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Autore: AveAtqueVale    08/09/2021    4 recensioni
Alexander Lightwood è un giovane uomo di ventitré anni costretto dai suoi genitori a frequentare, settimanalmente, un noto psicologo che in qualche modo gli capovolgerà l'esistenza.
Magnus Bane è un brillante e ricercato psicologo incapace di affezionarsi ai propri pazienti -per lui semplici casi da comprendere e rimettere in sesto come fossero puzzle da ricostruire- che si ritroverà ad avere Alexander in cura, ritrovandosi spiazzato dalle loro stesse sedute.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Magnus Bane, Maryse Lightwood, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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«Alexander?» aveva risposto Magnus col cuore in gola, un’improvvisa tensione a calargli sulle spalle.
Il ragazzo aveva passato settimane ad ignorarlo ed evitarlo e persino il giorno precedente, faccia a faccia, era scappato via da lui senza il coraggio di guardarlo in faccia. Il fatto che adesso lo stesse chiamando così all’improvviso lo impensierì: che fosse successo qualcosa?
Catarina, di fronte a lui, sgranò gli occhi al sentire quell’unica parola e schiuse le labbra altrettanto sorpresa.
«No, sono l’agente Derek Smith, polizia di New York.» rispose la voce sconosciuta dall’altro capo del telefono. Un brivido corse lungo la schiena dello psicologo mentre il sangue defluiva rapido dal suo viso pallido.
«P-polizia?» balbettò Magnus, stordito, con la bocca improvvisamente asciutta rivolgendo a Catarina uno sguardo ricco di preoccupazione.
La ragazza si portò una mano alle labbra d’istinto, stupita tanto quanto lui, incapace di dire qualsiasi cosa.
«Sì ma non si preoccupi, non è successo niente di grave.» chiarì subito l’agente strappando un profondo sospiro di sollievo al ragazzo. Il fatto che avesse esordito così lasciava intendere innanzitutto che fosse vivo, in secondo luogo che non fosse -probabilmente- in ospedale e terzo che non fosse stato arrestato. Tuttavia lasciava comunque un sacco di domande nella mente dello psicologo: perché c’era la polizia con lui? Perché -soprattutto- avevano chiamato proprio lui? Era stato Alexander a deciderlo? A chiederglielo? Tutti questi pensieri vorticarono rapidi nella sua mente nel giro d’un istante. «Chiamo per chiederle se può passare alla centrale per prendere il ragazzo, Alexander Lightwood? Al momento non è in condizione di andarsene da solo.»
Le sopracciglia di Magnus si aggrottarono mentre, boccheggiando totalmente impreparato, si alzava dalla sedia con sguardo disorientato. «Uh-certo, arrivo subito. Ma cos’è successo? Sta bene?» chiese preoccupato dalle ultime parole del poliziotto: cosa voleva dire che non poteva andarsene da solo, esattamente?
Catarina, di riflesso, si alzò a sua volta affrettandosi ad estrarre dal proprio portafogli la somma dovuta per il conto. Fermò sotto il porta-tovaglioli una banconota e pochi centesimi recuperando dallo schienale della sedia la sua borsa.
«Sì, sì non si preoccupi, è solo ubriaco
Magnus rimase un attimo in silenzio mentre quelle parole affondavano nella sua mente. Ricordava perfettamente tutte le cose di cui avevano parlato fino a quel momento, soprattutto le cose che il ragazzo gli aveva detto durante le loro sedute: quella volta in cui avevano giocato ad “hai mai…?” Alexander gli aveva detto di non essersi mai ubriacato o, in ogni caso, di non aver mai bevuto abbastanza da andarci anche solo lontanamente vicino. Il fatto che adesso fosse stato chiamato da un agente di polizia perché fosse così sbronzo da non poter tornare a casa in tranquillità lo preoccupava enormemente.
«…Pronto?»
La voce dell’uomo fece riscuotere Magnus dai suoi pensieri portandolo ad annuire istintivamente contro l’apparecchio telefonico, l’altra mano a grattare distrattamente un punto impreciso in mezzo alla fronte.
«Sì, sì, mi scusi.» rispose lo psicologo umettandosi le labbra secche dal freddo, deglutendo nervosamente il groppo fermatosi in gola. «Allora arrivo subito.»
