Anime & Manga > Pokemon
Segui la storia  |       
Autore: Persej Combe    12/09/2021    1 recensioni
Vieni da me, Augustine. Stasera i bambini sono con la madre. Vieni da me.
[Lubricantshipping]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altri, Clem, Lem, Nuovo personaggio, Professor Platan
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'I racconti della scogliera'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


 
8












   Diversamente da come si era immaginato dovesse essere per un professore universitario, Augustine abitava in un quartiere modesto, e modesto era anche il palazzo che gli aveva indicato. Meyer parcheggiò il motorino e si fermò a osservarne la facciata dipinta di bianco, provò a indovinare dietro quale delle tante finestre illuminate dovesse esserci lui ad aspettarlo. Suonò al citofono, entrò, salì le scale.
   Non sapeva neppure quanto tempo fosse passato dall’ultima volta in cui aveva ricevuto un invito per un appuntamento, o qualsiasi cosa dovesse chiamarsi questo in cui si era ritrovato invischiato con Augustine. Dopo essersi fatto la doccia, aveva indugiato fin troppo in bagno per profumarsi e scorciare la barba e altrettanti minuti era rimasto a scrutare spaesato l’armadio aperto – ma a che pro, se alla fine non avrebbero fatto altro che spogliarsi di nuovo?, e pur sapendolo era stato tanto nervoso, si provava una camicia controvoglia e la buttava via. Poi era passato al supermercato, aveva comprato una bottiglia di vino, e prima di arrivare alle casse si era fermato davanti all’espositore dei preservativi a rimuginare, rimuginare, con l’incertezza che fioccava sopra le guance.
   Gli era venuto da pensare ad Aura, alle serate trascorse insieme in giovinezza in preda all’emozione del primo amore, e più tardi, dopo il matrimonio, quando per stare da soli approfittavano di qualche ora sporadica lasciando il pargolo dalla nonna – oh, la nonna, se avesse saputo di quel che stava accadendo stasera, quanto ancora meno uomo l’avrebbe creduto! Non c’era alcun paragone che si potesse fare con quelle notti, si diceva di nuovo adesso continuando a salire le scale. Contrapposti alla quotidianità e alla monotonia di un tempo, gli incontri con Augustine nascondevano la sorpresa sfavillante dell’ignoto, gravosa e insieme eccitante, sempre più vicina ogni passo che avanzava, e qualsiasi mossa Meyer avrebbe potuto escogitare si sarebbe ritrovato sempre irrimediabilmente impreparato.
   Spinse il bottone del campanello. Augustine venne ad aprire. La scollatura del maglione gli lasciava scoperti il collo e quella piccola porzione di petto dove Meyer poteva ora distinguere chiaramente i segni postumi della sera precedente disseminati dalla sua stessa bocca.
   «Bonsoir», lo salutò Augustine, spingendosi sulle punte dei piedi per baciarlo sulle guance. Meyer venne travolto dal profumo del suo dopobarba – era così piacevole su di un altro uomo –, ma quando fece per piegarsi e ricambiarlo si era già allontanato e lo stava invitando a entrare.
   L’ingresso di casa si apriva direttamente sul soggiorno su cui si affacciava la cucina, e per quanto ben ammobiliato ed elegante, l’ambiente nel suo insieme ristretto manteneva un sentore squisitamente raccolto, minimale. Meyer stava ammirando le alte librerie addossate alle pareti, quando Augustine si offrì di sistemargli via il cappotto.
   «E questa?».
   «Ah, ho portato il vino».
   «Per una cosa così, non dovevi! Sei gentile, grazie. Dopo l’apriamo insieme».
   Meyer riusciva a percepire il suo compiacimento senza neppure che avesse bisogno di guardarlo negli occhi, mentre Augustine con la testa un poco china sulla spalla stava concentrato sopra il suo petto a osservare le bretelle che aveva indosso.
   «Ci siamo messi a lustro per bene», commentò.
