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Autore: FrancescaPenna    10/09/2021    0 recensioni
Possono cinque ragazzi non ordinari sperare di trovare il loro posto in una società dove l'essenza viene spesso sottomessa all'apparenza, dove le persone rincorrono una perfezione che non esiste per sottrarsi ai pregiudizi?
Casey e Satèle Johns sono due gemelli albini.
Markus Lancaster ama la lettura e odia le persone.
Johnnie Bailey è silenzioso.
Angel Hassler è un maschiaccio.
Cinque ragazzini diversi con cinque vissuti diversi, che si affacciano al contesto delle scuole medie diventando i protagonisti del primo atto di una storia che parla di diversità, accettazione, amicizie e primi amori, ma anche di bullismo, famiglie disfunzionali, autolesionismo e disturbi mentali.
Una storia in cui impareranno a conoscersi per come appaiono agli occhi di tutti, ma anche e soprattutto per come loro stessi si sentono dentro: strani.
Genere: Drammatico, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: De-Aging, Kidfic | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 3 – Un diario e un nemico

 

Dopo una giornata decisamente faticosa, Casey non desiderava altro che riposare prima che la mensa servisse la cena.

All’Hamilton, il regolamento prevedeva che fossero gli studenti a dover pulire le aule al termine delle lezioni. Le suore sostenevano che lo scopo fosse quello di renderli autonomi e responsabili, infatti coloro che rifiutavano o svolgevano il lavoro grossolanamente venivano sanzionati con una nota di demerito. Non venivano stabiliti dei veri e propri turni, il primo che capitava sotto gli occhi delle insegnanti doveva pulire.

A Casey era toccato per la prima volta quel giorno e si sentiva a pezzi. Aprì la porta della sua stanza e si lanciò sul letto, dimenticandosi di quanto fosse scomodo. Avrebbe dormito pure su un materasso di chiodi. Chiuse gli occhi ma sprofondò in un sonno effimero, aveva troppi pensieri per la testa che doveva in qualche modo esternare.

Ebbe un’idea; rotolò su un fianco e allungò un braccio verso il primo cassetto del comò, dal quale tirò fuori il quadernino che sua zia gli aveva suggerito di usare come diario.

Impostò una combinazione per aprire il lucchetto e inaugurò la prima pagina scrivendo di sé e della sua smisurata passione per la musica, del suo sogno di diventare un famoso chitarrista, del rapporto conflittuale che aveva con i genitori e Coco e di quello tenero e dolce che aveva con Satèle e i suoi zii; del suo amore per gli animali e in particolare per Akuma, la gattina dal pelo nero e gli occhi gialli che con la sua partenza era rimasta senza il suo padroncino preferito. Fortunatamente c’era Satèle a prendersene cura.

Nella pagina successiva raccontò del giorno in cui i suoi genitori avevano deciso di fargli frequentare un collegio contro ogni sua volontà. Sulla carta rovesciò tutta la rabbia che provava nei loro confronti, tutte le domande che gli frullavano in testa; sulla famiglia, sul modo di fare e di pensare (che spesso lui non condivideva) dei suoi coetanei, sull’amicizia: quali sono le ragioni, le scelte che portano alla sua nascita? Quanti tipi di amicizia esistono? Come si fa a distinguere l’amicizia vera da quella basata sull’utile, sulla convenienza, e perché, ormai, quella vera sembra esistere solo nei film, perché nella realtà è così difficile da trovare?

In tutti quei punti interrogativi, Casey custodiva il desiderio di incontrare quella persona che gli avrebbe voluto bene incondizionatamente, che sarebbe rimasta al suo fianco sempre, quella persona che lui avrebbe chiamato amico vero e che avrebbe fatto altrettanto con lui, perché ora come ora, senza la sua gemella, senza i suoi zii che lui riconosceva come figure genitoriali più dei suoi stessi genitori, senza il gatto che gli faceva le fusa, senza la sua chitarra e le canzoni alla radio, si sentiva maledettamente solo.

Oltre al diario, in fondo al cassetto aveva riposto un piccolo album di fotografie risalenti a due anni prima. Cominciò a sfogliarlo e ne scelse tre da staccare da lì e incollare su una pagina del diario.

