, ma aveva l’impellente bisogno di risolvere le cose con Sherlock, quindi ignorò la pioggia e si incamminò verso casa di suo padre. Il tempo al lavoro gli aveva concesso di pensare profondamente a quello che si erano detti e, soprattutto, a quello che lui aveva confessato: qualche mese prima gli aveva detto che lui era pronto ad amarlo e durante il tempo passato insieme aveva capito che lo stava già facendo, ma Sherlock? Come si sentiva lui? Mary gli aveva detto che anche lui ricambiava, ma era davvero così? In fondo era pur sempre il bambino strano che disturbava i vicini, l’uomo fin troppo intelligente che aveva perso tutto a causa della droga, la persona che deduce la tua vita con uno sguardo. Era stato davvero tanto necessario, dirgli di amarlo, se tanto lo avrebbe capito con un tocco? Dall’altra parte era stato lui a baciarlo, lui a volerlo, anche se John lo aveva poi trattenuto. Ma questo voleva dire che lo amava? Sherlock era scappato tante volte, davanti a John: dopo quel primo bacio adolescenziale, dopo essersi visti, al funerale di suo padre, dopo quel giorno sul balcone, quando John gli aveva messo in mano il cuore, e ora quella notte, dopo un altro bacio dato a distanza di dieci anni. Cosa avrebbe detto Sherlock? Cosa sarebbe successo?

Talmente immerso nei suoi pensieri e nelle sue paranoie, John non si accorse di essere arrivato all’ingresso della via, completamente zuppo. Davanti casa sua, Sherlock era appena uscito di casa, l’ombrello in mano e l’aria di uno che voleva andare il più lontano possibile. John lo vide allontanarsi ed ebbe come l’impressione che, se non lo avesse fermato, non lo avrebbe più visto.

Urlò il suo nome quindi, cominciando ad avvicinarsi. Il moro, giratosi prima verso di lui e poi dalla parte opposta, accelerò il passo.

“Sherlock, aspetta” insistette John, ma questi non voleva ascoltarlo, anzi prese quasi a correre. Il biondo sapeva che non avrebbe potuto raggiungerlo, ma era altrettanto sicuro che Sherlock non volesse davvero scappare da lui, quindi corse, e corse, fino a trovarsi a pochi metri di distanza da lui.

Sotto la pioggia la disperazione e i rumori si attutiscono, le lacrime si nascondono, ma John si sentiva più nudo che mai, lì in mezzo alla strada.

“Fermati, cazzo!” gridò disperandosi, portandosi le mani al petto come se volesse fermare il suo cuore dallo scappare. “Codardo” sussurrò poi, allo stremo. Funzionò, perché Sherlock smise di camminare, e si voltò verso di lui.

La pioggia copre parecchie cose: distrugge le prove, le porta via, le lava e le rende inutili. Ma per qualche assurdo paradosso dell’universo, John poteva vedere lo splendore delle lacrime di Sherlock scendere dalle sue guance. L’ombrello venne dimenticato a terra e quasi subito i capelli del moro gli andarono a coprire il viso.

“Non chiamarmi così” sussurrò Sherlock, puntandogli il dito contro.
“E come dovrei chiamarti?” John allargò le braccia, sentendo il tessuto pesante di pioggia spingerle verso il basso. “Stai scappando da me, di nuovo, non è vero?”

“Non è scappare” corresse l’altro
“E come lo vuoi chiamare? Io non trovo altro termine, e la cosa che non capisco davvero è il perché. Perché scappi da me, Sherlock?”
“Io-“ non riusciva a trovare le parole.

“Se non mi ami” intervenne allora John, con la voce rotta dalla disperazione “come io amo te, non scappare, perché preferisco sopportare di non amarti piuttosto che vederti andare via”

Sherlock non disse niente, e il biondo continuò.

“Tu non capisci, che prima di essere l’uomo che amo da dieci anni, tu sei il mio migliore amico, la mia persona, il bambino che mi ha aiutato in matematica nonostante le cose che facevo io erano più difficili delle tue. Resti quel ragazzino che suonava il violino solo per farmi addormentare e che smetteva non appena ci riuscivo; sei la persona che mi portava in giro in cerca di avventura, e che mi costringeva a giocare ai pirati per non annoiarti, anche quando io ero impegnato” un singhiozzo sommesso raggiunse le orecchie di John. “Sei lo stesso Sherlock -si avvicinò lentamente- che è stato il mio primo bacio, la mia prima cotta, il mio unico amore e l’unico ragazzo che io potrò mai amare. Se non provi lo stesso per me, ma mi vuoi comunque bene, non andartene” lo supplicò, arrivando a un soffio da lui.

