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Autore: _Agrifoglio_    16/09/2021    12 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Foro-romano
 
La città eterna
 
Roma, settembre 1805
 
Camminavano per le vie di Roma, con passo leggero e, a tratti, saltellante, eccitato dalla novità e non appesantito dal trascorrere degli anni.
Vestivano in stile impero, perché tutti combattevano Napoleone, ma, poi, seguivano le mode che egli lanciava. Maria Antonietta, del resto, da vedova di mezza età, non era più un’autorità in fatto di stile e, in Austria, gli Asburgo non badavano a certe frivolezze. La Russia era troppo periferica per dettare la moda, al massimo tentava di rincorrerla mentre lo Stato Pontificio era decisamente pontificio.
Le due ragazze indossavano abiti di robusto cotone, perché il settembre romano era caldo ed esigeva ancora la freschezza, ma la seta, la mussola e il raso erano tessuti tropo delicati per un’escursione fra le rovine dei sette colli. I vestiti erano lunghi e dritti, stretti sopra la vita da nastri di seta, con piccole maniche a palloncino e scollature rettangolari. Antigone vestiva di blu e Bernadette di verde scuro: si professavano donne intelligenti, istruite e intellettualmente libere, ma, alla bisogna, non disdegnavano di intonare gli indumenti al colore degli occhi. Ai piedi, calzavano robusti stivaletti, di quelli utilizzati nelle passeggiate campestri mentre i capelli erano raccolti in alti chignon, ad eccezione di alcune ciocche che si attorcigliavano in spiritosi riccioli sulla fronte e sulle tempie, il tutto sormontato da graziosi cappellini di paglia.
Honoré, invece, era in borghese e indossava una camicia bianca di lino col colletto alto, trattenuto sotto il mento da un’ampia cravatta – foulard azzurra di seta che faceva più giri intorno al collo per, poi, finire annodata in un ampio fiocco. Gilet e giacca erano a vita alta (la giacca solo sul davanti, perché, dietro, proseguiva in una coda) ed erano ornati da due file parallele di grandi bottoni tondi e piatti, così come i pantaloni attillati che terminavano un poco sotto il ginocchio. Calzava alti stivali di pelle nera mentre i capelli arrivavano alla nuca ed erano orientati sulla fronte e leggermente spettinati.
Chiacchieravano allegramente fra loro, commentando la gita ai Fori Imperiali del giorno prima e la visita a Piazza di Spagna e a Piazza Navona del giorno prima ancora. La Fontana della Barcaccia, Trinità dei Monti con la sua scalinata e la sua Chiesa, la Fontana dei Quattro Fiumi, la Chiesa di Sant’Agnese in Agone, le viuzze e gli scorci circostanti erano gioielli che difficilmente avrebbero dimenticato.
Le due ragazze avevano in mano mazzolini di anemoni, loro donati da rubiconde popolane alle cui bancarelle avevano acquistato salami, focacce, fichi e altri generi alimentari per uno spuntino veloce.
Dietro di loro, i genitori camminavano più ordinatamente, commentando i particolari della delicata missione affidata a Oscar.
Ancora più indietro, marciavano alcuni soldati, assegnati loro come scorta, perché le rovine romane erano il luogo di ritrovo della più varia umanità: di giorno, pastori, popolane con brocche d’acqua in testa, viaggiatori, sfaccendati e artisti; di notte, prostitute e briganti. Si domandavano perché dovessero fare da balia a quei ricconi con la fissazione dei ruderi, ma, intanto, erano contenti, perché potevano fare quattro passi all’aria aperta senza rischiare sostanzialmente nulla.
Completava la comitiva un giovane Sacerdote alto e allampanato, appena uscito dal seminario, ennesimo figlio cadetto di una nobile famiglia romana con pochi mezzi e molte affettazioni, che il Cardinale Brancadoro aveva loro inviato come cicerone. Li accompagnava con passo rigido e un poco nervoso, dispensando loro la sua cultura umanistica e la sua diplomazia vaticana, domandandosi, fra sé e sé, per quale strano accidente una donna, per giunta sposata e madre, dovesse vestire gli abiti di un uomo, fare il soldato, comandarne moltissimi altri ed essere in lista per un’udienza con Sua Santità.
André, ormai, seguiva anche lui la moda Regency, col colletto alto e l’ampia cravatta annodata che aveva sostituito lo jabot e con i gilet e le giacche a vita alta. Aveva tagliato un’altra volta il codino e, adesso, i capelli brizzolati erano più lunghi di quelli del figlio, ma più corti della chioma che gli incorniciava il volto all’epoca dei soldati della Guardia Metropolitana. A differenza di Honoré, era più sobrio nel vestire, non seguiva i particolari più estremi della moda e non faceva ricorso ai colori accesi né al vezzo dei capelli lievemente arruffati.
Oscar, quando non era in divisa, si affidava pure lei alla moda Regency e, infatti, si serviva presso lo stesso sarto del marito. L’unica frivolezza che si concedeva era la tintura dei capelli che il parrucchiere reale, con un elaborato impiego di miscele degno del migliore alchimista medievale, riusciva a riportare all’oro originario e a non sciupare. La chioma, adesso, era più corta, scendendo di poco sotto le spalle, ma sempre folta e luminosa.
– Il Vescovo de Talleyrand Périgord è, poi, riuscito a mettersi in contatto con la Curia romana? – domandò André, con voce sufficientemente bassa da evitare di farsi udire da orecchie inopportune.
– Il Cardinale Brancadoro, quando mi ha ricevuto ieri mattina, mi ha assicurato che sta perorando la nostra causa presso il Santo Padre e che si sta adoperando per farmi avere un’udienza con lui.
– E tu ti fidi, Oscar?
– Non posso fare altro… Napoleone, del resto, è un pericolo per loro come per noi…
Poco più avanti, la conversazione fra i ragazzi aveva preso una piega leggermente polemica, incentrata sull’esatto ordine degli Imperatori della dinastia dei Severi. Pareva che Honoré avesse affermato il giusto, sostenendo che Geta veniva dopo Caracalla e prima di Macrino e Antigone se ne era risentita. Bernadette, invece, si era tenuta saggiamente in disparte.
I palazzi della Roma papalina si susseguivano uno dopo l’altro, con le loro fontane, le edicole, i balconi e le architravi. Il sole di settembre illuminava i passi degli entusiasti visitatori mentre un leggero venticello scompigliava i ciuffi d’erba che spuntavano fra una pietra e l’altra e i rametti di bocche di leone, saldamente ancorati agli interstizi delle mura degli edifici.
La via, a un certo punto, svoltò in una curva e, da dietro le case, spuntò il Colosseo, in tutta la sua grandezza. I viaggiatori francesi rimasero ammirati e anche un po’ stupiti, perché, sebbene fossero andati lì appositamente per visitarlo, non si sarebbero aspettati di vederlo venir fuori così, all’improvviso, dietro i palazzi.
Il gigante millenario giaceva composto fra qualche bivacco e alcune pecore e capre al pascolo, coi suoi archi sovrapposti e la sua sagoma asimmetrica, inconfondibilmente diroccata. Numerose pietre crollate giacevano a terra e, su alcune di esse, sedeva qualche pastore. Poco distante, l’Arco di Costantino sfidava i secoli, memore degli antichi trionfi di gloriosi condottieri ormai ridotti ad aneddoti e polvere.
– Se fosse pervenuto a noi tutto intero, non sarebbe altrettanto effigiato da pittori e stampatori – osservò, divertita, Antigone.
– Sono i paradossi dell’umanità – scherzò André – Un edificio antico e semicrollato è un monumento mentre un uomo con qualche anno e acciacco di troppo è un vecchio!
Scoppiarono tutti a ridere a quell’osservazione mentre i pastori guardavano con sospetto misto a sarcasmo quegli stranieri mezzi matti.
Visto da vicino, il monumento presentava ampie fenditure e i segni di secoli di saccheggi, dovuti all’avvicendarsi delle epoche e delle religioni, che l’avevano trasformato da arena gladiatoria a cava di pietre per nuove costruzioni. Nelle fessure, si erano insediati cespugli di erbe selvatiche, rovi intricati e piante di mirto. Sopra le arcate, si inerpicavano ulivi selvatici e arbusti di varie specie.
Giunti nella cavea, trovarono anche lì pastori, animali, pittori, altri visitatori e alcuni gatti sonnacchiosi che li guardavano con noia unita ad allerta. Tentarono di avvicinarne uno che, però, li guardò minacciosamente, fece un verso per nulla rassicurante e, poi, fuggì via.
Percorsero i vari ordini della struttura, salendo a passi agili i gradoni diroccati, finché giunsero in cima e, da lì, in piedi, accanto agli ulivi e alle croci, poste a memoria dei primi martiri cristiani, contemplarono il Foro Romano – col suo complesso di archi, colonne, ruderi e vegetazione rigogliosa – la Via Sacra, il Palatino e le molteplici Chiese Cristiane.
Oscar e André, dietro di loro, procedevano con maggiore lentezza, diluendo il piacere della visita coi pensieri delle responsabilità che su di loro incombevano.
 