La prima raffigurava lui e Satèle a Napoli, più precisamente a Piazza del Plebiscito, in piedi davanti alla basilica di San Francesco di Paola con le mani unite che formavano un cuore.

Ricordava bene quel giorno: lui e la famiglia stavano trascorrendo le vacanze natalizie a casa dei nonni e questi li avevano portati a fare un giro dei luoghi più caratteristici della città. Ricordava le strade addobbate di luci e festoni, affollate per lo shopping in vista della Vigilia e avvolte dall’odore delle caldarroste; ricordava le bancarelle che vendevano le statuette per il presepe, i dolci della tradizione esposti nelle vetrine delle pasticcerie, i cenoni, le partite a tombola, i regali sotto l’albero, sebbene a lui e Satèle spettassero sempre e solo spazzolini da denti e biancheria intima sia dai genitori sia dai nonni, che pur non essendo severi come Hannah e Brad non sapevano ugualmente dargli un affetto sincero, spontaneo, ma solo quell’affetto forzato che si dà alle persone appartenenti alla stessa famiglia.

Comunque a Casey piaceva andare in Italia, gli piaceva il cibo, la cultura e la storia del Bel Paese. Anche con la lingua non aveva problemi, sua madre gliel’aveva insegnata quando lui e le sorelle erano ancora piccoli.

Ma ancora di più gli piaceva trascorrere le vacanze estive in Irlanda, fermarsi lì significava ritornare alle proprie origini.

La seconda fotografia che aveva scelto, infatti, era stata scattata a Dublino. In primo piano c’erano lui e Satèle abbracciati, a fare da sfondo era il bellissimo Phoenix Park con i suoi prati verdi e i viali alberati.

Casey non aveva mai abitato nel suo paese nativo. Quando sua madre aveva partorito lui e Satèle si trovava a Dublino – la città in cui era nata e cresciuta e che aveva lasciato a diciassette anni perché il lavoro di suo padre si era spostato a Rockford – solo per un viaggio, e stando alle previsioni della sua ginecologa non immaginava nemmeno che la loro nascita fosse imminente. Pochi giorni dopo il parto, infatti, lei e Brad erano ritornati a vivere negli Stati Uniti, dove un anno prima era nata Coco.

Infine, nella terza foto, lui e Satèle tenevano in mano un trifoglio ed erano vestiti interamente di verde: era il giorno di San Patrizio e le strade di Dublino si tingevano del colore nazionale, ospitavano parate, gruppi di persone che si esibivano nelle danze tradizionali locali mentre altre restavano a guardarle tracannando boccali di Guinness, altre ancora se ne stavano sedute ai tavoli dei pub a mangiare carne di manzo bollita e patate arrostite.

A Casey sarebbe piaciuto tanto vivere in Irlanda. Amava la gentilezza e la cordialità dei suoi connazionali, le tradizioni, il clima – fresco, esente da picchi di temperature assai elevate e giorni assolati, piovoso per la maggior parte dell’anno –, che per lui era perfetto.

Il suo desiderio era prendere Satèle e trasferirsi lì con lei dopo aver conseguito il diploma, cercarsi un lavoro per poter mangiare, pagare l’affitto e le bollette e infine andare alla ricerca del successo senza che i genitori potessero più ostacolarli.

Perso nelle sue fantasticherie e nei suoi ricordi, guardando le foto per l’ultima volta e con gli occhi carichi di nostalgia prima di chiudere il diario, Casey aveva perso la cognizione del tempo e non si era accorto che, proprio in quel momento, la campanella che annunciava la cena era suonata.

Rimise il diario nel cassetto e uscì dalla sua stanza, chiuse la porta a chiave per non far entrare nessuno e scese le scale fino al piano terra, dov’era situata la mensa; prese il vassoio e si mise in fila per essere servito. Il menù era a base di insalata di pollo e, visto che era riuscito a conquistarsi la simpatia della cuoca facendole i complimenti per l’entrecôte del giorno prima, ella gli fece una bella porzione abbondante e gli regalò pure un budino al cioccolato. Casey la ringraziò, era affamato.