   In un angolo del salotto erano appese in bella mostra alcune stampe giapponesi che Augustine aveva comprato, gli spiegò mentre aspettavano si cuocesse la cena, durante gli anni di studio a Sinnoh. Meyer riconobbe in una la sagoma del Monte Corona immersa in una coltre di neve, in un’altra invece era raffigurato uno scorcio degli antichi palazzi di Memoride fermati nella calma luce del crepuscolo, e poi ancora il volto di una ragazza in kimono che ammiccava con due occhi sibillini, nascondendo il proprio sorriso dietro la manica della veste. Accanto stavano un paio di acquerelli di Pokémon, i contorni tracciati a matita si distinguevano ancora col loro tratto rapido: dei doni, gli disse, di persone che lo avevano seguito, studenti, colleghi, cottarelle, pegni di un amore effimero ma non per questo meno bello, scarabocchi strappati da pagine di diari pregne di sospiri.
   Il passato di Augustine pareva essere, racchiuso in quei cimeli conservati con cura, circondato di un fascino grazioso, che ammaliava con garbo. Aveva viaggiato molto, conosciuto luoghi, popoli e lingue, aveva fatto tutto suo «D’altra parte, per me, è sempre stato così», rifletteva tra un racconto e l’altro, e accendeva una candela, rassettava una mensola, guardava Meyer assorto e gli sorrideva.
   Tra le portefinestre che davano sul balcone, sotto uno specchio incorniciato di finto oro, gorgogliava sommessamente un acquario – un acquario vuoto. Meyer restò a osservarlo, notando oltre il vetro che era già arredato con le decorazioni e i ciottoli, le piante rigogliose vibravano d’azzurro alla luce della lampada. Chiese perché lo tenesse in funzione. Augustine rispose che avrebbe voluto metterci dei pesci mansueti, ma che ancora non ne aveva trovati. Lo manteneva in attesa del momento opportuno.
   «Sai, ai tempi ho fatto qualche tirocinio all’Acquario di Altoripoli. Ci sei mai stato?».
   «No, ma vorrei tanto portarci i bambini. Andiamo spesso alla spiaggia, d’estate».
   Meyer non aveva spunti di conversazione di cui fare altrettanto sfoggio, tuttavia si accontentò d’intrattenerlo a tavola raccontandogli di qualche incomprensione avuta con i clienti del negozio, e il solo riuscire a strappargli una risata di tanto in tanto gli bastò per definirsi soddisfatto.
   Augustine si destreggiava tra un piatto e l’altro, si rimproverava di non essere un gran cuoco, poi ancora terminata la cena offrendogli un fetta di dolce aveva scherzato sul fatto che forse un giorno avrebbe incontrato un uomo, un pasticcere magari, che gli preparasse ogni giorno una leccornia, i croissant caldi alla mattina, col caffè già bollente nella tazza.
   Seduti sul divano bevevano a piccoli sorsi dal bicchiere, Meyer si scioglieva, si riempiva il petto del bruciore dell’alcol e rilassava la schiena. Lo raggiunsero col passare del tempo i tentativi nient’affatto timidi di Augustine che provava ad accucciarsi contro la sua spalla, e sebbene non si spingesse a fare altro, anche così, colmando la distanza, lo tentava. Meyer sentiva già a tratti il respiro spezzarsi, d’altronde non si era figurato che quello per l’intera serata: senza pensarci troppo, si allungò ad accarezzargli i capelli, a sfiorargli la curva della guancia che scivolava verso il mento. Augustine lo guardò, l’intensità dei suoi occhi si fece improvvisamente più tenue. Meyer gli si accostò un poco, e sulle proprie labbra percepì folgorante il calore di un bacio.
   In un primo momento si lasciò cadere tra le sue mani, si fece stringere in un abbraccio languido, avvolto tutto nel suo odore inebriante. Poi però lo scricchiolio del divano, intanto che Augustine gli si avvicinava di più, gli ricordò la visione infelice cui aveva assistito nel pub, e percependo un fastidio pruriginoso tornare a gonfiarglisi dentro si discostò.