 
Colosseo
 
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Torino, settembre 1805
 
– Sareste, quindi, in grado di procurarmi un’alleanza con lo Zar Alessandro?! Ma non dite sciocchezze!! – esclamò Napoleone che non amava perdere tempo né essere turlupinato.
– In nome della nostra antica amicizia, credete che Vi mentirei? – rispose il Conte di Compiègne, mascherando alla perfezione il fastidio di essere stato definito un dispensatore di ragionamenti non savi.
Bonaparte lo fissò con occhi penetranti e severi. Malgrado i difetti che aveva, nessuno avrebbe potuto negare che era un uomo coraggioso e diretto, ragion per cui i vigliacchi e i melliflui proprio non li sopportava e il Conte di Compiègne apparteneva a entrambe le categorie. Che un individuo del genere lo considerasse alla stregua di un vecchio amico lo disturbava non poco, sebbene fosse vero che, sin dai tempi della Campagna d’Egitto, era il Conte a fare da tramite fra lui e il Duca d’Orléans.
– E voi cosa ci guadagnereste? – lo apostrofò seccamente.
– La felicità del Duca d’Orléans e la Vostra gratitudine.
– Entrambe vi sarebbero manifestate in modo sonoro e luccicante.
– Con la Francia nelle mani del Duca d’Orléans e il resto del mondo nelle Vostre, potreste permetterVelo tutti e due – ribatté prontamente il Conte, con un sorriso che voleva essere accattivante, ma che non piacque affatto a Bonaparte.
– Vedo che, a volte, riuscite persino a essere franco… E come sareste giunti alla conclusione, voi e il vostro padrone, che lo Zar Alessandro intende allearsi con me? A me, invece, risulta che mi consideri una sorta di anticristo, l’oppressore dell’Europa e il disturbatore della pace mondiale.
Chi sa come mai… – pensò tra sé e sé il Conte di Compiègne che aggiunse, poi, ad alta voce – Lo Zar sarebbe sicuramente interessato a spartire con Voi l’oriente e le Indie, tagliando fuori l’Inghilterra. Egli è disgustato dall’egoismo dell’Inghilterra, dall’arroganza dell’Austria e dalla prepotenza della Prussia.
– Chi lo capisce è bravo! – si lasciò sfuggire Napoleone – Lo Zar è uno scaltro bizantino e un teatrante senza eguali… Liberale e autocrate, mistico e uomo di mondo, pacificatore e uomo d’armi…
– Lo Zar è un eclettico con il raro dono di sapersi adattare a ogni circostanza – rispose il Conte di Compiègne che considerava Alessandro I un povero pazzo, ma che, da tale alleanza, sperava di trarre il Duca d’Orléans e se stesso fuori dall’angolo.
– E, per portare avanti questi negoziati, immagino che abbiate bisogno di un anticipo della mia gratitudine…
– Se alla Maestà Vostra non spiacesse…
– Riceverete notizie dal mio segretario. Potete andare – concluse Napoleone, accompagnando le ultime due parole con un gesto della mano.
Il Conte di Compiègne si inchinò elegantemente e uscì, senza dare le spalle all’Imperatore.
Napoleone trasse fuori dal cassetto della scrivania la missiva del Vescovo de Talleyrand Périgord e la rilesse per l’ennesima volta:
 
