Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Vitani    14/09/2021    0 recensioni
Dopo la sconfitta di Gargoyle, i superstiti del Nuovo Nautilus cercano lentamente di far tornare alla normalità le proprie esistenze. Non è semplice, quando si è vissuta un'avventura come la loro.
Electra ha visto morire l'uomo che amava e si trova da sola con un bambino da crescere. Nadia non riesce a smettere di guardare al passato nonostante abbia ormai la vita che desidera.
Presto, troppo presto, l'incubo di Atlantide torna ad addensarsi sul futuro.
E, stavolta, sembra esigere la vita dei suoi Figli.
Basteranno a salvarli l'abnegazione di una madre, il legame di una sorella e di un fratello?
Basterà il comandamento di un padre, "vivi"?
Basterà l'amore?
"Nadia, noi non siamo obbligati a dare o ricevere amore. Noi siamo amore."
Genere: Science-fiction, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Medina Ra Lugensius, Nadia Ra Arwol, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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PREPARATIVI
 
 
 

C’era un’altra cosa che Nadia aveva rivelato a Electra per lettera, ma Electra ancora non l’aveva rivelata a Etienne. Nadia aspettava il suo secondo figlio. Era una splendida notizia. Nadia sperava che sarebbe stata una bambina, ma era ancora presto per parlarne. Lo sapevano Jean e Grandis, con cui Nadia era in grande confidenza, ma per il resto preferiva mantenere il segreto finché non fosse stata più in là con la gravidanza. C’erano tante di quelle cose che avrebbero potuto andare storte, un po’ di scaramanzia non guastava. Electra era autorizzata a dirlo a Etienne, che sarebbe stato felicissimo, ma solo a patto che il ragazzino non ne facesse parola con nessuno.
Quello non sarebbe stato un problema, rifletté Electra, perché Etienne praticamente non aveva amici.
Dei compagni con cui era andato a scuola non aveva più visto nessuno. Raccontava di incrociare Omar in giro, ogni tanto, ma non gli dava confidenza. Nessuno dei due aveva dimenticato la brutta disavventura con la pistola. Electra aveva saputo, per vie traverse, che il ragazzo si sarebbe iscritto all’Accademia Militare di Parigi e sarebbe partito già l’autunno successivo. Buon per lui.
Bussarono alla porta.
«Avanti», disse.
Era Raoul, poteva trattarsi solo di lui d’altronde, Etienne era fuori già da un paio d’ore.
«Dimmi.»
Il vecchio venne avanti, poggiato a un bastone e visibilmente ingobbito, ed Electra notò che portava sottobraccio una bisaccia di cuoio che le parve di riconoscere.
Posò la borsa sulla scrivania che era stata di Nemo, erano nel suo studio, e si schiarì la gola.
«Ci sono dentro i miei attrezzi da lavoro», disse, «quelli che uso da quando ero giovane. Non mi hanno mai abbandonato.»
Electra sorrise, con una dolcezza che riservava a lui e a pochi altri.
«Lo so, mi ricordo bene di questa borsa.»
Raoul sembrò esitare, come se non avesse ben chiaro in che modo proseguire.
«Sono diventato vecchio, Medina. Ci vedo poco e cammino malamente. Ho ancora le mani salde, ma credo che questi sarebbero più utili se li usassero Jean o Philippe. Diventerà bravo quanto il padre.»
«D’accordo, ma…»
«Glieli poteresti, la prossima volta che vai in Francia?»
A Electra non piaceva quel discorso. Non le piaceva l’esordio, non le sarebbe piaciuta la conclusione. Stette in silenzio per qualche istante, poi replicò: «Abbiamo ancora bisogno di te».
Fu forse più lapidaria di quanto avrebbe voluto, ma quella conversazione la metteva a disagio. L’avevano già affrontata in passato, s’era sempre chiusa in un nulla di fatto. Il fatto che Raoul avesse intenzione di separarsi dai suoi amati strumenti di lavoro suonava definitivo in maniera intollerabile.
Lui ridacchiò, la barba candida che tremolava.
«E per cosa? Non siamo più su un sottomarino, Medina.»
Già, per cosa? Era una domanda lecita. Da dodici anni vivevano in pace, in fondo, e si erano adattati piuttosto bene a quella vita. Perfino lei credeva di averlo fatto eppure, in quel momento, qualcosa dentro di lei si ribellava. Raoul che lasciava andare i suoi strumenti era Raoul che lasciava andare il passato, il Nautilus, tutto quello che erano stati. Sì, era qualcosa che avrebbe dovuto fare anche lei. Ma quella casa, la stanza nel seminterrato, Etienne… no, Atlantide era qualcosa da cui lei non si sarebbe mai smarcata del tutto. Era triste, da un lato, perché era ormai una donna di trentotto anni, adulta, che avrebbe dovuto essere in grado di guardare al futuro con più leggerezza.
Non erano più in guerra, era vero.
Non erano più su un sottomarino, era vero.
Ma per lei era come se niente di tutto quello fosse mai finito.
Nemo le aveva affidato ciò che sarebbe venuto, lei se n’era fatta carico e avrebbe continuato a farsene carico fino alla morte. Era qualcosa da cui non si sfuggiva.
«Andrò a vivere per conto mio», continuò Raoul. «Non è giusto che un vecchio come me continui a gravare su di te e sul piccolo Etienne.»
Electra sospirò.
«Etienne crescerà, un giorno. Se ne andrà, farà la sua vita. Vorresti forse lasciarmi qui a invecchiare da sola?»
Raoul rise.
«Temo che sarò morto ben prima di quel momento.»
Electra non ci trovò niente di divertente.
«Perché dici questo? Ti senti male forse?»
«Al contrario, per la mia età sono in ottima forma.»
Electra accarezzò la borsa di cuoio che Raoul le aveva dato. Aveva un odore forte, vecchio quanto il proprietario.
«Allora resta, la casa è grande. E soprattutto…»
Alzò lo sguardo, gli occhi blu erano lucidi ma determinati.
«Siamo una famiglia, no?»
Raoul si lasciò sfuggire una lacrima e un sorriso, poi si avvicinò, la abbracciò. Voleva bene a quella ragazza, la nipotina che le rovine di Tartesso gli avevano restituito al posto dei suoi morti. E lei ne voleva a lui, un bene profondo che nasceva da tutto quello che avevano vissuto. Sì che erano una famiglia, anche se legami di sangue non ne avevano mai avuti.
 