Non appena chiuse la telefonata Catarina gli si fece vicino con le chiavi dell’auto strette in pugno.
«Magnus, cos’è successo? Alexander sta bene?» s’informò subito la ragazza dato che da quel che aveva potuto sentire sapeva solo che in qualche modo c’entrava la polizia.
L’uomo annuì rapido e meccanico mentre sgusciava fra i tavoli per raggiungere il marciapiede ed incamminarsi a passo svelto, subito seguito dall’amica.
«Uh-sì, credo di sì.» spiegò con la testa improvvisamente vuota, ovattata, un unico pensiero a guidare le sue gambe. «Non ho capito bene, un agente di polizia mi ha chiesto di andare a prenderlo dalla centrale perché è ubriaco e non si fida a lasciarlo andare da solo» riassunse quel che anche lui sapeva mentre la ragazza, afferrandolo per il polso, lo intimava a fermarsi.
Magnus si voltò verso di lei con sguardo confuso, un’occhiata interrogativa a volare fra la sua mano ed il suo viso.
«Calmati un attimo!» esclamò lei piazzandosi di fronte a lui e ponendogli le mani sulle spalle. «Se ti vedono arrivare più sconvolto di quanto non lo sia lui dubito che faresti un favore a qualcuno. Respira.» gli intimò con la sua voce ferma e razionale, guardandolo dritto negli occhi.
Magnus avrebbe voluto protestare e dirle che non c’era tempo ma sapeva che dopotutto aveva ragione. Se Alexander si era ficcato in qualche tipo di guaio aveva bisogno che almeno lui fosse abbastanza lucido da poterlo aiutare. Mostrarsi così agitato avrebbe potuto solo complicare ulteriormente le cose. Dopotutto, si ripeté, l’agente sembrava abbastanza tranquillo al telefono e gli aveva detto che non c’era nulla di cui preoccuparsi.
Inspirando a fondo, sotto consiglio di Catarina, Magnus sentì poco a poco la mente schiarirsi, i pensieri riordinarsi. Il suo cuore continuava a battere agitato, non era certo di potersi calmare del tutto, ma almeno si sentiva più lucido dopo un paio di profondi respiri.
Quando Catarina lo vide con uno sguardo più calmo e controllato scostò le mani dalle sue spalle e fece dondolare le chiavi della sua macchina davanti al suo viso.
«Andiamo, ti accompagno.»
Annuendo il silenzio Magnus seguì Catarina fin sotto il loft dove la ragazza aveva parcheggiato al suo arrivo. Come sempre la sua auto era perfettamente ordinata e odorava di pulito. Una bassa musica rock accompagnò i due nel loro breve viaggio riempiendo il silenzio che colmava l’abitacolo; Magnus era troppo preso a pensare a cosa poteva essere successo per scatenare una simile situazione e con quale faccia avrebbe dovuto affrontare Alexander una volta incontrato. La ragazza, dal canto suo, sapeva che in quel momento non c’era molto che potesse dire o chiedere e perciò preferì tacere limitandosi a fare l’unica cosa che poteva.
Quando l’auto si fermò accostando il marciapiede opposto alla centrale, Magnus si riscosse rivolgendo un’occhiata tesa al palazzo.
«Vuoi che venga con te?» si offrì Catarina mentre spegneva il motore e tirava la leva del freno a mano. Sapeva che la ragazza voleva cercare di fare qualsiasi cosa per aiutarlo, ma sentiva che quella era una cosa che doveva fare da solo.
«Grazie Catarina ma è meglio di no» le sorrise gentile il ragazzo poggiandole una mano sul braccio con fare affettuoso. «Se ho capito qualcosa di lui allora penso che dopo il vostro ultimo incontro abbia un po’ paura di te adesso»
Non voleva ferirla con le sue parole ma era fermamente convinto di questo.
L’ultima volta Catarina gli aveva detto chiaro e tondo di prendere le distanze, gli aveva detto che lo stava ferendo e che avrebbe dovuto allontanarsi da lui.
Immaginava che se l’avesse incontrata nuovamente avrebbe temuto che la ragazza potesse solo dire qualcos’altro di simile e decisamente non era il caso di spaventarlo ulteriormente.
Catarina comprese e annuendo solo una volta sospirò mortificata abbandonandosi contro lo schienale del sedile. Magnus rilasciò una profonda boccata d’aria e, con un’ultima occhiata all’amica, uscì dall’auto affrontando la gelida aria serale.