A Sua Maestà Imperiale l’Imperatore Napoleone di Francia, di Elba e di Corsica, Re d’Italia
 
Versailles, 1 settembre 1805
 
Vostra Maestà Imperiale,
è con profonda umiltà che Vi scrivo, perché il mio cuore sanguina nel vedere la Francia divisa fra due Monarchie. Francese contro francese, fratello contro fratello, amico contro amico.
Vi assicuro, Maestà Imperiale, che sarà mia massima cura adoperarmi affinché la Francia sia riunita sotto un’unica Corona.
Vi prego di accogliere, Maestà Imperiale, l’espressione del mio profondo rispetto.
Sempre servo Vostro,
 
Talleyrand
 
Napoleone guardò compiaciuto quelle poche righe.
Con l’aiuto di un politico esperto del calibro di Talleyrand, sarebbe stato un gioco da ragazzi, per lui, sbarazzarsi del Duca d’Orléans, una volta conquistata l’intera Francia. Con l’Inghilterra, l’Austria e la Prussia fuori dallo scacchiere, sarebbe rimasto l’unico padrone incontrastato dell’occidente e, a quel punto, si sarebbe liberato anche dello Zar Alessandro.
Sfortunatamente per lui, però, in quelle poche righe, Talleyrand non specificava qual era l’unica Corona sotto la quale avrebbe voluto unificare la Francia.
 
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Colosseo-stampa-antica
 
Colosseo-stampa-antica-2
 
 
Roma, settembre 1805
 
Dopo essersi riposati un poco sui gradini del monumento, al pari di antichi spettatori in contemplazione di venationes e naumachie, ripresero il cammino, questa volta fra le vestigia del Foro Romano.
Il sito archeologico non si trovava in buono stato e, dopo secoli di spoliazioni e di abbandono, era in parte sepolto e riadattato alla sicuramente utile, ma meno nobile funzione di pascolo di buoi. Erbe e arbusti crescevano un po’ dappertutto, insieme a ulivi, viti selvatiche e fichi, a volte intrecciati fra loro. La situazione era alquanto variegata, perché, fra ortiche, erbe aromatiche e steli di tarassaco, potevano trovarsi indifferentemente frammenti di colonne o i residuati della digestione dei buoi. Le colonne, dal canto loro, ospitavano scie vischiose di muschio ed edere intrecciate e rampicanti mentre cascate di arbusti e di rovi pendevano dalle architravi.
Fecero un rapido spuntino con i salumi, le focacce e i fichi acquistati alle bancarelle, utilizzando come tavola un capitello e come sedie il basamento e il fusto rovesciato di una colonna. Antigone, ogni tanto, lanciava alcune briciole ai gatti, con l’intento di farseli amici, ma quelli intercettavano le molliche con la destrezza di un atleta e, con altrettanta agilità, fuggivano via.
Ripresero a passeggiare fra il Tempio di Vesta e quello di Saturno, fra le tre colonne superstiti del Tempio di Vespasiano e la solitaria colonna di Foca, fra gli archi di Tito, di Tiberio, di Augusto e di Settimio Severo e le basiliche Giulia ed Emilia, costeggiando la Fonte di Giuturna e la Curia.
A un tratto, Antigone, con una corsetta, si discostò dal gruppo e raggiunse i resti del tempio di Saturno. Accostatasi al colonnato superstite, iniziò a volteggiare da una colonna all’altra, finché, dal basamento di una di queste, staccò un ramoscello di mirto.
– Il tempio è di Saturno, ma la pianta è quella sacra a Venere!
Il pretino ebbe un sussulto, non trovando appropriato che una fanciulla da marito, di cui già lo lasciavano perplesso la lingua tagliente e la condotta eccessivamente spigliata, facesse riferimento a una divinità pagana, protettrice di lascivia e licenziosità.
– Per cui – continuò, imperterrita, la ragazza – mi sembra corretto farne dono a Bernadette alle cui orecchie la dea ha sussurrato, mostrandole, poi, le sembianze di un bel Tenente dei Dragoni!
– Oh, Madamigella Antigone, ma cosa dite? – si schermì la giovinetta, diventata rossa come un peperone, sotto gli occhi del pretino che scuoteva la testa e si faceva il segno della croce.
– Antigone, non fai ridere! – la redarguì Honoré, guardando costernato l’amica che era ammutolita.
– E chi vuole fare ridere? – insistette la giovane – Mi dispiace soltanto che la Bocca della Verità l’abbiamo visitata la scorsa settimana e non oggi altrimenti Bernadette non avrebbe scampo!
– Antigone, scendi di lì, se non vuoi che una bella giornata si tramuti nell’inizio di un castigo! – le ingiunse Oscar mentre il pretino annuiva e si asciugava il sudore con un fazzoletto.
– Non hai il senso della misura, Antigone – le sussurrò il fratello quando lei gli passò accanto – Inizi discorsi che faresti meglio a tralasciare e non ti rendi conto di quando è l’ora di smettere.
Per tutta risposta, lei lo guardò, scuotendo lievemente il capo e arricciando naso e labbra.
Bernadette, malgrado il rossore, fece finta di niente, ma il disagio, ormai, era stato creato. Il giovane de Ligne si era insediato nell’animo di lei come un insetto e aveva iniziato a ronzare sin dal loro primo incontro. Rosalie se ne era accorta subito e le aveva espresso tutta la sua disapprovazione. Quel ragazzo era troppo mondano, sicuro e disinvolto e, soprattutto, non apparteneva al loro ambiente, se lo doveva mettere bene in testa. Lei era una fanciulla saggia, ma ancora inesperta, cresciuta in un ambiente protetto, popolato da bravi ragazzi e da adulti che avevano perfettamente radicato il senso dell’onore. Finché il carattere non le si fosse ben formato e consolidato, avrebbe dovuto prestare sempre la massima attenzione ai bellimbusti che di ragazze del popolo come lei non sapevano cosa farsene. Anzi, sapevano benissimo cosa farsene, ma non erano cose onorevoli. Bernadette condivideva le parole della madre con la parte razionale della mente, ma, con quella emotiva, stava vivendo in pieno l’ubriacatura della prima cotta.