Bang!
Lancio.
Bang!
Presa anche quella. I frammenti di vetro volarono dappertutto.
Etienne ricaricò, ormai lo faceva a occhi chiusi.
Le onde del mare, che in quel punto si rifrangevano sugli scogli con aumentato fragore, coprivano il rumore degli spari.
Prese un’altra bottiglia, la lanciò in aria, roteò su se stesso e sparò.
Bang!
Altri vetri, una pioggia color verde scuro che cadde dritta in acqua. Ogni volta cercava di lanciare più in alto, più lontano. Sparò due colpi consecutivi, uno a una bottiglia, l’altro a un pezzo di legno che aveva poggiato su uno scoglio distante. Ormai gli riusciva tutto così facile che, non fosse stato per testardaggine, avrebbe lasciato perdere per noia. Ma no, non poteva lasciare perdere. Sentiva di dover diventare più bravo, sempre più bravo. Aveva ereditato la mira da sua madre, ma non era quello soltanto. Era un’urgenza che aveva dentro, che non c’entrava niente col fare del male. Non gli sarebbe mai venuto in mente di usare una pistola per fare del male. Voleva solo sparare più in alto, più lontano, più veloce.
Percepì il movimento ben prima di vederlo con gli occhi.
L’aria alle sue spalle si mosse, s’aprì, fenduta da qualcosa di pesante, lanciato contro di lui in velocità.
Etienne socchiuse gli occhi, piroettò, puntò e colpì.
Una gragnola di sassolini s’abbatté sulla sabbia.
Lanciati dall’alto, rifletté Etienne.
Un applauso, da sopra gli scogli bianchi alla sua sinistra.
«Hai sparato senza nemmeno guardare, bravissimo.»
Etienne sospirò.
«Omar.»
Il ragazzo, più alto e robusto di lui, saltò giù dagli scogli.
«Qual buon vento?» chiese Etienne.
Non erano mai stati propriamente in buoni rapporti, dopo il famoso incidente non s’erano praticamente più parlati. Che poteva volere Omar da lui?
Un’alzata di spalle, l’aria bonaria.
«Sono solo venuto a salutarti. Fra qualche mese parto per la Francia e prima avrò delle pratiche da sbrigare con mio padre, non credo che ci rivedremo.»
Etienne alzò le sopracciglia. Che strana premura, da parte di qualcuno che l’aveva sempre detestato!
«Buon viaggio», rispose.
Mise la sicura alla pistola, non aveva intenzione di finire come l’altra volta.
«Mi iscriverò all’accademia militare.»
Omar, effettivamente, a quasi quindici anni aveva l’aria da soldato. Era un ragazzo vigoroso, pelle scura, capelli corti e neri e un naso pronunciato che tagliava un viso regolare, fin troppo severo malgrado l’età. Sembrava aver preso molto sul serio il suo nuovo ruolo, erano passati i tempi in cui bighellonava a scuola facendo dispetti. Certo, all’accademia avrebbe dovuto studiare, ed Etienne si trattenne dal chiedergli come avrebbe fatto un somaro come lui. Era meglio non provocarlo, lo sapeva, lo sentiva. Omar era ben più grosso di lui ed Etienne non sarebbe mai riuscito a scappare abbastanza in fretta, non su quel terreno sfavorevole, e usare la pistola era ovviamente fuori discussione. Quindi si strinse nelle spalle, guardingo, osservandolo da sotto in su con occhi blu d’improvviso taglienti come il vetro. Era strano quell’interesse.
«Ti auguro di fare carriera», gli disse. «Davvero. Possa tu trovare ciò che desideri.»
Omar sorrideva, un’ombra di baffi scuri sulle labbra. Anche così sembrava che lo stesse deridendo e a Etienne la cosa non piaceva.
«In verità volevo chiederti una cosa prima di partire. Ti ho seguito fin qui, scusami.»
«Dimmi», rispose Etienne, nella speranza di toglierselo di torno.
«Ma tu sei umano?»


 
Lo sguardo di Etienne si svuota, guarda il nulla.
Sente il rumore delle onde.
Sente il cielo.
Lo sente nelle vene come se gli stesse scorrendo nel corpo insieme al sangue.
Ha paura.


 
 
«Certo.»
La risposta, pacata, liscia, senza esitazione.
Qualcosa dentro di lui urlava.
Omar ridacchiò, sembrò soddisfatto, allegro.
«Sai, dovresti iscriverti in accademia pure tu. Sei bravo, un talento naturale oserei dire. Faresti strada.»

 
Le viscere strette, il bisogno di vomitare.
Etienne è sbiancato, ha gli occhi lucidi.
Sente all’altezza delle spalle un tremore d’ansia e il sudore freddo fra le scapole.
Fa caldo, in Marocco.