   «Ascolta», disse «riguardo quello che ci siamo detti oggi...» e lo guardava serio, mentre cercava le parole.
   Egli pazientava, lo fissava serrando le labbra, come avesse già intuito: la stretta delle sue braccia cominciava ad allentarsi, la pressione di un fianco a farsi meno impudente.
   «Mi sono sentito a disagio, non so bene perché», chiuse brevemente Meyer.
   Sebbene dicesse a torto di non saperlo, Augustine pareva esserne del tutto cosciente, e allora distogliendo lo sguardo lo aveva lasciato andare.
   «Perdonami. Se non ti va, non ne facciamo nulla», disse.
   Quindi erano rimasti in silenzio da un capo all’altro del divano. Una pausa interminabile scorse a tendersi sempre più fino a che Meyer non si tirò in piedi sentendo di non riuscire più a sopportarla. Quindi filarono una dietro l’altra le formule di cortesia, intanto che valutava la soluzione, più ragionevole per entrambi, per cui avrebbe fatto meglio a tornare a casa, salvo poi ritrovarsi poco dopo ad affannarsi coi denti addosso alla sua bocca un’altra volta, e si diceva di essere un bugiardo e di non capirci più niente.
 
 

   Allo stesso modo in cui Meyer si era dato a lui in precedenza, così Augustine aveva fatto a propria volta quella sera. Era stato allo stesso tempo la meta del piacere e la guida, e lentamente lo aveva condotto a sé e stretto nelle braccia a infondergli calore. Meyer aveva respirato dentro il suo abbraccio, gli si era avvicinato tremando, e dopo la paura iniziale si era lasciato andare ancora alle parole sussurrate, all’oscillare armonioso del suo corpo che lo accoglieva tutto senza tentennare. Augustine pareva gradire particolarmente questo dare e ricevere, l’atto intrinseco della condivisione che avesse però sempre principio dal suo concedersi. Meyer dovette ammettere di nuovo a sé stesso di non saperne nulla.
   Quando gli capitava di incrociare il suo sguardo sentiva la testa girare e quegli occhi grigi sembravano un abisso di cui non potesse mai arrivare a toccare il fondo, come fosse costretto in un limbo indefinito. Avvinto contro di lui, si muoveva a scoprirlo un tratto di pelle alla volta, percorrendo con le dita e con la lingua i suoi contorni. Augustine lo spogliava di ogni pudore e lo incoraggiava a perseguire con gioia ferina il piacere; a un certo punto lo aveva strattonato per i capelli, e Meyer era rimasto talmente sorpreso che per un attimo aveva dovuto fermarsi. Nel cogliere l’urgenza di quel gesto percepì lo stesso impeto furente e incontrollabile che durante l’adolescenza lo aveva riversato addosso ai compagni in quelle azzuffate velatamente carnali, e l’associazione con un simile ricordo gli fece ribollire il sangue, tornò a piegarsi sulla schiena di Augustine rinvigorito da quel sentimento – perché era tutto così giusto, a distanza di anni, ogni cosa si stava ricollocando al posto dovuto – e lo baciò ingordamente sul collo tenendolo stretto per i fianchi, sottomesso, ancora una volta suo.
 
 
 
   Forse per il disagio di trovarsi in una casa diversa, forse perché aveva freddo, Meyer si svegliò di soprassalto qualche ora più tardi. Augustine dormiva accanto a lui rannicchiato dall’altro capo del letto. Ora che l’incanto della prima volta si era dissolto gli dava una sensazione di normalità, priva di qualunque fronzolo: non era più il bell’Endimione accarezzato dai raggi di luna, ma semplicemente Augustine, abbracciato al suo cuscino e con la coperta tirata fin sul mento. Per emulazione Meyer ne afferrò un angoletto e vi si avvoltolò meglio dentro, respirando stancamente mentre ascoltava il rumore del vento che faceva tremare i vetri della finestra. Restò a guardare Augustine prima di richiudere gli occhi. Non c’era alcun corpo nudo di cui godere, soltanto una faccia contratta in una smorfia sonnolenta. Pensò che dopotutto non ci fosse posto più intimo del proprio letto.