 
Tempio-di-Saturno
 
 
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Torino, settembre 1805
 
Sebbene non fosse affatto lieto dell’arrivo del Maggior Generale de Girodel in missione diplomatica a Torino, Napoleone si vide costretto a organizzare per lui un ricevimento e, per fargli dispetto, decise che sarebbe stato in maschera. Lo voleva proprio vedere quel militare tutto d’un pezzo, pieno di albagia aristocratica, travestito da antico romano o da nativo d’America!
Girodel e la moglie optarono per degli abiti rinascimentali che fecero sentire lui meno a disagio, dal momento che, nelle cerimonie solenni, gli ufficiali del Re solevano indossare abiti di tale foggia.
Napoleone, invece, impersonava Alessandro Magno e ostentava un peplo ricamato di fili d’oro e d’argento e, in testa, una corona di foglie d’oro.
Intorno alle nove di sera, arrivarono anche il Conte e la Contessa di Canterbury, vestiti da orientali e il Marchese Camille Alexandre de Saint Quentin, abbigliato da Romeo Montecchi.
Con lo sguardo, percorreva in lungo e in largo la Galleria del Daniel, alla ricerca di qualcuno che non riusciva a scorgere. La sorella seguiva questi movimenti con apprensione, avendo intuito l’oggetto di tanto struggimento. La nobiltà di Torino aveva già iniziato a parlare dell’infatuazione del giovane Marchese per la chiacchieratissima sorella dell’Imperatore e a sorriderne. La scelta del costume da Romeo e l’atteggiamento ansioso nel corso del ricevimento non avrebbero certo aiutato a tenere a bada le malelingue e, anzi, avrebbero potuto consegnare definitivamente il fratello al ridicolo.
Come se non bastasse, in sala, c’era anche il Conte di Compiègne che, anni prima, aveva tentato di aggredirla e che, ora, la fissava di continuo, in attesa che lei gli rispondesse con un qualsiasi cenno.
La Contessa Victoire Aurélie pregò il marito di chiedere a Camille Alexandre di unirsi alla conversazione che lui stava intrattenendo con un gruppo di gentiluomini. Poiché neanche così il Marchese smetteva di guardarsi intorno, la sorella gli domandò di invitare una sua amica al ballo successivo. Camille Alexandre obbedì, ma rimase rigido e poco loquace per tutta la durata del valzer, dando mostra alla sua dama di avere ben altro per la testa.
Finito il giro di danza, il Marchese fece un inchino all’amica della sorella, quasi scusandosi per la sua scarsa socievolezza e si allontanò da lei. Mentre, sempre guardandosi intorno, stava tornando verso i Conti di Canterbury, si imbatté in un gruppo di persone molto vivaci, mascherate da fauni e da ninfe e una di loro, travestita da driade, lo prese per mano e lo condusse dietro una tenda. La donna aveva una maschera di legno e di foglie che le copriva il volto fino alla bocca e che si diramava in decine di ramoscelli marroni e di tralci di edera intrecciati con i capelli, gonfi e scompigliati. L’abito consisteva in una serie di veli verdi e sottili che lasciavano intravedere le forme del corpo. Era ornato con foglie vere, cucite in ordine sparso e con rami d’edera che si aggrovigliavano intorno al busto, alla vita, alle braccia e alle caviglie. I piedi erano nudi e nessun gioiello adornava l’esile figura.
Intorno a loro, risuonavano le note di una vivace giga.
Attraverso le due fessure della maschera, la driade fissò intensamente Camille Alexandre coi suoi magnetici occhi azzurri, lo attirò a sé con un gesto rapidissimo e gli impresse sulle labbra un bacio violento e passionale. Quando, alcuni istanti dopo, si fu staccata da lui, gli fece cenno con la testa di seguirla in un luogo appartato. Lui la fissò inebetito e rispose:
– Non posso, amo un’altra…
La driade proruppe in una risata squillante e fuggì via, rapida e flessuosa, in un ondeggiare di veli e di rami d’edera.
Circa un’ora dopo, fece il suo ingresso in sala Paolina Bonaparte, vestita da Olimpiade, madre di Alessandro. Era bellissima, col peplo azzurro tempestato di piccole gemme e l’acconciatura da antica macedone, sormontata da una corona di foglie d’oro simile a quella di Napoleone.
Maria Letizia Ramolino, madre di entrambi, giudicava sconveniente la scelta dei due fratelli di impersonare una madre e un figlio e tacque per quasi tutta la sera, lanciando occhiate sprezzanti a Madame de Beauharnais che aveva un costume da pastorella arcadica.
Il Marchese de Saint Quentin guardava la bella Olimpiade con insistenza, ma lei sembrava evitarne deliberatamente lo sguardo, quasi fosse in collera con lui per qualche oscuro motivo e continuò così per il resto della serata.
Quello che seguì fu penoso per il giovane Camille Alexandre quasi quanto per Joséphine de Beauharnais che, oltre a essere fatta oggetto del disprezzo di Maria Letizia Ramolino, dovette subire le angherie delle sorelle Bonaparte. Oltre a Paolina, erano arrivate a Torino anche Carolina ed Elisa e le tre si divertirono, per tutta la sera, a ridicolizzare la bella creola.
Quando l’orchestra attaccò a suonare un valzer, Joséphine si avviò al centro della sala col suo cavaliere, un Marchese di Torino che già cominciava a fare antipatia a Napoleone, ma Paolina si avvicinò velocissima alla coppia, strappò il nobiluomo dalle braccia dell’altra e iniziò a ballarci lei, lasciando la Viscontessa sola e basita in mezzo al salone. Girodel, allora, le si avvicinò e la invitò a danzare.
– Ecco chi è colei di cui ti sei invaghito – sussurrò la Contessa Victoire Aurélie all’orecchio del fratello.
Lui, però, sentiva soltanto i dolorosi pugni del suo cuore che gli palpitava forsennatamente in petto.
 