 
 
«Be’, io devo andare. Forse ci rivedremo, forse no. Però è stato un piacere. Magari se passi da Parigi fammi un fischio, so che tua sorella vive da quelle parti.»
Aveva calcato le parole “tua” e “sorella”, volutamente.
Etienne si costrinse a respirare, profondamente, una volta, due, tre. Lo guardò a lungo, occhi blu, taglienti come il vetro. Strinse i denti e sorrise.
«Senz’altro», rispose.
Agire come se non fosse accaduto nulla, agire come se andasse tutto bene, anche con la paura, anche col tremore che prendeva le mani, e Omar se n’era accorto, non c’era possibilità che non se ne fosse accorto.
«Ciao», la risposta di lui, alto e grosso, mentre s’allontanava con quel passo già da militare.
Solo ciao, non addio, non arrivederci, come se avessero dovuto incontrarsi a scuola il giorno dopo.
A Etienne sembrò di tornare a respirare, sentì l’ingombro che aveva nel petto sciogliersi, i polmoni finalmente allargarsi. La testa gli girava a velocità impressionante. S’accucciò svelto contro uno scoglio, vomitò, scarsi residui di colazione e succhi gastrici, poi si pulì col dorso della mano.
“Sei umano?”
La domanda, la risposta.
Guardò il mare e pianse.
 
Le strade che portano alla città vecchia sono piene di gente, brulicano di gente.
Potrebbe essere il giorno buono.
Pensa solo a quello, la mendicante.
Potrebbe essere il giorno buono dopo una settimana.
Si inginocchia sui gradini bianchi di un palazzo, ha i vestiti stracciati, puzzano, lei c’è abituata e non ci fa più caso. La gente ci fa caso, però, sente la puzza dei suoi abiti anche se l’aria odora forte di spezie.
Si inginocchia e sta lì, fronte a terra, le gambe magre escoriate dal troppo stare immobile.
La mendicante è un corpo secco, martoriato dalle pulci, fronte a terra e non osa alzare la testa, lamenta qualcosa fra i denti guasti.
Ha fame.
Non mangia da…
Ha fame, talmente fame da non avere pensieri.
Ore immobili, minuti immobili, la terra dura calda di sole e i gradini bianchi.
La gente passa, vede le scarpe, sente risate e voci e passi.
Passano tutti, alzano polvere e terra.
Ha caldo, ha fame.
Apre la bocca per chiedere aiuto.
Allora s’accorge di qualcuno che si è fermato, un piede da bambino stretto in sandali costosi.
La mendicante non osa alzare lo sguardo.
Si inginocchia lui, la guarda a lungo.
Stanno in silenzio, uno di fronte all’altra.
Lui ha capelli scuri polverosi di sabbia, gli occhi arrossati di chi ha pianto.
È bello, nota lei, anche con la vista annebbiata dalla fame, anche se sta per svenire per il caldo, è un bel ragazzino ricco con occhi blu di cielo notturno e viso fiero.
Poi lui si alza, si allontana come tutti.

 
La donna, doveva essere una donna, era un gomitolo di stoffa consunta e odorava di stalla e rancido.
Etienne l’aveva guardata per un po’, non s’era mai mossa, non aveva emesso fiato, circondata da mosche e pulci e da qualche altro insetto sgradevole. Era difficile perfino capire che fosse una donna, sembrava qualcosa di abbandonato lì, come uno straccio, un cumulo di oggetti vecchi.
Nessuno le badava.
Sembrava che lei non avesse il coraggio di muoversi, neppure di chiedere.
Biascicava qualcosa, di tanto in tanto, in un dialetto che Etienne faticava a comprendere.
Forse era solo debole di mente, non riusciva a mettere insieme le parole, il fiato si intrecciava coi pensieri. O forse aveva fame, solo fame. Doveva averne molta, a giudicare dalla magrezza delle mani e di quel po’ di gambe che si intravedevano.
Etienne allora s’era avvicinato, s’era inginocchiato, poi s’era alzato di nuovo e s’era allontanato.
Solo per tornare poco dopo, fra le braccia un cesto coperto da un telo che poggiò accanto alla mendicante. Sedette accanto a lei sui gradini bianchi.
«È cibo», disse. «Ti ho comprato pane e qualche altra cosa che si conserverà per qualche giorno. C’è anche qualche dolce di miele e frutta secca, è nutriente.»
La mendicante non rispose, restò immobile in quella scomoda posizione in ginocchio quasi come se non fosse stata in grado di spostarsi.
«Non te lo far rubare», le raccomandò Etienne. «Ci sono tanti poveri in questa città.»
Scorse il bagliore di un occhio incredulo, la testa di lei che si muoveva appena.
Le sorrise.
«Mangia quando vuoi, sto io qui a controllare. Non tutto insieme però o ti fa male.»
Allora lei si mosse, rigida, una pietra che prendeva vita. Prese dal cesto una pagnotta di morbido pane arabo, la spezzò, ne mangiò con timore un angolo. Etienne sorrise ancora, alzò lo sguardo al cielo azzurro fra i tetti. Lei non voleva che la vedesse piangere, ne era sicuro.
Qualche passante li osservò, incuriosito.
Un ragazzino chiaramente benestante e una mendicante che sembrava appena umana, dovevano formare una ben strana coppia. Etienne sorrise a tutti, rilassato, le mani poggiate ai gradini bianchi. Sto bene, sembrava dire. Attese che la donna avesse finito la pagnotta.
«C’è un po’ di frutta», disse indicando il cesto, «ti rinfresca.»
S’alzò dopo un po’, senza aspettarsi ringraziamenti.
«Torna qui domani. Ti porto altro.»