   Meyer era sempre sul punto di addormentarsi per poi venire disturbato da qualche cosa: un brivido di freddo, una sensazione di ansia per una preoccupazione futura. Cambiò posizione, rigirò il cuscino, poi si arrese e si alzò dal letto. Provò a bere un bicchiere d’acqua: Augustine gliene aveva lasciato uno sul ripiano della cucina. Rimase per un po’ a gironzolare in salotto, coi piedi scalzi che pungevano contro il pavimento gelido. Sulle pareti si soffermò a scrutare le stampe e gli altri quadri.
   Augustine aveva un’idea strana dall’amore e dei rapporti. Gli ritornavano adesso alla mente lacerti di quel che prima, mentre si stava addormentando, gli aveva sussurrato. Quello che egli professava era un amore libertino, ma non volgare. Ammetteva di potersi innamorare in un momento e che amore lo trovasse nel sorriso di una donna in metropolitana, nella stretta di mano di un uomo che gli si presentasse per la prima volta, e tutto quanto era amore, amore, amore, persino l’incontro di una notte, l’unione di corpi casuale e irripetibile che però in quel momento era sentimento concreto, mai sporco. Meyer trovava tutto questo affascinante, una visione certamente ispirata, eppure dentro di sé la vedeva ingenua, infantile, e non sapeva se il matrimonio e gli anni passati con Aura l’avessero irrigidito in qualche modo, se non gli avessero proiettato un limite troppo ferreo. E in effetti a pensarci l’idea di un secondo amore lo appesantiva, persino l’incontro notturno gli veniva a creare dubbi, nonostante il piacere e la gioia che gli procurava, e non avrebbe potuto accettare una commistione sensuale e assieme romantica, ricercando più che altro una carnalità soffocante che lo distraesse dal resto.
   Continuò a passare gli occhi attorno a sé, a riempirsi di ogni dettaglio che nel buio riuscisse a carpire, a scoprire gli affetti di Augustine: luoghi che aveva amato, persone che aveva amato, persino Pokémon, libri, storie, oggetti d’arte – i pochi che possedeva. Meyer aveva perso da tempo un amore per le cose, e questa dedizione intensa lo sorprendeva, gli suscitava ammirazione a tal punto da provarne un’invidia logorante. Desiderava questa soddisfazione per sé, ma sapeva che nella condizione in cui si trovava in quel momento difficilmente avrebbe potuto raccoglierne anche solo una parte; ma era forse una bugia anche questa? Una proiezione autonoma, autoprodotta, una narrazione personale distorta nei toni di una certezza?
   E intanto gli stava davanti agli occhi lampante la vita vissuta di Augustine, pregna di considerazione per i piccoli atti da avere avuto persino l’ardire di accostare una stampa a uno scarabocchio, a una pagina stracciata, e farli coesistere insieme in un equilibrio improbabile e intimo.
   Provò per noia a cambiare gli oggetti sulla mensola, a spostarli, a rimetterli in ordine. Ripercorreva i gesti con cui Augustine aveva disposto i suoi averi e glieli aveva mostrati sfoggiandoli nella loro angolazione migliore, appetibili resti, e intanto che ne mutava la combinazione a Meyer saliva l’impressione che in realtà egli, così come aveva fatto in Università, semplicemente disponesse delle cose a suo piacimento, senza accorgersi della protezione che quel camice gli offriva.
   Gli sembrava allora che fosse tutta apparenza, e nel pensarlo gli tornò in mente la domanda che Augustine gli aveva rivolto: Ti sei mai sentito schiacciato dalla tua stessa apparenza?