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Qualche giorno dopo, il Marchese de Saint Quentin e Paolina Bonaparte si incontrarono nei giardini della reggia. Lui le si accostò col volto umiliato mentre lei lo guardò di sottecchi e fece per andare via. Il Marchese prese il coraggio a due mani e le disse:
– Vi ho ammirata molto, l’altra sera, al ballo in maschera. Eravate splendida nelle vesti della Regina Olimpiade! Voi, invece, mi avete ignorato per tutto il tempo…
– Perché, eravate presente anche Voi? Proprio non Vi ho notato – mentì lei.
– Voglio essere sincero con Voi… – azzardò lui, dopo una lunga pausa – Al ballo, ho parlato con un’altra dama…
– Ai balli, in genere, si va per conversare – puntualizzò, con voce acida, Paolina – E com’era questa dama?
– Non saprei dirlo, dal momento che aveva una maschera che le copriva il volto quasi per intero…
– Non sapreste dirlo? Basta una maschera a frenare la Vostra percezione? Che scarso osservatore siete…
– Io credo che fosse bella…
– Credete?
– Ne sono quasi sicuro… Il fisico pareva appartenere a una statua e l’atteggiamento era quello sicuro delle belle donne…
– E come si è comportata questa “forse bellezza”? – gli domandò, un poco addolcita, la giovane – In modo sconveniente, spero…
– Troppo sconveniente, non era certo una signora… Ha avuto con me un comportamento licenzioso che non si confà a una gentildonna…
– Povero, piccolo bambino! – lo canzonò velenosamente Paolina – E Vostra sorella Vi ha consolato?
– Oh, non burlateVi di me, Ve ne prego… Non sapete qual è stata la mia risposta alle profferte della dama…
– Qual è stata la Vostra risposta alle profferte della dama? – chiese lei, col viso infastidito.
– Che non potevo accondiscendere alle richieste che mi faceva… Poiché io amo un’altra…
– La Vostra costumatissima fidanzata francese, immagino! – sbottò la sorella di Napoleone, al culmine dell’ira.
– No. Io amo un’altra dama, costumatissima e rispettabilissima, che non si trova in Francia, ma qui a Torino. Io amo Voi, Madamigella Bonaparte! Vi amo con tutto il cuore sin dal primo giorno che Vi ho vista!
– Interessante, Signor Marchese – cinguettò Paolina, col volto pervaso da stupore e trionfo – Che ne dite di passeggiare con me per i viali?
Gli porse il braccio che lui si affrettò a cingere col suo.
                          