 
Electra lo trovò in cortile una mezz’oretta più tardi. Guardava l’acqua della fontana, seduto sul bordo.
«Che succede?» gli chiese, dalla balaustra. Era pensieroso, lo capiva anche solo dalle spalle curve.
Aveva addosso un mezzo sorriso, gli occhi un po’ gonfi, una mano che sciabordava nell’acqua fresca.
«Ho aiutato una mendicante», disse solo.
Electra annuì, poi scese le scale fino al cortile.
Che fosse turbato da qualcosa era intuibile, capire da cosa sarebbe stato un altro paio di maniche.
Riusciva a essere impenetrabile come lo era stato il padre, quando voleva, trincerato dietro un silenzio di pietra. Parlavano gli occhi, però, parlava il corpo. Parlava perfino quello stesso silenzio. Ed Electra li sapeva interpretare molto bene. Scelse di non farlo, per rispetto di qualunque sentimento suo figlio si portasse dentro. Gli accarezzò la schiena, però, lentamente.
«Sai», disse Etienne, «era lì, a bordo strada, vestita di stracci, nessuno la guardava, nessuno le parlava, era un oggetto buttato lì, via, un animale o meno.»
«E ti ha fatto pena?» chiese Electra.
Etienne negò, scuotendo la testa, i capelli seccati dal sale del mare.
«No. Non ho provato pena. È solo che stava lì, aveva fame, da chissà quanti giorni, sempre. E ho pensato che se non hai da mangiare dimentichi tante cose. Pensi solo alla fame, come un cane affamato. Lei stava lì e aveva fame. Allora le ho dato da mangiare. Forse così, una volta soddisfatto quel bisogno, una volta che avrà finalmente lo stomaco pieno e sentirà un po’ di calore addosso, ricorderà le cose importanti. Ricorderà che al mondo c’è qualcuno che la ama.»

 
È il modo in cui parla dell’amore.
Il modo in cui ha sempre parlato dell’amore.
“Nadia, noi non siamo obbligati a dare o a ricevere amore. Noi siamo amore.”
Nadia sente quelle parole, lo abbraccia, lo stringe forte.
Vorrebbe prenderlo in sé, quel cuore generoso, proteggerlo dal dolore e da ogni male.
Stringe quel bambino diventato uomo mentre intorno a loro il mondo si sforma, si sente madre e figlia e sorella e tutto, mentre il mondo creato perde i contorni.
Ti amo, gli dice, non mi lasciare, fratello, ti amo.
La verità è che non s’è mai sentita al sicuro come fra quelle braccia.
Insieme, rimanere insieme, ciò che conta, ciò che urla il sangue, vuole prendere in sé quel cuore generoso e proteggerlo da ogni male, dal mondo azzurro che si sfalda.
Salvare quel figlio di Atlantide più umano dell’umano.
I muscoli della schiena, la stoffa spessa della divisa imbrattata di qualcosa che sembra sangue.
Trema appena di dolore.
È vivo.
Ti amo, lei sussurra, ti amo, non te ne andare.

 
 
Electra capì che era giunto il momento di dargli la notizia.
Ne sarebbe stato felice, senz’altro.
«Mi ha scritto tua sorella», disse.
«Ah sì?»
Non era una novità.
«Ho una bella notizia.»
Etienne, per la prima volta, si mostrò incuriosito.

«Cioè?»
«Aspetta un altro figlio.»
Il viso di Etienne si illuminò, il sorriso s’aprì come un raggio di sole.
«Davvero?»
Electra annuì.
«Sì, ma sono ancora solo pochi mesi quindi mi raccomando, non farne parola.»
«Evviva, diventerò di nuovo zio! Quando nasce? Andiamo a trovarla prima del parto, vero?»
«Certamente.»
«Bene, così possiamo pure approfittarne per cercare casa.»
Quelle parole spiazzarono Electra.
«Cercare casa?»
Etienne annuì: «In Francia.»
Il suo sguardo era quieto, determinato, era uno sguardo che Electra aveva imparato a conoscere bene. Anche quel discorso l’aveva già sentito, tornava di tanto in tanto.
«Perché vuoi così tanto andare a vivere in Francia?» chiese. «Non stai bene qui?»
«Sì, sto molto bene.»
«E quindi?»
C’era una sola risposta possibile, un’ovvia constatazione che Etienne proferì con occhi limpidi, sereni, e col sorriso.
«Devo stare con mia sorella.»
Fu in quel momento che Electra, per la prima volta, si chiese se quello di suo figlio non fosse un destino ineluttabile. Si chiese che cosa avrebbe potuto fare lei, se quello davvero si fosse rivelato destino. Gli occhi di Etienne, così simili ai suoi, celavano abissi.
«D’accordo», disse soltanto. «Faremo come vuoi.»