 
 
Alec sentì il proprio cuore affondargli nel petto, lo sentiva come un macigno privo di vita eppure al tempo stesso sentiva i battiti accelerati pulsare nei polsi, nelle tempie e nelle orecchie. Osservava la figura di Magnus parlare con l’agente Smith e sentiva la bocca inaridirsi, una nausea improvvisa salirgli alla gola. Perché era lì? Chi lo aveva chiamato? Dubitava che fosse solo una straordinaria coincidenza, che fosse lì per qualsiasi altra faccenda, sentiva che era lì per lui.
L’osservò stralunato ricalcando i contorni del lungo cappotto nero, delle punte ordinate dei suoi capelli e delle dita affusolate cariche di anelli sentendo sorgere dentro di sé il primitivo istinto della fuga. Immaginava però non fosse esattamente saggio o possibile dileguarsi da una centrale di polizia, soprattutto non quando avevi delle vistose e strette manette ancora attorno ai polsi. Aveva tentato di sfilare le mani un paio di volte, per istinto, scoprendo quanto fosse dolorosa la sensazione del metallo che scavava nella carne.
Deglutendo vide i due separarsi; Magnus si voltò poggiandosi contro il bancone posto vicino l’entrata dell’edificio e parlò con l’agente dentro la cabina che gli allungò una serie di fogli e moduli da compilare, l’altro venne dritto verso di lui sistemandosi la cintura da cui pendeva la fondina con la pistola. Alec non poté fare a meno di lanciare un’occhiata fugace all’arma, quasi a volersi assicurare che non fosse sul punto di essere estratta.
«Allora» esordì l’agente fermandosi di fronte a lui, guardandolo dall’alto della sua posizione con sguardo calmo. «Il signor Trevis non ha sporto denuncia e visto che si è trattata di una lite tutto sommato innocente sei libero di andare.» proseguì l’uomo mentre recuperava da una tasca della sua divisa una piccola chiave di ferro.
Alec rimase ad osservarlo confuso per un istante mentre sollevava i polsi così da porgergli le manette. «Che vuol dire innocente?» domandò, non immaginando in che modo un’aggressione ai danni di un altro individuo potesse essere definita innocente.
Il poliziotto sorrise della sua ingenuità e, infilando la chiave nel suo alloggio, lo liberò della morsa tagliente del metallo.
«Beh, nessuno dei due aveva propriamente l’intento di far del male all’altro, vi siete provocati a vicenda.» spiegò l’uomo recuperando le manette e appendendole al loro posto alla sua cintura. «Non che questo renda giusto quello che avete fatto, sia chiaro, ma se dovessimo arrestare tutti quelli che finiscono in una scazzottata da bar non ci basterebbero le celle o le manette.» sorrise comprensivo alla volta del ragazzo che, comprendendo, annuì una volta soltanto mentre si massaggiava distrattamente i polsi.
Proprio allora Magnus si avvicinò con aria evidentemente incerta.
L’osservava con esitazione e, per un certo senso, ad Alec fece venire in mente quella volta in cui, da bambino, venne preso da scuola da sua madre per una febbre improvvisa. Maryse era arrivata in tutta fretta, stretta nel suo soprabito, con la stessa aria preoccupata e affrettata che aveva adesso Magnus in viso, il bisogno di portar via il suo bambino da lì per tenerlo ben caldo e protetto nel suo letto in piena mostra sul viso.
Il pensiero gli fece stringere il cuore e abbassare il capo.
«Bene. Ho capito.» si ritrovò allora a mormorare rivolgendosi all’agente Smith mentre si alzava in piedi infilando le mani nelle tasche del suo giaccone con ostinazione. «Grazie e—mi scusi. Per—per tutto.» borbottò imbarazzato sentendo l’uomo dargli un paio di pacche sulla spalla.
«Via via ragazzo, non è successo niente.» cercò di calmarlo con tono gentile restituendogli a quel punto il cellulare. «Ricordati solo di non bere così tanto la prossima volta, d’accordo?»
Nonostante Alec sapesse che l’uomo voleva solo essere gentile, sapere che Magnus avesse appena sentito gli fece venir voglia di sotterrarsi.
Cosa avrebbe pensato di lui? Quanto lo aveva deluso in quel momento?