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Fontana-di-Trevi
 
 
Roma, settembre 1805
 
L’acqua scrosciava copiosa sulla parete di travertino che, con la sua struttura movimentata, simulante un complesso di rocce scoscese, conferiva maggiore dinamismo ai fiotti.
Al centro della composizione, sotto un monumentale arco, il dio Oceano, dal corpo muscoloso, esibito nella sua quasi totale nudità, eccettuato un succinto e pudibondo drappo gonfiato dal vento, dominava la scena, col suo volto nobile e altero, sottolineato da una chioma e da una barba fluenti le cui ondulazioni ricordavano l’elemento di cui il nume era signore e padrone.
Il dio sovrastava orgoglioso un cocchio a forma di conchiglia, trainato da due cavalli alati che rappresentavano i due aspetti del mare, quello calmo e benevolo e quello agitato e terribile: la bonaccia e la tempesta, la magnanimità e la collera, la vita e la morte.
– Il cavallo calmo è Honoré e quello agitato è Antigone! – scherzò André, assestando due sonore pacche sulle spalle di entrambi i figli.
– Uffa! Che reputazione mi attribuite! – protestò Antigone.
– Ampiamente meritata – commentò Oscar mentre il pretino alzava le sopracciglia e stringeva le labbra.
La Fontana di Trevi era stata inaugurata quarantatré anni prima, nel 1762, dopo trent’anni di lavori. Era circondata da viaggiatori, venditori ambulanti e artisti che la ritraevano da tutte le angolazioni. Bernadette si era unita al numero di questi ultimi e, seduta davanti al suo cavalletto, aveva, in poco tempo, abbozzato uno schizzo notevole per proporzioni, prospettiva, chiaroscuri e complessiva raffinatezza.
La ragazza eccelleva in tutte le discipline che studiava, compresa la pittura. Antigone, invece, faceva disegni dignitosi e, quando proprio si impegnava, buoni, ma il carattere solare e irruento di cui era dotata non le consentiva di cogliere i chiaroscuri dell’esistenza e le piccole sensibilità che si annidano nelle pieghe della vita.
– Guardate com’è accurato il panneggio delle vesti! – notò André, indicando il dio che troneggiava al centro della fontana, mentre Oscar annuiva.
– Ma quali vesti, Padre? – esclamò maliziosamente Antigone – Definite vesti quella strisciolina di drappo vagamente appoggiata sulla mascolinità del divo? Oceano mio, siete uno svergognato, lasciatevelo dire!
– Se non altro, è in buona compagnia – commentò Oscar accanto al pretino che annuiva con aria sussiegosa.
– O, forse, si è coperto col drappo per nascondere che non ce le ha! – bisbigliò la ragazza, con aria complice e strizzando l’occhiolino, al fratello e a Bernadette che, arrossendo, fece sul disegno uno sbaffo che si affrettò a correggere.  
– Sei impossibile… – sospirò Honoré.
Poi, per cambiare argomento e distrarre la sorella, iniziò a elencare i particolari della fontana.
– Guardate, gli scultori si sono dilettati nel raffigurare innumerevoli specie di piante! Osservate com’è lussureggiante la vegetazione e ammirate la precisione delle scalpellature! Qui, c’è una quercia, lì, una vite con quattro grappoli d’uva e un tralcio d’edera, un fico d’India, un carciofo, canne di lago, un fico…
– E ci sono pure gli animali! – aggiunse Antigone – Lì, c’è una lucertola e, lì, una lumaca… Ma che c’entra quel grande vaso di travertino, alla nostra destra? Non lega col resto della composizione…
– Quel vaso è la conseguenza di un litigio – si affrettò a precisare il pretino, con la sua voce nasale dal tono pretenzioso, ben lieto di mettere in mostra le sue conoscenze – In quel lato della piazza, c’era la bottega di un barbiere che non faceva altro che criticare il lavoro dell’Architetto Salvi. Per mettere a tacere il seccatore, l’Architetto posizionò lì quel vaso a ostruire la visuale del cantiere.
Il pretino smise di parlare e guardò gli astanti, con aria molto compiaciuta di sé.
– Quante storie! – esclamò Antigone – Mia madre avrebbe urlato come una furia, gli avrebbe puntato la spada davanti al naso e si sarebbe risparmiata un masso di travertino, settimane di lavoro e una marea di scocciature…
– Vedo che Bernadette ha fatto grandi progressi – disse André, accostandosi al cavalletto – Questo schizzo è molto somigliante all’originale e siamo qui da meno di un’ora! Oscar, vieni a vedere!
– Pare che, anticamente, la gente semplice gettasse qualche obolo nei pozzi e nelle fontane per propiziarsi le divinità – continuò il pretino, tutto tronfio nel suo ruolo di cicerone – Pratiche pagane superstiziose e discutibili, di cui non sentiamo la mancanza! Un’assurdità del genere non avrebbe alcun significato ai giorni nostri e non tornerà mai in auge! – e rise, con una trattenuta risata cavallina.
– Sarebbe comodo, però, lanciare una moneta ed esprimere un desiderio! Sapete quanti sacrifici e sforzi ci si risparmierebbe! – scherzò Antigone – Quanto a Bernadette, non sarebbe, poi, tanto difficile intuire l’oggetto di tale desiderio… Ha un nome, un casato e una divisa da Tenente dei Dragoni!
Bernadette arrossì di nuovo e si lasciò sfuggire il secondo sbaffo della giornata.
Con gesto rapido e deciso, Honoré afferrò il polso della sorella e la trascinò in un angolo appartato della piazza.
– Lascia in pace Bernadette, capito! Lei non è di nascita fortunata come la nostra e non ha il tuo carattere irruento e spavaldo!
– Ma come sei noioso! – protestò Antigone, tirando via il braccio dalla stretta con uno scatto energico e veloce – Non si può neanche scherzare! Quando facevi i bagagli, hai lasciato l’umorismo nei cassetti?
– Tu cosa diresti se qualcuno più nobile e ricco di te ti tormentasse con frasi sciocche e fastidiose, credendo di scherzare e tu, per necessità, amicizia, riconoscenza o timore reverenziale, non fossi in condizione di ribattere?! 
Honoré era diventato molto serio ed era sul punto di cedere allo sdegno. A volte, non tollerava le uscite della sorella, troppo esuberante e imprudente per contenersi. Capiva che non era malvagia, ma soltanto fastidiosa ed eccessiva e, tuttavia, per spirito cavalleresco, si riteneva in dovere di proteggere i più deboli e indifesi.
– Stai costruendo una tragedia da una sciocchezza e, poi, non sei i nostri genitori!
– Ma cosa state facendo lì in disparte? – domandò, a voce alta, Oscar – Avete l’aria di due cospiratori!
– Smettila di punzecchiare Bernadette, chiaro?! E, ora, torniamo nel gruppo, se no, gli altri capiranno e l’umore generale si guasterà!
 