 
Viene la notte, i sogni con essa.
Grumi di sogni di Tartesso, sfasati, muri che crollano e urla e sangue e tenebre.
Suo fratello Vinusis col corpo maciullato dall’esplosione e dai detriti, che trasferisce a Nadia neonata la Pietra Azzurra di Sana’a.
C’è qualcosa che crolla, sopra il corpicino di Nadia, Etienne d’istinto vorrebbe sporgersi e proteggerla e non può farlo perché lui un corpo non ce l’ha.
La Pietra la protegge, Sana’a la protegge, sbriciola ogni sasso.
Ormai Sana’a non c’è più, pensa Etienne.
Non è più in nessun luogo.
Non ha percorso la Strada degli Dèi.
Ha rispettato il volere della figlia, la regina.
Ha usato il potere per riportare Jean in vita.
E ora chi proteggerà la regina?
Io.
Gli sembra di vederla, la bella e dolce Sana’a.
Se fosse ancora da qualche parte lui glielo direbbe, di non preoccuparsi.
S’avvicina, osserva la neonata e lei sorride, gorgoglia con un po’ di saliva sulle labbra.
La Pietra è illuminata di luce tenue, la polverina dei sassi frantumati e dei crolli fluttua intorno a loro, c’è una cupola azzurrina di luce a salvarla da quella e dalle case.
Etienne la supera, attraversa la cupola, ne sente l’energia nel momento in cui la attraversa.
Gli entra dentro, quell’energia, anzi lui è l’energia, diventa la cupola e la cupola è lui.
Un istante, il tempo di attraversarla.
Poi il suo corpo, il corpo residuo che non ha sostanza, riprende forma.
La proteggo io, dice.
Sana’a gli è davanti, il sorriso è dolce, cristallizzato, quello dell’ologramma e del ricordo.
Sa chi è lui e non lo giudica.
Si riconoscono animati dallo stesso desiderio.
La amano entrambi, la madre, il fratello.
La ama anche il fratello dal corpo martoriato, che pur già plagiato da Gargoyle non è riuscito a lasciarla morire.
Etienne fa per toccare la Pietra, luminosa.
Sa che se la tocca non tornerà indietro.
Ha il sentore dolce del riposo.
Nadia piange.
Il pianto acuto di neonata si mescola al pianto di lei ragazza.
Voglio stare con te, le parole.
Lei le ripete, voglio stare con te.
Al padre, da qualche parte in futuro.
Al fratello, in un altrove non ancora accaduto.
Voglio
Stare
Con
Te
E il pavimento è di metallo, l’aria sa di fumo, le luci saltano, sono rosse e poi è tenebra e di nuovo rosso.
C’è una figura seduta, lunghi capelli scuri e un corpo fasciato.
Lo guarda, non lo vede, è indebolito dalla perdita di sangue e ha rinunciato al regno e al potere molto tempo fa.
C’è la voce di Nadia nell’aria, un altoparlante, ripete di non volerlo lasciare.
Etienne guarda l’uomo, in quel buio ne scorge appena il viso.
L’uomo sa che va bene così.
È rassegnato a morire, ma non triste.
Sa di aver fatto bene.
Etienne piange.
A Etienne trema perfino il cuore.
C’è stato un istante in cui ti sei pentito? Vorrebbe chiedergli.
Papà.
Click.
Preme il pulsante e l’aria si tende, si scalda, il corpo strappa e brucia, Etienne non ha ossa non ha pelle ha solo il pensiero ma lo stesso lo sente, il dolore che non è più dolore, è luce, è un fischio acutissimo nel mezzo della testa e non sente altro se non la sofferenza e il calore e le tenebre e il sangue e l’aria che esplode e si fa luce.
Urla.
Ha male in ogni cellula del corpo e lo urla, continua a urlare finché non riemerge su un soffitto che conosce, bianco, il telo di un baldacchino, e ha il suo corpo e le gambe che sono le sue e si muovono.
Urla e piange in un bagno di sudore, il corpo scosso da convulsioni e brividi, il sapore acre della bile in bocca.
Inspira, la boccata di chi riemerge dopo aver rischiato di annegare.
Lo calma l’aria fresca della notte.
Resta a occhi sbarrati, pupille piccole come capocchie di spillo che lentamente si dilatano.
Si costringe a respirare.
Inspira, espira.
Inspira, espira.
Riesce a controllare gli arti, infine, ma non ad alzarsi in piedi.
Allora striscia fino a un angolo asciutto del letto, si raggomitola abbracciato a un cuscino.
Trema incontrollabilmente.
 


«Etienne!»
Lo trovò così, Raoul, entrato in camera attirato dalle urla.
Un ragazzino in un bagno di sudore e lacrime, che lo guardava spaurito come a decidere se la sua presenza fosse realtà oppure sogno.
A Raoul venne quasi da piangere a sua volta. Sapeva dei sogni del ragazzo, ma non l’aveva mai visto ridotto in quello stato. In silenzio lo aiutò a sedersi, Etienne gli si aggrappò e pianse ancora. Raoul lo lasciò fare. Quando si fu calmato gli prese un bicchiere d’acqua dalla brocca che teneva in stanza, si accertò che bevesse.
«Ora cerca di rilassarti», disse. «Siamo nel 1902. A Tangeri.»
«Lo so.»
«Riesci ad alzarti? Ti prendo una camicia da notte pulita.»
Etienne lo osservò mentre armeggiava col suo armadio, pian piano riuscì a poggiare a terra i piedi nudi e ad alzarsi. Prendi coscienza del corpo, si disse. Prendi coscienza del corpo, del pavimento, della sostanza delle cose. I muscoli risposero.
Raoul lo osservò mentre si cambiava. Era un bel ragazzino, forse ancora un po’ magrolino ma agile e svelto, non aveva niente che non andasse. Eppure perché doveva star male in quel modo? Avrebbe dovuto parlarne a Medina. Sembrava che la situazione stesse peggiorando.
Etienne s’allacciò la camicia da notte, in silenzio. Era il silenzio di chi aveva qualcosa da domandare.
«Nonno Raoul?» chiese, infatti.

«Dimmi.»
«Papà mi voleva bene?»
Di nuovo quella domanda.
Raoul sospirò.
«Andiamo sul terrazzo», disse, «così prendi un po’ d’aria.»   