Si guardò intorno alla ricerca di un tavolo a cui sedersi, ma tutti sembravano già abbastanza affollati e lui non ci teneva a essere schiacciato. Dovette sedersi da solo e gli dispiacque, aveva perso un’occasione per socializzare. Iniziò a mangiare e strizzò gli occhi per cercare di riconoscere i volti di alcuni suoi compagni di classe tra quelli dei presenti.

I primi che distinse furono Russell Richardson e i suoi amici Jack e Jimmy, ma non volle avvicinarsi a loro né fargli un cenno di saluto, era convinto di non stargli molto simpatico.

Le due ragazze che aveva conosciuto il primo giorno, Sarah Green e Karen Armstrong, non si vedevano ancora.

In compenso c’era il ragazzo dai capelli corvini che lo stava fissando, anche lui seduto da solo, silenzioso come sempre.

Casey pensò che quello fosse il momento perfetto per andare a conoscerlo meglio. Sapeva soltanto che il suo cognome era Bailey, non ricordava il nome perché non aveva mai sentito nessuno chiamarlo.

Neanche il tempo di sbattere le palpebre e il ragazzino non c’era più, il suo tavolo era vuoto.

Casey non riusciva a capacitarsi di come avesse fatto a muoversi così rapidamente, senza produrre il minimo rumore. Per un attimo pensò di aver avuto un’allucinazione, di aver immaginato la sua presenza. No, si disse poi, il ragazzino dai capelli corvini si era seduto lì per davvero, poi se n’era semplicemente andato.

Continuò a mangiare finché tre ragazze che non aveva mai visto prima gli chiesero di potersi sedere con lui, che acconsentì ignaro delle loro reali intenzioni.

Queste gli si appiccicarono letteralmente addosso, lo tempestarono di domande. Quella che si distinse fu: “C’è qualcuna che ti piace?” Dalla voce si intuiva che ognuna sperava di essere la fortunata.

“No”, rispose Casey, sconcertato. Che razza di domanda, pensò. Per lui era ancora troppo presto per pensare all’amore.

“Sicuro?”

“Sì.”

“Se ti chiedessimo di stabilire chi è la più carina tra noi?”

Non si arrendono, si disse Casey. “Siete carine tutte e tre”, rispose solo per accontentarle.

“Dài, ci sarà una che ti piace di più!”, insistettero loro.

“È difficile scegliere, siete tutte diverse.”

Nemmeno con quella risposta riuscì a farle tacere. Le ragazze gli ordinarono di pensarci su mentre finiva di mangiare, allora Casey iniziò a masticare il più lentamente possibile nella speranza che si sarebbero annoiate e avrebbero tolto il disturbo.

Invece no, continuarono a rimanergli attaccate addosso come delle sanguisughe.

Casey non seppe che fare, gli sembrava poco educato cacciarle, dopotutto la mensa era l’unico luogo in cui maschi e femmine potevano avere un contatto.

Per sua fortuna Sarah e Karen si erano accorte di lui e si stavano avvicinando per aiutarlo.

“Perdonatemi, ragazze”, esordì Sarah, “ma io e la mia amica vorremmo parlare un attimo da sole con Casey, ha promesso che ci avrebbe aiutato con i compiti. Vero, Casey?”

“Certamente”, la assecondò lui.

Sentendo questo, le tre disturbatrici lo lasciarono finalmente in pace.

Casey sbottò in verso liberatorio. “Grazie, ragazze, mi avete salvato!”

“Figurati, non c’è problema”, rispose Sarah.

“Ma che volevano da te?”, chiese Karen.

“Rimorchiare”, disse Casey, facendole ridere di gusto.

 

Russell girava la cannuccia nel succo d’arancia, nel frattempo guardava male Casey Johns.

Quel tipo era sempre circondato di ragazze: prima quelle tre piattole, poi Sarah e Karen.

“Non capisco!”, sbottò Russell, battendo i pugni sul tavolo. “Non capisco come mai sbavino tutte dietro a lui! Cos’ha di speciale?”