Non voleva nemmeno pensarci, non ce la faceva. In parte gli mancavano le forze mentali per farlo, in parte era già abbastanza occupato a sopportare il dolore pulsante che provava alla testa.
Annuì in silenzio, col capo ancora chino e, avvertendo la gentile pressione della mano di Magnus sulla spalla, lasciò che il maggiore lo guidasse verso l’esterno mentre infilava il telefono nella tasca del proprio giubbotto.
Il suo primo istinto fu quello di scrollar via quella mano dati i recenti risvolti nel loro rapporto, ma al tempo stesso sentiva che quello non fosse il luogo per dar mostra a certi tipo di comportamento.
Seguì quindi il suo ex psicologo fino ai piedi della scalinata davanti alla centrale e accolse grato la sensazione dell’aria fredda sulla pelle: era quasi un dono per il dolore vibrante che si propagava sotto tutto il viso partendo dal naso. Inoltre sembrava che lo aiutasse a schiarire i pensieri ancora leggermente ovattati sebbene fosse piuttosto sicuro di non essere più sbronzo.
«Stai bene?» domandò d’un tratto Magnus volgendo il capo verso di lui. «Ce la fai a camminare o preferisci chiamare un taxi? Casa mia non è troppo lontana.» aggiunse senza mai lasciar andare la presa sulla sua spalla.
Alec s’irrigidì di colpo e, fermandosi, si scostò dal suo contatto con un enorme sforzo di volontà. «N-no, non serve. Io—devo tornare a casa.» biascicò nervoso sentendo ogni terminazione nervosa del suo corpo gridargli di andarsene il più lontano possibile da lui. In realtà non aveva molta voglia di tornare a casa, probabilmente avrebbe continuato a girare per strada a vuoto per tutta la notte fino a che non fosse stato sicuro che fossero andati tutti a dormire ma di certo non sarebbe andato a casa sua. Il cellulare squillò nella sua tasca e, senza nemmeno estrarlo, rifiutò la chiamata in arrivo immaginando che fosse Jace oppure Isabelle. Di nuovo.
Non aveva il coraggio di alzare lo sguardo ma sapeva che Magnus doveva starlo guardando, gli sembrava di poter sentire il peso dei suoi occhi addosso.
«Alexander…»
«Davvero, sto bene.» disse schiarendosi la gola, lo sguardo basso nell’ostinato tentativo di non incrociare quello dell’altro. «Posso camminare da solo, non serve che tu—»
Che lui? Non sapeva bene nemmeno lui cosa dire. Per l’amor del cielo, non sapeva nemmeno perché lui fosse lì!
Fu solo allora che sentì Magnus gettar fuori una boccata d’aria in qualcosa di simile ad uno sbuffo. Non lo aveva mai sentito sbuffare prima e si chiese se per caso si stesse annoiando di quel continuo infruttuoso rincorrerlo. Lo avrebbe capito, sarebbe stato normale. Ed in realtà era quello a cui mirava quando aveva deciso di bloccarlo ed evitarlo no?
Eppure… eppure la sola idea di un Magnus stufo di cercare di parlargli lo terrorizzava. Egoisticamente aveva trovato un dolceamaro conforto nei tentativi dell’altro di raggiungerlo. Anche se gli faceva male vedere i suoi messaggi o le sue chiamate senza potergli rispondere, anche se era doloroso incontrarlo e sentire di dovergli stare lontano, provava comunque un sottile piacere all’idea che l’altro non avesse ancora gettato la spugna con lui. La cosa lo faceva sentire terribilmente in colpa: sicuramente per Magnus non c’era alcun tipo di sollievo in quella situazione.
Il telefono squillò di nuovo e, ancora, Alec lo spense senza nemmeno guardarlo.
«Davvero? Puoi camminare da solo?» La voce di Magnus suonò diversa questa volta. Se fino a quel momento, da dopo il suo compleanno, era stata esitante, bassa e quasi implorante, adesso era ferma e decisa, quasi distaccata. Gli ricordò il modo in cui era solito parlargli quando ancora usava andare nel suo studio. «E per andare dove, esattamente?»
A quella domanda Alec sollevò lo sguardo con fare confuso.
Non capiva esattamente cosa intendesse: possibile che lo capisse abbastanza bene da sapere che non aveva davvero voglia di tornare a casa?