 
Salirono su, entrambi malfermi sulle gambe. Raoul ridacchiò.
«Siamo una bella accoppiata.»
Etienne sorrise.
Li accolse la notte, fresca e odorosa di mare. Il cielo era scuro, trapuntato di stelle.
Etienne sedette su una chaise longue, poi si stese, chiuse gli occhi.
Raoul non lo disturbò.
Aveva solo dodici anni e già riusciva a vedere l’uomo che sarebbe diventato. Aveva il viso tagliente di Nemo, ingentilito dalle labbra e dagli occhi della madre. Lo vedeva più grande, sdraiato su quella stessa chaise longue, intento a leggere un libro come in passato faceva spesso suo padre.
«Quanto somigli a Elusys», disse.
Etienne aprì gli occhi, lo scrutò per un attimo, poi li chiuse di nuovo.
«Lo so. Me lo dite sempre.»
«Ti pesa? Somigliargli, dico.»
Etienne scosse la testa.
«No. Anzi, sono contento.»
«Quello dove sei seduto tu era il suo angolo preferito», continuò Raoul. «Veniva spesso qui a leggere o anche solo a fumare la pipa.»
«Sembra che io non gli somigli solo nell’aspetto, dunque.»
Raoul sorrise.
«No, infatti. Era un uomo d’animo dolce e gentile, esattamente come te. E fidati, lo dico perché l’ho conosciuto bene. Non sono due aggettivi che gli avresti dato sulle prime, specialmente non dopo il disastro di Tartesso. Ma era ancora così, è stato sempre così.»
A Raoul non sfuggì la smorfia di Etienne nel sentir nominare Tartesso. Ecco, dunque, il soggetto dei suoi incubi. Decise di non indagare oltre, era una strada accidentata quella ed Etienne aveva bisogno di tranquillità e riposo. Inoltre non parlavano mai di quello che vedeva in sogno. Era una specie di legge non scritta.
«I bambini gli sono sempre piaciuti. Si affezionò molto alla piccola Marie, per esempio, che aveva quattro anni quando salì sul Nautilus.»
A Etienne piaceva sentir parlare del Nautilus. Era qualcosa che apparentemente non conosceva. Raoul s’arrischiò a chiederglielo, con tenerezza: «Hai mai visto il Nautilus?»
Etienne capì subito a che tipo di visione il vecchio capo macchinista si riferisse.
«No», rispose. «Non vedo mai così avanti nel tempo. Solo che…» strinse le mani a pugno «stanotte ho sognato il Red Noah, non so perché. Mi era successo solo una volta, tanti anni fa, ero piccolo. Poi avevo giurato a me stesso che non avrei mai più visto in sogno una cosa così orribile. Finora mi era andata bene. Non avevo più sognato né il Red Noah né gli eventi recenti collegati a esso. Neanche il Nautilus, quindi. Ma stanotte non so cos’è successo. Non credo sia qualcosa che controllo.»
Ignorò le nuove lacrime che gli annebbiavano la vista.
«Se io fossi stato lì…» sussurrò. «Se solo fossi stato davvero lì…»
«Che avresti fatto, Etienne? Hai solo dodici anni.»
Sembrò crollargli addosso, l’impotenza dei suoi dodici anni.
«Non lo so. Non lo so, ma avrei cercato di salvare tutti. Ce l’avrei fatta in qualche modo.»
«Ci ha già provato tua madre, a salvare tutti. E ce l’ha fatta, in un certo senso. Se non fosse stato per lei non saremmo qui. E tuo padre portava addosso una responsabilità troppo grande. Un peso che lo schiacciava, una colpa che necessitava di essere espiata. La sua vita, inoltre, era già segnata. È stata segnata nel momento in cui ha rinunciato al potere guaritore della Pietra Azzurra per riportare in vita Jean.»
«È stato stupido», disse Etienne.
Raoul rise.
«Probabilmente sì.»
«Ha rinunciato a essere felice perché non pensava di meritarselo? Che scemenza.»
«Etienne. Di questo abbiamo già parlato. Ti rifaccio adesso una domanda che ti avevo già fatto anni fa. Ricordo bene qual era stata la tua risposta. Adesso pensaci e dimmi sinceramente se la pensi come allora. Se tu fossi stato al posto di Nemo, avresti lasciato morire tua sorella? E Jean, se è per questo.»
«No. Certo che no.»
«E cos’è che ti tormenta, dunque?»
«Lo sai, è una stupidaggine.»
Raoul si carezzò la barba, pensieroso.
«Sai, avevamo appena rischiato seriamente di morire. Eravamo affondati, il Nautilus fatto a pezzi. Ogni tanto ripenso al rumore del metallo che rischia di non reggere alla pressione, alle rivettature che saltano una dopo l’altra, ho gli incubi anch’io! C’eravamo salvati solo grazie ai tunnel sottomarini costruiti dagli antichi atlantidei, ed eravamo approdati ai livelli sotterranei di quel che restava dell’antica Tartesso. Non so se tua madre ti abbia mai raccontato di come andarono le cose tra loro dopo che… insomma…»
«Dopo che gli infilò un proiettile nel braccio?»
«Sbagliò di proposito. Da quella distanza avrebbe potuto tranquillamente ucciderlo se avesse voluto. Nemo non gliene fece mai una colpa, comunque. La mise alle strette, questo sì, ma fu per farle capire quanto fosse importante vivere, fino all’ultimo respiro. Lei, in particolare. L’ultima sopravvissuta fra gli abitanti di Tartesso. Un miracolo. Io, sai, li conoscevo da lunghi anni. Lei da quand’era una bambina, Elusys fin dai tempi in cui lavoravo a palazzo. Avevo capito che si volevano bene e ho sempre fatto il tifo per loro. Erano due testoni, però, e fino alla fine mi sono chiesto come sarebbe andata a finire. Ecco, quel giorno tua madre gli infilò un proiettile nel braccio e fu la sua fortuna. Capì che, pur con tutto l’odio, lo amava al punto da non poterlo uccidere. E capì che lui, be’, le voleva bene perché era Electra e non perché la considerasse una sostituta della figlia. Solo che non sapeva come gestire il suo stesso affetto. Il fatto che fossero finalmente riusciti a mettere a nudo i propri sentimenti, sia pur in modo così maldestro, cambiò tutto. Come ti dicevo, sopravvivemmo e arrivammo a Tartesso. Nei giorni appena successivi tua madre fece di tutto per evitare il Capitano. Si sentiva talmente in colpa da non riuscire nemmeno a guardarlo in faccia. Io la trovavo tenerissima, lo ammetto.»
«Come hanno fatto poi a chiarirsi?»
«Nemo venne da me e mi chiese una mano. Mi chiese cos’era meglio che facesse, perché voleva chiarire quella situazione e gli dispiaceva che un suo sottufficiale – usò proprio questa parola – fosse così a disagio. Io risi e mi chiese cosa ci trovassi di divertente. Be’, sai, Etienne? Io lavoravo a palazzo già dai tempi del precedente re, tuo nonno, e ho praticamente visto crescere Elusys. L’ho sempre considerato un po’ anche figlio mio. So che può sembrare un’affermazione strana, ma di tutto l’equipaggio ero quello che lo conosceva meglio e il solo con cui si confidasse. Gli dissi semplicemente di parlare a Electra, in tranquillità. E di fare chiarezza in quello che provava, prima. “Lo so quello che provo”, mi rispose. Non avevo dubbi che sarebbe andata bene. Lui s’era negato l’amore perché pensava di non meritarlo, però l’amore era lì, era sempre stato lì sotto il suo naso. Ebbe il coraggio di afferrarlo, alla fine. Nessuno dei due mi disse nulla, ma me ne accorsi. Era cambiato il modo in cui si guardavano, in cui stavano uno accanto all’altro mentre lavoravamo all’Exelion. C’era una nuova vicinanza che un occhio esterno non avrebbe notato, ma io sì. Tua madre era meravigliosa in quel periodo, raggiante. E Nemo… aveva ricominciato a sorridere. A sorridere davvero, intendo. Era rilassato, sereno come l’avevo visto solo prima della tragedia. E una mattina venne da me quasi con le lacrime agli occhi per la gioia. Raoul, mi disse, proteggi mio figlio. Aiutalo come hai fatto con me. Certo che ti voleva bene, Etienne. Ti ha amato dal primo momento. Esattamente come ha amato tua madre. Su questo non devi avere dubbi.»
Etienne, finalmente, sorrise.
«È solo che mi manca, sai. Mi manca tanto. L’avrei voluto conoscere.»
«Lo so. E lui avrebbe voluto conoscere te. Se fosse qui sarebbe fiero del ragazzo che sei diventato, questo te lo posso garantire.»
«Grazie.»
«Ora coraggio, prova ad andare a riposare o domani non riuscirai a tenere gli occhi aperti. Credo che per stavolta gli incubi siano finiti.»
 