“Di chi parli?”, gli chiese Jack, poi con la coda dell’occhio seguì la direzione in cui cadeva lo sguardo dell’altro e capì. “Ah, di Casey. Di che ti stupisci, non è una novità che le ragazze corrano sempre dietro al più carino della classe.”

“Vero”, concordò Jimmy. “Ammettilo, Casey Johns è un bel ragazzo. Secondo me è pure simpatico, quasi quasi vado a farci una chiacchierata per vedere che tipo è.” Provò ad alzarsi ma Russell lo trattenne. Era furioso. Fino all’anno precedente era stato lui l’idolo di tutti, maschi o femmine che fossero. Non riusciva ad accettare di dover scendere dal piedistallo e cedere il suo posto a un ragazzino dall’aspetto strano, perché era convinto che fosse quello ad attirare l’attenzione: la “novità” del momento.

“Ti dico io che tipo è”, ringhiò. “È il tipo che non voglio tra i piedi.”

 

I giorni in collegio passavano lentamente e sembravano tutti uguali: compiti, verifiche, pulizie… Quando aveva un po' di tempo libero, come in quel momento, Casey provava a immaginare cosa facesse Satèle, augurandosi che se la stesse cavando meglio. Non poterla telefonare gli causava tanta rabbia.

Possedere un cellulare è un momento che ogni ragazzo delle medie attende con ansia. A Casey i genitori lo avevano concesso ad agosto per farglielo negare a settembre.

Andò a letto e si svegliò come ogni mattina alle 6:30, stropicciandosi gli occhi e sbadigliando con nonchalance, poi andò in bagno per prepararsi e scese velocemente le scale per raggiungere la classe.

Mancava ancora qualche minuto all’inizio della lezione e Casey si sentiva ancora abbastanza assonnato, così decise di andare al distributore e prendere una bevanda energetica per tenersi svegliò.

Inserì le monete nel macchinario e stava per prendere la lattina di Monster Energy che cadde nello scomparto sottostante quando, improvvisamente, venne strattonato da qualcuno che gliela rubò e tirò pure la linguetta.

“Ehi, c’ero prima io, quella è mia!”, protestò Casey davanti all’artefice dalla chioma scura, l’unico dettaglio che riuscì a distinguere.

Il ragazzo, poi, alzò la testa e mostrò il volto attraversato da un ghigno sornione.

Russell Richardson.

“Oh, scusami”, disse con l’aria da finto dispiaciuto. “La rivuoi?”

Casey annuì torvo, le braccia conserte.

“Okay”, rispose Russell. Fece per allungargli la lattina e quando Casey tese il braccio per poterla prendere la tirò di nuovo verso di sé, prese un sorso e leccò perfino la superficie prima di porgergliela una volta per tutte. “Ecco a te”, sorrise beffardo.

Casey la respinse bruscamente, aveva capito a che gioco voleva giocare.

“Che c’è, non la vuoi più?”, lo sfidò Russell.

Casey aggrottò la fronte. “Perché fai così? Chi ti credi di essere?”

Russell gli strinse con forza un braccio. “Tu chi ti credi di essere!”, ribatté, stringendolo con maggior forza prima di spingerlo a terra e fargli battere la testa contro il muro. “Chiariamo un po' di cose”, esigé con prepotenza. “Io odio i tipi come te! Stai attirando un bel po' di attenzioni con la tua chioma candida e il tuo bel faccino da angioletto, ma io so che in fondo non sei così carino e innocente come cerchi di far credere agli altri. Farò di tutto – guardami bene, Casey, e ascoltami – di tutto per dimostrare a quelli che si lasciano abbindolare da te che dopotutto sei solo un povero sfigato!”

Casey scosse lentamente la testa, aveva uno sguardo di fuoco e sentiva la rabbia ribollirgli nel sangue. Non sarebbe rimasto un minuto di più a farsi minacciare da quel ragazzino viziato che faceva supposizioni assurde, perciò si rimise in piedi e gridò: “Tu non dai a me dello sfigato senza nemmeno conoscermi! Anziché puntare il dito contro di me, puntalo contro di te e domandati se sei davvero migliore di chi critichi, ma sembrerebbe proprio di no.”