«N-non… non capisco cosa intendi dire» rispose l’altro, incerto, aggrottando confusamente le sopracciglia. Il movimento accentuò per un istante il dolore pulsante che provava in mezzo agli occhi ma tentò di non farci caso.
«Intendo dire che puzzi, Alec. Potrei dirti quello che hai bevuto da un isolato di distanza e la tua faccia è tutta sporca di sangue. Vorresti davvero spiegare a tua madre cos’è successo?»
A quello, decisamente, non aveva pensato.
Non poteva davvero tornare a casa in quelle condizioni così come non sarebbe stato il caso di girare per la città con la faccia insanguinata. Si ritrovò a fissarlo a corto di parole: non era mai stato bravo a trovare una risposta quando non ne aveva una. Jace era quello con la risposta sempre pronta, anche quando aveva torto marcio sapeva rifilarti una qualche spiegazione plausibile che ti portava quasi a pensare avesse ragione. Ma lui, Alec, era sempre stato troppo trasparente, troppo onesto per riuscirci.
Dopo un lungo attimo di scomodo silenzio Magnus si umettò le labbra.
«Come immaginavo.» disse con tono calmo e controllato continuando a sostenere lo sguardo perso del ragazzo. «Andiamo Alexander, pensi davvero che potrei farti del male? Voglio solo darti una mano a riprenderti e quando starai meglio sarai libero di tornare a casa. E’ così irragionevole?»
Come poteva rifiutare quando gli aveva posto la situazione a quel modo?
Quale logica e razionale spiegazione avrebbe potuto dare all’istinto che, dentro di lui, gli stava urlando di voltarsi e scappare?
Lo fissò compunto per diversi secondi cercando disperatamente una risposta che potesse salvarlo da quella situazione; più rimaneva lì sotto il suo sguardo, più sentiva di star perdendo quella battaglia. Alla fine, capitolando, scosse sconfitto il capo e si arrese.
«Bene» espirò quindi il più grande. «Allora andiamo».
 
 
*
 
 
La camminata verso il loft fu lenta e silenziosa.
Nessuno dei due disse una parola ma per lo meno sembrava che Alexander non fosse intenzionato a scappare alla sua prima svista. Adesso che il ragazzo era lì, al suo fianco, Magnus si sentiva decisamente più tranquillo ma una miriade di pensieri e preoccupazioni continuavano ugualmente a vorticare nella sua testa.
Non sapeva cosa lo avesse spinto a bere in modo tanto irresponsabile, né aveva idea del motivo per cui continuasse a rifiutare le chiamate che, a intervalli irregolari, continuavano ad arrivargli. Che fosse successo qualcosa a casa? Che fosse uscito senza avvisare nessuno e fossero tutti giustamente preoccupati? C’erano troppe possibili spiegazioni e l’unico che avrebbe potuto dargli una risposta certa non aveva voglia di parlargli. Per questo Magnus preferì non dire nulla mentre erano per strada; sarebbe stato facile per Alexander, in un momento di panico, semplicemente voltarsi e correre via finendo col commettere chissà quale altra sciocchezza. Avrebbe atteso di essere da soli, a casa, e che lui si sentisse un po’ meglio per parlargli. Per quanto Magnus non volesse metterlo in difficoltà o costringerlo a fare nulla che non volesse, aveva anche bisogno di sbrogliare quella delicata situazione fra loro. Alexander aveva bisogno di lui e fino a che si fosse ostinato a non parlargli le cose sarebbero andate sempre peggio. Aveva bisogno di una guida, di qualcuno che potesse indicargli cosa fare per stare meglio e quella persona era lui. Magnus sentiva che doveva essere lui. Nessun altro.
Quando varcarono la soglia del portone una strana elettricità sembrò avvolgerli e Magnus sentì i corti capelli sulla nuca rizzarsi in un istante. Pensò dovesse trattarsi del brusco cambio di temperatura fra il gelo esterno e il calore dell’atrio del palazzo e scartò la questione senza darci troppo peso. Anche Alexander sembrò farsi più stretto nel proprio giaccone e quando i loro sguardi s’incontrarono lo vide girare rapidamente la testa.