Electra pose la lettera di dimissioni sulla scrivania dell’uomo.
«Lascio l’incarico», disse soltanto.
«Ma come mai? Non si trova bene?»
«Non è questo, è che io e mio figlio ci trasferiremo in Francia.»
«Da quando?»
«Dall’inizio del prossimo anno, probabilmente. Ma prima faremo qualche viaggio per aver modo di sistemare la nuova casa e ultimare i preparativi. Non avrei più modo di continuare col lavoro. La ringrazio, però, mi sono trovata bene.»
L’uomo era un vedovo padre di due figlie, Electra aveva lavorato presso di lui per anni come istitutrice delle due ragazze. Come aveva detto a Nadia, anni prima, non voleva intaccare più di tanto il patrimonio che Nemo aveva lasciato, almeno per quanto riguardava lei direttamente.
S’era trovata bene, davvero.
Lui teneva la lettera in mano, come se non sapesse decidersi a decifrarne il contenuto e il significato.
«Mi dispiace proporglielo così all’improvviso», disse infine, «ma da tempo pensavo di risposarmi. Le ragazze meritano di avere una figura materna accanto e io ho bisogno di una moglie. Non le andrebbe di essere lei?»
Electra sorrise, un sorriso distante, di ghiaccio.
«Mi dispiace ma devo rifiutare. L’unico uomo che io abbia mai amato e voluto accanto è il mio defunto marito. Non desidero risposarmi.»
Guardò la fede che ancora portava al dito.
«Il figlio che abbiamo avuto insieme è la sola cosa che conti, per me.»
L’uomo, Maximilien si chiamava, era una brava persona. Quasi le dispiacque avergli dato una delusione.
Quasi.
 

 
Lei ha quindici anni, i capelli lunghi, biondi, legati in due codine che la fanno sembrare persino più piccola della sua età.
Lui di anni ne ha trentasette e ha il peso di una tragedia sulle spalle.
Tangeri è illuminata da luci tenui e fuochi persino a quell’ora di notte.
Medina non riesce a dormire, così decide di fare due passi su e giù per i corridoi dell’enorme palazzo. S’avvolge uno scialle intorno alle spalle, sopra la camicia da notte, perché le notti marocchine sono fresche.
Va fino allo studio di Elusys, torna indietro, s’affaccia sul cortile, torna indietro.
La luce in camera di Elusys è ancora accesa, la porta è socchiusa, incuriosita sbircia e lui non è dentro.
Il letto è ancora in ordine, segno che non è proprio andato a dormire.
Medina sa bene dove trovarlo.
Sale le scale fino alla terrazza, si fa strada fra le piante in vaso e i teli che riparano la veranda.
Lui è lì, sdraiato sulla sua chaise longue preferita, cullato dalla brezza.
Ha un libro abbandonato in grembo, sembra dormire.
Medina arrossisce, le sembra di violare qualcosa di intimo.
Lo osserva a lungo, però.
È raro vederlo così rilassato, sembra ancora giovane, indifeso.
Lei sa perfettamente chi è lui, cos’è lui.
Sa che non è umano, sa che era il re di Tartesso.
Sa che lo ama.
Stringe lo scialle perché le si è stretto il cuore, ha il petto pieno di quell’amore.
S’avvicina, in punta di piedi.
Vorrebbe toccarlo, ne ha un bisogno improvviso, istintivo.
Allunga una mano, verso le guance, verso i baffi e gli zigomi.
Non ci arriva, però, non fa in tempo.
Lui apre gli occhi, la guarda, lei sussulta perché quello sguardo non lo sa interpretare.
Vorrebbe scappare, lui se ne accorge.
Allora prende quella mano rimasta protesa, stringe piano le dita con le dita, restano così.
A lungo, in silenzio.