“Ma è questo il problema, John” rispose l’altro in un sussurro. “Io ti amo”
E per un attimo il grigio attorno a loro si dissipò
“Ma io non posso stare con te” e il nero li inghiottì.

John deglutì a vuoto, allontanandosi da lui e rivolgendogli uno sguardo confuso.
“Tu pensi di amarmi, ma non è così. Io non posso essere amato” affermò serio il moro.
L’altro allora, dopo un attimo di silenzio, scoppiò a ridere, ma era una risata vuota, priva di divertimento.

“Sei un idiota” lo freddò. Poi, in un attimo, gli era addosso, aggrappandosi a lui con tutto sé stesso*. Le mani si poggiarono dietro la sua schiena, al cappotto ruvido che gli faceva venire prurito alle mani, ma non si staccò. Petto contro petto, respiro contro respiro, Sherlock non si mosse, ma neanche si allontanò.

“Cosa stai provando, Sherlock?” chiese John, direttamente sulle sue labbra.

“Io… provo caldo, ed è strano, perché sta diluviando e noi siamo senza ombrello. Non è razionale, ma so che sei tu che mi fai sentire così. E il mio cuore, batte alla velocità di 124 battiti al minuto, quaranta battiti in più rispetto al normale. E il tuo profumo mischiato alla pioggia mia fa sentire sotto effetto di droga, sono stordito. E i tuoi occhi non li ho mai visti così: ho registrato ogni tuo colore, ogni tua espressione ma questa è nuova. E io so cos’è, ma non lo posso accettare, non ha senso”

“Ma non deve avere senso” rispose pronto John.

“Tutto ha un senso. In chimica ogni cosa è al suo posto”

“Ma io non sono chimica, io sono John, e sono qui, e ti dico che ti amo. E tu sei qui, e mi dici che mi ami. Lo sai fare 2+2? Perché questo basta, Sherlock, basta per noi”

Sherlock sembrò valutare la sentenza matematica, cercare di risolverlo come la più importante delle equazioni, poi annuì leggermente, e sussurrò “Okay”

“Ha senso, ora?” chiese John

“No, ma penso di poterci lavorare su” rispose Sherlock.

La pioggia cadeva su di loro come lacrime di madre natura. Perché piange? Perché assiste alla creazione del caos e alla creazione dell’amore. Ma è davvero madre natura, o è semplicemente Violet Holmes che, da lontano, guarda suo figlio aprire il cuore all’unica persona che lo abbia mai meritato?

“Cara” la chiamò Siger “dovresti tornare dentro” ma Violet lo tirò fuori accanto a lei, sotto la tettoia di casa loro.

“Guardali, Sig, non sono bellissimi?” singhiozzò emozionata nel vedere suo figlio baciare John Watson sotto la pioggia.

“Non stavano già insieme?” rispose invece il marito, confuso. La donna si girò verso di lui e lo spintonò leggermente, per poi scoppiare in una leggera risata.
In effetti si, forse erano stati insieme da sempre senza dirselo. Forse i loro cuori si erano riconosciuti tanto tempo prima ma, bloccati dalla Fortuna* e dalla mente, non avevano potuto stare insieme.

Forse, ma sta di fatto che lì, in mezzo a quella strada, sotto la pioggia, dopo dieci anni, hanno raccolto i loro pezzi e ci hanno costruito una casa*
 
And out of all these things I’ve done, I will love you better now
 
 
Note:
*citazione a Notting Hill, la scena nella libreria
*citazione alla canzone Lego House
*Riferimento a Ted Mosby di How I Met Your Mother
*la scena della pioggia è ripresa in parte da una scena della terza stagione di Skam Italia e in parte dal finale del film “Il lato positivo”
*La fortuna qui è intesa nel senso medievale del termine, come qualcosa che può far bene ma può far male, e in genere si contrappone tra l’amante e l’amata
*traduzione del primo verso della canzone

La prima e l’ultima frase, quelle in corsivo, sono la prima e l’ultima frase della canzone.


 
N.d.A. Bene, sono riuscita finire anche questa storia, e questa volta senza far riferimento a Bojack Horseman. L’ispirazione, oltre che dalla canzone che se non conoscete siete dei folli (soprattutto il video, in cui c’è Rupert Grint che fa lo stalker di Ed Sheeran), l’ho avuta anche dal mio confort show Alexa&Katie (dove loro sono vicine di casa e migliori amiche) e dal film “Love, Rosie”, tradotto brutalmente in italiano con #ScrivimiAncora, e che è la classica storia persona giusta momento sbagliato. Spero che vi piaccia e, se vi va, lasciatemi una recensione!
-A
   
 
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