Espirando in silenzio il maggiore fece strada verso le scale e si assicurò che il ragazzo lo stesse seguendo. Per fortuna sembrava che avesse davvero accettato di essere lì e lo vide salire i gradini con passo lento e stanco.
Non appena aprì la porta di casa, un vivace miagolio lo accolse dalla soglia. Presidente Meow doveva essere accorso non appena udito il suono della chiave nella serratura. Miagolando passò oltre le gambe di Magnus e andò a strusciarsi contro le gambe di Alexander.
Magnus lo fissò a bocca aperta prima di portare le mani sui fianchi.
«Ma tu guarda che disgraziato!» sbottò d’istinto vedendolo fare le fusa col suo adorabile musetto al ragazzo accanto a sé.
Alexander, dal canto suo, l’osservò sorpreso per un istante prima di aprirsi nel primo vero sorriso che gli avesse visto in volto da settimane. Si chinò per prenderlo in braccio ed il micio non oppose alcuna resistenza andando, anzi, ad accoccolarsi contro il suo petto come alla ricerca di calore.
Magnus osservò la scena in silenzio lasciando entrare Alexander in casa e chiuse la porta dietro di loro. Il ragazzo andò a sedersi sul divano su cui si era seduto già la prima volta che era stato lì e continuò ad accarezzare il gatto in silenzio concentrando su di lui tutta la propria attenzione.
Immaginò che il non vederlo tentare di darsela a gambe levate all’istante fosse un buon segno, che vederlo muoversi dentro casa sua in relativa calma e scioltezza dovesse significare qualcosa e decise di lasciargli un po’ di tempo per abituarsi alla situazione. Si sfilò il cappotto, alzò leggermente la temperatura del termostato e si cambiò le scarpe così da poter infilare i piedi nelle sue morbidissime e caldissime ciabatte colorate. In bagno Magnus si guardò per un istante allo specchio rilasciando il respiro che sentiva di aver trattenuto da quando aveva messo piede in centrale quella sera. Inspirò ed espirò ad intervalli regolari per pochi minuti prima di annuire silenziosamente fra sé e sé e recuperare dal mobiletto lì accanto un blister di analgesici.
Tornò in soggiorno e l’attraversò per raggiungere la zona cucina dove recuperò un bicchiere pulito e lo riempì d’acqua. Poggiò il tutto sull’isola alle sue spalle così da poter liberamente afferrare dal congelatore una busta di piselli congelati che lo fece istantaneamente rabbrividire.
«Queste ti aiuteranno per il dolore» ruppe il silenzio nella zona giorno avvicinandosi al divano con il blister di pillole allungato verso il ragazzo. «Questa per la sbronza» continuò poggiando il bicchiere d’acqua sul tavolino davanti a lui «E questa per i lividi» terminò indicando per ultima la busta di piselli nella sua mano.
Alexander l’osservò in silenzio per un istante schiudendo leggermente le labbra.
Presidente Meow sembrò come percepire il gelo emanato dalla busta gocciolante fra le dita del padrone e schizzò via dalla stanza per andare, probabilmente, ad accomodarsi ai piedi del letto di Magnus.
Il ragazzo sembrò quasi andare nel panico quando si ritrovò realmente solo assieme allo psicologo e, a testa bassa, afferrò i farmaci offertigli con fare grato.
«Grazie» bofonchiò deglutendo sotto lo sguardo attento dell’altro.
Magnus non disse niente lasciandogli tutto quel che gli aveva portato per raggiungere nuovamente il bagno. Lì recuperò un asciugamano pulito e ne inumidì un angolo con dell’acqua tiepida. Quando tornò da Alexander lo vide svuotare il bicchiere, il blister manco di una delle sue pillole sul tavolino.
Facendosi forza si sedette sul divano accanto a lui, a pochi centimetri di distanza e fissò lo sguardo sul ragazzo.
«Alza il viso.» gli disse serio.
Alexander sollevò il capo per istinto e lo guardò confuso, quasi preoccupato.
Magnus allungò l’asciugamano all’istante cogliendo l’attimo e tamponò delicatamente l’angolo umido della salvietta sulla sua pelle macchiata di sangue, vicino le labbra.
Il ragazzo sussultò trattenendo un lamento portando l’uomo a sorridergli mestamente.
«Scusa» disse subito con tono morbido, sottile, continuando a far scorrere gentilmente l’asciugamano sul suo viso. «Sembri uscito da un film dell’orrore» tentò di ironizzare.