 
Piazza-di-Spagna
 
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Torino, settembre 1805
 
Aggrottò la fronte e assottigliò le labbra in una linea dura e immobile. Strinse leggermente le dita sullo scialle di batista giallo zafferano e, poi, alzò lo sguardo e lo diresse di nuovo verso il fratello.
– Ma sei uscito di senno, Camille?! Cosa vuol dire che intendi sposare quella donna?!
– Cosa vuol dire, secondo te, Victoire? Cosa vuol dire quando un uomo e una donna si sposano? Cosa voleva dire quando tu hai sposato il Conte di Canterbury?
– Ti prego, non fare paragoni improponibili!
– Sei prevenuta, Victoire!
– Prevenuta?! – tamburellò, per alcuni secondi, l’indice sul bracciolo e, poi, riprese a parlare – Avrei dovuto immaginarlo, considerando che, nell’ultimo mese, siete stati visti uscire insieme sempre più spesso…
– Mi tenevi d’occhio, quindi…
– Ti tenevo d’occhio? Tu pensi di frequentare una donna come quella e di passare inosservato? Ti rendi conto che, a Torino, siete sulla bocca di tutti?
– Ti ricordo che Paolina sarà presto tua cognata… Ti esorto a parlarne con più rispetto!
– Non dirmi cosa devo fare, visto che ti ho fatto da madre e da padre! La donna che vuoi sposare è una poco di buono!!
– Ne parli come se fosse l’infima fra le cortigiane, ma ti rammento che è la sorella di un Imperatore!
– Di un usurpatore vorrai dire!! O sono bastati un paio di occhi blu per fare svanire il tuo spirito patriotico?! Quella donna è la sorella del rapitore di Luigi XVII!!
– Non si sa chi ha rapito il nostro Re!!
– Ma chi vuoi che sia stato!! Quand’anche si trattasse del diavolo in persona, tuttavia, non sarei così contraria, se la giovane in questione fosse una persona meritevole, ma così non è, purtroppo!
– Non ti fare fuorviare dalle malelingue, Victoire! Paolina è bellissima ed è sorella di un Imperatore. Il fratello ha avuto un’ascesa rapidissima e ineguagliabile! E’ logico che gli invidiosi ce l’abbiano con lei e non la risparmino! Ma noi non dobbiamo fare il gioco di quella marmaglia e lasciare che una giovane eccellente sia distrutta dalle calunnie!
– Persone d’onore, conosciute per la loro attendibilità, sono concordi nell’annoverare episodi in cui la tua giovane eccellente si è comportata peggio di una prostituta… Altro che marmaglia!!
– Chiacchiere, tutte chiacchiere!!
– L’hai vista tu stesso, insieme alle sue sorelle, accanirsi contro Madame de Beauharnais! La trattano con una perfidia che io non ho mai riscontrato in altri! Converrai che perlomeno queste non sono chiacchiere!!
– Paolina e le sorelle sono giovani, belle, baciate in fronte dalla fortuna… Credono di scherzare, di essere divertenti… Non capiscono di esagerare… Il difetto di moderazione è un peccato veniale… Maturando, imparerà a trattenersi e farà emergere i suoi lati migliori…
– Ma se ha già venticinque anni!! E la madre… L’hai vista la madre, con quell’espressione perennemente livida e corrucciata?! Pare che il mondo intero le sia molesto!! Si sente superiore a tutti!! Sarà il flagello di ogni genero e nuora!!
– Madame Bonaparte è una donna di antico costume, stoica e orgogliosa come tutti i corsi… Vive soprattutto vicino all’Imperatore, la vedremo poco…
– Tu credi di riuscire a trattenerla a lungo a Lille, a fare la vita della nobildonna di provincia?! Sperpererà il tuo patrimonio nei salotti parigini in men che non si dica, fra amanti e stravizi! Tu sei un uomo dai gusti semplici, Camille… Ti piacciono la campagna, la vita ritirata…
– Ti sorprenderemo, Victoire, vedrai che ti sorprenderemo! Ci adatteremo meravigliosamente l’uno all’altra e non accadrà alcuna delle catastrofi che prevedi tu! Dacci soltanto un po’ di fiducia!
– Ti prego, almeno, di aspettare e di non farti travolgere dall’entusiasmo del momento! L’avventatezza non paga mai! In fin dei conti, vi frequentate da meno di un mese…
– Chiederò la mano di Paolina all’Imperatore, ormai ho deciso!
Il giovane Marchese uscì dalla stanza, col volto esaltato e lo sguardo baldanzoso e fermo, quasi fanatico, di chi è illuminato da qualcosa di sovrannaturale e non vuole sentire ragione.
La Contessa di Canterbury si alzò dalla sedia, facendo cadere a terra lo scialle. Appoggiò la mano sinistra sul ripiano di marmo della consolle mentre, con la destra, si coprì una parte del viso. Dopo alcuni istanti, si chinò a raccogliere lo scialle e diede ordine alla sua cameriera personale di cambiarla d’abito e al cocchiere di preparare la carrozza. Sarebbe andata da Madame de Girodel, a chiederle consiglio o, perlomeno, conforto. Ora come ora, l’unica speranza era che Napoleone rifiutasse la proposta di matrimonio, reputando Camille Alexandre un partito non all’altezza della sorella.
 