“Tu non mi fai paura, Casey”, rispose Russell. “Presto riceverai la lezione che meriti e l’unico ruolo che svolgerai qui sarà l’unico ruolo di cui sei veramente degno: quello dell’emarginato.”

Serrò i pugni e Casey temette davvero di star per essere colpito, perciò seguì l’istinto e tirò a Russell uno schiaffo che lo lasciò di stucco.

“Non finisce qui”, fu l’ultimo avvertimento che lui gli diede prima di fuggire sgomitando.

 

Nel corso della giornata, la rabbia che Casey aveva accumulato nei confronti di Russell si era trasformata in rabbia verso se stesso, non riusciva a credere di essersi abbassato al suo livello tirandogli quello schiaffo. Però era anche vero che era stato Russell ad attaccarlo per primo.

Casey non riusciva proprio a spiegarsi perché, credeva – anzi era certo – di non avergli fatto alcun torto sin dall’inizio, anzi: ricordava perfettamente che Russell l’aveva guardato storto dal primissimo giorno.

Non gli restava che rassegnarsi, era fatto così e basta. L’importante, si disse Casey, è ignorare le sue minacce. Continuare a rimuginare sull’accaduto non gli avrebbe giovato, perciò decise di rifugiarsi nell’unica cosa che l’avrebbe aiutato a liberare la mente: la musica.

Sì, aveva barato. Per sequestrargli il cellulare Suor Elizabeth gli aveva perquisito solo la valigia, non era mica andata a pensare che Casey avesse nascosto il mini lettore mp3 e gli auricolari nei calzini.

Crescendo con due genitori severi sapeva a quali sotterfugi ricorrere per difendere i propri spazi e sapeva quanto fosse sbagliato in casi come quello, ma non aveva potuto fare altrimenti: non avrebbe potuto vivere senza ascoltare almeno una canzone al giorno.

Seduto sul letto, infilò gli auricolari e ne scelse una per sfogare tutta la rabbia che aveva accumulato, negli anni verso quella vita ingiusta che l’aveva fatto nascere con un’anomalia genetica e in una famiglia in cui non si sentiva amato dagli stessi genitori che l’avevano voluto e durante quella giornata verso Russell.

Pensò a lui, baciato dalla fortuna, viziato dai genitori ricchi, e la sua scelta ricadde su Welcome To My Life dei Simple Plan.

La canzone partì e insieme a essa tutte le domande che Casey avrebbe voluto porgere a Russell, che se fosse stato lì avrebbe probabilmente risposto di no ogni volta.

Casey, infatti, dubitava fortemente che Russell si fosse mai sentito sul punto di crollare, che Russell si fosse mai sentito fuori posto e incompreso; che Russell avesse mai voluto scappare via, che si chiudesse a chiave nella sua stanza con il volume della radio talmente alto così nessuno poteva sentirlo urlare e piangere a dirotto, no: Russell non sapeva cosa significasse tutto questo, non sapeva cosa significasse sentirsi come se nulla andasse mai bene.

Non sapeva cosa significasse sentirsi ferito, solo, lasciato all’oscuro, essere colpito sui propri punti deboli, sentirsi preso in giro, sentirsi al limite e sapere che nessuno sarebbe stato lì per salvarlo.

No, questa non era la sua vita.

Probabilmente mai nessuno gli aveva mentito dritto in faccia, nessuno l’aveva pugnalato alle spalle quando era vulnerabile. Sicuramente Russell aveva sempre ottenuto ciò che voleva, com’era normale che fosse per ogni rampollo proveniente da una famiglia agiata alla quale bastava sganciare qualche banconota per assicurargli che il mondo s’inchinasse ai suoi piedi, perché uno come Russell non avrebbe mai avuto bisogno di darsi da fare per il proprio futuro, tutto gli sarebbe sempre stato servito su un piatto d’argento, perché uno come lui non poteva mica sapere cosa fosse il sacrificio.

Casey, invece, avrebbe risposto “io sì” a tutto. Casey avrebbe risposto: “Sì, per me è così. Benvenuto nella mia vita.”

   
 
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