Alexander non sembrò ribellarsi ma non sembrava nemmeno esattamente a suo agio.
Lasciò che Magnus si prendesse cura di lui in silenzio senza mai incrociare il suo sguardo.
Quando tutto il sangue fu lavato via dalla sua faccia, lo psicologo ripose l’asciugamano sul tavolino temendo che se si fosse allontanato in quel momento, non avrebbe più avuto un’occasione per poterglisi sedere vicino senza farlo scappare.
Sapeva che era giunto il momento di affrontare la questione.
Che non aveva senso temporeggiare oltre, che non poteva semplicemente non farlo.
«Alexander…»
Non appena ebbe pronunciato quella parola poté sentire il suo corpo irrigidirsi accanto al proprio.
«…per quello che è successo il giorno del mio compleanno…»
Esattamente come si aspettava, il ragazzo si alzò rapidamente in piedi voltandogli istintivamente le spalle per mettere fra loro una solida e decisa distanza. Non tanto fisica quanto più emotiva e mentale.
«No. Non c’è niente da dire in proposito. Per favore
Ma questa volta Magnus non si sarebbe piegato alle richieste di Alexander. Questa volta c’era bisogno che ascoltasse, che non fuggisse in preda alla paura senza prima aver compreso.
«Niente da dire?» domandò lo psicologo senza smuoversi d’un millimetro da dov’era seduto sul divano. La sua voce non era alterato, il tono calmo ma deciso mentre teneva gli occhi fissi sulla schiena leggermente ingobbita dell’altro, pesante di fin troppi fardelli a gravare sulle sue spalle. «E’ buffo, perché in tutta questa storia io sono l’unico che non ha potuto dire una parola.»
 Sapeva che le sue parole avevano sortito un qualche effetto perché non appena le ebbe pronunciate la schiena di Alexander parve irrigidirsi di colpo.
«Catarina ha deciso di parlare con te senza il mio consenso, tu hai scelto di ignorarmi senza nemmeno darmi una spiegazione e ogni volta che mi vedi per strada cerchi semplicemente di scappare.» riassunse sempre molto pacatamente l’uomo nascondendo al meglio delle sue possibilità il turbamento interiore che quella situazione gli aveva causato. «Non credi che abbia anche io il diritto di scegliere qualcosa in questa storia? Quanto meno di dire la mia?»
Parte di lui si sentiva crudele nel porre quella domanda.
Era perfettamente consapevole del fatto che Alexander fosse mosso dalle migliori intenzioni, che tutto quel che aveva fatto era dipeso da un fraintendimento per cui non aveva colpa. Tuttavia non poteva continuare a scusarlo per timore di ferirlo: per quanto fragile non era comunque giusto trattarlo come uno sciocco od un bambino e tenergli lontano ogni tipo di rimprovero non lo avrebbe in alcun modo aiutato.
Il ragazzo non riuscì a rispondere ma, per lo meno, non sembrò neppure capace di allontanarsi da dove si trovava. Magnus decise di approfittare del momento per farsi ascoltare: dubitava di poter trovare in futuro un’occasione migliore di questa.
«Sei un ragazzo intelligente, Alexander. Penso che tu non avessi bisogno che ti dicesse lei o io che quel che stavo facendo era contro le regole.» iniziò col dire Magnus con tono calmo, accomodante, prendendo solo un attimo di pausa. «Psicologi, psichiatri, analisti in generale non possono occuparsi di amici e familiari. Avere un rapporto affettivo tende a offuscare il nostro giudizio, ci rende poco oggettivi e più coinvolti e questo non fa del bene a nessuno dei due oltre a non essere deontologico.» proseguì l’uomo prendendo un profondo respiro, umettandosi le labbra riarse dal freddo.
«Io—non sono una persona semplice, Alexander.» espirò Magnus grattandosi nervosamente la fronte, il tono quasi arrendevole mentre abbassava per la prima volta lo sguardo. Se solo il ragazzo si fosse voltato per guardarlo, lo avrebbe visto per la prima volta totalmente, completamente vulnerabile ed esposto.
«Non mi apro facilmente alle persone e mi fido ancor più difficilmente. Non ho mai visto i miei pazienti come persone prima: pensavo a loro come enigmi da risolvere, puzzle da ricomporre rimettendo insieme i pezzi che mi portavano in studio di volta in volta e per quanto forse poco carino, era funzionale. Mi permetteva di mantenere il necessario e giusto distacco con loro.»