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Cappella-sistina
 
 
Roma, settembre 1805
 
Nessun angolo di Versailles o di qualsiasi altra parte del mondo eguagliava ciò che stavano vedendo. Nessuna opera d’arte poteva dirsi altrettanto perfetta come quella rappresentazione grandiosa della storia spirituale dell’umanità, dalla creazione al giudizio universale. Nessun soffitto, per quanto magistralmente affrescato, pareva perdere totalmente la sua funzione di copertura per essere consegnato al sublime quanto ciò che li sovrastava.
Pennellate decise, chiaroscuri accentuati, colori vividi, tratti marcati, figure possenti, corpi scolpiti dalla muscolatura ben tornita coi tendini tesi e le vene pulsanti.
Immagini massicce come la sagoma cilindrica e brunita di Castel Santangelo e come la carne marmorea del Mosè, ma racchiuse in un sottile strato di colore. Potenza e tridimensionalità, scultura tradotta in pittura.
Quella era la volta della Cappella Sistina e loro la stavano contemplando.
Ogni figura pareva essere stata catturata nell’atto stesso di compiere il gesto per lei più significativo, ma, per quanto imprigionata, continuava a vivere sulla pietra.
Le stanze affrescate da Raffaello erano anch’esse dei capolavori e consegnavano allo sguardo ammirato del visitatore figure eleganti, dai tratti delicati e dai colori splendenti, composizioni mirabili e vesti sapientemente panneggiate, una tecnica insuperabile e un’arte ispirata, ma non eguagliavano l’opera di Michelangelo che appariva più completa.
Era stato pittore e scultore, ma non separatamente. Dipingeva scolpendo e scolpiva dipingendo. In lui, le due arti diventavano una cosa sola.
La raffigurazione dei corpi, nella loro plastica fisicità, aveva preso il posto del panneggio delle vesti e la prestanza fisica quello dell’eleganza. I volti michelangioleschi erano a volte brutti, ma sempre veri e incredibilmente espressivi.
Circondati da profeti e da sibille, Adamo ed Eva prendevano vita. Lui era ancora semiaddormentato, ma già vigoroso e prestante, perché creato a immagine e somiglianza di Dio e non ancora deturpato dal peccato. Gli indici dell’uomo e di Dio erano quasi uniti, il primo ancora languido, il secondo ben teso, nell’attimo immediatamente successivo alla trasmissione della scintilla di vita. Lei era stupita, con le mani giunte in preghiera, nuda, accanto al compagno nudo e di fronte a Dio abbigliato. Giovani e belli nella loro innocenza primigenia, invecchiati e imbrutiti dopo avere ceduto alle lusinghe del serpente ed essersi cibati dell’Albero del Bene e del Male.
Sulla parete dietro l’altare, il Giudizio Universale impressionava con la sua manichea e definitiva suddivisione fra Bene e Male. Da una parte, c’erano i beati, portati in Cielo dagli angeli. Dall’altra, i dannati, piangenti e atterriti, abbrancati da demoni mostruosi e deformi e condotti al supplizio eterno. In un caso e nell’altro, irrevocabilmente e definitivamente. Al centro, c’era Cristo, ieratico e solenne, circonfuso di luce divina e affiancato dalla Madonna; ai piedi di lui, San Bartolomeo, col volto dell’Aretino e la pelle scorticata effigiante le sembianze di Michelangelo, a significare un’aspra contesa e una sottile rivincita.
Con la sua voce nasale e il suo fare cerimonioso, il pretino illustrava gli affreschi ai visitatori che tentavano di andare oltre le parole e di riordinare le scompaginate sensazioni.
Un segretario del Cardinale Brancadoro si avvicinò a Oscar e, con voce ovattata, le disse:
– Generale de Jarjayes, il Santo Padre Vi concederà un’udienza privata il prossimo giovedì, a mezzogiorno, nella Sala Regia del Palazzo Apostolico.
 

 
Creazione-di-Adamo
 
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Corsica, fine settembre 1805
 
Era quasi l’imbrunire, quando il brigantino raggiunse l’insenatura nascosta al mare aperto, fra lo sciabordio delle onde e il garrito dei gabbiani che compivano le ultime evoluzioni in cielo, prima di tornare ai loro nidi. Manovrarono con cautela per evitare di incagliarsi sugli scogli, gettarono l’ancora nell’acqua azzurrissima e trasparente e, con le scialuppe, raggiunsero la spiaggia.
Mentre percorrevano l’ultimo tratto che li divideva dalla terra ferma, guardavano in su, quella costa aspra e montuosa, con i suoi declivi ricoperti di ulivi, fichi d’india, pini e tamerici.
Scesero dalle scialuppe scalzi e con i pantaloni rimboccati, ritraendosi istintivamente al contatto dell’acqua fredda coi polpacci, mentre, sulla riva, la sabbia si incollava, bruna e granulosa, ai loro piedi bagnati.
Dopo essere sbarcati, trasportarono le attrezzature sulla spiaggia e si sedettero sfiniti, con le gambe ad arco e le mani puntellate dietro la schiena, a guardare stancamente l’infrangersi delle onde sulla battigia. Mentre ritempravano le forze, la brezza del tramonto diffondeva l’odore dei cespugli spontanei di timo e di rosmarino.
– Ci accamperemo qui per la notte – disse il Colonnello de Valmy – Riposatevi altri cinque minuti e, poi, iniziate a montare le tende. Andate a dormire subito dopo cena, perché domani ci attende una dura giornata. 

 
Tempio-di-Ercole
 
   
 
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