   Istintivamente, la risposta confusa che la sua mente formulò fu l’ammissione, di fatto, di non aver nemmeno mai conosciuto quello che aveva dentro di sé, di non averci mai prestato ascolto, Non ho mai avuto il coraggio di addentrarmi davvero più affondo, e quando l’ho fatto, quando io ci ho provato
   L’acquario vuoto brillava di fronte a lui, incorniciato nell’algida trasparenza dei vetri delle finestre. Sentì nelle orecchie il borbottio dell’acqua scrosciante, e poi freddo sulle membra, come paralizzato stava a guardare questa immagine che gli ricordava una paura assopita. Udì nel silenzio notturno la Premier Ball di Blaziken oscillare nella tasca del suo cappotto. Ma qualcosa indelebilmente lo terrorizzava dentro l’acqua. Cominciò a percepire un nodo serrato alla gola, con una mano si allungò a tastarsi il collo, e non riusciva a espellere il suo malessere neppure a vocalizzi, apriva la bocca annaspando dentro il tormento di una memoria che non poteva rivelarsi, il cuore che gli scoppiava, e ancora tremava, sudava, e dovette poggiarsi contro una delle librerie per potersi sostenere in piedi. Percepì al tatto come una sensazione distante i dorsi dei libri che scorrevano sotto i polpastrelli. A grandi respiri lottava contro quell’angoscia. Più in là verso l’ingresso la Pietra Chiave splendeva nella sua tasca. Chiamò Blaziken con un filo di voce, si trascinò a recuperare la sua Premier Ball. Si soffermò a percepirne il calore in una mano mentre nell’altra tratteneva la gemma incandescente. Riconobbe il tepore rassicurante della sfera come un monito premuroso del suo Pokémon. Riprendeva così lentamente contatto con l’ambiente circostante.
   Allora si domandava, stavolta lucidamente, il più possibilmente che potesse, per quale ragione sprecare un acquario vuoto a quel modo, salvo giungere alla conclusione che si trattasse in realtà di apparenza anche quella, in cui non c’era però nulla da mostrare, puro capriccio estetico senza altro intento dietro: Augustine era un involucro vuoto. Come se, abituato a crescere in un centro aperto quale Ponte Mosaico, avesse poi nel corso del tempo continuato ad assorbire tutto, senza riuscire a porvi un limite, un filtro. Proprio lui, che da studioso della Megaevoluzione custodiva il segreto degli argini invalicabili di una intimità inaccessibile, si rivelava incapace di stabilire un confine con chi gli gravitava intorno e ne sembrava risucchiato, o forse al contrario si lasciava riempire – un’apparenza quindi superficiale, priva di struttura, malleabile a seconda di chi avesse di fronte per inglobarne l’approvazione e nutrirsene. E non era irrispettoso di sé?
   Ma poi rivolgeva un’altra volta gli occhi all’acquario e sapeva di essere stato altrettanto irrispettoso nei propri confronti in passato, un passato ancora recente. Quindi si disse di avere troppi problemi e di non poter pretendere di soffocarli semplicemente andando a letto con... Eppure non era stato proprio lui a trattenersi lì alla fine, ad accettare l’invito, a desiderarlo, ancora? Quanto gli era piaciuto, nonostante tutto, quanto aveva goduto spensierato fino all’estasi, un appagamento genuino di cui si era privato a lungo nel tempo.
   Augustine sbadigliava nel letto. Meyer si arrestò sul ciglio della stanza ad assicurarsi che non si fosse svegliato. Sentiva di non poter ancora tornare, di essere ancora turbato e preda dei propri pensieri.
   La luce della luna che illuminava lo studio gli diede tuttavia un senso di calma. Attratto da quella visione provò a sporgersi oltre la porta di vetro. Entrò. Qui vi erano impressi i segni del lavoro e della fatica, un ambiente più maneggiato, vissuto in senso concreto. Qualche tomo aperto riposava riverso a terra colmo di pieghe. Scoprì altre librerie, una scaletta era posizionata all’occorrenza a lato per raggiungerne i punti più alti. Vide i diplomi appesi alla parete, fotografie di annuari.