Solo a quel punto, quando si fermò per una nuova pausa, Alexander si ritrovò d’istinto a voltarsi verso di lui. Aveva le labbra schiuse e l’espressione sorpresa, incredula.
Magnus risollevò il viso e, per la prima volta quel giorno, i loro sguardi s’incontrarono davvero.
«Ma con te è diverso.» ammise abbozzando un flebile sorriso, un vago accenno delle labbra.
Anche lui si alzò in piedi senza però muovere alcun passo verso l’altro.
Alexander non si ritrasse, non sembrò reagire in alcun modo a quel suo movimento rimanendo immobile sul posto, lo sguardo a seguirlo silenziosamente.
«Mi sono fatto coinvolgere. Mi sono avvicinato, ti ho portato a casa.» riprese mantenendo in qualche modo la calma, il cuore a battergli però violentemente nel petto. Sapeva che quello era un punto di svolta, che quell’esatto istante nel tempo avrebbe deciso il decorso del loro rapporto, qualunque esso fosse. E ne aveva paura.
«Mi sono aperto a te: ti ho parlato di me, dei miei amici, cose che non mi sarebbe concesso in alcun modo fare. Catarina si è preoccupata per questo. Ha temuto che se avessi continuato a lasciarti entrare sarei finito nei guai.»
Sapeva di non star dicendo tutta la verità. Non era soltanto per il suo lavoro che Catarina era preoccupata, ma dirgli in quel momento che provava qualcosa per lui poteva essere estremamente rischioso. Innanzitutto non era completamente certo del fatto che anche lui provasse lo stesso ed in secondo luogo il fatto che fossero due uomini rendeva il tutto ancora più complicato. Non avevano mai parlato della sessualità di Alexander e Magnus non sapeva che preferenze avesse, né se le conoscesse lo stesso ragazzo. Azzardare qualsiasi tipo di previsione, date le circostanze, poteva essere estremamente rischioso.
«Ma per quanto apprezzi la sua preoccupazione non avrebbe mai dovuto parlarne con te.» riprese Magnus poco dopo vedendo come il ragazzo continuasse a fissarlo impietrito. «Mi dispiace per come possa averti fatto sentire con le sue parole. E ti ringrazio per aver fatto quello che hai fatto solo per proteggermi.»
Solo a quel punto lo psicologo osò muoversi dal suo posto.
Mosse un primo passo verso l’altro tenendo lo sguardo fisso sul suo viso.
Alexander, a sua volta, sembrava come incantato, incapace di guardare altrove.
Magnus si fermò a meno di un metro da lui, il cuore a rimbombargli nella gola.
«Ma non sta a voi decidere.» sorrise debolmente sollevando una mano con cauta lentezza verso il suo viso. Fece per avvicinare il palmo contro il suo volto attento ad ogni minima reazione del ragazzo al suo gesto. Alexander non si ritrasse, né sembrò spaventato da quel contatto. Schiuse semplicemente le labbra trattenendo visibilmente il respiro.
Con delicatezza Magnus poggiò la mano a lato del suo viso, avvolgendogli una guancia con premura, attento a non premere dove avrebbe potuto fargli male.
«In quella lettera mi avevi scritto che ti facevo del bene ma la verità è che anche tu, in qualche modo, ne fai a me.» rivelò l’uomo abbassando d’istinto la voce, il timore che un volume appena più alto avrebbe potuto distruggere il momento e farlo fuggire via in preda al panico.
«Quindi adesso ti chiedo, ignorando quel che ti ha detto Catarina, mettendo da parte il mio lavoro e tutto quello che ne consegue, vuoi davvero che esca dalla tua vita?»
Una scintilla accese lo sguardo di Alexander a quelle parole.
Una scossa che lo attraversò da capo a piedi portandolo a boccheggiare incerto sotto il suo sguardo colmo di calore.
«Non ci pensare.» sorrise Magnus. «Una risposta secca, soltanto un sì o un no.»
Il ragazzo strinse le labbra e, serrando i denti, abbassò lentamente il capo.
Dopo un istante lo scosse leggermente contro il palmo caldo dell’altro. 
   
 
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