 
 
Nadia, a Le Havre, si accarezzava la pancia e osservava le stelle.
Nebulosa M78, chissà in qualche parte del cielo si trovava. Orione, le sembrava di ricordare.
Da quando non aveva più la Pietra Azzurra, certe cose che prima le sembrava di sapere per istinto diventavano sempre più sfocate nella sua memoria.
Forse era meglio così. Non avrebbe più sentito parlare di Atlantide, Gargoyle era stato sconfitto, lo stesso valeva per il creatore di Fuzzy. L’umanità si avviava verso un’era di pace.
Lo sperava, per Philippe, per Etienne, per Anita, per il bambino che sarebbe nato.
Si meritavano di diventare adulti in un mondo prospero, felice, accogliente.
Non avrebbe sopportato che anche loro dovessero soffrire e combattere com’era stato per lei.
Certo la sofferenza faceva parte della vita, era inevitabile.
Prima o poi né lei né Jean sarebbero stati più al mondo, Philippe certo ne avrebbe sofferto, la sua sorellina o fratellino anche, e così i loro figli. Avrebbero pianto la perdita dei loro genitori e nonni.
Lei non ricordava sua madre, ma per Nemo aveva pianto.
Era strano, tra l’altro, perché l’aveva conosciuto solo a tredici anni e l’aveva detestato.
Era come se una parte di lei sapesse che lui era responsabile di quanto era accaduto alla sua patria, del fatto che lei fosse rimasta sola, che non avesse radici né memoria.
Poi però aveva scoperto che lui era suo padre.
L’aveva capito mentre il Nautilus affondava, prima ancora di ascoltare il racconto di Electra o di trovare l’ologramma.
L’aveva capito dagli occhi di lui quando aveva chiuso lei e Jean nella sua cabina per salvarli, dal gesto che aveva fatto, aveva allungato una mano come per farle una carezza, che lei aveva rifiutato perché non voleva essere toccata da un assassino. Quant’era stata sciocca.
Ancora sentiva una stretta al cuore se pensava al lampo di dolore nello sguardo di Nemo.
Era un uomo che già aveva dovuto sopportare tanto, che aveva avuto la gioia di ritrovare una figlia e il dolore di sapere che lei lo detestava senza possibilità di redenzione.
Lei era stata terribile, implacabile nella sua cattiveria.
«Sono stata una stupida, papà», sussurra. «Ovunque tu sia, se puoi, perdonami.»
Nadia guardava le stelle dalla finestra, quasi sperando che lui fosse ancora lassù, dove l’aveva visto l’ultima volta.
«Ti voglio bene. Avrei voluto davvero stare con te. Avrei voluto che tu fossi qui a crescere i tuoi nipoti, a crescere tuo figlio. A crescere me. Sono ancora una ragazzina, in fondo. Avrei ancora bisogno della tua guida.»
Nadia s’asciugò una lacrima, si accarezzò la pancia ancora una volta.
«Stavolta sento che sarà femmina, sai? Vorremmo chiamarla Anne Marie, come la defunta madre di Jean. Verrà su una brava bambina, la cresceremo bene. Philippe è un po’ scapestrato, ha preso tutto da Jean. È geniale quanto lui con le invenzioni. Spero che sarà un bravo fratello maggiore e non coinvolga la sua sorellina in cose strane. Comunque siamo tutti una famiglia, allargata ma una famiglia. Anche con Grandis, Sanson e gli altri. Lei si è presa cura di noi come le avevi detto di fare. Mi ha insegnato a cucinare. Mi ha insegnato a essere una brava donna di casa, anche se non avresti mai detto che lei lo fosse. Mi ha insegnato come vivere, dopo che nella mia vita mai niente era stato normale. Ogni tanto sogno ancora il circo. Poi c’è Electra, sento spesso anche lei. All’inizio non mi era troppo simpatica, penso che te ne fossi accorto anche tu. Però col tempo ho capito perché te ne sei innamorato. È una persona incredibile. Io non avrei mai avuto la forza di crescere un figlio da sola, di rifarmi una vita come ha fatto lei. Mi ha scritto pochi giorni fa, per dirmi che lei ed Etienne verranno a trovarmi prima della nascita della bambina. O del bambino. Dice che si trasferiranno in Francia, perché Etienne ci tiene. È un bravo ragazzo, tuo figlio. Da piccolo era il bambino più dolce che si potesse immaginare. Lo è ancora, ed è tanto affezionato a tutti noi.»
Una folata di vento, Nadia rabbrividì. Iniziava a fare freddo. Guardò un’ultima volta il cielo, prima di chiudere la finestra.
«Veglia su di noi, papà.»
Cadde una stella.
   
 
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