   Sul pavimento, accatastate in un angolo stagnavano due ciotole, una con dell’acqua intorbidata, l’altra con del cibo secco, qualche rimasuglio, briciole appena. La prima impressione che gli fecero fu di disgusto, perché rispetto al resto gli sembrava emanassero un’eccessiva trascuratezza, oltre al tanfo e al sudiciume – intorno, spazzate alla buona, scaglie di pesce sgretolate. Sulle superfici graffiate, rosicchiate e consunte stava scritto GIBLE, in una grafia inverosimilmente piacevole.
   Più in là sul davanzale della finestra scorse un paio di piante grasse, facili da mantenere senza troppo sforzo. Una dalle foglie a forma di cuore ricadeva oltre l’estremità del vaso piegata verso il basso. Fermandosi lì davanti, Meyer si poggiò con una spalla al muro per guardare di fuori. Per un gioco di luci rivide impresso nel vetro il proprio riflesso – questa notte niente stelle, niente specchi, niente montagne che sbuffano – in mezzo a tutte quelle cose che non erano sue. Ne sentiva l’odore, ma non era il profumo raffinato che aveva percepito per tutta la serata mentre si era lasciato incantare dalla seduzione di Augustine.
   Si ritirò con l’intenzione di tornare in stanza. Passando accanto alla scrivania osservò ancora i fogli e le cartelle strabordanti di documenti, raggruppati questi però in un certo ordine maniacale, impilati uno sull’altro a recuperare spazio, un tentativo vano. Sul bordo notò una cornice abbassata. Meyer la prese credendo di averla urtata in qualche modo e di doverla mettere a posto; soltanto nel momento in cui il viso che era impresso dentro la foto gli si fissò negli occhi comprese che in realtà era stata lasciata così di volontà, e che Augustine, pur tenendosela vicino se la celava alla vista. Una fotografia di Sophie.
   Per qualche ragione se ne sentì come impietosito, e nello scrutare quel viso ridente, oltre il vetro della cornice sbeccato in un angolo, cominciò a rievocare i ragionamenti di Augustine, l’urgenza di darsi a quell’altro uomo, e ad altre persone, e riconobbe uno spiraglio di solitudine, di disperazione, e gli parve di comprendere il vero motivo per cui in realtà lo trattasse tanto premurosamente, di riuscire a sbirciare l’idolo nascosto sotto il camice. Anche se Augustine si spogliava smaniosamente davanti ai suoi occhi, davanti agli occhi di tutti, non si sarebbe mai davvero denudato.
   «Che ci fai qui?».
   Coprendosi convulsamente nella vestaglia, Augustine era apparso sulla soglia della porta proprio in quel momento. Meyer ebbe un sussulto, ripose la foto al suo posto sulla scrivania, eppure non riusciva a distogliere lo sguardo da essa. Forse, però, quella sua ostinazione a rimaner fermo lì era anche dettata dall’imbarazzo di dover fronteggiare i suoi occhi, dopo tutto quel che aveva appena pensato su di lui.
   «Mi sono svegliato e non riuscivo a riprendere sonno», tentò di dire.
   «Vuoi qualcosa da leggere? Ho molti libri, di là. Non mi disturba se accendi la luce», replicò Augustine, che intanto si era avvicinato e non pareva propenso a lasciargli via di fuga, cingendolo per le spalle. Mormorò: «Torna a letto con me. Dai».
   «Anche tu l’ami ancora, non è così?».
   Meyer non seppe perché l’avesse detto. Augustine si fece improvvisamente teso. Si sciolse dall’abbraccio con cui stava cercando di attirarlo e a testa bassa si accostò alla scrivania, si accorse evidentemente che aveva messo mano alla foto. La sfiorò appena con le dita, la raccolse, la fissò a lungo. Poi senza guardarlo disse:
   «Esci da questa stanza... per favore».
   Con l’imbarazzo che cresceva nel petto, Meyer si allontanò. Per un attimo fu tentato di tornare indietro, di scusarsi, ma non trovandone il coraggio si arrese alla propria irresolutezza, e andò a letto mogio. Augustine lo raggiunse solo molto più tardi.



   Quando Meyer si risvegliò la mattina presto, Augustine era già al tavolo della cucina, vestito di tutto punto e con l’immancabile agenda nera tra le dita mentre trascriveva qualche nota sul portatile.
   La porta dello studio era stata chiusa. Il disagio per quell’infrazione ingiustificata tornò ad acuirsi nel petto, e Meyer decise che la prima cosa da fare fosse, stavolta senza esitazioni, scusarsi. Attraversò il salotto a piedi scalzi cercando nella mente il tono con cui rivolgerglisi, ma prima che potesse richiamarlo Augustine si era già accorto di lui. Finendo di bere il suo caffè gli diede il buongiorno: per qualche motivo sembrava non avercela con lui, e anzi sorrideva, come sempre, con quella sua pacatezza imperturbata. Augustine aveva tutta l’aria di averlo già perdonato, ma Meyer pensò fosse talmente ingiusto.
   «Ti chiedo scusa, non avrei dovuto intromettermi. Però...».
   Però, avrebbe voluto dirgli, nel momento in cui ho visto il tuo dolore mi sono sentito capito.
   «La caffettiera è sul fuoco. Serviti pure quanto vuoi», disse tuttavia lui sbrigativo, e Meyer comprese che non intendeva ritirare fuori l’argomento «Rispondo un attimo a questa mail e sono da te».
   Prendendo posto sulla sedia al suo fianco, Meyer intravide di sfuggita sulla sua agenda un nome appuntato con B. Quando Augustine ebbe richiuso il monitor e messo da parte il computer, Meyer si offrì di versargli altro caffè nella tazzina.
   «Sarei passato a svegliarti tra poco. Oggi ho lezione la mattina».
   Come l’ultima volta, assaporavano assieme la colazione in silenzio, ognuno nei propri pensieri. Meyer inspirava nelle narici il profumo di quella casa sconosciuta e allo stesso tempo accogliente, ed era la stessa impressione che faceva Augustine.
   Meyer aveva sempre avuto al proprio fianco Aura, ma raramente negli ultimi anni si era rivolto a una compagnia maschile. Non aveva mai sofferto troppo la mancanza di una tale controparte, o almeno non si era mai soffermato a pensarci. Ora che lo realizzava tuttavia se ne sorprendeva, e gli sembrava al contrario un bisogno cui avrebbe dovuto sopperire.
   «Che giorno è oggi?».
   «Giovedì».
   Meyer ricercò con gli occhi l’orologio appeso alla parete. Disse che doveva andare. Si alzò dalla sedia e tornò in camera a rivestirsi, chiese in prestito del profumo poiché non c’era tempo per fare una doccia. Una volta pronto, raccolse il casco e le altre sue cose, ringraziò Augustine dell’ospitalità. Egli lo salutò, ancora seduto al tavolo che sorseggiava il caffè. Non venne alla porta. Con lo sguardo distratto, si limitò appena a salutarlo con una mano.




 
 
~ ~ ~



Ciao a tutt*! Come va? Spero di trovarvi bene!
Con questa conchiglia siamo a 1/3 della storia. Per il prossimo futuro, dopo aver chiuso quella di Guzman, vorrei mettere un po' l'acceleratore, spero tanto di riuscirci! (E come al solito prendetemi con le pinze, perché con i miei tempi da bradipo non si sa mai...)
Avete ritrovato qualcosa di familiare? Mentre rileggevo il capitolo prima di pubblicarlo mi è venuto da pensare che è buffo quanto con questa coppia stia spingendo più del solito su certi dettagli, mentre con l'altra mi è successo più di rado di andare proprio al punto. Vero che sono due rapporti diversi, comunque.
Ringrazio ancora Barbra e Afaneia per le loro ultime recensioni e, come sempre, chiunque sia passat* a leggere silenziosamente!

Un abbraccio 
Persej
 
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Pokemon / Vai alla pagina dell'autore: Persej Combe